Biblioteca Multimediale Marxista
Un carcerato piccolissimo raccolse il topo con un pezzo di
giornale e lo irrorò di canfora. Asuncio si sistemò la cappa scuotendosi
come un cane bagnato e apri il suo libro di orazioni: con voce tremante cominciò
a leggere lentamente, pausando perché gli altri. potessero rispondergli;
poi incensò il luogo dove il carceriere era caduto e alla fine - quando
già Josefo sperava che se ne andasse - si avvicinò ancor più
alla porta della cella, cavò dalla tasca della sottana un enorme libro
dalle pagine ceree come la pelle di un morto e per mezz'ora lesse le orazioni
dell'esorcismo chiedendo agli spiriti maligni di uscire, di abbandonare la cella
e il corpo dei due atei su cui gettò la scomunica con mille maledizioni:
che andassero all'inferno, che venissero folgorati da una pioggia di fulmini
e scintille, che venissero colpiti dalla peste e da mille piaghe, che la cecità
bruciasse loro gli occhi: a ogni invettiva i carcerati intonavano monotonamente
un orapronobis, come rispondessero alle litanie. Poi, con movimenti torpidi
e insieme furiosi, prese a incensare da tutte le parti la porta della cella
su cui tracciò anche una grande croce con la cenere, girò in lungo,
in largo, in cerchio, finché si chinò e conficcò un cero
acceso proprio accanto allo stipite. Josefo ne osservava con attenzione i movimenti,
preoccupato per Sietevidas che già gli aveva chiesto se per caso non
stessero sotterrandoli vivi, e anche perché si rendeva conto che, dopo
la ridicola funzione, carcerieri e carcerati si sarebbero avvicinati tranquillamente
alla cella, nella convinzione d'essere ormai immuni dalle influenze del demonio,
animati per di più da spirito di crociata e persuasi d'ottenere da dio
il perdono d'ogni loro peccato se avessero in qualche modo agito contro i due
atei criminali.
Non sbagliava. Qualche ora dopo, mentre ancora cercava di convincere Sietevidas
che nessuno pensava a preparare i loro funerali, udì dietro alla porta
voci insultanti, grugniti, mentre nella cella penetrava un soffocante odore
di merda. Con circospezione accostò gli occhi alla fessura: i carcerati
erano agitatissimi, raccolti in pochi metri e, a turno, andavano a cagare presso
l'uscio, vicino al cero. Le loro voci, il loro atteggiamento, erano un canto
di morte. Li guardò con tristezza: ecco il capo dei lleristi, minuscolo,
con occhi di topo e faccia da contadino; e il capo degli ospinisti con faccia
di contadino come il suo nemico giurato, ma muscoloso e con lo sguardo altero.
Uno accanto all'altro parlottavano come compari e si passavano giornali arrotolati
che indubbiamente nascondevano i coltelli. Via via che le ingiurie, i viva Cristo,
i viva il papa e la chiesa crescevano d'intensità e si trasformavano
in ruggiti, via via che quelli che cagavano cominciavano a scommettere su chi
cagasse di più, Josefo si sentiva invadere da un sentimento sconosciuto:
e riconobbe gli oscuri morsi della paura. «Ho avuto compassione per molti
di loro», pensò, «ma adesso, coglioni, il primo che mi capita
tra le mani lo faccio a pezzi».
Sietevidas continuava a mormorare tra sé e a sudare. «Se non ti
calmi morirai davvero», disse Josefo. «Le cose si mettono male e
dobbiamo prepararci a ballare. E stavolta sarà un ballo duro, te lo garantisco».
«Se è guerra, è guerra» rispose Sietevidas con voce
tanto serena e sensata da non sembrare la sua.
Cominciarono con lo spaccare la pentola in pezzi che misero poi uno sull'altro
fino a formare una specie di pacchetto. Se lo divisero: poi, seduto ciascuno
in un angolo, si misero a soffregare la propria parte contro il muro per darle
forma e filo di coltello. Qualche ora dopo avevano ciascuno un'arma, affilata
come un rasoio.
«E' un'arte che si impara soltanto qui dentro», disse Josefo soddisfatto
passandosi l'arma sulla mano con la maestria di un barbiere. Raccolto il manico
della pentola ripeté pazientemente l'operazione: alla fine, aveva tra
le mani una specie d'ago gigantesco che infilò con cura nei pantaloni.
«Non si vede», lo rassicurò Sietevidas.
Osservando con attenzione la porta, spingendola in avanti e tirandola, Josefo
scoprì ch'era ormai una ben fragile barriera e che i carcerieri - certo
obbedendo agli ordini di Elisandro o di Cien Puertas - ne avevano tolto le chiavi
per permettere così agli altri di entrare, se volevano, e ammazzarlo.
«Capacissimi», disse, «ma sono vigliacchi; per metterli fuori
combattimento basta far loro credere d'essere i più forti. Questa sera
tenterò una sortita».
Le luci del padiglione furono, come ogni sera, smorzate a mezzo.
E, in quella luce giallastra e spettrale gran parte dei carcerati entrarono
nelle celle: fuori, rimasero quattordici guardiani, alcuni lleristi e alcuni
ospinisti - i capoccia dei rispettivi gruppi - e buona parte dei delinquenti
«puri»: quelli che avevano ammazzato, stuprato, saccheggiato, rubato
senza nessuna giustificazione politica o ideologica. I loro corpi seminudi,
i loro volti, ondeggiavano e sparivano nell'ombra come in un gioco di specchi
antichi.
