Scritto sotto la forcaa cura di Franco Calamandrei
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PREFAZIONE
JULIUS FUCIK nacque il 23 febbraio 1903 a Smikhov, uno dei
più vecchi sobborghi industriali di Praga. Suo padre era operaio metallurgico.
A scuola il ragazzo Fucik dimostrò attitudini non comuni, una grande
passione per la lettura e soprattutto per la storia. Nel 1921 il figlio dell'operaio
di Smikhov si iscriveva alla Facoltà di filosofia dell'Università
di Praga.
Fucik iniziò allora lo studio delle scienze sociali e dei classici del
marxismo. La conoscenza teorica, unendosi alla coscienza di classe che gli veniva
dall'origine operaia, lo portò ben presto ad aderire al movimento socialista,
e ad entrare nell'organizzazione studentesca comunista, di cui non tardò
a diventare uno dei dirigenti.
Per vivere, intanto, lo studente Fucik doveva fare i più vari mestieri:
fattorino, allenatore sportivo, muratore, terrazziere, e perfino uomo-sandwich.
Più di una volta egli si trovò in condizione di soffrire la fame.
Ma né le umili occupazioni alle quali era costretto per vivere, né
la miseria più dura, gli impedirono di continuare a applicarsi allo studio,
e di svolgere una intensa attività di militante rivoluzionario, come
organizzatore, oratore di comizi, giornalista, nelle condizioni sempre più
difficili che la classe dominante cecoslovacca andava creando al movimento operaio.
Le sue prove brillanti e polemiche di giornalista gli valsero, nel 1930, un
primo soggiorno nell'Unione Sovietica, con una delegazione di operai cèchi
che gli operai della Ghirghisia sovietica avevano invitato a visitare l'U.R.S.S.
Il viaggio, iniziatosi in maniera semiclandestina, per il divieto opposto dalle
autorità cecoslovacche, durò sei mesi. nel corso dei quali Fucik
e i suoi compagni visitarono Mosca, Leningrado, il bacino del Volga, l'Ucraina,
il basso Don, il Caucaso, il Tagikistan, il Kazakistan e parecchi altri luoghi.
Di ritorno a Praga, noncurante delle minacce della polizia, Fucik tenne in un
anno oltre un centinaio di conferenze, con le quali documentò al pubblico
cèco quanto il Paese dei Soviet andava realizzando nel campo sociale
e della cultura. Contemporaneamente egli raccoglieva le sue impressioni di viaggio
in un grosso volume, "Il paese dove il domani è già ieri",
che poté essere compiuto e pubblicato solo nel 1931, perché Fucik,
arrestato in occasione d'una riunione politica, dovette scontare alcuni mesi
di prigione.
Nello stesso periodo Fucik divenne redattore del Rude Pravo, l'organo quotidiano
del partito comunista ceco-slovacco, e attivo collaboratore della rivista Leva
fronta, intorno alla quale si raggruppava un'ampia cerchia di intellettuali
di sinistra.
Ripetutamente arrestato per i suoi attacchi giornalistici ai gruppi privilegiati,
Fucik dovette spesso nascondersi e camuffarsi per sfuggire alla polizia. Nel
1934, minacciato di un nuovo arresto, tornò nell'Unione Sovietica e vi
rimase fino al 1936, come corrispondente del Rude Pravo. Le sue corrispondenze
dall'U.R.S.S. fecero di lui uno dei giornalisti più popolari in Cecoslovacchia.
Quando Fucik rientrò in patria, la crisi dello Stato borghese cecoslovacco,
maldestramente manovrato dagli imperialisti francesi ed inglesi come una pedina
nel gioco antisovietico, era ormai prossima. La Cecoslovacchia stava per essere
abbandonata a Hitler.
