Biblioteca Multimediale Marxista
CELLA 267
Sette passi dalla porta alla finestra, sette passi dalla finestra alla porta.
Me ne intendo.
Quante volte ho percorso questo spazio sul pavimento di abete nella mia cella
di Pankrac. E forse è la stessa cella dove mi rinchiusero in passato,
per aver visto troppo chiaramente quali conseguenze preparasse al popolo cèco
la politica pericolosa della borghesia cèca. Ora crocifiggono il mio
popolo; i guardiani tedeschi passeggiano davanti alla mia cella, e in qualche
posto fuori le Parche, politicanti cieche, ricominciano a filare il filo del
tradimento. Quanti secoli ci vorranno perché l'uomo apra finalmente gli
occhi? Quante celle ha dovuto subire, l'uomo, per poter andare avanti? Oh! Gesù
bambino di Neruda (1), la via della salvezza è ancora lunga da percorrere
per l'umanità. Ma non dormire più, non dormire più.
Sette passi avanti, sette passi indietro. Uno dei muri regge un lettuccio di
legno. L'altro un armadietto verniciato tristemente di scuro, che contiene le
nostre scodelle di terraglia. Si, me ne intendo. Ora, qui, tutto si è
un po' meccanizzato, c'è' il riscaldamento centrale, il bugliolo è
sostituito da un gabinetto, gli uomini prima di tutto sono meccanizzati. Come
automi. Pigia il bottone, cioè fai un piccolo rumore con la chiave nella
serratura della porta oppure apri lo spioncino e i detenuti sobbalzano e si
mettono sull'attenti, qualsiasi cosa stiano facendo; apri la porta. e il capo-cella
grida tutto d'un fiato:
- Achtung Celeczvaizibnzechzikbegtmittraimanalesinordnung.
In tedesco: Attenti, cella-duecentosessantasette-occupata-da-tre-uomini-tutto-in-ordine.
Ecco: 267. La nostra cella. Ma in questa cella, l'automa non funziona perfettamente.
I detenuti che saltano sull'attenti sono due soli. Io, intanto, resto sdraiato
sul mio pagliericcio sotto la finestra, resto sdraiato bocconi, una settimana,
quindici giorni, un mese, sei settimane - e poi rinasco: già giro la
testa, già alzo la mano, già mi levo sui gomiti, e già
perfino ho tentato di voltarmi sulla schiena... Decisamente, certe cose si fa
prima a scriverle che a viverle.
E anche la cella subisce dei cambiamenti, sulla porta invece di tre hanno messo
due. Carlo, il più giovane dei due uomini che mi avevano sotterrato al
triste canto dei salmi, se ne è andato, non è rimasto altro di
lui che il ricordo del suo buon cuore. In realtà lo vedo solo come in
un sogno, e solo durante gli ultimi due giorni della sua permanenza con noi.
Pazientemente racconta di nuovo la sua storia, e di nuovo io mi addormento mentre
egli racconta.
Si chiama Carlo Malik, è un meccanico che ha lavorato nell'ascensore
d'una miniera di metalli, in qualche posto nei dintorni di Hudlic, e ne ha portato
fuori dell'esplosivo per la Resistenza. E' stato arrestato, già quasi
due anni orsono, ora deve comparire di fronte al tribunale, forse a Berlino,
sono tutto un gruppo, chissà come andrà a finire, ha moglie e
due bambini, a cui vuol bene, a cui vuol molto bene - ma era mio dovere, sai,
non ho potuto fare altrimenti.
Rimane a lungo seduto al mio fianco e mi costringe a mangiare. Non posso. Il
sabato - sono qui già da otto giorni? - si decide a usare la violenza:
annuncia al Polizeimstr (il secondino infermiere) che da quando sono arrivato
qui non ho ancora mangiato un boccone. Il Polizeimstr, un barbiere di prigione
sempre agitato, in uniforme di SS, senza il cui permesso il medico cèco
non ha diritto di prescrivere neppure l'aspirina, mi porta personalmente una
minestra da ammalato e sta a guardarmi finché non ne ho bevuto l'ultima
goccia. Carlo è molto contento del successo della sua operazione, e il
giorno dopo mi obbliga lui stesso ad inghiottire la tazza di minestra della
domenica.
Ma questo non porta grandi progressi. Le mie gengive spezzate non possono masticare
neppure le patate ridotte a poltiglia del ragù domenicale, ed ogni boccone
un po' solido non riesce a passarmi dalla gola serrata.
- Non gli va nemmeno il ragù, geme Carlo, e scuote tristemente la testa
sopra di me.
