Biblioteca Multimediale Marxista
L'annuncio della centesima cattura di Josefo Esperanza giunse al penitenziario
a mezzanotte; e il rintontito guardiano del primo padiglione comunicò
la notizia ai detenuti in cambio di un pranzo a base di pesce e pollo. Lo portarono,
Josefo, prima dell'alba, quando tutti avevano gli occhi incollati di sonno e
sembrava che nessuno al mondo potesse svegliarsi in tempo per vederlo entrare.
Camminava tra cinque poliziotti e dieci soldati ancora bagnati di brina e coperti
di fango; aveva mani e piedi legati da una stessa catena che gli consentiva
appena di muoversi; avanzava rigido e lento come una statua. Due passi, e poi
cadeva senza neppure inclinarsi. Allora i poliziotti lo sollevavano prendendolo
sotto le ascelle mentre i soldati gli punzecchiavano i fianchi con le baionette
e lo afferravano per i capelli costringendolo a rimettersi in piedi e a continuare.
Ci mise mezz'ora a percorrere i venti metri che lo dividevano dal reticolato
del primo padiglione, quello dei detenuti ricchi e inoffensivi, amici del direttore
del penitenziario, Saverio Cien Puertas, e del pretino Asuncio, rotondo come
un vitello e con le spalle curve come il profilo di una montagna, e fedeli assidui
alla messa che quest'ultimo recitava ogni mattina alle sei, da trent'anni.
Le forze dell'allampanato Josefo si esaurirono prima ch'egli giungesse al reticolato
del padiglione; senza ansimare, bagnato di sangue e di fango, cadde bocconi.
Questa volta i soldati gli infilzarono nel costato le punte delle baionette
e lo tirarono per i capelli fino a lasciarlo quasi calvo; gli tagliuzzarono
le piante dei piedi con i coltelli e gli premettero sulla schiena le canne dei
fucili. Inutilmente. Josefo sembrava un cadavere, una pietra, e già il
sangue cominciava a scorrergli in rivoli dalla faccia, dalle mani e dai piedi;
e gli si spargeva intorno al corpo, e gli circondava testa e braccia, e lo inchiavardava
al suolo mentre i poliziotti cercavano invano di recidere quei mille fili rossi.
Il guardiano del raggio - che conosceva le incredibili risorse di Josefo in
materia di fughe - suggerì ai soldati di sparare su quei fili di sangue
che già si trasformavano in oscuri fiumi in piena intorno a Josefo: ma
le pallottole si spersero nella corrente, in un gorgogliare di pioggia. Allora,
impietosito nel vederli trasudare disperazione, chiamò gli altri guardiani
che stavano andando a riposare dopo aver trascorso la notte vigilando su porte,
reticolati e finestre che ormai da trent'anni conoscevano come il palmo delle
loro mani. Proprio con le mani cercarono di arginare il fiume di sangue; ma
subito capirono che rischiavano di restarne invischiati; e allora ruppero i
loro coltelli d'ordinanza a doppio taglio contro quel sangue che si stava coagulando.
Si preparavano al secondo assalto con zappe da ortolani e raffiche di mitra
quando dalla porta dei padiglione entrò Asuncio portando tra le mani
un messale e una bottiglia di acqua benedetta. Li costrinse a togliersi il berretto
e a ripetere le orazioni ch'egli recitava; asperse d'acqua il corpo di Josefo,
lo incensò da testa a piedi come un cadavere pronto per la fossa, lo
esorcizzò, gli lesse il requiem e finì cantandogli tre strofe
mortuarie e ordinandogli di alzarsi. Tutti, Asuncio compreso, si inginocchiarono
in attesa che il sangue - ormai di un colore ferroso - si decoagulasse; ma josefo
rimase inchiodato al suolo, con la schiena illuminata dalla prima luce del giorno.