Nell'imminenza dell'accordo di Monaco, Fucik, in una serie di articoli, si adoperò
a denunciare all'opinione pubblica cèca le mire aggressive della Germania
nazista e la politica pro-hitleriana dei governi di Parigi e di Londra. Firmato
l'ignobile accordo, soppressa in Cecoslovacchia la stampa comunista, entrati
i nazisti a Praga nel marzo del 1939, cominciate le persecuzioni e gli arresti,
Fucik continuò la sua lotta di militante democratico nella clandestinità.
Continuamente braccato dalla Gestapo, egli organizzò insieme con i compagni
tutta una rete di giornali e riviste clandestine, che furono un modello del
genere, per abbondanza e tempestività di informazioni e per accuratezza
tipografica. Al principio del 1941 la sua attività coraggiosa e intelligente
di organizzatore lo fece nominare membro del Comitato Centrale del partito Comunista
cèco.
Le rischiose pesanti responsabilità di partito non lo distoglievano però
dal portare avanti uno studio, che da parecchio tempo aveva in animo, su alcuni
aspetti della storia della letteratura cèca. Del resto quello studio
era anch'esso un lavoro di partito, un modo di dare armi alla lotta della classe
operaia cecoslovacca. Fucik infatti si proponeva di mettere in luce quegli elementi
della storia letteraria nazionale che la critica borghese aveva ignorato o sottovalutato,
le tradizioni democratiche dei migliori scrittori cèchi, l'importanza
di alcuni scrittori popolari che la storiografia delle classi privilegiate aveva
preferito passare sotto silenzio. Con questo lavoro egli preparava al proletariato
del suo Paese preziosi strumenti filologici per assumere l'eredità culturale
nazionale, per divenire classe dirigente anche nel campo della cultura.
Fucik progettava di sviluppare quei suoi studi critici in una vasta opera dal
titolo " I dimenticati e coloro di cui non si parla ". Egli portò
a termine una prima monografia su Bozena Nemcova, scrittrice e patriota dell'800,
un saggio su Julius Zeyer, ed iniziò un ampio studio sul celebre poeta
slovacco Jan Neruda. Il manoscritto su Neruda, incompiuto, venne sequestrato
dalla Gestapo insieme con le altre carte di Fucik, al momento dell'arresto,
e in parte distrutto: ce ne rimangono solo sei capitoli.
Fucik cadde nelle mani dei nazisti nella primavera del 1942. La cronaca della
sua prigionia nel carcere di Pankrac, a Praga, delle torture feroci a cui fu
sottoposto, è raccontata in questo diario " scritto sotto la forca
", che l'eroico combattente poté tenere e far uscire dalle mura
della cella grazie all'organizzazione clandestina comunista la quale tesseva
infaticabilmente le proprie fila anche all'interno di Pankrac.
Trasportato in Germania, Fucik comparve dinanzi al
tribunale nazista di Berlino il 25 agosto del 1943. Ai giudici dichiarò:
" So che sarò condannato e che la mia vita sta per finire, ma so
anche di aver fatto tutto il possibile per la nostra vittoria. Sono certo che
vinceremo. Noi morremo, ma altri verranno e continueranno la nostra opera".
Tornando alla prigione dopo la condanna a morte chiese alla compagna Lida Placha
che cantasse qualcosa. Lida intonò la Partigiana, e tutti cantarono in
coro. Lida e Julius cantavano in cèco, e i comunisti viennesi che erano
con loro, anch'essi condannati a morte, cantavano in tedesco. Poi cantarono
tutti l'Internazionale.
Colui che fu suo compagno di cella nei giorni precedenti all'esecuzione ha riferito:
"Io ero ridotto in uno stato di inebetimento completo. Non riuscivo a pensare
più a nulla, nemmeno alla mia famiglia. Fucik, invece, non faceva altro
che cantare o raccontare qualcosa. Si comportava come se avesse ancora dinanzi
una lunga vita da vivere".
Il 4 settembre una bomba cadde sulla prigione, tutti i detenuti furono fatti
uscire in cortile, e Fucik si incontrò con alcuni dei suoi compagni cèchi.
