Biblioteca Multimediale Marxista
LE FIGURE E LE FIGURINE(1)
Vi chiedo solo una cosa: se sopravvivete a quest'epoca non dimenticate. Non
dimenticate né i buoni né i cattivi. Raccogliete con pazienza
le testimonianze di quanti sono caduti per loro e per voi. Un bel giorno oggi
sarà il passato, e si parlerà d'una grande epoca e degli eroi
anonimi che hanno creato la storia. Vorrei che tutti sapessero che non esistono
eroi anonimi. Erano persone, con un nome, un volto, desideri e speranze, il
dolore dell'ultimo fra gli ultimi non era meno grande di quello del primo il
cui nome resterà. Vorrei che tutti costoro vi fossero sempre vicini come
persone che abbiate conosciuto, come membri della vostra famiglia, come voi
stessi.
Hanno sterminato famiglie intere di eroi. Vogliate bene almeno ad uno di essi
come a un figlio o a una figlia, e siate fieri di lui come di un grand'uomo
che ha vissuto per l'avvenire. Ognuno di quelli che ha servito fedelmente l'avvenire
ed è caduto per la sua bellezza, è una figura scolpita nella pietra.
Ed ognuno di quelli che con la polvere del passato hanno voluto costruire una
diga contro l'onda della rivoluzione, non è che una figurina di legno
tarlato, anche se ha le braccia sovraccariche di galloni dorati. Ma bisogna
vedere anche le figurine vivere nella loro infamia e nella loro imbecillità,
nella loro crudeltà e nel loro ridicolo, perché è tutto
materiale che ci insegna l'avvenire.
Ciò ch'io posso continuare a raccontare è solo il materiale, la
dichiarazione dei testimoni. E' tagliato come ho potuto vederlo dal mio angolo
e senza nessun distacco , ma ha tutti i tratti d'una vera somiglianza con la
vita, i tratti delle grandi figure e delle piccole, delle figurine.
Gli Jelinek
Giuseppe e Maria. Lui elettricista, lei domestica. La loro
abitazione? Mobili moderni, semplici e lisci, una bibliotechina, una statuetta,
quadri alle pareti, e una pulizia inverosimile. Diresti che l'anima di lei sia
tutta rinchiusa lì dentro, e che non sappia nulla d'un altro mondo. E
invece Maria lavorava da un pezzo nel partito comunista e faceva alla sua maniera
sogni di giustizia. Hanno lavorato tutti e due tranquillamente, con devozione,
e non si sono tirati indietro quando l'occupazione ha posto loro dinanzi gravose
esigenze di responsabilità.
Dopo tre anni la polizia è penetrata nella loro abitazione, erano in
piedi uno accanto all'altra, con le mani alzate sopra la testa.
19 Maggio 1943
Stanotte portano via la mia Gusta, in Polonia, "a lavorare".
Ai lavori forzati, a morire di tifo. Mi resta qualche settimana, forse due o
tre mesi di vita. Pare che il mio incartamento sia stato passato al tribunale.
Forse allora altre tre o quattro settimane d'informazioni contro di me alla
prigione di Pankrac, e poi ancora due o tre mesi fino alla fine. Questo reportage
non sarà terminato. Cercherò di continuarlo se mi capita ancora
l'occasione in questi giorni. Oggi non posso. Oggi ho la testa e il cuore pieni
di Gustina, di questa creatura umana tanto nobile e così profondamente
fervida, di questa compagna rara e devota della mia vita dirupata e mai placida.
Ogni sera canto per lei una canzone che ha amato: parla d'un'erba verde azzurra,
d'una steppa piena di leggende gloriose, di combattimenti partigiani, d'una
donna cosacca che lotta accanto agli uomini per riconquistare la libertà,
parla del suo coraggio e di come in una battaglia "jej podnatsja zemli
neprislos" (non sia riuscita a levarsi da terra).
Voto moj druzok bojevoj! (Ah, mio compagno di combattimento!). Quanta forza
segreta in quella esile creatura dai lineamenti tagliati con fermezza, e i grandi
occhi infantili così profondamente teneri. La lotta, la separazione continua
hanno fatto di noi degli eterni amanti che non una volta sola, ma cento realizzano
i momenti fervidi delle prime carezze, delle prime intimità. E tuttavia
sempre uno stesso palpito batte nel nostro cuore e uno stesso respiro ci anima
nelle ore felici come nelle ore di angoscia, di inquietudine e di amarezza.
Per anni abbiamo lavorato insieme e ci siamo reciprocamente aiutati come solo
un compagno sa fare per un altro compagno; per anni è stata lei il mio
primo lettore e il mio primo critico, e spesso mi era difficile scrivere quando
non avevo più il suo dolce sguardo dietro di me; per anni abbiamo militato
l'uno accanto all'altro nelle lotte numerose, e per anni abbiamo camminato nei
nostri errabondaggi con la mano nella mano. Nelle regioni che amiamo, abbiamo
conosciuto molte difficoltà e abbiamo vissuto molte grandi gioie perché
eravamo ricchi della ricchezza dei poveri. Di quella ricchezza che è
dentro gli uomini.
Gusta? Ecco cos'è Gusta:
Era durante lo stato d'assedio, verso la metà di giugno dell'anno scorso.
Mi ha visto una prima volta sei settimane dopo il nostro arresto, dopo tutti
quei giorni pieni di sofferenza, quando sola nella sua cella pensava alle notizie
che le annunciavano la mia morte. L'hanno chiamata perché mi inducesse
a cedere.
