Biblioteca Multimediale Marxista
In effetti, gli atti ufficiali non registravano null'altro 
  su Jaime e Herminia, che né militari, né poliziotti, né 
  contadini riuscirono più a rintracciare. Con il trascorrere degli anni, 
  le forze dell'ordine dovettero a malincuore ammettere la sconfitta. Chi ne soffri 
  maggiormente furono i tre capi della polizia delle tre municipalità del 
  Magdalena medio. Il capitano Sanson, anche sindaco di Opon, ultimo rampollo 
  di una famiglia in cui i maschi delle varie generazioni avevano messo al mondo, 
  ciascuno, un generale con tre stelle; e lui, il capitano, era passato alla storia 
  della famiglia come un uomo dal passo d'anitra, dalla pelle di cera e dalla 
  voce di gatto; il generale Patino de Rios, comandante delle truppe di Bermeja, 
  più preoccupato di costruire gabbie, fabbricare catene e riparare i chiavistelli 
  della prigione municipale che di adempiere al giuramento di combattere una guerra 
  al giorno, e morto poi di tristezza in un manicomio criminale perché 
  la sua colonna vertebrale - dritta come un'asta - s'era a poco a poco curvata; 
  il sergente semplice Aguinaga, comandante del posto di polizia di Malena. Fame 
  e criminalità gli avevano dato occhi di bronzo; era stato decorato più 
  volte nella guerra dei mille giorni.
  I tre s'erano riuniti a Malena una domenica delle palme, e avevano letto pubblicamente 
  un bando in cui, pur ammettendo la sconfitta, informavano i contadini che Jaime 
  possedeva armi nuove e misteriose, contro le quali sassi e fucili nulla potevano. 
  E poi s'erano recati da Anselma in cerca del postino Remigiano Saicedo: l'unico, 
  in tutta la zona del Magdalena medio, a conoscere le scorciatoie e i difficili 
  passaggi del cammino che univa la zona alla capitale: l'unico, e per questo 
  contrabbandiere di foglie di tabacco e piante di anice che trasportava alla 
  capitale; e di rum, acquavite e monete false da dieci centesimi che spacciava, 
  invece e a seconda delle circostanze, nei tre comuni della zona. Una volta al 
  mese, alle sei in punto del pomeriggio, compariva nella via principale di Malena 
  cavalcando un vaporoso cavallo nero e portando un valigino di vecchio cuoio 
  pieno di volantini, lettere e giornali. Tutti si precipitavano nella strada, 
  lo accoglievano con applausi, tric-trac e fissette, gli facevano scorta d'onore 
  fino al municipio: e lui passava tra due ali di folla con il suo cappello di 
  paglia, gridando evviva. La gente ripeteva evviva, impazziva d'allegria, gli 
  mandava baci con le punte delle dita, ed era un'esplosione di grida e di luci 
  fino alla plaza de las Angustias, dove lo attendeva il sindaco Sancioso Gutierrez, 
  rintronato dal suono dell'inno nazionale eseguito dalla banda municipale. E 
  il sindaco prendeva il cavallo per le redini e se lo trascinava accanto in modo 
  da poter stringere la mano a Remigiano e passargli sotto sotto, ma non tanto, 
  la manciata di pesos che costituivano la sua paga per dimostrare di essere un 
  amministratore onesto, corretto con i dipendenti, che non intascava i proventi 
  delle tasse. Poi tutti zittivano, la banda intonava un'aria solenne, il prete 
  alzava le braccia al cielo, e gli occhi di Anselma si riempivano di perle bianche 
  per la generosità e il giusto cuore di Sancioso che pagava Remigiano 
  perché si recasse alla capitale a trasportare la corrispondenza e a ricordare 
  ai senatori che la zona del Magdalena medio esisteva ancora: o meglio, che Jaime 
  esisteva ancora e che lei, Anselma, voleva veder vendicati i suoi cari e riscattato 
  l'onore della figlia.
  Nessuno sapeva quando Remigiano ripartiva. Più di un contadino lo aveva 
  visto abbandonare il villaggio prima della fine della festa; altri giuravano 
  d'averlo veduto giorni dopo nelle botteghe degli armieri comprare pallottole 
  e olio per il suo schioppo. Lo stesso Sancioso aveva confidato agli amici d'averlo 
  visto parlare, a tre giorni dalla festa, con un contrabbandiere di tabacco; 
  ma non avrebbe mai osato rivelarlo pubblicamente per paura di sentirgli dire 
  «non lavoro più per te» e, quindi, d'esser cancellato per 
  sempre dalla corta memoria dei senatori della capitale.