E poi, con ghiottoneria, comincia a mangiare la mia razione, dividendola onestamente
con il "padre".
Ah, voi che non avete vissuto nell'anno 1942 nella prigione di Pankrac, non
sapete, non potete sapere che cosa sia un ragù! Regolarmente, anche nei
periodi peggiori, quando lo stomaco muggì di fame, quando alle docce
comparvero scheletri coperti di pelle umana, quando un compagno rubava, almeno
con lo sguardo, i bocconi della razione d'un altro, quando perfino la poltiglia
disgustante di legumi secchi diluita con un estratto di pomodori concentrati
sembrò una delizia lungamente attesa, anche in quei periodi più
duri, regolarmente, due volte alla settimana - il giovedì e la domenica
- i detenuti di servizio vuotarono nella mia gavetta un ramaiolo di patate innaffiandole
d'una cucchiaiata di sugo con qualche filo di carne.
Era meravigliosamente appetitoso, sì, era più che appetitoso,
era un ricordo materiale della vita umana, era qualcosa di civile, qualcosa
di normale, nella anormalità crudele della prigione della Gestapo, qualcosa
di cui si parlava con dolcezza e con voluttà - ah, chi può capire
quale valore supremo possa raggiungere un cucchiaio di buon sugo: condito dal
terrore d'un deperimento continuo!
Due mesi sono passati ed ho capito bene anch'io lo stupore di Carlo. Non mi
era andato neppure il ragù - e nessuna cosa quanto quella aveva potuto
persuaderlo cosi chiaramente che la mia morte era prossima.
La notte dopo, verso le due, hanno svegliato Carlo. In cinque minuti doveva
essere pronto per il trasferimento, come per un giretto di mezz'ora, come se
non avesse davanti un viaggio che portava la sua vita a finire nella nuova prigione,
nel nuovo campo di concentramento, nel luogo dell'esecuzione, Dio sa dove.
Si è inginocchiato al mio capezzale, mi ha stretto la testa con le mani,
l'ha baciata - dal corridoio sale il grido rauco d'un guardiano di porci in
uniforme, per rammentare che i sentimenti non hanno nulla a che vedere con la
prigione di Pankrac. Carlo ha varcato la porta di corsa. La serratura si è
chiusa con uno scatto...
...E siamo rimasti in due soli nella cella.
Ci rivedremo ancora, ragazzo mio?
E il prossimo addio quando verrà? Chi di noi due se ne andrà per
primo? E dove? E chi lo chiamerà? Un guardiano in uniforme di SS? O la
morte, che non ha uniforme?
Quanto scrivo ora è solo l'eco dei pensieri rimastimi dopo la sua partenza.
È' passato un anno da allora e i pensieri che accompagnarono il compagno
si sono spesso ripetuti con maggiore o minore insistenza. Il numero due, appeso
sulla porta della cella, si cambia di nuovo in un tre e di nuovo in due e di
nuovo tre, due, tre, due; nuovi compagni di prigionia sono arrivati e ripartiti
- solo i due che erano restati nella cella 267 vi rimangono fedelmente insieme.
Il padre ed io.
Il padre...- è il maestro elementare Josef Pesek, di
sessant'anni, il presidente dei maestri, arrestato ottanta cinque giorni prima
di me, perché con l'elaborare una proposta tendente a riformare le scuole
cèche libere, ha preparato un complotto contro il Reich tedesco.
Padre - è...
Ma come descrivere tutto ciò, amici miei? Sarebbe un lavoro difficile.
Due uomini, una cella e un anno?
In quel frattempo, le virgolette intorno al nome di "padre" già
sono scomparse, i due detenuti diversi di età sono diventati padre e
figlio davvero, in quel frattempo si sono scambiati reciprocamente abitudini,
espressioni e perfino intonazioni di voce - cerco di riconoscere oggi ciò
che è mio, ciò che è del padre, e ciò che è
stato introdotto prima da lui o da me nella cella.
Restava alzato una notte dopo l'altra vicino a me, e con delle pezzette umide
e bianche ha scacciato la morte che si avvicinava. Coraggiosamente ha pulito
il pus delle mie ferite e non ha mai manifestato il minimo disgusto per l'odore
di putrefazione che emanava dal mio pagliericcio.