Josefo aveva deciso di giocare il tutto per tutto. Si assestò i pantaloni
e sospinta abilmente la porta sgusciò fuori, raccolse il mezzo cero che
ancora ardeva, scavalcò la brulicante nube di insetti che sovrastava
il cumulo di merda e con passo fluido e il volto atteggiato a ferocia si avvicinò
al gruppo che circondava il capo dei lleristi. Nessuno se ne accorse. Il capo
aveva petto, mani e gambe tatuati con il ritratto di Napoleon Lleras, portava
al collo un grande Cristo rosso; accanto a lui c'era il capo degli ospinisti,
petto, mani e gambe tatuati con il ritratto di Ospina; dal suo collo pendeva
un grande Cristo azzurro.
Improvvisamente, dal vuoto oscuro dietro le loro spalle, apparve Josefo, eretto
e scalzo: nella sua mano brillava il coltello affilato e lunghissimo. Non ebbero
il tempo di reagire. Josefo era già,al centro del gruppo, con il cero
in una mano, il coltello minaccioso nell'altra, il volto duro, la voce decisa
e quasi dolce:
«Duecento pesos a chi mi procura due pistole con cento pallottole».
Gli splendevano i denti nella luce gialla delle lampadine: lo guardarono con
occhi inanimati.
«Duecento pesos a lavoro finito» ripeté «conto su di
voi». E si allontanò leggero com'era giunto, ombra nella penombra
che avvolgeva il padiglione. Era quasi sulla soglia della cella e pensava d'avercela
fatta quando udì gli inconfondibili passi degli stivali militari: se
li sentì sul cuore, gli camminavano addosso togliendogli il fiato e cominciò
a sudare, un sudorino freddo che gli imperlava la fronte e gli scendeva giù,
lungo la schiena con un brivido fastidioso. Ma non si fermò: si girò
soltanto, per vedere quel che accadeva e far fronte al pericolo. Erano tre individui
che gli parve di riconoscere. Vestivano abiti civili, avevano i capelli corti,
camicie azzurre e pantaloni rossi, il volto senza età bruciato dal sole,
gli occhi alteri e sicuri di chi ha lunga consuetudine con violenza e impunità.
Li accompagnava Elisandro che all'altezza della cella collettiva puntò
un dito verso quella di Josefo prima di dirigersi al gruppo dei condannati nel
quale si trovavano i due capi delle fazioni ospinista e llerista. Nel breve
istante durante il quale si fermarono, a parlottare, Josefo percorse gli ultimi
metri che lo separavano dalla cella, entrò e richiuse la porta. Vi si
appoggiò con un lungo respiro: «Vengono» disse rispondendo
all'occhiata di Juan Sietevidas, appena interrogativa.
Juan balzò in piedi, pallido e scarno; consumato dall'ansia e dalla febbre.
«Sì», continuò Josefo, «prepariamoci»
e gli tese il coltello, impugnò saldamente il lungo ago e s'addossò
al muro, i muscoli pronti, i sensi all'erta. Fuori il silenzio era perfetto.
I passi pesanti, rimbombanti come pietre lasciate cadere dall'alto, si erano
fermati, come il bisbigliare dei carcerati, come ogni altro suono, in un'atmosfera
fredda d'attesa. Josefo non poteva, ora, mettere l'occhio alla fessura: ma non
ne aveva bisogno. Quella scena, la conosceva bene: la immaginava in ogni attimo
e ogni particolare. I due che - pistola in pugno - s'accostavano anch'essi al
muro dall'altro lato della porta, i muscoli pronti, i sensi all'erta; e il terzo
che, invece, si piazzava davanti alla porta, pistola in pugno, e alzava il ginocchio
destro e si preparava e poi - come in tutte le perquisizioni, come in tutti
i sequestri - di slancio, con un calcio abbatteva la fragile barriera di legno
e si presentava improvviso, come un'apparizione feroce gridando altissimo il
nome delle vittime:
«Josefo» gridò.
«Che cosa vuoi» disse Josefo con voce stranamente tranquilla.
«Non muoverti se non vuoi che ti riempia di piombo». Nell'aria c'era
l'odore penetrante e indefinibile dei poliziotti del Magdalena medio. Dritto
sulla soglia, l'uomo ordinò ai due di uscire: mani in alto, nudi.
«Se ci vuoi, devi tirarci fuori», rispose Josefo con la sua voce
tranquilla, quasi lontana e che non gli somigliava. Juan lo guardava dal suo
angelo con infantili occhi spiritati. Si sentivano, nell'ombra, i passi strascicati
degli altri detenuti che s'avvicinavano lentamente, inesorabilmente, come a
godersi quell'attimo di violenza sospesa, con sguardi di feroce allegria, il
preludio all'orgia, alla violenza carnale collettiva su una preda ormai facile.
«Ti conviene uscire», disse l'uomo con un ghigno incerto e indietreggiò
di un passo. Ma era una finta.
Perché si slanciò nella cella all'improvviso, falciandola con
i lampi di una lanterna che qualcuno doveva avergli allungato secondo gli accordi
e sparando in aria, alla disperata, mentre fuori scoppiavano grida di incitamento
che crescevano come in un orribile orgasmo.