  Stavolta, però, i tre capi delle polizie municipali del Magdalena medio 
  lo cercarono e lo trovarono in casa del commerciante Julian Contrera, davanti 
  a un piatto di riso dai grani lucidi e grossi come lombrichi invernali. Timidamente 
  gli chiesero quando sarebbe partito. Rispose secco: «Domani all'alba, 
  al primo cantar del gallo».
  Sanson gli si avvicinò, gli tese una busta avvolta in tela cerata coperta 
  di bitume per proteggerla dall'acqua e sigillata, ai lati, da bolle di ceralacca: 
  «E' importantissima», disse. «*Mettila in fondo alla valigia 
  e consegnala al mio compare Silvindo Villego». Remigiano prese il plico 
  e lo posò accanto al piatto mentre i tre militari se ne andavano senza 
  badare al rumore delle bottiglie e all'odore dell'acquavite che provenivano 
  dalla cucina.
  Non giunse mai a destinazione. Le feste di Malena ebbero fine per sempre, e 
  con loro l'allegria: il palazzo di giustizia riassunse le antiche fattezze di 
  mostro notturno e nel villaggio nacque un irrefrenabile, funebre odio per Jaime 
  e Herminia. Ma i due erano ormai morti: avevano attaccato Remigiano Salcedo, 
  in un canalone profondo e questi aveva sparato loro addosso a bruciapelo, senza 
  rendersi conto che, alle sue spalle, Josefo gli stava lanciando un coltello 
  mortale. La notizia giunse al villaggio molti giorni dopo: la portava un messaggero 
  inviato dal comando generale delle forze armate insieme a una lunga ordinanza 
  piena di ammonizioni per i tre militari che non erano stati capaci di catturare 
  Jaime e che, pertanto, venivano trasferiti. Intristito per la morte di Remigiano, 
  Sancioso preparò la festa d'addio per i tre militari. Così, al 
  mattino, radunò in piazza la banda municipale e la costrinse a suonare 
  a perdifiato l'inno mariano in onore del parroco e in ricordo di Remigiano; 
  e l'inno nazionale come ultimo saluto ai tre militari. Quando le note svanirono 
  nell'aria, Sancioso increspò il volto in segno di profonda tristezza 
  e l'atmosfera si tinse di tanta amarezza che cinque vecchiette corrose di rughe 
  e i quattordici figli naturali dei tre militari si abbandonarono a un pianto 
  spaventoso e presero a tremare come posseduti. Fu l'ultimo avvenimento, per 
  Malena. Molti inverni dovevano far lucido il cielo, le vecchie dovevano perdere 
  le loro rughe nelle tombe, le carni giovani dovevano trasformarsi in pieghe 
  di grasso sfatto prima che succedesse qualcosa di importante al punto da riunire 
  di nuovo gli abitanti del villaggio e da indurre i contadini a rendersi conto 
  della loro condizione, scuotendo la polvere e il tempo che ricoprivano le rovine 
  della storia. E sarebbe giunta la violenza; un'ondata di sangue color corallo, 
  gonfia di resti umani non identificabili, e preceduta da un'ondata ancor più 
  violenta, variopinta, con odore di mare putrefatto, portatrice di resti d'ospedale, 
  di cadaveri rossi a forma di granchio, di prostitute bianche come madreperla 
  e quintali di sangue contadino odoroso ancora di muschio e foglie secche.
  I successori dei tre militari giunsero qualche giorno dopo. Tre tenentini imberbi 
  dallo sguardo imbecille, seguiti da uri interminabile fila di soldatini dalla 
  pelle terrosa che non osavano aprir bocca perché fin da piccoli sapevano 
  che Jaime aveva un udito da tisico e captava le parole dei militari a molte 
  miglia di distanza. Né osavano avvicinarsi alle capanne, davanti alle 
  quali le vecchie mezze cieche ammazzavano i loro ultimi giorni lavorando con 
  la conocchia e salmodiando sulla cadenza dei nodi i ricordi della vita. Ma i 
  soldati non ascoltavano le loro storie, né si preoccupavano di provare 
  ai contadini che non erano muti, come essi credevano: passavano il tempo ciondolando 
  per le quattro strade del villaggio e mostrando le loro armi moderne a quanti, 
  svegliati nel cuor della notte, scostavano la tenda di cotone che chiudeva le 
  capanne per guardarli. E a ogni saluto rispondevano dicendo: «Riteniamo 
  che la terza generazione di Angel Lazaro, incarnata nell'assassino di Remigiano, 
  Josefo, si aggiri nei dintorni». Poi chinavano la testa e continuavano 
  a camminare. Neppure il contrabbandiere Julian riuscì a commuoverli. 
