Biblioteca Multimediale Marxista
Un giorno l'alba sorse limpida nel cielo chiaro sulla capanna
della selva. E negli occhi di Josefo corse una cascata di allegria. 1 suoi uomini
- sciolta la rigidità della pelle - uscirono all'aperto, diedero fuoco
alla capanna e, precedendo le intenzioni del loro stesso capo, si avviarono
verso il sud. Josefo riprese la testa del gruppo seguendo, nel fango già
secco, le orme lasciate dai cavalli dei corrieri d'un tempo. Non avvertì
il peso del sole che si rompeva sulle sue spalle, non avvertì lo scroscio
delle piogge che l'avvolgevano ogni giorno sul far della sera: fiutava le impronte,
le cercava con gli occhi, e solo quando oltrepassò il confine della zona
sud si sentì le spalle e il volto risecchi, spaccati come un deserto.
Era arrivato troppo tardi.
Due giorni prima, i missionari dell'ampia regione erano partiti da Rio Chiquito
per la capitale, per trattare con monsignor Builes il destino dei villaggi,
il modo di farla finita con il loro malodore e le centinaia di piante e rimedi
che i curandero nascondevano in luoghi segreti. Tornarono due giorni "dopo,
a mezzanotte, con il volto illuminato dà una felicità tenera e
un'enorme, vecchia valigia che rinserrava, nel fondo, il duplice ordine di distruggere
i villaggi e di cancellare dalla faccia della terra il seme stesso degli indios.
A riceverli, c'era monsignor Vallejo, la maggiore autorità della zona,
che non s'era unito a loro nel viaggio alla capitale perché troppo occupato
a scrutare gli occhi cristallini degli indios per scoprire se dietro l'eterna
calma che vi era dipinta non si nascondesse la macchia della morte. Li accolse
benedicendoli, prese la valigia di slancio e, prima di far ritorno a palazzo,
incaricò il missionario più giovane di svegliare - per favore
e con la dovuta gentilezza - il sindaco Santos Urrego e di portarlo da lui,
spingendo, sempre con la debita delicatezza, la carrozzella di ferro e legno
sulla quale il poveretto era costretto a vivere dall'età di vent'anni.
Quando giunse, e le ruote della carrozzella s'arrestarono davanti alla pietra
dei gradini, monsignor Vallejo in persona si presentò ad accoglierlo
e volenterosamente lo sollevò e spinse fino al salone dei ricevimenti.
«Mi scuso», disse Vallejo ritirandosi per un attimo nella stanza
della resurrezione. E tornò subito con un vaso di pomata tra le mani,
vi immerse la punta delle dita e se la spalmò sulle centomíla
rughe del volto che, al contatto, si stiravano, come si stirava la membrana
trasparente e livida che gli copriva a mezzo gli occhi. «Miracolosa»,
disse. «E prova a immaginare che cosa devono essere, al confronto, i miracoli
dei santi in paradiso».
«Forse», disse Santos esitando, «questa pomata potrebbe anche
restituirmi le gambe».
«No», rispose serio Vallejo massaggiandosi lo stomaco enorme, «Dio
non restituisce i beni che ha espropriato». E Santos rise amaro pensando
che probabilmente aveva sbagliato a farsi militare anziché vescovo.
Seduto accanto alla carrozzella, Vallejo aprì la valigia, ne estrasse
l'oidine manoscritto e timbrato con il sigillo del vescovo principale: «Prima
dell'alba», disse, «dobbiamo riunire i gruppi incaricati di accendere
la miccia del massacro: avverrà alle dieci in punto, quando gli indios
usciranno dalla messa festiva».
Gli uomini erano già in attesa. Vallejo li chiamò con un fischio:
erano una settantina, avvolti in ruane scure, la faccia nascosta dai cappelli
di paglia e i piedi infilati in sandali scalcagnati. Portavano le armi sotto
le camicie. Vallejo chiamando presso di sé il più alto, quello
dall'aria più arrogante, gli ordinò di aiutarlo a prepararsi.
Attraversò poi la sala, spalancò l'anta di un armadio e ne estrasse
un paio di baffi rossi e curvi come ali di passero; un paio di gambali dalla
pelle dura come pietra e un paio di pantaloni che Santos gli aveva regalato
l'estate prima, in un attacco di euforia, proprio perché se ne servisse
nel momento in cui monsignor Builes e Napoleon Lleras avessero deciso di sistemare
per l'eternità metà della popolazione del paese a filo di machete.
Toltosi la ruana, l'uomo applicò con estrema cura i mustacchi intorno
alla bocca di Vallejo; lo fece stendere sul tappeto per calzargli i gambali
e fu costretto a inginocchiarglisi sopra per appiattirgli l'irriducibile ventre
e infilargli i pantaloni.
