Biblioteca Multimediale Marxista
NUMERO 400
La resurrezione è una faccenda un po' speciale, speciale a tal punto
che è impossibile descriverla. Il mondo è pieno di attrattive
nel corso d'una bella giornata quando hai dormito bene, ma in questo caso è
come se la giornata fosse ancora più bella e come se tu avessi dormito
meglio di qualsiasi altra volta. Ti sembra di conoscere bene, la scena della
vita, ma è come se colui che regola le luci accendesse contemporaneamente
tutti i riflettori, e di colpo ti mettesse davanti la scena illuminata a giorno.
Ti sembra di vedere bene, ma è come se ti mettessi agli occhi un binocolo
combinato con un microscopio. Una resurrezione è proprio questione di
primavera, come la primavera che ti scopre bellezze del tutto inattese anche
nel paesaggio più noto.
E questo anche se sai che è solo per un momento. E questo anche se l'ambiente
che ti circonda è gradevole e ricco come può esserlo la cella
della prigione di Pankrac.
Un giorno, intanto, si decideranno a portarti finalmente fuori. Un giorno ti
convocheranno all'interrogatorio, anche senza barella, e per quanto ti sembri
impossibile, camminerai.
C'è una ringhiera nel corridoio, una ringhiera sulla scala, ed in realtà
tu ti trascini più a quattro gambe che a due; da basso ci sono già
altri detenuti che si incaricano di te e ti trasportano fino al furgone cellulare.
E poi, sei seduto lì; dieci, dodici persone su una buia cella su ruote;
delle facce nuove ti sorridono e tu sorridi, qualcuno ti bisbiglia qualcosa
e tu non sai chi sia, stringi la mano a qualcuno e non sai a chi - e finalmente
il furgone entra con una scossa nel grande portone del palazzo Petschek; i compagni
ti aiutano a scendere. Entrate in una sala spaziosa dai muri spogli, cinque
panche in file serrate, e, seduti sulle panche, gli uomini sull'attenti, con
le mani sulle ginocchia, gli sguardi fissi sul muro spoglio di fronte... ed
è, caro ragazzo, un pezzo del tuo nuovo mondo, soprannominato il "cinema
"...
Intermezzo del maggio 1943.
Oggi siamo al 1° maggio 1943, io sono per l'appunto di
servizio e intanto posso scrivere. Che contentezza essere ancora una volta,
sia pure per un momento, un giornalista comunista e scrivere il rapporto della
parata delle forze combattenti dei mondi nuovi.
Non ti aspettare che parli di bandiere fluttuanti nell'aria. Non c'era nulla
di simile. E nemmeno posso raccontarti qualcuno di quegli atti incoraggianti
che fa tanto bene ascoltare. Oggi, tutto era molto più semplice; né
l'onda rapida e impetuosa delle decine di migliaia di compagni che vedevo gli
altri anni spiegarsi lungo le strade di Praga, né il mare maestoso dei
milioni d'altri compagni che inondava la Piazza Rossa a Mosca. Qui, non puoi
vedere né milioni né centinaia. Qui vedi solo qualche compagno,
uomini e donne, e tuttavia senti che non è meno importante, perché
è la rassegna d'una forza sottoposta in questo momento alla prova del
fuoco e che non si trasforma in ceneri ma in acciaio. È una rivista in
trincea durante la battaglia. E in trincea si porta la tenuta da campagna.
Descrivo tutto ciò con i particolari che gli sono propri; chissà
se tu, mio lettore, che lo leggerai senza viverlo insieme a noi, capirai. Cerca
tuttavia di capire, credimi, c'è dentro una forza.
Il saluto mattiniero della cella vicina che picchia due battute di Beethoven
suona oggi più cerimonioso, più eloquente, e il muro lo trasmette
su un tono più alto.
Ci vestiamo come meglio possiamo, e cosi in tutte le celle.
Riceviamo la colazione in piena forma. Davanti alle porte aperte delle celle
passa il servizio con il pane, caffè nero e acqua. Il compagno Skorepa
ci dà tre michette di pane invece di due, è il suo saluto del
1° maggio, il saluto attivo d'un animo pieno di attenzioni. E sotto le michette
di pane le tue dita ne stringono altre.