Sietevidas s'era gettato a terra mentre Josefo, conscio che lasciarsi cogliere
significava la fine, s'appiattiva ancor più contro il muro nell'attesa
e nella speranza che l'uomo gli giungesse a portata di mano. Se lo trovò
di fronte, infatti, gli occhi all'altezza degli occhi, e gli si avventò
al collo infilzandogli, nello stesso tempo, con una gioia rabbiosa e esplosiva,
il lungo ago nel basso ventre. Era sicuro che, non appena lo avessero visto
cadere, fuori tutti sarebbero scappati. E scapparono.
«Lo aveva detto che era armato» gridò disperato il capo dei
lleristi. E gli altri due che, con il beneplacito di Builes, Vallejo, Napoleon
Lleras e la moglie di Ospina, erano stati assoldati proprio per farla finita
con Josefo vuotarono il caricatore delle pistole in aria, ma si diedero subito
dopo alla fuga, come tutti, lasciando il morto bocconi, tra la merda. Ecco,
pensava Sietevidas da dove veniva quell'orribile odore che lo soffocava: dalla
merda, da quel cadavere, dallo spirito della galera, una cosa sola, identificabile,
dalla quale non si poteva sfuggire nascondendosi nel tunnel della febbre: ora,
quel coltello tra le mani gli dava forza, come la presenza invisibile di Josefo.
Stavano immobili. Qualcuno doveva pur venire a raccogliere il morto. Josefo
sapeva che l'ago sottile non produceva sangue penetrando nelle viscere molli;
ma sapeva anche che l'odio intorno a lui sarebbe cresciuto: odio di carcerati
e odio di carcerieri i quali, tutti, avrebbero pensato che, ancora una volta,
egli s'era servito, per uccidere, dei propri poteri di demonio.
Vennero in quattro vestiti di bianco e inguantati, con il cappello nero dalle
grandi ali di corvo - condannati ricchi trasformatisi in becchini per senso
di carità, dicevano - e con loro Elisandro, un ufficiale
armato e due carcerati poveri che portavano il lenzuolo. «Non entro»,
disse Elisandro, «per meglio coprirvi le spalle»: e puntò
la pistola verso la porta della cella, da dove Josefo lo osservava con il suo
spillone in mano ripetendosi che non sarebbe successo nulla, che tutto rientrava
nell'operazione consueta di ricuperare il cadavere. I due condannati si avvicinarono
combattuti tra la ripugnanza e la voglia di scappare: poi distesero il lenzuolo,
raccolsero e vi deposero il morto e tornarono rapidi sui loro passi.
«Uno di meno» disse Josefo. «Adesso, forse, è il momento
di tentare». I condannati erano stati rinchiusi nelle celle, i guardiani
di turno - seduti sulle panche con i fucili tra le mani - ciondolavano il capo
per la fatica e il sonno, l'alba era ancora lontana e, con l'alba, il momento
in cui Elisandro si sarebbe riaffacciato alla porta del padiglione, seguito
da una schiera d'armati e deciso a impadronirsi dei due prigionieri - indemoniati
o no - per fargliela pagare. Strisciando fuori dalla cella, si insinuarono nel
padiglione vuoto il cui silenzio era rotto soltanto dal penoso russare delle
guardie; si soffermarono a prender fiato, eccitati e nervosi, dietro la grande
colonna centrale. Li raggiunse imperiosa la voce di Elisandro che, dall'alto
della finestrella calava il pentolino nella cella da cui erano appéna
fuggiti.
«Fregati», mormorò Sietevidas mentre colpi di pistola scoppiavano
a dare l'allarme, i guardiani si destavano di soprassalto e premevano il dito
sul grilletto, la porta del padiglione si spalancava con violenza per lasciar
passare l'infuriato Cien Puertas seguito da trenta uomini armati di carabina
e con il coltello tra i denti.
«A terra e dormi» ebbe il tempo di suggerire Josefo. Al suolo, a
corpo morto, chiusero gli occhi fingendo l'innocenza del sonno. Inutilmente.
«Una settimana di catene per questa pagliacciata» ordinò
Cien Puertas prendendoli a calci. Si sentirono circondare, afferrare, trascinare
lungo la scala ripida e stretta. Quando furono in grado di reagire, erano già
al primo piano, in una grande cella che s'affacciava al salone in cui era avvenuta
l'inaugurazione del mondo e nella quale troneggiavano due lunghe inferriate
parallele, alte tre metri; a ciascuna sbarra, con una grossa catena, era legato
un condannato, costretto a reggersi sulle punte dei piedi per non rimanere appeso.
Josefo si guardò intorno sconfortato. Di nuovo la tortura. Tentò
di pensare che qualcosa doveva pur succedere; che - fuori - Manuel Matusalem
stava certo preparando un piano per scuotere il paese e restituirgli la libertà;
che la paura si vince; che il dolore non esiste; che i torturatori non sono
i più forti. Ma, come Juan Sietevidas, guardava inorridito le sbarre,
le catene, i corpi dei condannati appesi come vermi moribondi, e quel vuoto
di solitudine e di dolore; ascoltava orribili gemiti, vedeva rivoli di sangue
lucido e argentato scorrere dalle ferite aperte, corpi scavati, scarniti, ossa
foderate di pelle.