Incatenato ai polsi ed ai piedi, in mezzo al cortile, parlò loro a gran
voce per scuotere gli animi dall'abbattimento in cui molti erano caduti. Parlò
della forza morale dei cittadini sovietici, della sconfitta che i nazisti avevano
subito davanti a Mosca ed a Stalingrado, disse che l'U.R.S.S. non avrebbe deposto
le armi finché il fascismo non fosse annientato:
"Se a occidente venisse aperto un secondo fronte, la guerra finirebbe certamente
prima. Alcuni di noi, forse, avrebbero la speranza di non morire. Ma ricordiamoci
che siamo soldati i quali combattono nelle retrovie del nemico. Se dobbiamo
morire, moriamo con la convinzione che vinceremo ".
L'8 settembre 1943 Julius Fucik veniva impiccato.
Nella letteratura di testimonianze, di memorie, di cronache e di diari, uscita
dalla Resistenza contro il fascismo, questo "Scritto sotto la forca"
di Fucik resterà un esempio unico. Gli uomini passati per le prigioni
e le camere di tortura della Gestapo e delle Brigate Nere, per i campi di concentramento,
ci hanno reso conto di quella tremenda esperienza a libertà riacquistata,
quando le mura del carcere o le barriere di filo spinato si erano ormai riaperte
dinanzi a loro. Oppure, se da qualcuno. dei tanti per cui prima della liberazione
venne la morte, dei tanti che non sono sopravvissuti, ci è giunto un
messaggio, uno scritto, è stato un messaggio di poche righe, un testamento
di poche parole, splendente spesso di tutta la forza d'animo e di tutta la lucidità
che può avere un uomo, ma suggellato dallo spietato laconismo che è
proprio dell'uomo in punto di morte. Fucik è l'unico che, al cospetto
della morte, già crudelmente lacerato dalle torture, sia riuscito a discorrerci
a parole spiegate, ad esprimerci la sua esperienza di moribondo per pagine e
pagine, per migliaia e migliaia di righe, a dichiararci la fiducia che lo sostiene,
in maniera cosi diffusa e circostanziata da cancellare l'ombra della morte completamente
e lasciarci l'immagine di una vitalità appassionata e trionfante.
Per serbare questa straordinaria condizione di equilibrio e di serenità
là dove tutto si adopera a confondere l'uomo e precipitarlo nell'angoscia,
Fucik non ha bisogno di reprimere nulla di sé, di imporre il silenzio
a nessuno dei suoi affetti, neppure i più intimi e segreti. Le pagine
in cui parla della moglie, della sua Gusta, dell'amore che li ha resi completi
l'uno nell'altra e felici, sono la testimonianza di un animo il quale non si
nasconde affatto il valore inestimabile di ciò che la morte gli toglie.
Ma in quello stesso animo gli affetti individuali, per quanto intensi e esigenti,
non sono più divisi dall'impegno sociale, l'amore per una sola donna
è tutt'uno con l'amore per tutti gli uomini, con l'amore della libertà
e della giustizia. Fucik non ha nulla da temere dall'immagine dell'amata, dal
ricordo della sua tenerezza, della sua carezza, del suo respiro: non ha da temere
che il dolce nome di Gusta gli tolga anche solo un poco di forza sotto il bastone
dei torturatori e dinanzi alla forca. Quel nome al contrario, e naturalmente,
lo ricondurrà al nome della patria, al nome dell'umanità oppressa,
della dignità umana calpestata, che occorre difendere e riaffermare,
anche a costo di sofferenze, ed anche accettando la morte.