Parlare è proibito, anche i tuoi sguardi sono sorvegliati - ma forse
che i muti non sanno esprimersi chiaramente con le dita?
Nel cortile, sotto la finestra della nostra cella, entrano rapidamente le donne
per la loro mezz'ora di "aria ". Salgo sul tavolo e guardo giù
attraverso le sbarre, forse mi scorgeranno. Mi hanno scorto e levano il pugno
per salutare. Io ripeto il gesto; giù, nel cortile, c'è oggi qualcosa
di vivace, di del tutto diverso, un'animazione più gioiosa che non gli
altri giorni La sorvegliante non vede nulla, oppure non vuole vedere. E ciò
fa già parte della nostra parata di maggio di quest'anno.
Adesso la mezz'ora di noi uomini. Sono io che guido. E' il 1° maggio, amici,
oggi non esordiremo come gli altri giorni, non importa se la cosa stupirà
i sorveglianti. Il primo esercizio: uno, due, uno, due, il colpo di martello;
e il secondo esercizio: falciare.
Il martello e la falce! Con un po' di fantasia, i compagni forse capiranno.
Il martello e la falce! Mi guardo intorno. Sorridono e ripetono gli esercizi
con fervore, hanno capito. Ecco, amici, è la nostra manifestazione del
1° maggio, e questa pantomima è la nostra promessa del 1° maggio,
a cui, anche andando alla morte, restiamo fedeli.
Ritorno in cella. Sono le nove, in questo momento l'orologio del Cremlino suona
le dieci, e sulla Piazza Rossa comincia la sfilata. Padre, noi marciamo con
te. In questo momento, a Mosca, cantano l'Internazionale, anche dalla nostra
cella essa deve echeggiare, nel mondo intero. Cantiamo, e una dopo l'altra si
susseguono le canzoni rivoluzionarie. Ma non vogliamo esser soli, non siamo
soli, siamo parte di quelli che ora cantano a pieni polmoni, in libertà,
ma lottando anche loro come noi...
Compagni nelle prigioni
nelle celle fredde
siete con noi, siete con noi
è anche se non siete nelle nostre file...
Sì, siamo con voi.
Cosi, noi prigionieri della cella 267, ci siamo immaginati la fine solenne della
rivista del maggio 1943. Ma è davvero la fine? E' il servizio di corridoio
del settore femminile, che questo pomeriggio, prendendo l'"aria" in
cortile, fischia la canzone dei partigiani e altre canzoni sovietiche per incoraggiare
gli uomini nelle celle?
E' l'uomo in uniforme di poliziotto cèco che mi ha portato carta e matita,
e ora sorveglia il corridoio perché nessun indesiderabile mi sorprenda?
E' l'altro, colui che in fondo ha dato impulso a questi miei appunti e li porta
fuori dalla prigione celando con mille cautele i foglietti, perché ricompaiano
alla luce quando sarà il momento? Questi pezzetti di carta potrebbero
costar loro la testa, la rischiano per fare da agenti di collegamento fra l'oggi
dietro le sbarre e il domani libero. Combattono con devozione e senza paura,
ciascuno al suo posto, ciascuno secondo il suo campo di battaglia, e con tutti
i mezzi di cui dispongono. E sono cosi semplici, così anonimi, cosi incolori
che nemmeno sospetteresti la lotta per la vita o per la morte che conducono
accanto ai nostri amici e nella quale possono soccombere come vincere.
Due volte, venti volte, hai visto marciare gli eserciti della Rivoluzione nelle
manifestazioni del 1° maggio, ed era uno spettacolo pieno di gloria. Ma
solo nella lotta puoi apprezzare la vera forza di quegli eserciti, e come essi
siano invincibili, e la morte sia più semplice di quanto credevi, e l'eroismo
non si adorni di facili vanaglorie. Ma il combattimento è più
crudele ancora di quanto tu avessi supposto, e per perseverare in esso e portarlo
avanti fino alla vittoria - per questo ti ci vuole una forza incommensurabile.
Lo vedi ogni giorno nel nostro movimento, ma quasi mai te ne accorgi in maniera
cosi completa. Tutto appare cosi evidente, cosi abituale.
Oggi hai avuto di nuovo la rivelazione di quella forza.