Aspettarono ingrassando i fucili, affilando i machete e quando l'imponente orologio
della chiesa suonò le dieci, in gruppo, sospingendosi l'un l'altro, trascinandosi
dietro la carrozzella di Santos, si rovesciarono sulla piazza armi alla mano,
perché gli indios che non erano ancora entrati in chiesa per la messa
potessero rendersi conto, prima di morire, che la conquista pacifica delle anime
era una storia vecchia come l'Inquisizione e che, da quel momento, non ci sarebbe
stata per loro salvezza spirituale né forma di vita diversa da quella
che avrebbe loro regalato monsignor Vallejo cancellandoli per sempre dalla faccia
della terra. Per un istante la piazza si trasformò in un forno di silenzio
e di calore solcato dal luccicare delle canne dei fucili puntate contro l'atrio
della chiesa. Ma appena i primi indios sottili, straccioni, con i volti tranquilli
e pacifici vi posero piede, monsignor Vallejo, trascinato da una visione, riconobbe
in loro le mille streghe bruciate vive durante l'Inquisizione, si senti corpo
e anima posseduti dallo spirito di monsignor Luque e premette il grilletto e
continuò a premerlo finché sul pavimento dell'atrio ci fu soltanto
un fiume di sangue ribollente i cui vapori penetravano acri nelle navate del
tempio soffocando gli indios che vi si erano rifugiati e costringendoli a uscire
allo scoperto.
Allora, fucile spianato, obbligò i superstiti ad allinearsi in due file
parallele e, consegnando loro picconi e pale, ordinò che ciascuno scavasse:
la fossa doveva essere lunga come l'intera fila e profonda come il più
alto degli indios. Obbedirono con zelo, con disperazione, poi rimasero immobili,
intrisi di sudore, sgomenti. Vallejo si avvicinò e - guardandoli negli
occhi attraverso il disperato polveroso calore del mezzogiorno - aprì
il fuoco sul primo poggiandogli la canna del fucile in mezzo alla fronte e cercando
di far sì che lo stesso colpo spaccasse in due la testa dell'indios che
si trovava all'altro lato della fossa.
Al terzo colpo sbagliato, il sindaco squittì dal profondo della sua carrozzella,
pronto a scommettere una bottiglia di rum: se qualcuno lo avesse sollevato sarebbe
riuscito a spaccare con un solo tiro di carabina la testa dei due poveracci
che si trovavano di fronte, ai due lati dalla fossa. Vallejo accettò
la sfida, mentre gli indios, guardandosi furtivamente l'un l'altro, cercavano
di farsi coraggio per non morire prima che giungesse il loro turno.
Ma, alla decima fucilazione, il volto di Vallejo e dei presenti si trasformò
in una smorfia dolorosa: il primo colpo riusciva a spezzare soltanto un ciuffo
di capelli; il secondo smuoveva appena la testa del condannato; il terzo faceva
sgorgare dalle sue tempie un filo di sangue giallastro e trasformava i suoi
occhi in due cerchi di cenere supplicanti. Soltanto il quarto o il quinto tiro
- ormai una raffica rabbiosa - riuscivano a colpire a morte. Per gli ultimi
tre indios, Vallejo e Santos sprecarono sessanta tiri ma non riuscirono a torcer
loro neppure un capello. Allora decisero di farla finita con la cupa atmosfera
ch'era cresciuta intorno e di uccidere quegli indios ostinati facendoli a pezzi
a colpi di machete. Ma, poiché i machete si spaccavano al primo contatto
con la pelle degli indios e poiché da ogni loro ferita sgorgava una specie
di polvere ironica che asfissiava i presenti, li gettarono vivi nella fossa,
li calpestarono, li ricopersero di pietre e di sabbia finché la piazza
ridivenne liscia, uniforme, compatta come nulla mai fosse successo.
Ritiratosi a palazzo, monsignor Vallejo si apprestò a leggere la seconda
parte dell'ordinanza e di colpo arrossì di rabbia e vergogna: il massacro
da perpetrarsi quel giorno non riguardava Rio Chiquito ma Puentado. Allora,
con un grido di rabbia o disperazione, richiamò i suoi uomini. E partirono.
Non bastavano i camion per trasportare i cadaveri e l'imprevisto, che metteva
in difficoltà il governo di Napoleon, venne subito captato da Josefo
che - al riparo sulle colline - controllava attento ogni minimo segno di mutamento:
d'improvviso, si rese conto che sulla strada che conduceva al precipizio nel
quale venivano scaricati i cadaveri non si muovevano più i consueti,
sgangherati camion di legno, ma giganti di ferro, lunghi come la via principale
di Malena e ampi e alti al punto da nascondere la luce e toccare - così
sembrava - le stelle. Giunse a pensare di star vivendo la vita di suo padre,
o di aver prestato la propria struttura fisica allo spirito di suo nonno per
fargli rivivere, dopo secoli, l'allucinante vicenda d'un tempo: dal tramonto
all'alba, montagne di sangue e di cadaveri senza volto né forma, simili
ai mostriciattoli gelatinosi procreati dai militari di Malena, s'alzavano verso
il cielo come torri informi, a ogni angolo del giorno, in ogni luogo. E era
come se il ricordo lo svuotasse in una specie di inerzia senza scampo: perché
tutto si ripeteva negli anni e nei secoli con disperata e disperante monotonia
che irrideva ogni speranza di salvezza, ogni illusione di libertà, ogni
tentativo di ribellione crucifiggendole a una catena di morte e di morti impotenti,
inutili.