  Per tre interi giorni rimase davanti al negozio distribuendo inutili «buon 
  giorno» e «buona sera» ai soldati che gli passavano davanti. 
  Ma la risposta era sempre la stessa: «Riteniamo...»
Una mattina d'estate piena, il villaggio si svegliò 
  trasformato in un deserto: le case erano ricoperte di polvere rossa; le strade 
  screpolate e riarse e la plaza de las Angustias naufragavano in una pioggia 
  di sabbia sottile e gialla come oro; a mezzogiorno, le panche delle vecchiette 
  erano ritorte, crepate e fumanti: e le vecchiette stese sulle amache molli di 
  sudore respiravano un calore asfissiante vomitando sulle pietre del pavimento 
  e contro le canne delle pareti. Con l'avanzare del giorno, vennero a una a una 
  coperte dal fumo e da un calore che consumava loro le ossa trasformandole in 
  ferro incandescente; finché passò una nuvola di mosche nere e 
  fu come un fiotto d'acqua: allora gli altri, profittando della frescura, gettarono 
  le vecchiette nel fiume e rimasero sulla riva a guardarle girare e sfrigolare 
  tra le onde assorbendone come un balsamo i vapori.
  «E' l'estate più bestiale che ricordi», disse Julian al sindaco.
  «Meglio: se i vecchi muoiono arroventati nessuno potrà dire che 
  sono stati mangiati dai vermi», affermò Anselma.
  E tutti attesero sulle sponde del fiume che l'ultima generazione svanisse. Al 
  ritorno, il villaggio era come prima dell'arrivo del vento del deserto. Mancavano 
  solo i soldati che avevano aspettato il passaggio delle mosche per dare la caccia 
  a Josefo. Le prime spedizioni non diedero risultato alcuno. Soldatini e tenentini 
  stremati ogni giorno di più dal silenzio e dalla solitudine della selva, 
  partivano dalla plaza de las Angustias prima dell'alba: e dopo aver addentato 
  le pendici dei monti rientravano a testa bassa, curvi sotto il peso delle armi, 
  pensando alla zona che avrebbero dovuto esplorare il giorno dopo. Con i mesi, 
  si abituarono a risalire il fiume fino al punto in cui le barche si arenavano 
  per mancanza d'acqua; e di lì proseguivano a piedi, costeggiando le basse 
  colline e i resti di Remigiano, di Jaime e di Herminia: ma senza fare un passo 
  di più, perché bastava lanciare una paglia al lato opposto della 
  strada per vederla cadere al suolo, fatta cenere. «Sembra che l'aria che 
  ha ucciso a Malena la vecchiaia abbia creato una barriera... » dicevano 
  i giovani del villaggio vedendo arrivare i soldati con le gambe bruciacchiate. 
  Alla fine, la caccia si trasformò in un'abitudine e soldatini partivano 
  da Malena pensando che quello era un lavoro come un altro; e se avevano freddo, 
  si riscaldavano avvicinandosi alla barriera di fuoco e tornavano in caserma 
  con le guance rosse. Poco a poco invecchiarono, si raggrinzirono e disseccarono, 
  finché uno dei tenenti ricordò alle truppe che ormai erano in 
  età avanzata e che se non si fossero difesi dalle ondate di calore sarebbero 
  finiti come, un tempo, gli altri vecchi di Malena. Da quel momento nessuno volle 
  più accettare tracce di vecchiezza sul volto; e si rifiutarono di partire 
  in missione per dedicarsi, invece, ad accurati bagni nel fiume e a strigliare 
  con spazzola di crine i segni più ostinati del tempo sui loro corpi.