Alla rivista del 1° Maggio 1943
Il 1° Maggio 1943 ha interrotto per un momento la continuità
di questa storia, ed è stato bene. I giorni solenni si rammentano un
po' più intensamente degli altri, e forse la gioia che domina quei giorni
potrebbe deformare i ricordi di minore rilievo.
E il "cinema" del palazzo Petschek non ha proprio nulla di lieto.
È l'anticamera d'una stanza di tortura da cui senti venire i lamenti
e le grida di terrore degli altri, e in cui non sai che cosa ti aspetti. Vedi
uscire di dove siamo noi persone sane, robuste e piene di vita, e dopo due o
tre ore d'interrogatorio le vedi rientrare mutilate, annichilite. Odi una voce
sonora annunciare la partenza per l'interrogatorio, e dopo un'ora, una voce
spezzata, soffocata dal dolore e dalla febbre annuncia il ritorno. E c'è
qualcosa di peggio: gente che al momento di uscire aveva lo sguardo limpido
e sincero, quando torna non è più capace di guardarti negli occhi.
È stato forse un breve attimo di debolezza, in qualche posto su all'ultimo
piano, nell'ufficio di colui che interroga; forse solo un istante di esitazione,
solo un lampo di paura o di desiderio di salvare la propria persona; e oggi
o domani arriveranno nuovi prigionieri, che ricominceranno a vivere qui tutti
gli orrori, nuove vittime che il compagno di combattimento ha consegnato al
nemico.
Lo spettacolo di coloro la cui coscienza è compromessa è più
terribile che lo spettacolo delle persone fisicamente torturate. E se la morte
che ti cammina accanto ti ha aperto gli occhi, se la resurrezione ti ha affinato
i sensi, ti accorgi, anche senza fare parola, di chi ha vacillato, di chi forse
ha già tradito, o pensa, proprio in quel momento, in un angolino dell'animo,
che non sarebbe poi tanto male darsi un po' di sollievo denunciando giusto il
più trascurabile dei propri compagni di lotta. Oh, miserabili deboli,
come se la vita pagata con quella moneta d'un compagno fosse ancora la vita!
Questo pensiero non mi era forse venuto all'epoca del mio primo soggiorno al
"cinema", ma in seguito l'ho avuto di frequente, ed esso ricomparve
in me con chiarezza anche quella mattina in un ambiente un tantino diverso;
in un ambiente che era qui la miglior fonte di conoscenza, nella stanza numero
"400 "
Non sono rimasto a lungo seduto al "cinema". Forse un'ora, forse un'ora
e mezza. Poi, alle mie spalle, ho udito chiamare il mio nome, due agenti in
borghese che parlavano cèco si sono incaricati di me, mi hanno trasportato
in un ascensore, mi hanno depositato al quarto piano e mi hanno condotto in
una vasta stanza sulla cui porta era scritto il numero
"400"
Ero seduto li, sotto la loro sorveglianza, da principio completamente
solo e in fondo alla stanza, su una sedia isolata accanto al muro, e mi guardavo
intorno con lo strano sentimento di chi ha l'impressione di aver vissuto già
una volta la stessa scena. Sono venuto qui già un'altra volta? No, mai.
Eppure questa cosa la conoscevo, conoscevo questa stanza, l'ho sognata, l'ho
sognata in un incubo crudele e febbrile che me l'ha deformata terribilmente,
che l'ha resa ai miei occhi distorta e ripugnante ma tuttavia riconoscibile.
Ora essa mi appare gradevole, piena della luce del giorno e di colori chiari
e attraverso le grandi finestre dalle inferriate sottili è possibile
vedere la chiesa di Tynl, le verdi colline di Letnà e il castello di
Hradcany (2). Nel sogno la stanza era tetra, senza finestre, mal illuminata
dal pulviscolo d'una luce giallo-sporca in cui si muoveva l'ombra delle persone.
Sì, c'era della gente, qui. Ora la stanza è vuota e i suoi sei
banchi serrati sono una prateria di pisciacani e di ranuncoli. Nel sogno era
piena di uomini, erano seduti su queste panche gli uni accanto agli altri e
i loro volti erano pallidi e sanguinanti. E li, proprio accanto alla porta,
un uomo dagli occhi dolorosi si reggeva in piedi, con una tuta da lavoro ridotta
a brandelli, un uomo che desiderava bere, bere, e che alla fine è crollato
giù, lentamente, come cala un sipario.