"Persuadetelo" diceva a Gusta il capo della direzione durante il suo
confronto con me, "parlategli, ditegli di essere ragionevole. Se non si
cura di sé, si curi almeno di voi. Avete un'ora per riflettere. Se continua
a fare il testardo, stasera vi fucileremo. Tutti e due". Mi ha accarezzato
con lo sguardo ed ha risposto semplicemente:
"Signor commissario, non è una minaccia, per me, è il mio
ultimo desiderio. Se lo fucilate, fucilate anche me".
Ecco, questa è Gusta! Amore e fermezza!
Possono prenderci la vita, vero, Gusta? Ma il nostro onore e il nostro amore
non possono.
Ah! amici miei, potete immaginare come vivremmo se ci ritrovassimo dopo tutte
queste sofferenze? Se ci ritrovassimo nuovamente nella vita libera, bella della
libertà e della creazione? Quando sarà una realtà quello
che abbiamo tanto desiderato e per cui abbiamo fatto tutti i nostri sforzi,
ciò per cui ora siamo in procinto di morire?
Eppure, anche morti, vivremo in un angolo della vostra grande felicità,
perché in quella felicità abbiamo messo la nostra vita. E questo
ci dà gioia, anche se ci addolora prendere congedo da voi. .
Non ci hanno permesso di dirci addio, né di abbracciarci, né di
darci la mano. Solo il collettivo della prigione, che unisce anche la Piazza
Carlo con Pankrac (due prigioni diverse) ci dà notizie reciproche della
nostra sorte.
Lo sai, Gusta, anch'io lo so, non ci rivedremo più. Ma tuttavia ti sento
gridarmi di lontano: arrivederci, amore!
Arrivederci Gusta, amor mio!
Il mio testamento.
Non avevo nient'altro che la mia biblioteca. La Gestapo l'ha distrutta.
Avevo scritto molti articoli culturali e politici, dei reportages, degli studi
letterari e teatrali e delle critiche. Parecchi di questi lavori erano legati
all'attualità di un giorno e morivano con essa. Lasciateli stare. Ma
certuni appartengono alla vita. Speravo che Gusta li avrebbe raccolti. Poca
speranza. Prego allora il bravo compagno Lada Stoll di fare una scelta e di
pubblicare cinque libri.
I) Gli articoli politici e le polemiche.
2) Una raccolta di reportages sul nostro paese.
3) Una raccolta di reportages su l'U.R.S.S.
4) e 5) Gli articoli di letteratura e di teatro.
Troverà la maggior parte di questi lavori su Tvorba, Rude Pravo; gli
altri sullo Kmen, il Pramen, il Proletkult, il Doba, il Socialista, l'Avanguardia
(4) ecc. Lo stesso nei giornali comunisti, presso gli antifascisti e gli intellettuali
progressisti.
Manoscritti presso l'editore Girgal (a cui voglio bene per l'evidente audacia
con cui ha pubblicato il mio libro Bozena Nemcova) gli studi su Julius Zeyer.
In qualche posto nella casa abitata prima dagli Jelinek, dai Vysisil e dai Suchanek,
(la maggior parte oggi sono morti) è nascosta una parte del mio studio
su Sabina (5) e degli appunti su Jan Neruda.
Ho cominciato a scrivere un romanzo sulla nostra generazione. Due capitoli sono
presso i miei genitori, il resto senza dubbio è andato distrutto. Ho
visto alcuni racconti manoscritti negli incartamenti della Gestapo.
Al critico letterario che verrà lego il mio amore per Jan Neruda. È
il nostro migliore poeta, e vede anche lontano nel futuro, al di sopra delle
nostre teste. Ma non esiste ancora nessun critico capace di comprenderlo ed
apprezzarlo. Bisogna mostrare il Neruda proletario. Gli hanno appiccicato alle
falde un'etichetta di idillio tipo Mala Strana (antico quartiere piccolo borghese)
senza rendersi conto che proprio l'antico quartiere idillico di Mala Strana
l'ha considerato un mascalzone, che Neruda è nato alle frontiere di Smikhov
in un ambiente abitato dagli operai, e che per andare al cimitero di Mala Strana,
per i suoi "Fiori del cimitero", era obbligato a passare intorno alle
officine di Ringhofer. Altrimenti non si comprenderebbe lo sviluppo di Neruda
da "Fiori del cimitero" all'appendice del "1° Maggio 1890".
Tutti - anche un uomo chiaroveggente come Salda (6) - vedono nel lavoro giornalistico
di Neruda un certo freno alla sua creazione poetica. Ciò non ha senso,
perché Neruda giornalista ha potuto scrivere un'opera magnifica come
"Ballate e romanze" o i " Canti di venerdì" e la
maggior parte dei "Motivi semplici". Il lavoro giornalistico esaurisce
molto, forse disperde, ma lega al lettore, insegna a creare anche in poesia,
soprattutto quando si tratta d'un giornalista di tale onestà. Neruda
senza i giornali, che lo facevano vivere giornata per giornata, avrebbe forse
scritto parecchi volumi di poesie. Ma nemmeno uno sopravvivrebbe al suo secolo
come sopravvivranno tutte le sue opere.
Anche il libro di Sabina verrà forse portato a termine da qualcuno. Lo
merita.
Ai miei genitori, per il loro amore e la loro semplice nobiltà, avrei
voluto assicurare un autunno assolato con tutto il mio lavoro fatto anche per
loro. Non si lascino turbare dal fatto che io non sono più con loro.
"L'operaio è mortale, il lavoro continua a vivere"; nel calore
e nella luce che li circonderanno io sarò sempre vicino a loro.