  Josefo non li vide mai da vicino. Li osservava nascosto, aggrinzito per il calore 
  e senza poterli attaccare perché, al di là della strada, oltre 
  la barriera invisibile, le pallottole si trasformavano in ghiaccio. Così 
  sperava che i venti della selva bagnassero la zona e spingendosi a sud temperassero 
  l'atmosfera, o che il fiume straripando rompesse il blocco del gelo, per poter 
  sparare contro i suoi nemici almeno un colpo con cui annunciare loro che, anche 
  se aveva soltanto tredici anni, era alto, magro e saldo come suo nonno, e aveva 
  negli occhi lo stesso sogno sognato dagli occhi di suo 'padre, e che non era 
  una leggenda, e che non aveva tradito la speranza e la fede dei suoi antenati.
Nei tre anni in cui la caccia contro di lui venne sospesa per l'insormontabile barriera di calore, gli angoli più sperduti del nord-est e del sud del paese caddero sotto il peso di preistoriche urne elettorali, grandi al punto che si abbisognò di un anno e tre giorni per trasportarle sul dorso di trentacinque mule; e di tribunali, che funzionavano provvisoriamente in capanne di paglia color estate e sotto bambù verdi come l'inverno, prima che nuove strade venissero aperte e un'altra fila di mule potesse trasportare l'enorme quantità di materiale necessario alla costruzione dei tribunali veri, lussuosi come regge e grandi come palazzi di giustizia. Con l'ultimo viaggio della carovana, si consumò il periodo della transizione e cominciò quello della «affermazione democratica».
Appena l'ultima mula scaricò l'ultima bisaccia con il 
  materiale per l'ultimo tribunale, chiudendo così un'era della storia, 
  ai quattro angoli del paese s'alzò un polverone nero, simile a un fiume 
  d'ombra che per tre giorni spazzò via la luce; e ci fu un infernale risuonare 
  di mostruose scatole sferraglianti, dal muggito breve come quello di una vacca 
  in pena. Il simbolo della affermazione democratica passò come una tempesta, 
  facendo risuonare le pietre, rompendo a passo di tartaruga la muraglia di ragnatele 
  cresciute alle pone dei villaggi, trasportando a rimorchio la bilancia della 
  giustizia, la spada della libertà, le nuovissime arche triclavi, i registri 
  e i vestiti dei giudici disoccupati: tutto legato con corde, proprio come gli 
  arnesi degli zingari in carovana da una piazza all'altra.
  I contadini che le videro passare aspettarono impazienti che, dietro, venissero 
  i vaporosi cavalli neri dei messaggeri e le pazienti mule dei carrettieri; si 
  soffregarono mille volte gli occhi e tesero le orecchie nel tentativo di ritrovare 
  nella mugghiante voce delle scatole di ferro il respiro di un cavallo. E quando 
  i più inclini ad affrontare la realtà si accorsero che sui lucidi 
  sedili c'era gente elegante, vestita in frac e orgogliosa dei suoi cappelli 
  a cilindro, e non carrettieri su cavalli dalle zampe mascherate di ferraglia 
  (come pensavano i nostalgici), era già troppo tardi per ergere una barriera 
  contro l'affermazione democratica. Che, proprio come la transizione, era soltanto 
  l'espressione politica di una delle diverse fasi - ed età - di Napoleon 
  Lleras, il quale, durante una seduta lampo del Senato, aveva detto chiaramente: 
  «La mia prima gioventù è stata la transizione, la mia seconda 
  gioventù sarà l'affermazione democratica e la mia vecchiaia, se 
  il destino non mi vorrà giovane in eterno, sarà l'affermazione 
  dell'affermazione democratica».
  Ma i contadini non lo sapevano, né potevano immaginarlo con la loro fantasia 
  terrosa. E vedendo i mostri di ferro ruggenti infrangere le pareti delle loro 
  case e le frontiere dei campi coltivati, pensavano si trattasse di una nuova 
  iattura provocata dallo stregone locale o di un triste regalo fatto loro dal 
  governo per la canonizzazione di Pedro Claver: così corsero a nascondersi 
  sotto le coperte aspettando che gli eleganti conduttori delle scatole di ferro 
  facessero ritorno con i rimorchi vuoti e spiegassero il perché della 
  distruzione della pace e delle montagne.
  Il giorno dopo, uscendo dalle loro casupole con il machete alla cintura, la 
  sacca dei rifornimenti sulle spalle e la ruana a bandoliera, pronti per andare 
  al lavoro, i contadini si imbatterono in un altro diluvio di scatole sferraglianti 
  e tricolorate che facevano tremare gli alberi della selva. Per un momento stupefatti, 
  pensarono a una punizione terribile; ma poi, riandando con la memoria alla loro 
  vita passata, si dissero che non dovevano temere perché erano sempre 
  stati gente di buon cuore, ignari del male, fautori del bene. Tuttavia, guardando 
  verso la linea dell'orizzonte, riconobbero la sconfitta della loro logica: ogni 
  vicino villaggio era sovrastato dalla struttura ancora informe di un tribunale. 