Ha lavato e cucito insieme i miserabili brandelli della mia camicia, che era
stata anch'essa vittima del primo interrogatorio, e quando non erano più
buoni a nulla mi ha vestito con la sua biancheria. Lui mi ha portato una margheritina
e un filo d'erba, che si è arrischiato a strappare nel cortile della
prigione durante la mezz'ora di "aria". Mi seguiva con gli occhi teneri,
ogni qualvolta partivo verso un nuovo interrogatorio e metteva nuove pezzette
sulle nuove ferite con le quali tornavo. Quando mi portavano agli interrogatori
di notte, non si addormentava mai prima del mio ritorno e prima di avermi disteso
con ogni cura sul mio pagliericcio, avvolto nelle coperte.
Questi furono i nostri inizi, e il seguito vissuto insieme non li ha traditi,
anche quando io ho potuto mettermi in piedi e pagare i miei debiti di figlio.
Ma tutto ciò non si può scrivere d'un fiato, ragazzo mio, la cella
267 aveva una vita intensa, quest'anno, e tutto quanto essa ha vissuto il padre
l'ha vissuto a suo modo. Questo dev'essere detto, ma la storia non è
ancora conclusa. (Il che suona anche come una speranza).
La cella 267 ha avuto una vita intensa. Ad ogni ora, forse,
la porta si apriva e passava l'ispezione, era un controllo raccomandato in modo
speciale nei confronti di un grande criminale comunista, ma forse era anche
semplice curiosità. Spesso vi morivano persone che non dovevano morire.
Ma si è visto di rado che non sia morto colui della cui morte tutti quanti
erano persuasi. Vengono anche i secondini degli altri corridoi, cominciano a
parlare e sollevano in silenzio le mie coperte e assaporano da intenditori le
mie ferite, e poi, ciascuno secondo la propria natura, fanno cinicamente dello
spirito e mi trattano con maggiore amicizia. Uno di essi, che abbiamo soprannominato
"lo Sbruffone", viene più spesso degli altri e chiede con un
largo sorriso se il "diavolo rosso" ha bisogno di nulla. No, grazie,
non ha bisogno di nulla. Dopo qualche giorno lo Sbruffone scopre che il diavolo
rosso ha tuttavia bisogno di qualcosa: essere sbarbato, e porta con sé
un parrucchiere.
È il primo detenuto di cui faccia la conoscenza al di fuori di quelli
della mia cella: il compagno Bocek. La delicata attenzione dello Sbruffone risulta
all'atto pratico un pessimo servizio. Il padre mi tiene la testa, il compagno
Bocek, inginocchiato accanto al mio pagliericcio, cerca con un rasoio gillette
non affilato di aprirsi una strada nella foresta di faggi della mia barba. Le
mani gli tremano, ha le lacrime agli occhi, è persuaso di rasare un cadavere.
Tento di consolarlo.
- Un po' di coraggio, vecchio mio, se ho sopportato l'interrogatorio a palazzo
Petschek, forse sopporterò il tuo rasoio.
Ma le forze che ha sono troppo poche, e dobbiamo riposarci l'uno e l'altro.
Lui ed io.
Due giorni dopo faccio la conoscenza di altri due detenuti. I commissari di
palazzo Petschek sono impazziti. Mi hanno mandato a prendere, e visto che il
"barbiere" scrive ogni giorno sulla mia citazione "intrasportabile",
danno l'ordine di trasportarmi lo stesso. Due detenuti in uniforme carceraria,
addetti al servizio dei corridoi, si fermano allora davanti alla mia cella con
una barella, il padre mi mette con difficoltà dentro ai miei vestiti,
i compagni mi caricano sulla barella e mi portano via.
Uno di loro è il compagno Skorepa, il quale, più tardi, sarà
l'attento padre dei nostri compagni del corridoio. Il secondo è... (illeggibile)
...Si china dinanzi a me al momento in cui scivolo sulla superficie obliqua
della barella, mentre scendiamo le scale, e dice:
- Reggiti bene poi, - e aggiunge più piano: - …in tutti i modi.
Stavolta non ci fermiamo alla cancelleria della prigione. Mi portano oltre,
per un lungo corridoio, verso l'uscita. il corridoio è pieno di gente
- è giovedì e le famiglie vengono a prendere la biancheria dei
detenuti - tutti guardano il nostro triste corteo. Hanno compassione negli occhi,
e questo non mi piace, allora porto la mano verso la testa e stringo il pugno.