Ed erano già le sette del mattino; la gente s'era svegliata chiedendosi
quale fine JJosefo avesse fatto, e i cinquemila detenuti del penitenziario uscivano
dalle celle collettive per ammazzare l'ennesima giornata dormendo per terra;
e il direttore Cien Puertas beveva la prima tazza di caffè e quanti avevano
l'abitudine di ascoltare la messa si riunivano - preoccupati per il mancato
arrivo di padre Asuncio - a raccontarsi i rispettivi sogni per capire se in
essi vi fosse una qualche premonizione di libertà o di morte. Intanto,
il guardiano del primo raggio, con il naso incollato al reticolato, puntava
la pistola contro Josefo per evitare che ne combinasse un'altra delle sue: un'altra
fuga, insomma.
Così, bocconi, lo trovò il direttore Cien Puertas: lo guardò
con rabbia e per cinque minuti maledisse quei militari rincoglioniti, incapaci
di farlo alzare. E per altri cinque minuti bestemmiò contro l'impossibilità
di smuoverlo, e gli si sarebbe seccata la gola per cinque eternità se
un condannato all'ergastolo, che stava guardando la scena torcendosi dal ridere,
non avesse gridato che le magie si contrastano soltanto con le magie. Cien Puertas
gli mandò un carceriere, che parlamentasse. E questi tornò con
un coltello d'osso sul cui manico era incisa una faccia di meticcio, o d'indio.
Una faccia di quelle, comunque.
«Toglietegli i lacci e le catene e grattate via il sangue», gridò
il condannato senza smettere di ridere.
Cien Puertas osservò a lungo il manico del coltello prima di mettersi
a raschiare: e il primo colpo trasformò il sangue impietrato in una massa
morbida che gli schizzò in faccia: il secondo staccò la massa
dai piedi di josefo, il terzo fece della massa un fiume che inondò il
cortile. «Adesso», disse Cien Puertas ai guardiani, «sollevatelo
e portatelo in direzione. E al detenuto che ci ha fornito il coltello aprite
un altro processo, qualsiasi. E voi, soldatini di merda e poliziotti morti di
fame, non aspettatevi nessuna medaglia: il merito è solo mio».
_
Josefo si alzò in un fiume di sangue, trasformato, bello da ubriacare,
con gli occhi di smeraldo, il corpo saldo eretto e privo di ferite, i capelli
lunghi, lisci, intatti.
Cosí lo trovò Cien Puertas: dritto davanti alla scrivania della
direzione, lo sguardo ironico fisso sulle montagne di pratiche che gialle e
impolverite dagli anni incorniciavano in pacchi magistralmente ordinati i quattro
lati del tavolo. E, entrato con passo marziale, Cien Puertas licenziò
con gesto perentorio la scorta armata che l'accompagnava ordinando nel frattempo
che si facesse subito avanti il caposquadra Elisandro, comandante della guardia,
in attesa dietro la porta. Poi sedette al proprio posto e posò ostentatamente
sul tavolo l'arrogante pistola che aveva in canna le arroganti pallottole l'una
e le altre fuse appositamente per Josefo in una segreta fonderia andina.
Elisandro sogguardò Josefo e (mentre i suoi occhi andavano da Cien Puertas
alla pistola) mise sul tavolo il primo dei tre libri che raccoglievano e raccontavano
la criminale storia delle due generazioni (conosciute) da cui Josefo procedeva:
il primo membro noto della famigerata famiglia era suo nonno, di cui nessuno
sapeva se avesse avuto un padre che - a sua volta - nessuno si limitava a immaginare
concepito soltanto da una diavolessa. Così, per mancanza di fantasia
e per l'oscuro timore di richiamarsi al nome del demonio o, peggio ancora, di
evocarne anche se mentalmente le fattezze, i più dicevano che quel nonno
doveva essere il frutto d'un immondo amore tra una incallita prostituta e un
ladro inveterato, poiché solo gente siffatta può generare siffatti
criminali.
«I crimini di tuo nonno, e per logica conseguenza i tuoi», disse
Cien Puertas, «sono scritti su queste pagine. Come, per altrettanto logica
conseguenza, dovrai trascorrere i giorni che ti restano tra le mura di questo
penitenziario. E considerarti anche fortunato».