  Mentre tentavano di sfuggire all'incubo e di raggiungere la selva, vennero fermati 
  da soldati, contadini come loro, con la pelle arsa, i piedi pieni di terra, 
  i vestiti laceri: ma gli zaini pieni di munizioni.
  I soldati li presero a calci; punzecchiandoli con le baionette, li sospinsero 
  contro le pareti di bambù delle capanne; poi si misero a frugare nei 
  pagliericci cavandone bambini nudi con pance rotonde e grandi come il mondo; 
  tiravano le donne per le trecce e le frugavano in cerca di reales; rovesciavano 
  le federe rammendate e facevano sudare i granai con le loro enormi zampe cercando 
  tra le assi un nascondiglio e nel nascondiglio i tesori di cui, secondo il prete 
  del paese, ciascuna famiglia doveva essere in possesso. Ma, uscendo dalle case 
  con le mani piene soltanto di ragnatele polverose e il petto di nuvole di pulci, 
  allontanarono a spinte i contadini, sputarono addosso ai bambini, maledirono 
  le donne e si diressero ai villaggi vicini. Allora i contadini capirono di non 
  aver più speranza: insieme, come spinti da un impulso collettivo, si 
  dissero disposti a contribuire alla costruzione dei tribunali. I soldati, sorridendo 
  come i caimani al sole, scelsero i più robusti.
Gli altri tornarono alle loro case, baciarono le mogli, toccarono 
  con le nocche la pancia dei figli, come bussassero a una porta, per vedere se 
  - durante l'assenza - un qualche verme non si fosse loro pietrificato dentro 
  e, per farlo espellere, se del caso, con una tisana di yanten e di latte. Poi 
  tornarono in fretta al lavoro dei campi, disposti a marcire di terra e calore 
  piuttosto che ritrovarsi nella condizione dei loro compagni che già lavoravano 
  come pipistrelli alla costruzione dei tribunali, e maledicendosi per aver sprecato 
  le notti nel sognare a occhi aperti gli eleganti signori e non aver invece dormito 
  e sognato a occhi chiusi, come sempre facevano, le decisioni di Napoleon Lleras.
  Il trascorrere dei mesi fece il resto.
  Un vento freddo strappò l'incarnato dai volti degli uomini che costruivano 
  le altissime torri dei tribunali facendoli verdi come bile. Lavoravano giorno 
  e notte, legati con funi alle colonne: sembravano acrobati da circo nel numero 
  del volo siderale. Dal basso, parevano ragni impazziti e quando il vento ingagliardiva 
  strappando loro lembi di pelle e di vesti si domandavano se, finita la torre, 
  sarebbero mai riusciti a scendere da quel cielo oscuro e se, una volta scesi, 
  sarebbero mai più riusciti a camminare con i piedi, anziché con 
  le mani, come lassù.