Così, con la pancia al sole come lucertole stanche, contemplando nel
pensiero l'eterno girare delle ruote sulla strada e l'accatastarsi delle vittime
sul fondo del burrone, Vallejo colse Josefo e i suoi uomini: «Fermi»,
gridò, «siete circondati, arrendetevi figli di puttana».
Josefo non si preoccupò neppure di alzare le mani, si lasciò premere
sulla schiena la canna di un fucile mitragliatore, assorto, inerte. Ma, guardando
pigramente in alto, tra gli alberi, scorse uno dei suoi, Manuel Matusalem, appollaiato
tra i rami come un uccello: ebbe una specie di brivido: «Siamo come la
peste, ce n'è sempre un altro che continua» disse a voce alta mentre
Vallejo e i suoi-euforici guerrieri lo sospingevano, insieme al gruppo, verso
uno dei mostri di ferro che, vuoti, facevano ritorno dal precipizio.
Consegnato Josefo alla direzione del carcere nazionale, Vallejo corse al palazzo
cardinalizio perriscuotere il riscatto. Quadri e tappeti erano polverosi come
li aveva lasciati quindici anni prima; la grande poltrona damascata conservava
ancora l'impronta delle sue enormi natiche. «La guerra rispetta questa
casa» pensò mentre il vescovo Builés, come trascinato da
un turbine, gli correva incontro a braccia aperte. «Meglio ti dica subito»
esordì stringendolo con forza a sé, «che negli ultimi quindici
anni, dopo la morte di Luque, Napoleon s'è dimenticato di procedere alla
nomina dei nuovi cardinali. Così, per anzianità, il posto è
toccato a me. Ti bacio con riconoscenza per la cattura di Josefo ». Vallejo
si scostò altezzoso: «Voglio i centomila pesos della taglia, la
ricompensa che mi spetta, altro che baci! »
Builes aperse sconsolato le braccia e si lasciò cadere come un cane vecchio
sull'istoriato scranno cardinalizio:
«No, figlio mio» mormorò, «quei centomila pesos hanno
già un padrone. Ieri un certo Manuel Matusalem ha avuto la sfrontatezza
di lasciar scritto il suo nome, capisci? se li è rubati... »
«Impossibile. Mi è sfuggito per un soffio appena qualche giorno
fa. Ma ho arrestato tutta la banda, e come avrebbe potuto un uomo braccato,
isolato... »
«Se è un uomo di Josefo» disse Builes con un accento di dura
severità nella voce, «tu sei direttamente responsabile del furto
e non puoi pretendere riscatto di sorta. Anzi: l'essertelo lasciato sfuggire
potrebbe esserti imputato a colpa... »
Vallejo, smarrito, alzò gli occhi sull'immagine di Pedro Claver che gli
era di fronte e lo fissava con sguardo persecutorio, lo stesso che un tempo
sembrava posarsi su di lui da ogni angolo del palazzo in una specie di scoperto
disprezzo. Anche ora, o almeno così avrebbe dovuto essere perché,
in quanto santo, aveva il diritto e la saggezza necessaria per giudicare e con-
- dannare gli errori: «La prossima volta mi perdonerà», mormorò
chinando umilmente il capo.
«Insomma, dimmi che cosa vuoi fare», gridò Builes rallegrandosi
per l'effetto delle proprie parole. Vallejo uscì dal suo stato di sonnambulismo
e scattò in posizione di attenti: «Sua reverenza, non mi interessa
più il denaro: ho a cuore soltanto la gloria del nostro azzurro partito.
E preghi per me San Pedro Claver, di cui imploro perdono. Mi son fatto sfuggire
Manuel Matusalem, la sua cattura sarà il mio riscatto».
Cien Puertas posò il revolver sull'ultima pagina dell'ultimo
volume e gridò a Josefo: «Alzati, andiamo alla cella che ti ho
preparato». Ma Josefo non lo sentì perché ormai da due giorni
era caduto in un sonno roccioso e in quell'esatto momento stava vivendo nel
ventre di sua madre e affilando il coltello che gli sarebbe servito', alla nascita,
per tagliare il cordone ombelicale.
«Andiamo!» tuonò di nuovo Cien Puertas picchiandogli una
manata sulla spalla. Josefo aprì gli occhi e infilò i polsi nelle
manette che il comandante Elisandro gli porgeva.