Vennero afferrati alle spalle, appesi alle catene senza poter guardare in faccia
i loro torturatori. Non gridarono né si mossero, mentre, dall'altra parte
dell'inferriata sfilavano davanti a loro carcerati dall'aria tranquilla, il
volto rasato, i denti lucidi in un sorrisetto soddisfatto e un lieve sarcasmo
nello sguardo. Erano i ricchi, portati lì a constatare l'impotenza cui
ormai erano ridotti i più acerrimi nemici della patria, del regime e
della proprietà: e che certo avrebbero fatto correre la voce per tutto
il paese sussurrando ad amici e consanguinei in visita che nulla ormai dovevano
temere e potevano proclamare quel giorno di festa, e organizzare sontuosi banchetti
ed esporre ai balconi dei palazzi bandiere rosse azzurre che s'abbracciassero
alte nel vento perché l'incubo era finito. Josefo e Sietevidas si sentivano
addosso quegli sguardi e quei pensieri che bruciavano più della tortura.
Con dolore e fatica, torsero i polsi negli anelli, fino a girarsi di spalle.
Appesi uno accanto all'altro, a mezzo metro appena, avrebbero potuto parlare,
ma non osavano: quasi per proteggere un loro impossibile anonimato ora che,
vittime offerte, erano in balia di chiunque volesse - e avrebbe potuto - ucciderli.
Nei giorni della tortura della catena il cibo era vietato e il controllo minimo.
Secondo le considerazioni di Cien Puertas ai detenuti così incatenati
mancava la forza. anche di muovere un dito: il normale picchetto di guardia
nel corridoio tra la cella e il salone era più che sufficiente a garantire
l'ordine assoluto. Del resto, c'erano gli altri carcerati: quelli cui era concesso
passeggiare al di là dell'inferriata, uomini di fiducia la cui sola presenza
bastava a infondere nei torturati il gelo e il panico.
Quella notte, quando tacquero le voci di minaccia e di ingiuria, josefo mormorò:
«Gli voltiamo le spalle ma non basta. Dobbiamo essere il più possibile
uguali agli altri, non ci debbono identificare». E, poiché la maggior
parte degli altri erano nudi, suggerì a Sietevidas di sbarazzarsi dei
pantaloni: bisognava confondersi, sparire. Con uno sforzo disperato sollevarono
i pantaloni ampissimi a portata delle mani e disfecero il nodo del cordone con
il quale li avevano legati: gli indumenti caddero al suolo e Josefo s'accorse
che potevano servire loro d'appoggio: pochi centimetri, ma sufficienti per permettere
loro di riposare, in qualche modo. Per cinque giorni nessuno aprì la
porta della cella: lontano, al di là delle mura, Josefo sentiva voci
di donne, pianti fragili, lamenti. «E' la febbre, sono allucinazioni»
si disse.
Sietevidas moriva di sete, lo trafiggevano i gemiti dei compagni di sventura
che invocavano dio e la madre tra singhiozzo e singhiozzo. Il più forte
- non piangeva, non pregava, non bestemmiava neppure - pareva essere un giovane
dai capelli crespi e gli occhi di carbone: come josefo ascoltava i lamenti delle
donne perduto in un suo assorto stupore, ma di colpo si mise a gridare freneticamente
maledicendo se stesso e il mondo: perché aveva quindici anni quand'era
entrato tra quelle mura dannate e giovinezza e timidezza gli avevano fino ad
allora impedito di conoscere una donna e ora inutilmente cercava di costruirsene
dentro un ricordo da carezzare con ansiose mani immaginarie; perché non
aveva ricordi ma soltanto desideri e rimpianti, una pena dolorosa e bruciante
più della stretta delle manette intorno ai polsi. Sietevidas gli era
accanto e si sentiva spezzare il cuore: per lui, per se stesso, per Josefo che,
alla sua destra sembrava lottare contro il dolore, la stanchezza, le allucinazioni,
mormorando parole incoerenti; per tutti gli altri incatenati così simili
tra loro, che - le braccia tese verso l'alto, il peso del corpo sulle punte
dei piedi - imploravano pietà, chiedevano aiuto.
Di colpo si spalancò la porta e uno scalpiccio di passi e voci sussurranti
riempirono la cella; una voce sola virile e autoritaria disse poi forte: «ecco,
quello», e si sentì il correre pesante di un uomo grasso, il gorgogliare
di un liquido versato: poi una specie di esplosione, una fiammata, uno straziante
grido di dolore e un fuggi fuggi generale. Accanto a Sietevidas, il ragazzo
ardeva come una torcia, in una fiammata perversa che impregnava l'aria di un
odore acre e ripugnante; il suo corpo spasimava contro le sbarre; le sue grida
si contorcevano in suoni disarticolati, scomposti, fragili: finché tacquero
e il ragazzo rimase immobile, come una specie di arbusto rinsecchito raccolto
su se stesso, in perfetto equilibrio fra le catene, la testa rovesciata, la
bocca aperta, le gambe rattrappite.
Josefo s'era svegliato dal proprio incubo per ricadere in un incubo più
orrendo. Piangeva e rideva insieme: di disperazione e di dolore, e di gioia
per essere scampato a una fine tanto orribile: perché non ci poteva esser
dubbio che quel rogo fosse stato preparato per lui e che soltanto il caso gli
aveva fatto salva la vita: e più che il caso, la condizione miserevole
che accomunava i torturati marcandoli con gli stessi segni di avvilimento e
di sofferenza, rendendoli simili tra loro in una terribile fratellanza. Quasi
timoroso guardò Sietevidas che, ustionato, volgeva il capo per non vedere
il morto, mentre gli altri detenuti continuavano a urlare come cani terrorizzati
finché uno di loro si mise a pregare a voce alta e allora le grida precipitarono
in un lamentoso coro di invocazioni a tutti i santi e di patimento.