  Gli altri furono costretti ad abbandonare la campagna: a testa bassa, con gli 
  occhi perduti nel vuoto, disseccati e sprofondati in una muta tristezza, tornarono 
  alle loro capanne e - senza abbracciare né moglie né figli - sedettero 
  al centro dell'unica stanza a ricordare amaramente il lontano giorno in cui 
  era giunta la prima scatola sferragliante e gli evanescenti mesi di aprile della 
  loro giovinezza quando - e il caldo era pieno - s'erano presentati alle porte 
  delle loro case alcuni boriosi generali vestiti di rosso e bardati come cavalli 
  che avevano dichiarato ai loro padri d'essere venuti a proteggerli dal coltello 
  di Jaime, di non essere dei macellai, come gli spagnoli, ma d'essere, invece, 
  nazionalisti dalla chierica alla nuca, massoni dalle spalle all'ombelico e dall'ombelico 
  alla punta dell'alluce liberali alla francese: e, in questo modo, se li erano 
  portati via, i padri, a lavorare nelle miniere di smeraldi del sud. Collegarono 
  il ricordo a quanto stava succedendo, e balzarono in piedi con il volto scomposto: 
  come sempre toccarono la pancia dei figli e i ventri risuonarono come un salvadanaio 
  pieno. Le madri, sentendoli, si precipitarono nella stanza sollevando le gonne 
  fino ai seni e picchiandosi anch'esse la pancia con le nocche: ed ecco di nuovo 
  quel suono di monete. Gli uomini, poveracci, guardando attoniti i ventri delle 
  spose pensavano che ciò che stava avvenendo dipendesse in qualche modo 
  dagli uomini che guidavano le macchine sferraglianti giunte dalle Ande; ma poi, 
  ricordando il giorno in cui erano partiti per il lavoro dei campi, scartarono 
  l'idea, perché un figlio non può vivere per cinque anni in un 
  ventre senza farlo scoppiare, perché «gli uomini non sono come 
  le niguas che nascono grandi come le loro madri e le uccidono nascendo», 
  pensarono. Così, s'avvicinarono alle mogli, ne palparono il ventre, accostarono 
  l'orecchio all'ombelico: «che vigliaccata», pensarono, «sarà 
  stato Josefo a ingravidarle con il coltello». Ma il beverone di yanten 
  e latte bollente portò alla luce una vera selva di vermi simili a chiodi 
  che cadendo sul vaso tintinnavano e affondavano. «E'. il malocchio», 
  dissero le donne. «No, è la fame», dissero i figli estraendo 
  gli ultimi chiodi con le punte delle dita.
  Subito i contadini tuffarono le mani nel vaso e raccolsero i chiodi a uno a 
  uno, li ripulirono ben bene con la paglia e, confezionatili in pacchetti, li 
  portarono ai capimastri che sovrintendevano alla costruzione dei palazzi cercando 
  di ricavarne un prezzo pari al valore ch'essi avevano per essere usciti da ventre 
  umano. Ma i giudici non li accettarono, e quando i contadini chiesero loro il 
  permesso di legarsi a una fune per andare a cercare i loro compagni muratori, 
  lassù, nell'aria rarefatta, alzarono pigramente gli occhi dai loro libri 
  e risposero ch'era impossibile perché, ormai, erano stati dimenticati. 
  Guardando in alto, infatti, i contadini riuscirono a scorgere - lontanissime 
  - soltanto le vette delle torri: «cazzo», dissero, «se li 
  è mangiati il vento». «No», replicarono i giudici, 
  «è stato l'oblio». Uscendo con passi incerti dagli uffici, 
  i contadini abbandonarono ogni speranza di poter concludere un qualsiasi affare 
  con i loro chiodi. E, giunti a casa, di nuovo trovarono mogli e figli che, con 
  i ventri gonfi da scoppiare, vomitavano chiodi dalla bocca. Ma non vi fecero 
  caso: «E' la vecchiaia che se ne va», li consolarono e si rifugiarono 
  nell'oblio, cercando un modo di svanire alla vita, come i loro compagni muratori. 
  Paradossalmente, questa specie di sogno segnò il primo risvegliarsi della 
  zona e della sua anima: Malena.
  Qui, la situazione tesa creatasi con la costruzione dei tribunali e con la sostituzione 
  del cavallo con la benzina scoppiò in una sera color paglia secca.
  Quattordici mulatti intabarrati, occhi e muscoli selvaggi, si avvicinarono in 
  canoa al cimitero, seguendo la linea della selva; attraccarono in perfetto silenzio 
  al molo dei pescatori, a quell'ora deserto, rialzarono i colli della ruana e 
  abbassarono l'ala dei cappelli; saltarono a terra sulla punta dei piedi e scivolarono 
  attraverso la notte. Dopo una rapida occhiata ai dintorni, penetrarono nel villaggio 
  per la via che sboccava sul vecchio sentiero. Nessuno li vide imboccare la strada 
  per plaza de las Angustias; nessuno, nonostante l'udito fine di gente abituata 
  a distinguere i rumori delle acque e della selva, senti i loro passi d'aria.
  Tutti, chiusi nelle loro capanne, s'affannavano a stendere sulle assi i pannolini 
  di tela azzurra dei cento e cento bambini venuti al mondo con l'arrivo dei militari, 
  del giudice Arcano Encarnado e dei guardiani incaricati di vigilare sull'arca 
  triclave, imperfetti frutti dei rapporti tra questi distruttori di imeni e di 
  onori e ragazzine romantiche affascinate dal potere e dal colore delle uniformi. 