Prego le mie sorelle Liba e Verka di far scordare con i loro canti, a mio padre
e a mia madre, che c'è un vuoto nella nostra famiglia. Hanno inghiottito
molte lacrime quando venivano a trovarci durante le visite a palazzo Petschek.
Ma la gioia vive in loro e per questo io voglio loro bene, per questo ci vogliamo
bene. Sono delle seminatrici di gioia, non cessino mai di esserlo.
Ai compagni che sopravvivranno a quest'ultima battaglia stringo forte la mano.
Quanto a me ed a Gusta, abbiamo adempiuto il nostro dovere.
E lo ripeto ancora una volta: abbiamo vissuto per la gioia, per la gioia siamo
andati a combattere e per la gioia morremo. Il dolore non sia mai legato al
nostro nome.
19 maggio 1943
22 Maggio 1943
Terminato e firmato. Presso il giudice istruttore il mio affare
è concluso da ieri. Le cose vanno anche più rapidamente di quanto
avessi supposto. Sembra che abbiano una certa fretta per questo caso. Lida Plachà
e Mirek sono accusati insieme a me. L'aver parlato non gli è servito
a nulla.
Dal giudice istruttore tutto è stato corretto e freddo fino nei minimi
particolari. Alla Gestapo era almeno una parte di vita, una parte terribile,
ma tuttavia una parte di vita. C'era dentro una passione, la passione dei combattenti,
dei cacciatori di belve da una parte, e la passione dei semplici banditi dall'altra.
Parecchi dall'altra parte avevano perfino una specie di convinzione. Qui dal
giudice istruttore era solo amministrazione. Grandi patacche con croci uncinate
attestano la convinzione che manca loro interiormente. Sono gli scudi dietro
cui si nascondono piccoli impiegati decisi a sopravvivere in un modo o in un
altro ai tempi difficili. Non sono né cattivi né buoni per gli
accusati. Non sorridono, non sono arcigni. Scarabocchiano carte. Niente sangue,
solo una zuppa a base di acqua.
Hanno finito di scrivere, è firmato, e hanno diviso tutto in paragrafi.
C'è sei volte delitto di alto tradimento, complotti contro il Reich,
la preparazione di una rivolta armata, e non so che altro. Una sola di queste
accuse è sufficiente.
Tredici mesi ho lottato qui per la vita degli altri e per la mia propria. Con
audacia e con astuzia. I nazisti hanno messo nel loro programma una "astuzia
nordica". Ma credo di essermi saputo sbrigare anch'io. Sono vinto per la
sola e semplice ragione che essi in più hanno un'ascia in mano.
E' finita allora, con questa lotta, Ora comincia il periodo d'attesa. Due, tre
settimane per l'elaborazione dell'accusa; poi, il viaggio nel Reich, l'attesa
alla sessione del tribunale, la condanna, e infine cento giorni d'attesa per
l'esecuzione. È una prospettiva. Forse un quattro o cinque mesi ancora.
Nel frattempo molte cose possono cambiare. Non sono in grado di giudicare certe
questioni da qui. Ma lo sviluppo più rapido degli avvenimenti esterni
può anche accelerare la nostra fine. E cosi tutte le probabilità
si equilibrano.
È una corsa della speranza con la guerra. La corsa della morte con la
morte. Chi arriverà prima: la morte del fascismo o la mia morte? E' una
domanda che riguarda me solo? Purtroppo no, è una domanda che si fanno
milioni e milioni di soldati, decine di milioni di uomini e donne in Europa
e nel mondo intero. Gli uni hanno più speranza, gli altri meno, ma è
tutta apparenza. Gli orrori di cui il capitalismo in decomposizione ha ingombrato
il mondo minacciano ciascun uomo al massimo grado. Centinaia di migliaia d'uomini
- e quali uomini - cadranno ancora prima che i sopravvissuti possano rispondere:
sono sopravvissuto al fascismo.
Solo i mesi decidono, ora, e presto saranno i giorni. Ma proprio quelli saranno
i più crudeli. Ho sempre pensato quanto è triste essere l'ultimo
soldato colpito al cuore dall'ultima pallottola e nell'ultimo secondo. Ma qualcuno
deve pur essere quell'ultimo. Se sapessi di poterlo essere io, vorrei esserlo
in questo stesso istante.
Il tempo molto breve che rimarrò ancora nella prigione di Pankrac non
mi consente più di dare a questo reportage la forma che dovrebbe avere.
Devo essere più conciso. Il mio reportage sarà la testimonianza
degli uomini più che di tutta un'epoca. E' più importante, mi
sembra.
Ho cominciato queste figure con i coniugi Jelinek, persone semplici che, in
tempi normali, non ti sembravano degli eroi. Al momento dell'arresto erano uno
accanto all'altro con le mani in alto, lui pallido e lei con una chiazza vermiglia
di tubercolosi sotto le tempie. Gli occhi di lei hanno avuto un'ombra di spavento
quando ha visto come la Gestapo trasformasse l'ordine esemplare della sua casa
in una desolazione e in un disordine completi. Poi ha girato lentamente la testa
verso il marito e gli ha chiesto:
- Giuseppe, che succederà ora?
Lui risparmiava sempre le parole, le cercava con difficoltà e parlare
lo innervosiva. Ma in quel momento ha risposto tranquillamente e senza sforzo:
- Moriremo, Marietta.
Lei non ha mandato un grido, non ha nemmeno vacillato; solo, con un bel gesto,
ha abbassato una mano e l'ha data al marito davanti alle rivoltelle sempre puntate.