Josefo levò pigramente gli occhi dall'enorme dorso del libro che Cien
Puertas teneva tra le mani e con lo sguardo gli tagliò le parole in bocca.
Poi volse quello sguardo alla faccia del comandante Elisandro segnata da rughe
scalpellate, alle sue labbra cadenti, alla sua mano sinistra su cui risplendeva
un grosso anello d'oro. Era nuovo, del penitenziario, Elisandro. L'ulceroso
comandante che lo aveva preceduto era morto un giorno dopo l'ultima fuga di
Josefo, vittima di una orribile sofferenza morale che lo aveva portato - in
ventiquattr'ore - a uno stato di abbattimento, di depressione e di tristezza
insostenibili per un essere umano. Con l'incarico, Elisandro aveva ereditato
dal morto anche l'anello d'oro che tradizionalmente passava da comandante della
guardia a comandante della guardia e che egli - per la dimensione davvero eccessiva
delle dita - era costretto a portare infilato a metà mignolo. Sotto quello
sguardo, ora fisso sull'anello, Elisandro sussultò; poi, bruscamente,
infilzò la baionetta nel costato di Josefo per costringerlo a guardare
di nuovo il dorso del libro. Era contrassegnato, quel libro, dal numero uno
e da un titolo in caratteri gotici che diceva: «Josefo Esperanza, processo
primo, relativo ai crimini commessi da suo nonno Angel Lazaro e imputati al
nipote, visto che nessuno finora li ha scontati».
Pigri, gli occhi di Josefo si posarono per un attimo sull'iscrizione. Poi disse,
e le parole colarono lente: «Ciò che mi stupisce è che questo
sia il primo processo fatto nel paese e che sia proprio io, Josefo Esperanza,
uomo con i piedi piantati in questo secolo, a dover pagare per i crimini - cosiddetti
- dei miei antenati. Secondo il vostro libro, la storia del paese comincia con
mio nonno; oppure, sempre secondo il vostro libro, risulta che, prima, nessuno
ha ammazzato, né rubato, né comprato, né venduto, né
mangiato carne di negro, indio, meticcio o che dir si voglia».
Per tutta risposta, Cien Puertas gli ordinò seccamente di prender posto
sulla sedia sconquassata di fronte alla scrivania e Josefo sedette controllandone
e controllando il proprio equilibrio, rigido come una barra di ferro, nell'attesa,
non ansiosa e neppure paziente ma nell'attesa e basta, che l'accusatore cominciasse
a leggere quell'interminabile storia di banditismo. E Cien Puertas, prima di
cominciare, lo avvolse - lui, allampanato, solido e dritto - in quella che,
definiva con arroganza boriosa la propria «occhiata universale»,
con la quale, da dietro la scrivania, trafiggeva l'imputato che gli stava di
fronte, quale esso fosse, per inchiodarlo senza scampo alle sue responsabilità
di criminale e alle più che scontate conseguenze.
Poi si lasciò andare a un libero odio e cominciò a leggere con
grida strazianti e altissime, come qualcuno gli infilasse spilli in tutto il
corpo, la storia degli orribili germi della criminalità di Josefo nati,
anni addietro, dal nonno di lui, - Angel Lazaro de la Trinidad Santisima - nel
giorno in cui quest'essere sacrilego e inumano dagli occhi di topo, uscito da
ventre ignoto in luogo sconosciuto, aveva preso d'assalto e per di più
a mezzanotte gli archivi della Santa Inquisizione della costa, accuratamente
nascosti in quello che era stato un tempo il salone delle feste del palazzo
episcopale e in settantacinque armadi coperti da due strati d'assi e di piombo.