Sì, era proprio cosi, ma già so che non era un sogno, quel qualcosa
di crudele e di febbrile, era la realtà. Fu durante la notte del mio
arresto, al mio primo interrogatorio. Mi hanno condotto qui forse tre volte,
forse dieci, non so, ogni volta che hanno voluto riposarsi e attaccare con altri.
Ero a piedi nudi e, rammento, le mattonelle fredde del pavimento mi rinfrescavano
in modo gradevole la pianta piagata dei piedi.
I banchi di una volta erano occupati dagli operai di Junkers; la Gestapo li
aveva catturati quella sera, e l'uomo vicino alla porta, con la tuta a brandelli,
era il compagno Barton della cellula aziendale di Junkers, la causa indiretta
del mio arresto. Lo dico perché nessuno venga accusato della mia sorte.
Il mio arresto non fu dovuto né a tradimento né a viltà
di nessun compagno, non fu che imprudenza e scarogna. Il compagno Barton cercava
per la cellula un collegamento con la direzione del Partito. Il suo amico, il
compagno Jelinek, trascurando un poco le norme cospirative, invece di parlare
prima a me della faccenda in modo che potesse essere sistemata al di fuori del
suo intervento, gli promise di trovargli lui stesso il collegamento. Fu il primo
sbaglio. Il secondo, più grave, fu che il compagno Barton aveva prestato
fiducia a un provocatore. Si chiamava Dvorak. Il compagno Barton gli confidò
perfino il nome di Jelinek, e cosi la Gestapo cominciò a interessarsi
alla famiglia Jelinek. Non fu dunque a causa del loro compito principale, che
gli Jelinek hanno assolto alla perfezione durante due anni, ma in seguito a
un piccolo servizio da nulla per il quale si sono allontanati appena d'un passo
dai loro doveri cospirativi. E che quelli del palazzo Petschek decidessero di
arrestare Jelinek proprio quella notte, quando avevamo appuntamento in casa
sua, e che arrivassero in tanti, fu esclusivamente effetto del caso. Non rientrava
nel loro piano. Gli Jelinek dovevano essere arrestati solo il giorno dopo, se
la Gestapo venne fu in realtà quasi per divertimento, per prendere un
po' d'aria, dopo l'arresto riuscito cosi bene della cellula Junkers. Se per
noi l'arrivo della polizia fu una sorpresa, una sorpresa non minore fu per loro
il trovarmi lì. Non sapevano nemmeno chi prendessero nella mia persona.
Chissà se sarebbero mai riusciti a saperlo, se insieme con me...
Ma queste prime riflessioni al 400 ho potuto farle soltanto dopo un certo tempo
abbastanza lungo. Quel giorno non ero più solo, quella volta i banchi
e i muri intorno erano già occupati e già scorrevano ore piene
di sorprese. Sorprese strane, nelle quali non ho capito nulla, e cattive sorprese,
nelle quali ho capito fin troppo. Tuttavia, la mia prima sorpresa non apparteneva
a nessuna di queste due categorie; era una cosa gentile, una cosa da niente,
priva di qualsiasi importanza, ma che non potrò mai dimenticare. L'agente
della Gestapo che mi sorveglia - lo riconosco, è lo stesso che mi ha
vuotato le tasche dopo l'arresto - mi ha buttato una mezza sigaretta accesa.
La prima sigaretta dopo tre settimane, la prima sigaretta per un uomo che nasce
una seconda volta. Devo prenderla? Non deve pensare di potermi comprare. Ma
accompagna la sigaretta con uno sguardo senza secondi fini, no, non mi vuole
comprare. Non sono nemmeno riuscito a fumarla fino in fondo. I neonati non sono
forti fumatori.
Seconda sorpresa: nella stanza entrano a passo dell'oca quattro persone che
salutano in cèco gli agenti in borghese - e me, - si siedono dietro i
tavoli, sistemano le proprie carte dinanzi a sé, si accendono una sigaretta,
liberamente, del tutto liberamente come se fossero degli impiegati, ma tuttavia
io li conosco, ne conosco almeno tre, ma non è possibile che siano al
servizio della Gestapo, o forse, forse?… Anche loro? Eppure è Terringl,
o Renek, come veniva chiamato, ex-segretario del Partito e dei sindacati, una
natura un po' selvatica ma fedele, no, non è possibile. Ed è Annetta
Vikovà, sempre cosi coraggiosa e cosi bella, anche con i suoi capelli
già bianchi, una militante ferma e tenace, no, non è possibile.