Di dove ha tratto Fucik una così esemplare coesione fra il suo fervido
e sensibile cuore di individuo e la sua intelligenza, la sua volontà
di cittadino, di uomo in mezzo agli altri uomini? È' forse il risultato
soltanto di una superiore integrità di carattere, di una personalità
fortunata e generosa? No, Fucik non sarebbe stato quale questo diario ce lo
presenta, se il suo cuore e la sua volontà, le sue doti naturali, non
fossero state formate dalla classe operaia, non avessero trovato la propria
unità ed il proprio mordente attraverso l'ideologia e la pratica del
partito della classe operaia, non si fossero sentite fino all'ultimo sostenute
e guidate dal suo immenso e cosciente organismo. Fucik non è mai solo:
anche quando è più isolato e indifeso, fra le mani dei carnefici
che dentro le quattro spoglie pareti della camera di tortura infieriscono sopra
il suo corpo, egli avverte intorno a sé il grande esercito dei compagni
che gli comunica energia ed a cui deve rendere conto. E nello scrivere clandestinamente,
su minuscoli frammenti di carta, le sue note di prigioniero, a nulla egli pensa
meno che a farne delle meditazioni con se stesso, delle confessioni solitarie,
un bilancio spirituale. " Scritto sotto la forca" fu concepito come
una relazione di esperienze da trasmettere ai compagni, uno strumento per l'azione:
da consegnare a coloro che avrebbero continuato la lotta.
Da ciò deriva che nel diario di Fucik manchi completamente, come ho già
accennato, quella morbida compiacenza, quel mal dissimulato indugiarsi a compatire
la propria sorte, che negli altri documenti del genere capita invece spesso
di scoprire. Da ciò deriva il vigore immediato e operante del diario
di Fucik, il fatto che nessuna parola in esso suoni retorica. Quando, al momento
di avviarsi verso la morte, il figlio dell'operaio meccanico di Smikhov scrive
l'ultima riga delle sue note, " Uomini...vegliate! ", egli sa di non
adoperare una formula, perché gli uomini a cui il suo saluto si rivolge
ben conoscono a che cosa debbano vegliare, e come, con quali mezzi, con quali
metodi, rendere attiva ed efficiente la propria veglia. Anche per noi il saluto
di Fucik, tutto il suo diario, valgono come un incitamento concreto all'azione,
un elemento di guida in questa lotta che vuol costruire nel nostro tempo la
giustizia per cui Fucik e tanti altri hanno dato la vita.
FRANCO CALAMANDREI
INTRODUZIONE
Nel campo di concentramento di Ravensbrück, i compagni
di prigionia mi informarono che mio marito, Julius Fucik, era stato condannato
a morte il 25 agosto 1943, dal tribunale nazista di Berlino.
Le domande concernenti la sua sorte successiva risuonarono come un'eco vana
lungo le alte mura del campo. Dopo la disfatta della Germania hitleriana, nel
maggio 1945; vennero liberati dalle carceri e dai campi di concentramento i
prigionieri che i fascisti non avevano avuto il tempo di torturare a morte o
di uccidere. Io ebbi la fortuna di essere tra i liberati.
Ritornai nella mia Patria libera. Cercai le tracce di mio marito. Feci come
altri mille e mille che cercavano e ancora cercano il marito, la moglie, il
bambino, i padri e le madri deportati dagli occupanti tedeschi, in qualcuna
delle loro innumerevoli case di tortura.
Seppi che Julius Fucik era stato giustiziato a Berlino 1'8 settembre 1943, quindici
giorni dopo la condanna.
Seppi anche che Julius Fucik aveva scritto nella prigione di Pankrac. Fu il
suo secondino, A. Kolinsky, a dargli i mezzi per farlo, portandogli nella cella
la carta e la matita occorrenti. Fu lo stesso secondino a portare fuori dalla
prigione, di nascosto, i foglietti del manoscritto.
Ho parlato con il secondino. Poco alla volta ho ricevuto tutto quello che Julius
Fucik scrisse nella sua cella di Pankrac. I foglietti numerati erano nascosti
presso diverse persone ed in luoghi diversi; io li ho riuniti e oggi li presento
al lettore. È l'ultima opera di Julius Fucik.
GUSTA FUCIKOVA