E aveva rubato, senza il minimo rumore, la più completa collezione di
testi di stregoneria esistente al mondo, strappata volume per volume dai membri
del tribunale religioso alle migliaia di streghe bruciate vive, ghigliottinate
e impiccate nelle piazze principali dei paesi e dei paesini della costa perché
colpevoli di aver praticato la magia in sedute segrete, o d'aver svolazzato
sulle case e sui porti terrorizzando i pescatori notturni di granchi, o d'aver
insegnato formule misteriose e malefiche ai contadini, ai braccianti, agli uomini
di fatica che agognavano di possedere un qualsiasi potere magico per eliminare
il loro nemico più acerrimo, il santo proclamato più santo di
tutti i Caraibi: Pedro Claver, nero come la notte e piccolo come la più
nana delle streghe. Pedro Claver che, non sapendo più come dimostrare
la propria riconoscenza ai bianchi per la libertà da loro concessa, consumava
la propria vita battezzando schiavi provenienti dall’Africa e inducendoli,
con parole di conforto, ad accettare le loro catene con rassegnazione tranquilla.
E agognavano, quel contadini, quei braccianti, quegli uomini di fatica, anche
di far sparire dalla faccia della l'arrogante governatore Villas Mil, fratello
dell’inafferrabile amore di tutto il porto: la bella e febbrile Maria
Centeno, la donna che conosceva il luogo nel quale era nascosto il tesoro dei
più straordinario dei suoi amanti, il pirata Morgan; e che, fin dalla
propria giovinezza in boccio si era data anima e corpo ad ammassare denaro facendo
uso della propria perturbante bellezza, sposando governatori, conti e cavalieri
che faceva poi regolarmente assassinare da altri amanti qualche giorno dopo
le nozze, nel letto maritale, per frutto succoso ambito ereditarne i tesori
ed essere di nuovo libera, di nuovo frutto succoso ambito da altri sudditi della
reale corona. Assassinato il suo ultimo marito, il governatore Cuerpo Sin Alma,
e morto di vecchiaia l’ultimo amante, il correggitore Alma Sin Cuerpo,
restò sola, sperduta tra una muta di spasimanti senza titoli né
fortuna e con un bruciante desiderio di fuggire dove nessuno la riconoscesse
e la desiderasse.
Così, in un'alba tutta d'oro come l'oro che tanto amava, saltò
groppa a un purosangue portando sottobraccio il liuto d’oro che aveva
lo straordinario e misterioso potere di renderla immune dalla vecchiaia. Quando
una ruga, un accenno, minacciava di incresparle fronte, labbra o mani, suonava
quel liuto e la sua musica angelica cancellava di colpo ogni rischio di vecchiezza
trasportando cavalieri e braccianti, contadini e miserabili in uno stato di
nirvana spirituale, inebriandoli al punto che ciascuno la voleva per sé,
allora e per sempre, come unica amante, per poter ascoltare all’infinito
la magica tenerezza di quelle note. Il rumore degli zoccoli del cavallo si perdette
mentre giungeva e si diffondeva al galoppo la notizia dei furto dei libri.
Subito, Chiesa e governo attribuirono l’impresa fantastica più
che temeraria, ai demoni, amici delle tre ultime streghe bruciate vive sulla
porta del palazzo dell'Inquisizione davanti a mille soldati atterriti nel vedere
che esse distillavano acqua dal ventre, gocce fitte che cadevano sulle fiamme
spegnendole ogni qualvolta l'arcivescovo Luque ravvivava il fuoco. Tutt'intorno,
la gente - abituata ma sempre affascinata dal gioco della morte che distruggeva
il volto delle condannate e ne soffocava i gesti di terrore in spirali di fumo
denso - seguiva la lotta ineguale tra l'acciarino di monsignor Luque e quella
pioggia sottile e misteriosa. Sfinito dalla contesa impossibile c 'con i polpastrelli
bruciacchiati, monsignor Luque aveva ordinato ai soldati di montare le griglie
usate per arrostire pubblicamente i vitelli nei giorni di festa e carnevale:
i soldati le arroventarono tanto che per tre giorni il paese puzzò di
carne bruciata e monsignor Luque fu più che mai convinto d'aver ragione
nel sospettare una strettissima intesa tra streghe e demoni.