Vasek Rezek, muratore in una miniera del nord e più tardi segretario
regionale del Partito; come se non li conoscessi! quante lotte abbiamo vissuto
insieme nel nord! Può mai essere che si sia curvato sotto il loro pugno?
No, non è possibile. Ma allora, che fanno qui?
Non ho ancora trovato risposta a queste domande, e già se ne accumulano
di nuove. Fanno entrare Mirek e i coniugi Jelinek, la coppia Tried - sì,
nulla di strano, quelli, purtroppo, sono stati arrestati con me. Ma perché
Paolo Kropàcek, storico dell'arte, è lì anche lui, lui
che aiutava Mirek nel suo lavoro tra gli intellettuali, e chi se non Mirek ed
io eravamo al corrente di tutto quanto esattamente egli faceva? E perché
quel lungo giovanotto con il volto tumefatto dalle percosse, e che mi ha fatto
cenno che non ci conosciamo? Io non lo conosco veramente; chi è? Stych?
Il dottor Stvch? Zdenek? ma, Dio mio, questo vuol dire il gruppo dei medici;
chi poteva conoscerli all'infuori di me e di Mirek? E perché durante
l'interrogatorio mi hanno fatto delle domande a proposito degli intellettuali
cèchi? Come sono arrivati a stabilire un legame tra il mio lavoro e quello
fatto tra gli intellettuali? Chi poteva esserne al corrente all'infuori di me
e di Mirek?
La risposta non era difficile a dare, ma era grave era crudele: Mirek ha tradito,
ha parlato, in un primo momento potevo ancora sperare che almeno non avesse
detto tutto. Ma poi, hanno fatto entrare un altro gruppo di detenuti, e ho visto
Vancura (3), il professor Telle e suo figlio, Bedrich Vaclaveck, irriconoscibile
sotto il suo travestimento, Bozena Pulpanova, Jindrich Elbl, lo scultore Dvorak,
tutti coloro che facevano parte o erano chiamati a far parte del Comitato nazionale
rivoluzionario degli intellettuali cèchi, tutti sono qui. Sul lavoro
fra gli intellettuali Mirek ha detto tutto.
Le prime giornate a palazzo Petschek non sono state facili, ma quello fu il
colpo più duro che abbia ricevuto. Mi aspettavo la morte ma non il tradimento,
Anche giudicando con indulgenza, anche prendendo in considerazione tutte le
circostanze e anche tenendo conto di tutto quello che Mirek non ha detto, non
sono riuscito a trovare altra parola: era il tradimento. Non era l'abbandono
di un istante, né una debolezza, né il crollo d'un uomo torturato
a morte che cerca un sollievo in mezzo alla febbre, non era nulla che si possa
scusare. Ora ho capito perché abbiano saputo il mio nome fin dalla prima
notte. Ora ho capito perché si trovi qui Anicka Jiràskovà,
in casa della quale ho avuto parecchi appuntamenti con Mirek. Ora ho capito
perché siano qui Kropàcek, e il dottor Stych.
Quasi ogni giorno sono andato al numero 400, e ogni giorno ho appreso nuovi
particolari. Era triste e scoraggiante. Ecco, un uomo che era stato in passato
pieno di dirittura, che non aveva cercato di sfuggire alle pallottole combattendo
sul fronte spagnolo, e non si era piegato passando attraverso la crudele esperienza
del campo di concentramento in Francia, ora era impallidito sotto il frustino
d'un agente della Gestapo e aveva tradito per proteggere la propria pelle. Come
doveva essere superficiale il suo coraggio, per cedere così ai primi
colpi. Superficiale quanto le sue convinzioni. Era forte in un gruppo, circondato
da compagni che pensavano come lui, era forte perché pensava con loro.
Ora, isolato, solo, circondato da nemici senza pietà, ha perso completamente
la sua forza. Ha perso tutto, perché ha cominciato a pensare a se stesso.