Questo gesto le ha procurato, così come al marito, il primo pugno nella
faccia. Se l'è asciugata guardando con un certo stupore gli intrusi e
in un modo quasi comico:
- Così bei ragazzi, - ha detto, e a voce più alta: - così
bei ragazzi, e così cani.
Li ha apprezzati per quello che valgono. Qualche ora più tardi l'hanno
portata fuori dall'ufficio d'un commissario che l'aveva "interrogata",
picchiata fino a farle perdere conoscenza. Ma non le hanno cavato nulla picchiandola.
Né quella notte, né mai.
Non so che cosa sia successo di loro durante i giorni in cui io ero sdraiato
nella mia cella in condizioni da non poter essere interrogato. Ma so che non
hanno detto nulla durante tutti quei giorni. Mi hanno aspettato. Quante altre
volte, poi, Giuseppe è stato randellato e quante altre volte è
stato picchiato, picchiato e picchiato, ma non ha parlato prima ch'io potessi
dirgli, o per lo meno indicargli con lo sguardo, che cosa potesse dire e come
deporre per sviare la loro inchiesta.
Lei era sentimentale fino a lasciarsi sprofondare facilmente nella tristezza.
L'avevo conosciuta cosi prima dell'arresto. Ma durante tutto il soggiorno alla
Gestapo non le ho mai visto una lacrima. Voleva bene alla sua casa. Ma quando
i compagni, dal di fuori, le hanno fatto sapere, per farle piacere, che sapevano
chi aveva rubato i loro mobili e che li tenevano d'occhio, lei ha risposto:
- Al diavolo, i mobili! Non ci perdano tempo. Devono occuparsi di cose più
importanti e devono anche lavorare al nostro posto, ora. Bisogna prima di tutto
mettere ordine in profondità, e a mettere ordine in casa ci penserò
da me, se me la cavo.
Un giorno li hanno portati via tutti e due, lui da una parte e lei da un'altra.
Invano ho fatto ricerche per conoscere la loro sorte. Perché alla Gestapo
la gente sparisce senza lasciar traccia, disseminata in migliaia di cimiteri
diversi. Ah! quale raccolto crescerà da questa terribile semina!
L'ultimo messaggio di Maria fu:
"Principale, dite ai compagni di fuori che non mi rimpiangano e che non
si lascino impaurire. Ho fatto quello che mi comandava il mio dovere operaio,
e per fare il mio dovere devo anche morire".
Era "solo una domestica". Non aveva avuto nessuna istruzione classica,
e non sapeva che anticamente quelle sue parole erano state già dette:"Pellegrino,
annuncia ai Lacedemoni che noi siamo qui morti come le leggi ce lo hanno ordinato".
I Vysusilovi
Abitavano nella stessa casa, porta a porta con gli Jelinek.
Anche loro Giuseppe e Maria. Una famigliola di impiegati in sottordine, un po'
più anziani dei loro vicini. Quando lui fu mobilitato e mandato a combattere
nella prima guerra mondiale era un giovanotto allampanato del sobborgo Nusle.
Dopo qualche settimana già lo ritrasportarono a casa con un ginocchio
fratturato che non è mai guarito. Si erano conosciuti in un ospedale
di Brno dove lei era infermiera. Lei aveva otto anni di più, aveva fatto
un matrimonio infelice, ed ora il lungo "impiegato in sottordine"
delle ferrovie e la "signora" Vysusil si trovavano impelagati in una
cosa proibita.
Lui fu arrestato poco tempo dopo il mio arresto, e la prima volta che lo vidi
in carcere fui terrorizzato. Se infatti parlava, tutto quanto rischiava di crollare.
Invece tacque. Fu arrestato per alcuni manifestini che aveva dato da leggere
a un amico, e la polizia non andò oltre la questione dei manifestini.
Alcuni mesi dopo, quando per l'indisciplina di Pokorny e di una certa Pixovà
fu rivelato che Honza Cerny era alloggiato presso la sorella della signora Vysusil,
per due giorni la Gestapo "interrogò" a suo modo Giuseppe per
estorcergli le tracce dell'ultimo Mohicano del nostro Comitato Centrale. Il
terzo giorno Vysusil venne al numero 400, e si sedette con precauzione perché
sulla carne viva è maledettamente scomodo sedersi; io gli lanciai uno
sguardo ansioso con una domanda e un incoraggiamento. Mi rispose allegramente
con la sua bonomia popolana:
- Quando la testa non vuole, non parlano né la bocca né il culo.
Conosco bene quella famigliola, so quanto si amino, come fossero malinconici
quando erano separati l'uno dall'altra anche solo per un giorno o due. Ora passavano
i mesi, come pareva triste la vita, in quell'appartamentino accogliente sopra
il quartiere Michle, a una donna isolata, nell'età in cui la solitudine
è pesante da portare tre volte più della morte. Quanti sogni ha
tessuto per aiutare il marito e per poter tornare al piccolo idillio nel quale
si chiamavano - in modo, del resto, un poco ridicolo - babbino e mammina. E
lei ha trovato di nuovo un'unica via: perseverare nel lavoro, per se stessa
e ad un tempo per lui.
Cosi, la notte di fine d'anno, se ne stette seduta, sola sola, dinanzi alla
sua fotografia, e quando suonò mezzanotte bevve alla sua salute perché
tornasse, perché arrivasse fino al momento della liberazione.
Un mese dopo anche lei veniva arrestata. Molti altri avrebbero tremato. Perché
era agente di collegamento, incaricata dei rapporti con l'esterno.
Non si è lasciata sfuggire una sola parola.