Il cadavere del ragazzo sembrava rimpicciolirsi, rattrappirsi; i suoi occhi
vuoti si spalancavano nel vuoto: Josefo reclinò la testa contro le sbarre
e si abbandonò esausto, incurante delle manette che gli segnavano i polsi,
a un feroce sogno di vendetta. Fuori, al di là della porta, s'alzavano
voci di festa, risate di donne e di uomini, l'esplodere di cori sguaiati, un
tintinnare di bottiglie e di bicchieri, brindisi, evviva. Quando di nuovo si
spalancò la porta, il baccano fu come un'ondata. Un -carceriere - di
cui né Josefo né Sietevidas, il capo stretto fra le braccia, riuscirono
a scorgere il volto - s'avvicinò al corpo carbonizzato, sganciò
le catene delle sbarre e lo trascinò via: sul pavimento correva una striscia
di fuliggine nera.
«Ci sei rimasto finalmente, figlio di puttana»: nella voce di Cien
Puertas risuonava un accento di crudele trionfo: «e con te è finita
la tua famiglia e la tua banda ha perduto il suo eroe».
Scattò l'otturatore di una carabina.
«Non vale la pena sparargli» disse un'altra voce con l'allegria
di, chi si è tolta un gran peso.
Gli incatenati aspettavano: quella notte si sarebbe chiuso,
per loro, il periodo ricorrente della tortura: sarebbero stati sciolti, avrebbero
ricevuto una porzione di carne e di brodo, sarebbero stati ricondotti alle celle
e altri .avrebbero preso il loro posto. Ma la povera certezza d'essere restituiti
alla normale vita del carcere era ora rosa dal dubbio, incrinata dal ricordo
del ragazzo arso vivo come un segno che ormai neppure le regole stabilite costituivano
un punto fermo cui ancorarsi per prefigurarsi un pur triste futuro: e che tutto
era invece aperto al gioco dell'improvvisazione più spietata.
Quando le chiavi aprirono le manette, i torturati caddero al suolo come foglie,
incapaci di rialzarsi secondo gli ordini dei carcerieri che distribuivano a
caso, nella penombra, calci e colpi.
«Sietevidas, dove sei» tuonava la voce di Cien Puertas, «tra
poco verrà il tuo turno e potrai ritrovare il tuo amico: ma all'inferno».
'
Sietevidas non diede segno d'intesa. Come Josefo, confuso tra gli altri, si
preoccupava soltanto di non essere identificato. Il momento venne dopo le tre
ore concesse ai detenuti per ripulirsi alla meglio e riposare. Scortati, i detenuti
presero a salire le scale che portavano al piano superiore: in fila, silenziosi,
preceduti da Elisandro con la lanterna in mano, dietro al quale venivano - come
in un doveroso ordine di cerimoniale - coloro che avevano trascorso il maggior
tempo in catene. Prima di varcare la porticina, Josefo tossì deliberatamente,
insistentemente, in un suo modo caratteristico. I carcerieri non lo avvertirono,
lontani da ogni sospetto. La seconda volta - e già la colonna era entrata
in un ampio padiglione dove, tra le ombre, si intravedevano sagome di donne
- non ebbero il tempo di reagire: dapprima, nell'ondeggiante chiarore della
lanterna scorsero i lineamenti alteri di Josefo nebulosi come in una allucinazione,
poi anche il corpo emerse dall'ombra e avanzò quasi fluttuando. Il fantasma,
pensarono. E il terrore li raggelò.
Le donne non capivano che cosa stesse succedendo. Vedevano Josefo per la prima
volta: erano prostitute di ogni età, bambine di dieci anni senza traccia
di seno ma capelli tirati e cotonati, bocca dipinta e occhi esperti; vecchie
dalle braccia bianchicce e molli, che la polizia raccoglieva nelle strade e
nei postriboli per farne commercio in carcere tra i detenuti ricchi. Guardavano
Josefo con occhi stupiti e timorosi e si fecero da parte, indietreggiando, quando
un carceriere - per reagire all'incubo - mosse lentamente la mano verso il cinturone,
in cerca della pistola. Non ne ebbe il tempo: Josefo gli piombò addosso,
lo afferrò per la camicia e lo scaraventò lontano, come una paglia:
«Chi vuole ammazzarmi, lo faccia. Ma adesso», disse con voce tanto
ferma che nessuno osò un gesto; affascinati lo guardavano, potente e
indifeso, polsi e spalle piagati. Una ragazza dagli occhi gialli gli si inginocchiò
davanti mentre Cien Puertas e Elisandro annaspavano nella loro impotenza. Josefo
fece un cenno con il capo, ma in realtà non ne aveva bisogno: gia Sietevidas
gli si era affiancato di un balzo e insieme guadagnarono i gradini della scala
che s'apriva dietro a un archetto e scomparvero nel buio lasciando i carcerieri
paralizzati e le prostitute perdute in una solitudine imprevedibile, in un silenzioso
rimorso corrosivo. Per la festa cui s'erano abbandonate la notte precedente
nel celebrare la sua morte, celebrando così anche la propria vergogna
che negava ora loro anche quei diritti che s'erano guadagnate vendendo il corpo
per necessità, abitudine o piacere, che le soffocava, che le trascinava
in un dissennato odio contro se stesse e contro i carcerieri. E l'odio scoppiò
come una mareggiata improvvisa nell'identico e unico linguaggio noto ai carcerieri,
nelle forme che essi usavano contro le loro vittime, con quella spasimante volontà
di vendetta che nasce dalla scoperta del tradimento. Una delle più vecchie
cavò un rasoio dal proprio seno universale e lo passò selvaggiamente
sulla faccia di quello che aveva tentato di estrarre la pistola e le altre,
con una torva furia che cancellava ogni esitazione e timore, si avventarono
contro Cien Puertas, contro Elisandro, contro custodi, guardie e carcerieri.