Forse lo vedranno e capiranno che li saluto, forse non è che un gesto
vago, ma non posso fare di più, non ho ancora forza abbastanza. Nel cortile
della prigione di Pankrac, hanno messo la barella sul camion, due SS seduti
accanto all'autista, due altri in piedi accanto alla mia testa, con le mani
sulle custodie aperte delle rivoltelle - e siamo partiti. No, la strada non
è esattamente meravigliosa - una buca, due buche e prima di aver fatto
duecento metri ho già perso conoscenza; era una buffa corsa per le strade
di Praga, un camion di cinque tonnellate, utilizzabile per trenta detenuti,
che sprecava benzina per un detenuto solo, e due SS davanti e due dietro, con
le mani sulle rivoltelle, che sorvegliavano con i loro occhi di belva un cadavere,
per paura che scappasse. Il giorno dopo la commedia è stata ripetuta.
Quella volta, tuttavia, ho resistito fino a palazzo Petschek.
L'interrogatorio non è stato lungo. Il commissario Friedrich ha toccato
un poco, con noncuranza, il mio corpo, e sono tornato in prigione, di nuovo
senza conoscenza.
Ed ora vengono le giornate in cui non dubito più di essere vivo. Il dolore,
fratello germano della vita, me l'ha rammentato distintamente; perfino la prigione
di Petschek è già informata che, per qualche negligenza, io sono
rimasto vivo, e i primi saluti sono arrivati: attraverso le mura spesse che
ripercuotono i messaggi, e attraverso gli occhi di chi è di servizio
nei corridoi per la distribuzione della minestra.
Solo mia moglie non ha saputo nulla di me. Era sola in una cella al piano inferiore,
a tre o quattro celle dalla mia, divisa tra angoscia e disperazione fino al
momento in cui la sua vicina, durante 1'"aria" della mattina le bisbigliò
che per me era finita, che a quanto si diceva non avevo retto alle ferite inflittemi
durante l'interrogatorio. Dopo di che, andò errando per il cortile e
il mondo le girava d'intorno, non sentì che la sorvegliante la consolava
a forza di pugni in faccia per costringerla a rientrare nelle file, che in prigione
rappresentano la regola. Che mai avranno visto i suoi grandi occhi buoni guardando
senza piangere i muri bianchi della cella? E il giorno dopo ancora un'altra
visione, che non è vera, che non mi hanno picchiato a morte, ma che non
potendo sopportare il dolore mi sono impiccato nella mia cella. E intanto io
ho "marcito" sul mio povero pagliericcio e ogni sera e ogni mattina
mi sono voltato con sforzo su un fianco per poter cantare a Gusta le sue canzoni
preferite.
Come ha fatto a non udire, se ci mettevo tanto fervore? Oggi è già
informata, già mi sente, sebbene sia più lontana di prima. E oggi
anche i guardiani sanno e si sono abituati al fatto che la cella 267 canti.
E non gridano più dietro la porta per imporre silenzio.
La cella 267 canta. Ho cantato per tutta la mia vita, non so perché dovrei
smettere ora, proprio alla fine, al momento in cui vivo più intensamente.
E Pesek, il padre? Oh, è un caso eccezionale! Gli piace cantare con passione.
Non ha orecchio né memoria musicale, né voce, ma ama il canto
di un bell'amore pieno di devozione, e ci trova un tale piacere che io quasi
non sento se scivola da una tonalità all'altra e se insiste a cantare
do, quando l'orecchio desidera espressamente un la. E cosi cantiamo quando s'infiltra
in noi l'affanno, cantiamo quando è una lieta giornata, accompagnamo
con il nostro canto il compagno che se ne va e con il quale forse non ci ritroveremo
mai più, cantando accogliamo le buone notizie del fronte orientale e
cantiamo di gioia come gli uomini cantano da sempre e come canteranno finché
ci saranno degli uomini.
Non c'è vita senza canti come non c'è vita senza sole. E noi qui
abbiamo doppiamente bisogno di canzoni, dato che il sole non viene fino a noi.
Il numero 267 è una cella esposta a nord; solo durante i mesi estivi,
e solo per qualche istante, il sole, tramontando, profila sul muro orientale
l'ombra delle sbarre - e in quel momento il padre sta in piedi appoggiato al
lettuccio, e segue con gli occhi quella fuggevole visita del sole... Ed è
lo sguardo più triste che si possa vedere qui.
Con quanta larghezza risplende, il sole! Quanti miracoli compie davanti agli
occhi degli uomini, questo rotondo stregone. E cosi pochi vivono nel sole. Ma
risplenderà e gli uomini vivranno nei suoi raggi. È una bella
cosa saperlo. Ma tu vorrai sapere anche qualcos'altro, infinitamente meno importante:
risplenderà anche per noi?
La nostra cella è a nord, solo qualche volta d'estate, quando è
veramente una bella giornata, vediamo il sole tramontare. Oh, padre, eppure
mi piacerebbe vedere ancora una volta il sorgere del sole!