Non l'hanno torturata col bastone, perché era troppo malata e sarebbe
morta tra le loro mani. L'hanno torturata più terribilmente: nell'immaginazione.
Qualche tempo prima del suo arresto, hanno mandato il marito a " lavorare
" in Polonia. Ora le ripetono:
- Vedete, la vita là è dura, anche per la gente in piena salute.
E vostro marito è invalido. Non se la caverà. Morirà, prima
o poi; non lo rivedrete più. E alla vostra età, dove andate a
trovare qualcuno che lo sostituisca? Siate ragionevole, dunque, diteci quello
che sapete, e ve lo renderemo.
Morirà in qualcuno di quei posti, laggiù. Il mio Giuseppe! Il
mio povero babbino! E chissà che morte farà! Hanno ammazzato mia
sorella, mi stanno ammazzando il marito, resterò sola, completamente
sola, chi potrei trovare alla mia età, ma sì... Sola, abbandonata
fino alla morte... E potrei anche salvarlo, me lo renderebbero..., sì,
ma a che prezzo? Non saremmo più gli stessi né io, né il
mio babbino...
Non ha detto una sola parola.
È sparita un giorno in uno dei trasporti anonimi della Gestapo. Poco
tempo dopo ricevemmo la notizia che Giuseppe era morto in Polonia.
L i d a
Sono arrivato per la prima volta dai Baxa di sera.
In casa c'era Giuseppina, sola, con una creatura esile dagli occhi vivi e luccicanti,
che si chiamava Lida. Ancora una bambina, che continuamente scrutava con curiosità
la mia barba, contenta che con me fosse entrato in casa sua un elemento nuovo
e interessante con cui di tanto in tanto si sarebbe potuto parlare.
Rapidamente siamo diventati amici. Con stupore appresi che quella bambina aveva
quasi diciannove anni, che era sorella d'altro letto di Giuseppina, che si chiamava
Plachà, timida, benché avesse molto poco del suo nome, che era
attrice dilettante e che adorava il teatro.
Divenni il suo confidente. Da questo mi resi conto che nonostante tutto già
venivo considerato come un signore anziano; Lida mi confessò tutte le
sue pene e i suoi sogni di gìoventù, e ricorse al mio arbitrato
in caso di litigio, con la sorella o con il cognato. Perché era insofferente
come lo sono spesso le ragazze e viziata come gli ultimi nati.
Mi accompagnava quando uscì dalla casa, la prima volta dopo sei mesi,
per andare un poco a passeggio. Un signore anziano, zoppicante, dava meno nell'occhio
accompagnato dalla figlia che non da solo. Tutti preferiscono guardare la ragazza
e non si curano di lui. Per questa ragione Lida mi accompagnò anche nella
mia, seconda passeggiata. Poi è stata con me a un primo appuntamento
clandestino; per la stessa ragione è venuta insieme a me nel primo alloggio
clandestino: e così, come dice ora l'accusa, la cosa si è sviluppata
da sé; Lida è diventata il mio agente di collegamento.
Lo ha fatto volentieri. Non si curava troppo di sapere cosa significasse e a
che servisse. Era qualcosa di nuovo d'interessante, qualcosa che non tutti fanno,
e con un certo sapore di avventura. E questo le bastava.
Finché si trattava solo, di piccole faccende, non ho nemmeno voluto spiegarle
di più. In caso di arresto l'ignoranza sarebbe stata per lei miglior
protezione che non la coscienza della "colpevolezza".
Ma Lida prendeva familiarità con il lavoro. Lida, presto, seppe fare
più che un giretto fino dagli Jelinek, per portare loro un messaggio
qualsiasi. Doveva già sapere di che si trattava. Ho cominciato. Era una
scuola, una scuola in piena regola. E Lida imparava con zelo e con piacere.
A prima vista era sempre la stessa ragazza gaia, incoerente, anche un po' birichina,
ma nell'intimo, già era mutata. Pensava. Cresceva.
Nel corso d'un'azione fece la conoscenza di Mirko. Lui aveva già fatto
un lavoro importante, del quale sapeva parlare bene, e gli riuscì di
imporsi alla ragazza. Indubbiamente Lida non capì subito il fondo del
suo carattere, ma neppure io lo avevo capito. L'importante era che con il suo
lavoro, con la sua apparente convinzione che Mirko le fosse già più
vicino degli altri giovanotti.
La cosa germogliò rapidamente dentro di lei, e le radici si svilupparono
in profondità.
Al principio del 1942 cominciava a parlare con dei giri di parole della sua
adesione al partito. Non l'avevo mai vista cosi impacciata. Mai aveva preso
qualcosa così sul serio. Io ero ancora esitante. Continuavo a istruirla.
Continuavo ad esaminarla.
Nel febbraio 1942 la sua adesione al Partito veniva accettata direttamente dal
Comitato Centrale. Rincasammo, era una notte profonda e glaciale. Lida, di solito
piuttosto loquace, taceva. Finalmente, quando già eravamo in prossimità
della casa, di colpo si fermò, e a bassa voce, talmente a bassa voce
che avresti potuto udire il cigolio di ogni cristallo di neve, mi disse:
- So che è il giorno più importante della mia vita. A partire
da questo momento non appartengo più a me stessa. Prometto di non mancare
al mio dovere. Qualunque cosa accada.
Molte cose sono accadute. E lei non ha mancato.
Continuò, a tenere il collegamento "in alto". Ebbe i compiti
più pericolosi: ristabilire i collegamenti perduti e salvare quelli che
erano minacciati. Se una base era in pericolo, Lida ci andava, scivolando e
insinuandosi come un'anguilla. Lo faceva con i suoi modi di prima e con una
noncuranza sorridente al di sotto della quale il suo senso delle responsabilità
era già solidamente fissato.