La notizia del fallito attentato contro Josefo percorse come
un vento il carcere gonfiandosi via via e gonfiando la leggenda d'un eroismo
invincibile anche nella disgrazia, di un potere contro il quale a nulla valevano
le catene, le pallottole, i fucili. Lleristi e ospinisti che stavano brindando
alla morte di Josefo con alcool a novanta gradi, l'accolsero con un brivido
che si raggelò loro addosso quando, da dietro i pilastri del padiglione,
emerse josefo in persona: passò dritto tra loro, con ostentazione ignorandoli,
e si diresse verso la cella da dove lo avevano tolto per portarlo alla morte.
«E se vi disturbo troppo» gridò all'improvviso, «cercate
di fare qualcosa»; poi, girandosi a mezzo, acchiappò con mano ferma
un detenuto nano che s'era nascosto dietro uno sgabello e gli ordinò
di nettare la merda. Il nano obbedì: in un batter d'occhio, con le mani,
raccolse tutto per correre poi, volonteroso, a prendere la scopa e il barattolo
di canfora.
«Non trattate così un nano!» esplose eccitato dall'alcool
il capo dei lleristi. Rianimati, i suoi uomini gli si accodarono, coltelli alla
mano.
Raccolta la sfida, Josefo uscì dalla cella, le mani sulle anche, guardandoli
con tutta la rabbia e il disprezzo di cui era capace. Non si fermarono: anzi.
Presero a volteggiare nell'aria i coltelli lucenti mentre, dietro a loro, altri
detenuti gridavano che sì, era ora di fare quello che non erano riusciti
a fare i carcerieri: e quella notte stessa, a costo di farla finita anche con
il mondo. Erano più di cento, ormai, gli occhi annebbiati da un odio
che saliva loro dalle viscere. Josefo, infilandosi una mano nella cintura, gridò
che se avessero osato avanzare d'un passo li avrebbe sterminati. Continuarono,
enfatici e decisi, saltellando dietro ai loro capi e pronti a un eccitante corpo
a corpo. Josefo infilò anche l'altra mano nella cintura, proprio mentre
una muta di altri detenuti si precipitava nel padiglione gridando: «Fermi,
fermi, attenti! Ha due pistole, ha due pistole!» Finì in una fuga
generale, imitata anche dai tre carcerieri che, nascosti dietro una colonna,
aspettavano che i detenuti giocassero la loro ultima carta.
Josefo rientrò nella cella ridendo. Più tardi calò dall'alto
una gavetta con del brodo e un chilo di pane. «Quando ce la filiamo»,
chiese Sietevidas mangiando.
«Presto. Ormai questa gente ha un terrore boia di me».
Erano morti di stanchezza. Sietevidas si allungò sul pavimento e si mise
a dormire incurante degli insetti che gli si infilavano sotto gli abiti cenciosi.
Seduto e poggiato contro il muro, josefo pensava. Ai suoi lunghi anni di galera,
ai giorni senza colore rotti soltanto da una effimera fuga o da una sanguinosa
tortura. A quello che aveva immaginato e costruito durante i suoi combattimenti
solitari; vedeva crepuscoli e albe, e arcobaleni ridenti nell'odore muschioso
della selva, e compagni e amici caduti, e gesti e volti, la cui successione
aveva fatto la sua vita, offuscati ormai, perché il tempo, la solitudine
e la prigionia avevano assassinato anche le immagini. E poteva soltanto sperare
che i compagni, quelli rimasti, non fossero caduti nell'inganno delle elezioni,
perché dal giorno in cui aveva oltrepassato l'oscuro cancello del penitenziario
il mondo si era fatto muto alle sue spalle e non gliene era più giunto
neppure un segno. Infine, gli occhi gli si confusero con le ombre, finché
cadde nella profondità del sonno.
Per tre giorni nessuno si affacciò alla porta della cella. E i due ne
approfittarono per curarsi le ferite come potevano, staccandone il putridume
con la lama del coltello, lavandole con saliva e orina, strappando i vermicelli
delle croste con il grosso ago e con la pazienza e la maestria con le quali
le vecchie liberano dai pidocchi i nipoti. In questo, Sietevidas era maestro:
i pidocchi erano stati, per lui, la piaga di famiglia e a furia di vedere come
sua madre dava loro la caccia sulle teste dei suoi fratelli e di sentire le
unghie di sua nonna sulla propria testa, aveva imparato tutti i trucchi per
catturarli.
«Non illuderti che ci lascino in pace», disse josefo. «No.
Ma per il momento stiamo vincendo», rispose Sietevidas.