Così, quando alcuni dei libri trafugati vennero ritrovati sotto i sacchi
di mais che Angel Lazaro conservava nella sua capanna, non rinnegò intimamente
la propria tesi né tantomeno la smentì pubblicamente: si limitò
a far bruciare senza spiegazioni le ultime streghe imprigionate nei sotterranei
del palazzo e prese accordi con il governatore Villas Mil affinché questi
cedesse la carica al fratello per gettarsi anima e corpo alla caccia di Angel
Lazaro.
Tutte le mattine, alle sei, Villas Mil usciva dal paese in cerca di Angel Lazaro;
e tutte le sere, alle sei, quanti avrebbero voluto vederlo penzolare da un albero
aspettavano sulla piazza dell'Inquisizione che l'ex governatore facesse ritorno
trascinando il bandito in catene, legato alla coda del cavallo. Villas Mil (rosso
di vergogna e incalzato dalle urla della gente furiosa e. insieme impaurita
per le già inarrestabili leggende che circolavano sui poteri soprannaturali
attribuiti dai demoni a chi avesse avuto l'ardire, e l'intelligenza, di rubare
i libri) ripeteva che nessuno poteva chiedergli più di quanto non facesse:
perché egli non era un Tomaso de nell'aria, e non aveva la facoltà
di spostarsi nell'aria, come il suo nemico.
Dopo anni, l'ex governatore scoraggiato, perduto nell'inutile reiterazione della
caccia quotidiana e dell'autodifesa, imprigionato dalla rete di rughe profonde
che gli segnavano il volto e dalla stretta della vecchiaia, abbandonò
l'impresa: nella solita piazza e di fronte alla solita folla - ma a un'ora diversa
per evitare l'ingerenza di monsignor Luque - ammise la propria bruciante sconfitta
e la propria impossibilità, ormai fisica oltre che morale, di continuare
nella lotta. Tuttavia, questa tardiva dimostrazione di umiltà non convinse
nessuno: anzi, alimentò il terrore delle streghe e dei demoni, cosicché
nessuno osava più pescare di notte, riunirsi in feste sia pur privatissime,
o uscire dalla città dopo il De profundis.
Protesta e terrore si coagularono ed esplosero un venerdì santo: e sembrava
fossero passati secoli dal giorno in cui i libri erano stati trafugati. L'imponente
processione organizzata da monsignor Luque in onore di San Pedro Claver si mosse
compatta e rigida dalla piazza dell'Inquisizione alle otto in punto della sera:
ora che - in teoria - avrebbe dovuto essere la più propizia all'apparato
militare di Dio impegnato nella caccia a spiriti, streghe e demoni consociati
tra loro, nascosti tra le crepe dei vecchi palazzi o nelle fenditure delle muraglie
dei castelli che circondavano la città per difenderla dalle invisibili
armate di Angel Lazaro. Naufragando tra le bardature dei cavalli dei soldati,
le tonache di canapa di settecento religiosi e i neri abiti dei seminaristi,
monsignor Luque avanzava sotto il baldacchino: portava alto tra le mani un Pedro
Claver in miniatura.
D'improvviso, sul canto bianco dei seminaristi, sulle voci dell'immenso coro,
cadde uno scroscio di risa sonanti: poi, nel cielo, apparvero a migliaia cerchi
di fuoco, e roteavano, e rimbalzavano di tetto in tetto, e dai tetti agli angoli
delle strade, e poi in alto, per ripiombare ancora sui tetti. 1 bambini si paralizzarono
bagnati di sudor freddo e impauriti fino alle lacrime; i cavalli si impennarono
con nitriti e risuonare di bardature rinculando e scompigliando le file dei
cavalleggeri, mentre i preti inchiodavano lo sguardo al suolo e raddoppiavano
il fervore dei cantici. Allora i militari, stimolati dall'esempio e dalla necessità
di mostrarsi all'altezza del compito, riorganizzarono le file costringendo i
bambini a riprendere la marcia. La processione svoltò l'angolo frettolosa
e ordinata: e nessuno osò più rialzare il capo mentre si ripercuotevano
nell'aria le risate beffarde e i cerchi di fuoco, sospinti dal vento marino,
giravano vorticosamente sulla folla per innalzarsi poi nel cielo dove si trasformavano
in punti lucenti, simili a stelle.