Per salvarsi la pelle, ha sacrificato tutto, ha tradito.
Non si è detto che era meglio morire che dare il cifrario delle carte
trovate in casa sua. Ha dato il cifrario. Ha fornito dei nomi. Ha fornito l'indirizzo
di un ricovero. Ha condotto gli agenti della Gestapo all'appuntamento con Stych.
Li ha mandati dove alloggiavano i Dvorak, all'appuntamento con Kropacek; ha
denunciato Anicka; ha denunciato perfino Lidà, la ragazza coraggiosa
e decisa che gli voleva bene. Gli sono bastate poche bastonate per dire la metà
di tutto questo, e quando è stato persuaso della mia morte e ha creduto
di non aver più da giustificarsi dinanzi a nessuno, ha detto il resto.
Con la sua condotta non mi ha fatto personalmente nessun male: ero già
nelle mani della Gestapo, chi avrebbe potuto tirarmi addosso qualcosa di peggio?
Tutto al contrario. La sua dichiarazione era qualcosa di così concreto,
sulla quale erano basate tutte le ricerche, qualcosa di simile al primo anello
nella catena, i cui anelli successivi erano fra le mie mani e di cui essi volevano
raggiungere il capo. Solo grazie a questo sono sopravvissuto allo stato di assedio
e con me gran parte del nostro gruppo. Ma nel caso nostro, nessun gruppo sarebbe
stato tirato in ballo, se Mirek avesse fatto il suo dovere. Noi due saremmo
morti da un pezzo, ma caduti noi, gli altri sarebbero vivi e lavorerebbero.
Un vile perde più che la vita. Ha perso. Ha disertato l'esercito glorioso
e si è esposto al disprezzo anche del suo nemico più abietto.
E anche vivo, non era più vivo. Perché si è escluso dalla
collettività. Ha cercato, più tardi, di riparare più o
meno, qualcosa, ma senza mai poter riconquistare la fiducia dei compagni. Il
che, in prigione, è più terribile che in qualsiasi altro posto.
***
I prigionieri e la solitudine, due parole che sembrano inseparabili. Ed è
un grande errore. Il prigioniero non è solo. La prigione è una
grande collettività a cui nemmeno l'isolamento più severo può
strappare nessuno, se non se ne esclude da sé. La fraternità degli
oppressi è esposta qui ad una pressione che la condensa, la indurisce
e la rende anche più sensibile. Attraversa le mura che vivono, che parlano,
o battono messaggi. Abbraccia le celle d'uno stesso corridoio, che sono legate
da preoccupazioni comuni, da un addetto ai servizi comuni, dalle mezz'ore di
"aria" in comune, quando basta una parola o un gesto per trasmettere
una missiva o salvare le vite umane. La fraternità degli oppressi unisce
tutta la prigione attraverso le partenze comuni per gli interrogatori, le comuni
attese sui banchi del "cinema" e i ritorni comuni. Una fraternità
fatta di poche parole e di grandi servigi, perché una semplice stretta
di mano o una sigaretta passata di soppiatto rompe la gabbia in cui ti hanno
gettato e ti libera dalla solitudine che doveva spezzarti. Le celle hanno mani,
tu senti come ti sostengono per non farti cadere quando torni dopo le torture
dell'interrogatorio; e dalle celle ricevi il nutrimento quando gli altri ti
spingono a lasciarti morire di fame. Le celle hanno occhi; ti guardano quando
parti per andare all'esecuzione, sai che bisogna andarci a testa alta perché
sei loro fratello e non devi indebolirle nemmeno con un passo che vacilli. È
una fraternità sanguinante ed irresistibile. Senza il loro appoggio,
non potresti sopportare neppure la decima parte di quello che soffri.
Tu, né alcun altro.
In questo racconto, se riuscirò a continuarlo, dato che non sappiamo
né il giorno né l'ora, riapparirà spesso il numero a cui
si intitola questo capitolo, il numero 400. L'ho conosciuto come una sala, e
le prime ore che vi ho trascorso e le prime riflessioni che vi ho fatto non
erano liete. Ma non del luogo voglio parlare, della comunità. E la comunità
era una comunità piena di gioia e combattiva.