Una sera si accesero tutte le luci del padiglione e alle otto
- dopo la distribuzione del solito pasto - quaranta donne sfilarono dalla soglia:
nere e bianche, giovani e vecchie, con cortissime gonne di lino o di velluto
e, molte, con la pelle macchiata dai segni del vaiolo. Si guardavano intorno
con occhi inquieti, camminavano incerte e sospinte da un manipolo di carcerieri
che, pungolandole con la canna dei fucili, le fecero avanzare fino al centro,
alla fila delle panche. Sedute ciascuna con la sua bottiglia di liquore e il
pacchetto di sigarette ricevuto all'ingresso, si stringevano le une alle altre
mormorando qualcosa a fior di labbra mentre i carcerieri facevano uscire a uno
a uno i condannati dalla cella collettiva. Quelli ricchi, beninteso, o almeno
ricchi abbastanza da pagarsi una donna per la notte.
«Chi ha la libertà», chiedevano. E chi aveva la libertà
del denaro faceva un passo in avanti, già nudo e, sotto gli occhi sornioni
delle guardie, passava in rassegna le donne, sceglieva quella che meglio gli
accendeva sensi e fantasia, la additava. Poche ebbero la ventura di non passare
per le mani dei carcerati: una pertica con i capelli rossi con una gonna di
cotone sformata che le arrivava quasi a mezza gamba, il corpo piatto e senza
seno; e tre butterate e incinte, da cui emanava l'odore penetrante di chi ignora
l'esistenza del sapone. Stavano insieme, le quattro, aggrondate; non bevevano
e non fumavano, estranee allo spettacolo dei corpi nudi e eccitati, indifesi
e flaccidi che si rotolavano sul pavimento. E quando tutti, prigionieri e custodi,
furono immersi in quel gioco affannato, in cui violentare e veder violentare
portava all'identico risultato e aveva lo stesso senso, una delle tre gravide
si alzò con disinvoltura e, dopo uno sguardo attento alla cella collettiva,
si incamminò verso l'altra e unica porta che si apriva nel padiglione.
«Libero?» chiese.
«Sì», disse Josefo. «Ma...»
«Tutti i timidi sono così», replicò la donna, mentre
le altre butterate la raggiungevano e Juan Sietevidas portava la mano alla cintura,
pronto ad afferrare il coltello.
«Sei libero davvero», disse la donna chiudendo rapidamente la porta.
E le altre si diedero da fare estraendo dai loro corpi goffi gonne e camicie,
e scarpe con i tacchi, e scatolette di cipria e rossetto.
«Vestitévi» disse ancora la donna con un sorriso quasi affascinante,
«e ringraziate Napoleon Lleras». Perché proprio Napoleon
Lleras, in uno dei suoi slanci mattutini - cui, secondo certuni, non erano estranei
gli incubi notturni - aveva firmato davanti al nuovo parlamento un decreto storico:
la prova provata, e l'esempio, di come si potesse reggere un paese senza gli
impacci della burocrazia: tre righe con cui si autorizzavano pattuglie e poliziotti
singoli a raccogliere, ovunque capitasse e a discrezione, le puttane passeggiatrici;
e a venderle ai carcerati - che avrebbero così soddisfatto un loro bisogno
fondamentale - per la modica cifra di dieci centesimi, da dividersi tra direttore
del penitenziario e custodi. Era stato un giochetto, spiegò Matusalem:
sigaretta in bocca, e pistola in tasca per dissuadere gli eventuali clienti,
s'era appoggiato al lampione di una via secondaria: un po' infastidito, è
vero, dalle gonne; piuttosto incerto, è vero, sui tacchi; accaldato,
sotto l'elmo della parrucca. Ma la pattuglia era passata al momento giusto,
e il gioco era fatto.
Anche il lavoro delle altre era fatto. Crema, cipria e rossetto avevano trasformato
i volti di Josefo e di Sietevidas in maschere forse grottesche, ma certo anonime;
gli stracci s'erano trasformati in un gonfiore, sul petto, che occhi appena
distratti avrebbero potuto accettare come il naturale gonfiore d'un seno; i
tacchi bastavano da soli a dare al passo e al corpo quella specie di moto ondeggiante
che consente ai più d'identificare, anche da lontano, una donna.
«Quando usciamo, ci andremo a sedere sulla panca meno esposta. Quando
ci chiameranno, seguitemi. Ho pagato due carcerieri perché ci facciano
uscire rapidamente. Fuori ci aspettano», disse Matusalem conciso. E allungò
a ciascuno dei due una pistola che andò a aumentare il volume dei seni.
Non ci furono inconvenienti. Fuori, dove l'orgia continuava, nessuno aveva tempo
e occhi per loro. Seduti sulla panca, josefo e Sietevidas sembravano statue
dallo sguardo fisso in un vuoto senza speranza. Perché Cien Puertas era
apparso inatteso, disinvolto e disarmato, giovanile nella sua tenuta da riposo
- calzoni verdi e camicia caffè, con una rosetta di stoffa, il compendio
delle sue decorazioni all'occhiello - e ora, con sguardo allegro tendeva l'indice
verso Josefo: «Mi piacciono le alte», diceva. «Quelle con
il seno grosso».
Josefo lo seguì in silenzio verso la cella collettiva. Matusalem si soffregava
le grosse mani, immerso in un bagno di sudore e Sietevidas pensava che davvero
non ce l'avrebbero mai fatta e che il carcere, solo ad entrarci, si trasformava
in un destino eterno. S'aspettava un grido, uno sparo. Ma i minuti passavano
e dalla cella non giungevano né suoni né voci. Poi, sulla porta
apparve, un po' spettinata e traballante, la figura di quello che avrebbe dovuto
essere Josefo.