La arrestarono un mese dopo il nostro arresto. Fu Mirek ad attirare l'attenzione
su di lei con le sue chiacchiere, e non fu difficile constatare che essa aveva
aiutato la sorella e il cognato a fuggire e a passare nell'illegalità.
Scrollando la testa essa recitò con molto temperamento la parte d'una
ragazza incosciente, che non ha la minima idea d'aver fatto qualcosa di proibito,
qualcosa che possa avere gravi conseguenze.
Sapeva molte cose, non ha detto nulla. E soprattutto non ha smesso di lavorare.
L'ambiente era cambiato, erano cambiati i metodi di lavoro, cambiati anche i
compiti. Ma per lei il dovere di membro del partito rimaneva immutato, il dovere
di non restare inattivo, qualunque sia il settore della lotta. Tutte le direttive
essa le ha adempiute con abnegazione, rapidamente e con precisione. Quando era
necessario uscire da una situazione imbrogliata per salvare qualcuno, Lida faceva
finta di nulla, prendeva su di sé la "colpevolezza" d'un altro.
Diventò la "responsabile di corridoio" alla prigione di Pankrac,
e diecine di persone che le sono completamente ignote non sono state arrestate
grazie al suo intervento. Un messaggio raccolto quasi un anno dopo ha messo
fine alla sua "carriera".
Ora Lida parte con noi per il tribunale del Reich. E' l'unica del nostro folto
gruppo che abbia fondate speranze di raggiungere la libertà. E' giovane.
Se noi non ci saremo più, non lasciate che si perda. Deve imparare ancora
molto. Insegnatele, non lasciatela intristire. E dirigetela. Non permettetele
di diventare orgogliosa e di accontentarsi di quello che ha fatto. Ha dato prova
di sé nei momenti più difficili, è passata attraverso il
fuoco e ha mostrato di avere una buona tempra.
Il mio Commissario.
Questo non fa più parte delle figure, tuttavia è
una figurina interessante, di calibro un po' superiore alle altre.
Dieci anni fa, se volevate, al Caffè Flora, a Vimohrady, battendo una
moneta sul marmo del tavolino, o gridando "Cameriere, conto", immediatamente
vi compariva accanto un tipo lungo e nero che nuotava fra le sedie, rapidamente
ma senza far rumore, come un verme acquatico. Aveva movimenti pieni di vivacità
e di dolcezza, e gli occhi penetranti d'un animale che vede dappertutto.
Non occorreva dire che cosa si desiderasse. Pensava lui a ordinare al cameriere:
"Al terzo tavolino, una birra bianca! - Alla finestra a sinistra, paste
e il giornale Lidové noviny! ". Era un buon capocameriere per i
clienti, e un buon collega per gli altri camerieri.
Ma a quell'epoca non lo conoscevo ancora; lo conobbi veramente molto più
tardi, in casa degli Jelinek, quando al posto della matita ebbe in mano una
rivoltella e mi designò:
- …quello mi interessa più di tutti.
A dire il vero ci siamo interessati reciprocamente l'uno all'altro. Aveva un'intelligenza
naturale ed un vantaggio sugli altri: il fiuto per scoprire la gente. Se fosse
stato della polizia criminale avrebbe avuto indubbiamente molto successo per
questa ragione, i ladruncoli o i piccoli assassini declassati e isolati probabilmente
non avrebbero esitato ad aprirgli il loro cuore, dato che si preoccupano solo
della propria pelle. Ma fra le unghie della polizia politica capitano pochissimi
di questi tipi "salvati a tutti i costi"; qui l'astuzia poliziesca
non deve misurarsi soltanto con quella della selvaggina catturata, deve misurarsi
con una forza molto più grande: con la convinzione e con la prudenza
del collettivo al cui il prigioniero appartiene. E contro di esse non bastano
né l'astuzia né le botte.
Ma nel "mio commissario" non era possibile trovare una convinzione
personale e solida. In lui come negli altri. E se per caso in uno di loro si
trovava una convinzione, era legata con la stupidità, non con l'intelligenza,
la conoscenza delle idee o delle persone.
Se nonostante tutto avevano successo, era in fondo perché la lotta dura
da molto tempo in uno spazio molto limitato, in condizioni senza confronto più
difficili di qualsiasi illegalità. I bolscevichi russi dicevano che è
un buon militante colui che dura due anni nell'illegalità, e tuttavia
se la terra scottava loro sotto i piedi a Mosca potevano sparire a Pietrogrado
e da Pietrogrado a ...Odessa, perdersi in grandi città di milioni di
abitanti dove nessuno li conosceva. Ma qui, tu avevi solo Praga; Praga, dove
la metà della gente ti conoscono e dove tutta una muta di provocatori
può essere concentrata.
Eppure abbiamo durato anni e anni, e ci sono malgrado tanti compagni che vivono
già il loro quinto anno di illegalità senza essere scoperti dalla
Gestapo. Questo perché abbiamo imparato già molte cose, ma anche
perché il nemico è potente e crudele, ma non sa fare niente altro
che distruggere.
Sono in tre, alla sezione II A I ad essere reputati fra i più duri distruttori
del comunismo, e a portare il nastro nero-bianco-rosso per il coraggio dimostrato
nella guerra contro il nemico interno: Friedrich, Zander, e "il mio commissario"
Giuseppe Böhm. Del nazionalsocialismo di Hitler parlano poco; non combattono
per una idea politica; combattono per sé. Ognuno a suo modo.