  Il gelatinoso prodotto della virilità degli stranieri o «delle 
  uniformi» - come lo chiamava il parroco Julian - s'era trasformato in 
  una peste incontenibile, peggiore della peste da calore e più terribile 
  di quella della vecchiaia: i nuovi nati erano tanti da non trovar posto nelle 
  casupole del villaggio, nelle capanne fatte di fango screpolato e foglie di 
  palma secche.
  Le giovani madri, che non avevano un tetto sotto il quale rifugiarsi e dar riparo 
  alle lunghe catene di figli, grandi come le dita di una mano, percorrevano le 
  strade con i disseccati seni al vento chiedendo alle anime buone un poco di 
  latte e una vecchia camicia per proteggersi dalla pioggia; e finivano nel ventre 
  del fiume con tutti i loro figli perché nessuno apriva loro la porta. 
  E se riuscivano a entrare per forza in una casa ne venivano scacciate: non perché 
  la gente avesse coscienza di pietra e cuore di ferro, ma perché in tutte 
  le capanne c'erano decine di bambini disseminati negli angoli e appesi alle 
  amache. Il più colpito da questa sciagura era il parroco Julian: nessuno 
  si sposava. Le ragazze imploravano i loro compaesani di condurle all'altare 
  anche senza vestito di nozze e senza padrini, ma essi rifiutavano ricoprendole 
  d'insulti: non accettavano una donna che avesse unito i propri ardori con le 
  fregole dei militari. E, guardandole giacere giorno e notte, come scrofe, tra 
  un nugolo di figli e vagiti, pensavano che, alla fin fine, erano preferibili 
  Jaime, suo figlio Josefo e addirittura Herminia, la ragazza che per prima aveva 
  gettato discredito e vergogna su Malena. «Grazie a Dio, Jaime ha salvato 
  la mia figlia da queste canaglie», si consolava Anselma ogni qualvolta 
  la striscia di cotone che faceva da porta alla capanna si sollevava e una mano 
  incerta scivolava all'interno per deporre sul pavimento un nuovo nipote uguale 
  in tutto e per tutto a quelli che lo avevano preceduto: faccia di fucile, occhi 
  come un'arca triclave, corpo rotondo come il corpo d'un giudice, e pelle verde 
  come l'uniforme dei militari.
  Le strade erano deserte, ma le finestre e le mura trasudavano di vagiti e pianti 
  acuti. «Se non conoscessi questo villaggio penserei d'esser caduto in 
  un cesto di polli affamati», disse uno degli intabarrati. E guardando 
  di sbieco i compagni affrettò il passo per non inciampare nelle prime 
  luci dell'alba. Di tanto in tanto il capofila si soffermava perché da 
  una finestra socchiusa mani bianche gettavano fuori un corpicino gelatinoso 
  e rotondo come un verme che cadeva senza rumore in mezzo alla strada. La plaza 
  de las Angustias era deserta; era deserta la strada che portava al palazzo municipale. 
  E il gruppo degli intabarrati vi entrò senza fatica, sicuro di trovare 
  nella cassaforte il denaro ricavato dalla raccolta del cotone e del caffè 
  e quello per la paga dei militari. Nell'ufficio c'era il giudice Arcano, tutto 
  intento a moltiplicare il numero di chilometri che lo dividevano dalla capitale 
  per il peso delle gomme nuove della sua Tartaruga rossa e i galloni di benzina 
  che essa consumava a chilometro. Assorto nell'operazione non s'accorse di nulla 
  finché, d'improvviso, non sentì cadere rumorosamente a terra i 
  libri dagli scaffali, i cassetti dalla sua stessa scrivania e non vide abiti 
  e cose, solitamente raccolti nell'armadio, sparsi dovunque, all'intorno.
  Il ricordo del solenne giuramento prestato, di difendere anche con la vita il 
  patrimonio finanziario e morale dell'affermazione democratica lo attanagliò, 
  agghiacciandolo. E il tellurico ballo di San Vito che lo tormentava fin da bambino 
  gli scoppiò dentro in tutta la sua violenza traducendosi in un inconsulto 
  sussultare delle mani e in un vorticare d'occhi che costrinsero uno degli intabarrati 
  a premergli sulla schiena la canna del fucile. Arcano si girò di colpo 
  e vide uno sguardo incandescente, lucido, sotto l'ala del cappello, si senti 
  alle spalle il peso dell'arma, non resistette e svenne con lo sguardo rivolto 
  al soffitto e contorsioni da serpente. In un cassetto della sua scrivania c'erano 
  pacchi di carta moneta con 1'effige del piccolo caimano e i numeri di serie 
  scoloriti. Arcano, in un ultimo tentativo, dischiuse appena le palpebre filtrando 
  l'immagine dell'uomo sogghignante con il denaro tra le mani e lo riconobbe: 
  «Josefo» pensò, e di nuovo svenne con un flebile «Ahi!». 