«Tutto bene», disse. «Uno di meno. Non ha fatto a tempo a
dire "ba". L'ho strangolato con le mie mani». Proprio allora
s'affacciò al padiglione un omettino scuro, in pantaloni militari e scalzo,
che portava al collo una catena da cui penzolava un cagnolino in miniatura,
di quelli che erano stati distribuiti in occasione dell'inaugurazione del mondo.
«Fuori le puttane», gridò. E spiegò a un guardiano
allarmato che quella era una notte fortunata: era arrivato il ricambio, un'altra
infornata, un secondo carico da vendere subito, per raddoppiare l'incasso.
Le donne s'erano rivestite in fretta, e non chiedevano di meglio che andarsene.
Josefo e Sietevidas si insinuarono nel centro del gruppo, lo sguardo attento,
le mani pronte a scattare sul calcio della pistola. Al primo piano, dietro la
rete che divideva il cortile dall'edificio, le nuove venute imprecavano, maledicevano
e sputavano sui guardiani in attesa dell'uscita del primo gruppo. E il gruppo
oltrepassò la prima, la seconda, la terza rete sotto il pallido sguardo
di una fila di carcerieri che allungavano le mani su culi e tette, mentre Josefo
e Sietevidas camminavano rigidi perché il seno non scivolasse via loro
bruscamente o la parrucca non si spostasse. Videro Elisandro e Asuncio parlare
tra loro gesticolando come ubriachi, mentre più avanti un carceriere
si stringeva a una ragazza dai capelli neri sbavandola di baci appiccicosi.
Erano gli ultimi passi: e ondulando sui tacchi, colti da una vertigine di incredulità
e di allegria, dal pensiero folgorante e terribile ch'era troppo facile per
essere vero e forse qualcosa sarebbe ancora intervenuto a riportarli nel mare
di tepebre e di merda che già s'erano lasciati alle spalle, varcarono
l'ultima porta. Li accolse l'odore del mare e il vento della libertà.
Il luogo in cui Josefo s'era come pietrificato il giorno della centesima cattura
conservava ancora l'impronta della sua schiena costellata di granelli di sangue
piccoli e fini come la sabbia del deserto: dalla strada giungeva l'universale
baraonda delle feste di carnevale, inaugurate quella stessa sera da Napoleon
Lleras per preparare la popolazione di tutto il litorale a quella che si compiaceva
di definire «la festa più grande della nazione»: l'impiccagione
di Josefo, sulla Plaza de las Brujas, di fronte alla folla, con la stessa tecnica
adoperata ai tempi polverosi di monsignor Luque e con la stessa forca la cui
corda aveva ritorto e ridotto a un filo la gola dell'ultima strega del paese.
Napoleon era presente in carne e ossa, uscito dal suo ermetico palazzo per alzare
una barriera definitiva contro la tempesta ciclonica del mito dell'invincibilità
di Josefo. Il carnevale ne ritmava il nome gridando vita eterna, vita eterna
a Napoleon e la gente faceva suonare come tamburi piccole forche costruite a
immagine di quella vera, destinata a josefo.
Matusalem indugiò prima di imboccare la strada. «Lasciamo andare
avanti la gente», disse.
Era un fiume multicolore d'abiti e di maschere, eccitato, gonfio di curiosità
e di una specie di crudele allegria, ansioso di godersi lo spettacolo annunciato
promesso dal governo.
«Sono come bambini» disse Sietevidas.
«Ma pericolosi», rispose Josefo. Si mischiò tra la gente
subito dopo il passaggio della carrozza in cui pomposamente s'adagiava Napoleon
e, con i suoi, girò a destra, verso il mare. La carrozza rotolava sulle
ruote imbottite, di un velluto che evitava all'occupante illustre il fastidio
di sobbalzi e frastuoni plebei; scivolava tra la folla che le si apriva davanti
con un fruscio di barca sull'acqua. E Josefo girò il capo a rivolgerle
un ultimo, intenso sguardo, proprio nel momento in cui la carrozza, con il suo
velluto e il suo oro, cominciava stranamente a crescere, a dilatarsi, a gonfiarsi
smisurata e leggera. E, d'improvviso, con un sussulto bizzarro, s'innalzò:
s'innalzò a volo nel cielo; altissima si trasformò in una palla,
in una rotonda nube di fuoco che illuminò lampeggiando la notte, la spiaggia
e le onde e ricadde poi, lembo a lembo, pezzo a pezzo, orpello a orpello, finché
la strada risuonò tremando del tonfo definitivo.
«E' la fine di Napoleon», disse Matusalem. Approfittando della confusione
di quel giorno, la sua gente aveva infilato materiale infiammabile tra i fregi
e le decorazioni del mantice; e approfittando dello scoppiare dei razzi, delle
roste e dei mille fuochi d'artificio, la stessa gente le aveva appiccato poi
fuoco. All'esplosione, spettacolo improvviso che accresceva la frenesia dell'attesa
per lo spettacolo seguì un'ondata di grida festose, un fervido intensificarsi
di danze, canzoni e ancora fuochi artificiali. Che cosa davvero fosse accaduto,
nessuno l'aveva capito.
«Ho mobilitato anche i morti per ammazzarlo», disse Matusalem con
soddisfatta aria di mistero.
«Con lui è finita, ma non basta» rispose laconico Josefo.
Più giovane di prima, radioso, dritto come una palma, s'imbalsamava dell'aria
della selva scura, folta, amica, che dominava il mare.