Zander, un ometto meschino, con la bile sempre in subbuglio; è forse
quello che la sa più lunga in fatto di metodi polizieschi, ma la sa anche
più lunga in fatto di operazioni finanziarie. E' stato spostato da Praga
a Berlino per qualche mese, ma ha insistito per tornare. Il servizio nella capitale
del Reich era per lui una degradazione - e una perdita finanziaria. Un impiegato
coloniale in Africa o a Praga, è un signore più potente, ed ha
migliori occasioni per mettere da parte denaro nelle casseforti delle banche.
È diligente, gli piace interrogare durante l'ora dei pasti per dimostrare
il suo zelo - ed ha un gran bisogno di dimostrarlo perché i superiori
non si accorgano che ai margini della sua attività ufficiale è
ancora più diligente. Disgraziato chi gli capita fra le mani, ma doppiamente
disgraziato chi ha anche in casa un libretto di risparmio o dei valori. Bisogna
che muoia entro il più breve tempo possibile, perché i libretti
di risparmio e i valori sono la passione di Zander. È considerato l'impiegato
più capace - in questo campo. Si distingue, in esso, dal suo aiutante
di campo e interprete cèco, Sola, che è un pirata gentiluomo:
lui risparmia la vita se riceve il denaro.
Friedrich - un tipo lungo magro e scuro di pelle, con gli occhi cattivi e il
sorriso malvagio. Era già arrivato in Cecoslovacchia nel 1937, in qualità
di spia della Gestapo per dare una mano a assassinare i compagni tedeschi emigrati.
Perché la sua grande passione sono i morti. Per lui non esistono innocenti.
Chi varca la soglia del suo ufficio è colpevole. Gli piace annunciare
alle mogli che il marito è morto in campo di concentramento o che è
stato giustiziato. Gli piace tirar fuori dal suo cassetto sette piccole urne
e mostrarle agli arrestati:
- Questi sette li ho colpiti a morte con le mie mani. Tu sarai l'ottavo.
(Ora sono già otto, perché ha ammazzato anche Giovanni Zizka).
Gli piace sfogliare vecchi incartamenti e ripetere soddisfatto sopra i morti:
"Sistemato. Sistemato!" E gli piace torturare, specialmente le donne.
Il suo amore per il lusso non è che un movente sussidiario della sua
attività poliziesca. Il fatto di possedere un appartamento elegante o
un negozio di tessuti non fa che affrettare la tua morte, ecco tutto.
Il suo aiutante di campo cèco, Nergr, è più basso di circa
un palmo. Ma a parte questo, fra loro non c'è nessuna differenza.
Böhm - il mio commissario - non ha passione per il denaro e nemmeno per
i morti, anche se ne ha un elenco lungo quanto quelli di Zander e di Friedrich.
Bohm è un avventuriero con il desiderio bruciante di diventare qualcuno.
Anche lui lavorava per la Gestapo da un pezzo. Era cameriere d'albergo nel salone
napoleonico ed era presente ai colloqui confidenziali di Beran (7). Quello che
Beran non disse lui stesso a Hitler, Böhm ha pensato a completarlo. Ma
questo che significava in confronto alla caccia all'uomo, al fatto di essere
padrone della loro vita e della loro morte, di poter decidere della sorte di
intere famiglie!
Perché Böhm fosse soddisfatto non era sempre indispensabile che
le cose andassero a finire in modo così triste. Ma se non riusciva a
mettersi in valore altrimenti, allora poteva andare anche peggio. Cosa contano,
infatti, la bellezza e la vita a paragone della gloria di un Erostrato? (8).
Böhm ha costruito da solo forse la più vasta rete di provocatori.
Un cacciatore con una grande muta di cani da caccia. E lui andava a caccia.
Spesso solo per il gusto di andare a caccia. Gli interrogatori, il più
delle volte, erano per lui una faccenda noiosa. La sua opera magistrale era
l'arresto. E poi, vedersi davanti le persone, in attesa della sua decisione.
Una volta ha arrestato duecento tranvieri di Praga, gli autisti e i bigliettai
degli autobus e dei filobus, dando loro la caccia sulle loro linee, fermando
il traffico e seminando il panico sulle vetture. Era cosi felice! Poi ne ha
rilasciati centocinquanta, contento del fatto che in centocinquanta famiglie
avrebbero parlato di lui come di un brav'uomo.
Aveva regolarmente gli affari che tiravano in lungo, ma nessun caso importante.
Me mi aveva acchiappato per caso, ero un'eccezione.
- Te, sei il mio caso più grosso - mi diceva spesso sinceramente, ed
era fiero che fossi classificato in generale fra i casi più importanti.
Proprio questo, forse, ha contribuito a prolungarmi la vita.
Ci siamo vicendevolmente mentiti con tutte le nostre forze, senza tregua, e
con calcolo. Io ne ero sempre consapevole, lui solo qualche volta. E quando
la menzogna diventava evidente, ci passavamo sopra, per una tacita intesa. Penso
che egli abbia insistito non tanto per scoprire la verità quanto per
evitare che una qualsiasi ombra venisse a oscurare "il suo grande caso".
Il bastone e il ferro non li ha considerati gli unici mezzi dell'interrogatorio.
Preferiva prenderti con la confidenza, e insistere, o minacciare a seconda dei
casi, secondo che apprezzasse o no il "suo" uomo. Non mi ha mai torturato,
salvo forse la prima notte, ma quando gli faceva comodo mi prestava agli altri
a questo scopo.