  Josefo si calcò con più forza il cappello sugli occhi, ordinò 
  ai suoi uomini di sparare a vista su chiunque intralciasse loro il cammino e 
  uscì per ultimo, schioppo puntato.
  II gruppo scivolò di nuovo nella notte e sulla strada silenziosa. Ma, 
  passando davanti alla casa di Anselma, Josefo sentì alle spalle una specie 
  di calda brezza e poi un gelo corrergli dai piedi alla nuca. D'improvviso fu 
  come risentisse il pesante passo delle cento ombre che s'erano avventate su 
  suo padre il giorno in cui Remigio trovò la morte, e vide, disegnata 
  sul muro, un'ombra ingigantita dalle tenebre con una specie di fagotto tra le 
  braccia. Gli si avventò contro, l'ombra, il machete alto tra le mani, 
  e menò un colpo tale che l'aria ne risuonò come un vaso rotto; 
  ma il machete restò infisso nel nulla come in un palo e l'ombra non riuscì 
  a scansare la coltellata di Josefo che gli entrò nel mezzo, con lo stesso 
  movimento fulmineo con il quale la coltellata di Jaime aveva spacciato Remigio. 
  Si spezzò in due, e il fagotto che teneva tra le mani cadde schiacciandosi 
  al suolo con un fracasso che fece tremare le mura delle case, increspare come 
  onde il cotone delle porte e gridare di terrore la vecchia Anselma. Il grido 
  rimbalzò di casa in casa, e la seconda generazione di vecchie lasciò 
  cadere le rocche con cui tessevano abiti azzurri e rossi per i nipoti; e tutte, 
  con fatica, vincendo gli anni e la ruggine delle ossa, s'affacciarono alle finestre 
  e videro con terrore il machete che ancora oscillava, videro due raggi di luce 
  azzurra scaturire da un corpo alto fatto d'ossa e muscoli in lotta contro un'ombra 
  massiccia, contro il corpo massiccio del tenente Popeye, genero d'Anselma. Fu 
  un attimo: Josefo - un ginocchio sul petto di Popeye - era riuscito a estrarre 
  il suo coltello e già fuggiva mentre il cielo schiariva nelle prime luci 
  dell'alba, i militari s'alzavano dai loro letti squarciando con furia le zanzariere 
  e pensando che, se Josefo davvero esisteva ancora, essi erano davvero ancora 
  giovani e dovevano pur trovare in se stessi, da qualche parte, almeno quel poco 
  di forza necessaria per soffiar via la polvere dalle loro armi e sparargli. 
  Ma Josefo era già lontano; Anselma inginocchiata in mezzo alla strada 
  guardava il corpicino gelatinoso caduto dalle braccia di Popeye mormorando tra 
  sé «è morto, grazie al cielo; questo era il sessantesimo 
  neonato che mi avevano portato»; e il vecchio contrabbandiere Julian passava 
  di casa in casa consolando i bambini in grado di capire: «non dovete piangere. 
  Le vostre nonne sono morte, è vero. Ma almeno hanno avuto il coraggio 
  di morire affacciate a una finestra, guardando il mondo. E le ha uccise la forza 
  dell'amore, perché, dal giorno della scomparsa di Jaime, hanno sempre 
  sognato i suoi occhi, non hanno mai smesso d'amarlo». E i ragazzini si 
  avvicinavano alle vecchie, ormai rigide presso la finestra, estatici guardavano 
  i loro volti pacificati e la felicità che riempiva i loro occhi e le 
  labbra dolci d'un tenero sorriso, più giovani e più vive ora di 
  prima. Julian ne sollevò tra le braccia i corpi leggeri, li depose con 
  precauzione sulle panchine ch'erano appartenute alla generazione delle vecchie 
  svanite tra le onde, mise loro la conocchia tra le mani e attese che il loro 
  trepido sorriso svanisse e i corpi si irrigidissero e decomponessero, o svanissero 
  nell'aria come i muratori dei palazzi di giustizia.