Il " 400" nacque nel 1940, al momento in cui l'attività della
sezione anticomunista della polizia si sviluppava. Era un annesso del deposito
del "cinema", la sala d'aspetto degli interrogatori, scelta per i
comunisti, in modo da evitare il fastidio di portarli dal pianterreno al quarto
piano per ogni domanda, e in modo che fossero a ogni istante a disposizione
degli impiegati della Gestapo incaricati dell'" interrogatorio ".
Era per facilitare il lavoro; questa per lo meno era la loro idea.
E tuttavia, metteteci insieme due detenti e soprattutto dei comunisti, e in
cinque minuti ecco formata una comunità che vi manderà all'aria
tutti i piani. Già dall'anno 1942 il " 400" veniva chiamato
da tutti "la centrale comunista ". Ha subìto molti cambiamenti
e sui suoi banchi sono passati migliaia e migliaia di uomini e donne. Ma una
cosa non si è mai cambiata, l'anima della comunità, consacrata
alla lotta e sicura della vittoria.
Il "400" era una trincea avanzata, accerchiata da ogni lato dal nemico
e bombardata da un tiro concentrico, ma che mai avrebbe pensato ad arrendersi.
Al di sopra sventolava la bandiera rossa. E all'interno si manifestava la solidarietà
del popolo intero in lotta per la propria liberazione.
Giù, da basso, al "cinema", le guardie SS passavano con i loro
pesanti stivali e accompagnavano con le loro vociferazioni il tuo minimo batter
di palpebra.
Qui, al "400", la sorveglianza era affidata agli ispettori e agli
agenti di polizia, entrati al servizio della Gestapo come interpreti, sia volontariamente,
sia per ordine dei superiori, e che facevano ora il loro dovere sia come creature
della Gestapo, sia come Cèchi. O come qualcosa di mezzo. Ora non si era
più costretti a star seduti sull'attenti, con le mani sui ginocchi e
gli occhi fissi, ora potevi sederti più liberamente, potevi guardarti
d'intorno, potevi fare cenno con la mano e potevi fare anche di più,
secondo il caso, dipendeva da quale specie di sorveglianti erano di servizio
in quel dato momento.
Il "400" era il luogo dove più profondamente si faceva conoscenza
con quella creatura che si chiama uomo.
Qui la prossimità della morte ha messo tutti a nudo, coloro che con i
bracciali rossi erano detenuti comunisti, o sospetti di rapporti con i comunisti,
e quelli che dovevano sorvegliarli e che in qualche posto, in una stanza vicina,
partecipavano ai loro interrogatori. Là, durante l'interrogatorio, ogni
parola ha potuto servire da protezione o da arma. Ma al " 400" non
hai più la possibilità di nasconderti dietro delle parole. Qui
non è stato pesato quello che hai detto, ma quello che era nel tuo profondo.
E nel tuo profondo è rimasto solo l'essenziale; tutto quanto è
in secondo piano per far apparire più nobile, indebolire o abbellire
il fondo del tuo carattere, è caduto come sradicato di colpo dal ciclone
che precede la morte. Non sono rimasti altro che il soggetto e l'attributo;
il fedele resiste, il traditore tradisce, il borghese dispera, l'eroe si batte.
In ogni essere c'è la forza e la nobiltà, l'audacia e la paura,
la fermezza e l'esitazione, la pulizia e la sporcizia. E qui non è potuta
restare che l'una o l'altra cosa. O questo, o quello. E se qualcuno ha cercato
di navigare fra le due rive, è stato colto più presto di un ballerino,
con i cembali in mano, la piuma gialla sul cappello, il quale si esibisca durante
una cerimonia funebre.
Persone di questo genere se ne sono potute trovare fra i detenuti, ed anche
fra gli ispettori e fra gli agenti. Durante l'interrogatorio bruciavano un cero
al buon Dio del Reich, ma al "400" ne bruciavano un altro al diavolo
bolscevico. Davanti al commissario tedesco, ti ha spaccato i denti per strapparti
a forza di botte il nome del tuo agente di collegamento, e al "400"
ti ha offerto amichevolmente del pane per toglierti la fame. Durante la perquisizione
ti ha saccheggiato completamente l'appartamento, per darti di nascosto al "400"
una mezza sigaretta del suo bottino, in modo da mostrarti i suoi buoni sentimenti
verso di te. Altri, e sono solo una variante della stessa specie, non hanno
mai fatto del male a nessuno di loro propria iniziativa, ma non hanno mai neppure
aiutato nessuno. Non hanno pensato mai ad altro che alla loro piccola pelle.