Decisamente era più interessante e più complicato di tutti gli
altri, aveva un'immaginazione più ricca e la sapeva utilizzare. Siamo
andati insieme ad un appuntamento inventato nel sobborgo di Brànik. Eravamo
lì, seduti in una bettola, guardando la gente che andava e veniva.
- Ti abbiamo arrestato, e guarda: è cambiato qualcosa? La gente cammina
come prima, ride e ha i propri grattacapi come li aveva prima, il mondo va avanti
come se tu non fossi mai esistito. Fra loro, di sicuro, ci sarà anche
qualcuno dei tuoi lettori - credi che per causa tua avranno una sola ruga di
più?
Un'altra volta, dopo un interrogatorio d'una giornata, mi ha messo in un'auto
e mi ha portato, attraverso l'imbrunire di Praga, a Hradcany, sopra via Neruda:
- So che ami Praga. Guarda bene. Davvero non vuoi mai più ritornarci?
Come è bella! E sarà bella anche quando tu non ci sarai più...
Recitava bene la parte del Tentatore. Già, in quella sera d'estate, si
respirava a Praga l'imminenza dell'autunno, la città era azzurrognola
e velata di vapori come l'uva che sta maturando, e inebriante come il vino;
avrei voluto guardare fino alla fine del mondo, ma l'ho interrotto:
- …e sarà anche più bella quando non ci sarete più
voi.
Ha fatto una risatina, senza cattiveria, con tristezza, piuttosto, e ha detto:
- Sei cinico.
In seguito è tornato più di una volta a quella sera:
- Quando non ci saremo più... Allora tu non credi ancora alla nostra
vittoria?
Lo ha chiesto, perché lui stesso non ci credeva più. Ed ha ascoltato
con attenzione quando gli ho parlato della forza e dell'invincibilità
dell'U.R.S.S. Del resto, era uno dei miei ultimi "interrogatori".
Intermezzo delle bretelle.
Alla porta della cella di fronte alla mia pendono delle bretelle.
Bretelle da uomo, delle più comuni. Un accessorio che non mi è
mai piaciuto. Ma ora le guardo con piacere ogni volta che qualcuno apre la porta
della nostra cella. Vedo in esse un brano di speranza.
Quando ti arrestano, ti picchiano per cosi dire a morte, ma prima ti prendono
la cravatta, la cintura o le bretelle perché tu non possa impiccarti
(sebbene ci si possa impiccare benissimo ad un lenzuolo). Questi strumenti pericolosi
restano quindi in cancelleria fino al momento in cui qualche anonima Parca della
Gestapo decide che devi essere spedito altrove, a lavorare in campo di concentramento,
o all'esecuzione. Allora ti convocano, ti riconsegnano con cerimoniosità
ufficiale cravatta e cintura, o bretelle, ma non hai il diritto di portartele
dentro la cella. Devi appenderle fuori, accanto alla porta, o sulla ringhiera
di fronte, e li penzolano finché non te ne vai, come il segno visibile
della partenza d'uno degli abitanti di quella cella per un viaggio involontario.
Le bretelle di faccia comparvero proprio il giorno in cui appresi la sorte destinata
a Gusta. Anche quel compagno andrà a lavorare con lo stesso convoglio
di Gusta. Ma il convoglio non è ancora partito. È stato improvvisamente
rimandato, perché, pare, il luogo previsto per il lavoro è stato
distrutto dai bombardamenti (altra bella prospettiva). Nessuno sa quando partirà
il convoglio. Forse stasera, forse domani, forse tra una settimana, forse tra
quindici giorni. Le bretelle di faccia penzolano ancora, ed io so quando le
vedo che Gusta è ancora a Praga. Le guardo allora con gioia, con amore,
come qualcuno che aiuta la mia compagna. Gusta guadagna una giornata, due tre...chissà,
forse questa giornata può essere quella che la salverà.
Tutti, qui, viviamo in questo stato. Oggi, un mese fa, un anno fa, sempre e
solo rivolti verso l'indomani a cui è fissa la nostra speranza. La tua
sorte è decisa, dopodomani sarai fucilato - ah, ma tuttavia, chissà
cosa può accadere domani! Giungere ancora solo fino a domani, domani
tutto può mutare, tutto è così instabile! Chissà
cosa può accadere domani? E l'indomani passa, migliaia di noi cadono,
per migliaia di noi non c'è più altro giorno, ma i vivi continuano
a vivere con speranza immutabile; domani, chissà, chissà cosa
può accadere domani.
Da questa attesa germogliano le storie più fantastiche.
Ogni settimana si accendeva una data rosea della fine della guerra, e ognuno
la raccoglieva a bocca aperta, di orecchio in orecchio; ogni settimana la prigione
di Pankrac sussurrò una notizia sensazionale, tanto gradevole a credere.
False speranze che non rafforzano, ma indeboliscono i caratteri; l'ottimismo
non dev'essere alimentato dalla menzogna, ma dalla verità, dalla visione
chiara della vittoria incontestabile. L'essenziale è d'essere certi nel
proprio intimo che quel giorno può essere il giorno decisivo, e che la
giornata che guadagnerai ti trasporterà forse al di sopra della frontiera
che separa la vita che non vuoi abbandonare dalla morte che ti minaccia.
Sono così pochi i giorni della vita di un uomo! Eppure, qui, tu desideri
che passino in fretta, più in fretta, quanto più in fretta possibile.
Il tempo che passa, il tempo impercettibile, che ti dissangua continuamente,
qui è tuo amico. Che cosa buffa! Domani diventa ieri. Dopodomani oggi.
Un altro giorno è passato.
Le bretelle accanto alla porta di faccia penzolano ancora.