La loro sensibilità li rende degli eccellenti barometri politici. Sono
molto riservati e molto ufficiali? Stai pur certo che i Tedeschi avanzano in
direzione di Stalingrado. Sono cortesi e cominciano a attaccare discorso con
i detenuti? La situazione è favorevole. I Tedeschi, sicuramente, sono
stati respinti a Stalingrado. Cominciano a parlare della loro antica origine
cèca e raccontano come sono stati costretti a entrare al servizio della
Gestapo? Benissimo.
Non c'è dubbio che l'esercito rosso già avanza su Rostov. E altri
ancora della stessa specie sono quelli che tengono le mani in tasca quando stai
annegando, ma ti tendono la mano compiacenti quando già ti stai tirando
d'impaccio con i tuoi propri mezzi. Questa specie di gente ha sentito la coesione
del " 400" e ha cercato di avvicinarlo perché ne ha apprezzato
la forza, ma non ne ha fatto mai parte. E c'era ancora un'altra specie che non
aveva la più lontana idea dell'esistenza di tale comunione; potrei chiamarli
assassini, ma l'assassino appartiene tuttavia al genere umano. La belva di lingua
cèca, con in mano il bastone ed il ferro, che tortura i detenuti cèchi
a un punto tale che parecchi fra gli stessi commissari tedeschi finiscono per
distogliere gli occhi dallo spettacolo. Non hanno potuto darsi nemmeno l'ipocrita
scusa di lottare per il loro popolo o per il loro Reich, hanno torturato e assassinato
per voluttà, hanno spezzato i denti e perforato i timpani, spremuto gli
occhi, tagliuzzato gli organi sessuali, messo a nudo il cervello dei torturati
e li hanno bastonati a morte, spinti da una crudeltà che non aveva altro
movente se non la crudeltà stessa. Li hai visti ogni giorno, eri obbligato
a essere quotidianamente in contatto con loro e a sopportare la loro presenza,
che riempiva l'atmosfera di sangue e di rantoli d'agonia; solo la tua fede profonda
ti ha sostenuto, la fiducia che essi non possono sfuggire alla giustizia anche
se assassinano tutti i testimoni dei loro delitti.
E accanto a loro, alla stessa tavola e appartenenti, a prima vista, alla stessa
gerarchia, siedono uomini che meriterebbero una U maiuscola. Uomini che hanno
applicato il regolamento della prigione a vantaggio dei prigionieri, uomini
che hanno aiutato a formare la comunità del "400". E che ne
facevano parte con tutto il loro cuore e con tutta la loro audacia. La loro
generosità è tanto più meritoria in quanto, in passato,
nei servizi della polizia cèca, avevano lavorato contro i comunisti.
Ma hanno riconosciuto la forza e hanno capito l'importanza dei comunisti per
il popolo intero, vedendoli nella lotta contro l'invasore, e da quel momento
hanno fedelmente servito e aiutato ciascuno di quelli che erano rimasti fedeli
fino sulle panche della prigione. Parecchi militanti, all'esterno del carcere,
esiterebbero se conoscessero quali orrori li aspettano se cadono nelle mani
della Gestapo. Ma gli uomini di cui parlo hanno avuto continuamente quegli orrori
sotto gli occhi, ogni giorno, ogni ora. Ogni giorno, ogni ora, dovevano aspettarsi
di esser messi accanto agli altri detenuti e di essere sottoposti a sofferenze
anche peggiori. E tuttavia non hanno esitato. Hanno aiutato a salvare la vita
di migliaia e hanno alleviato la sorte di coloro la cui vita non poteva esser
salvata. Meritano il titolo di eroi. Senza il loro aiuto il "400"
non avrebbe mai potuto essere quello che è diventato e quale migliaia
e migliaia di comunisti l'hanno conosciuto: il luogo luminoso nella casa tetra
e opaca, la trincea alle spalle del nemico, il centro della lotta per la libertà
all'interno del covo stesso degli occupanti.