«Questa volta ha vinto l'apparato militare di Dio», pensò
monsignor Luque. Un ufficiale inamidato uscì dalle file e spalancò
il portone della, chiesa, i cavalli si imbizzarrirono rifiutandosi di entrare,
i fedeli li scansarono, entrando in fretta: ma nelle navate vennero aggrediti
da un vento carico di rumori e cigolii che impazzito fischiava sulle loro teste
spegnendo lampade e candele. Cessò quando la gente, accartocciata dalla
paura, si sistemò sotto le tre mastodontiche navate: ma subito si trasformò
in un insopportabile odore di zolfo, un uragano che vorticava scrostando mura
e tetti. Allora monsignor Luque si mise a gridare esortando tutti ad allontanare
dalla propria mente pensieri impudichi e ad assumere un atteggiamento degno
e conforme alla casa di Dio. 1 fedeli annichiliti si asciugarono il sudor freddo
e la loro pelle ricuperò. un po' di colore. Ma la pace durò poco:
sull'altar maggiore, ai piedi di una gigantesca statua di Pedro Claver, comparvero
tre forche di legno con mille corde dalle quali penzolavano i Grandi dell'Inquisizione:
viceré, comandanti, cavalieri e vescovi che, magari solo con il pensiero,
avevano calpestato la terra dei Caraibi; e comparvero anche cinque graticole,
dieci volte più lunghe e più larghe di quelle che monsignor Luque
nascondeva nel proprio palazzo. Su di esse, e su altrettanti fuochi alimentati
da una fiamma celeste, cadde dall'alto il corpo di Angel Lazaro. I suoi cinque
metri di statura si scomposero e frantumarono dondolando dolcemente sulle graticole:
con l'ultimo sfarfallare dell'ultimo pugno di cenere, le forche e il loro cigolare
infernale, e le graticole con la loro brace, svanirono per incanto. La visione
durò un attimo. Lacrime di terrore e grida di pietà si alzarono
fuori dalla cattedrale: dentro non ci rimase un'anima.
Alle sei del mattino il sacrestano si fece coraggio ed entrò in chiesa.
Il cadavere di Angel Lazaro giaceva nella navata centrale, trafitto da pugnalate,
orribile. Ma il sacrestano vinse orrore e terrore in nome della fede che gli
ordinava di seppellire i morti. E avvolse il cadavere nei suoi tre metri di
barba nera e nei suoi settant'anni di vecchiaia: poi lo affidò alle onde
del mare.
La morte di Angel Lazaro non convinse monsignor Luque. Quella stessa mattina
inviò un gruppo di armati a perquisire la capanna di lui, dimenticata.
Per entrare, i soldati dovettero spezzare a colpi d'ascia le ragnatele che ne
nascondevano la porta. All'interno, su una sedia di vimini corrosa dal tempd
e dai topi, c'era una donna: la sollevarono, respirava ancora, anche se la spaventosa
vecchiezza non le permetteva di muovere un passo e se il volto rugoso come uva
passita e le mani contorte come un torsolo di mais le davano un aspetto di mummia.
La sollevarono e la portarono davanti alla forca che il tribunale dell'Inquisizione
custodiva gelosamente, in ricordo dei tempi eroici, nel salone dei ricevimenti
di monsignor Luque. Prima di salire al patibolo, la vecchia trovò la
forza di raccontare qual era stata la fine di Angel Lazaro. Lo aveva ammazzato
il suo stesso figlio, Jaime, e ne aveva ridotto il corpo come una spugna, a
pugnalate. Angel Lazaro stesso aveva fabbricato per lui, Jaime, dieci coltelli,,
ricavati dalle ossa di altrettanti preti morti: e sull'impugnatura dei. dieci
coltelli aveva sbozzato malamente il proprio volto; e li aveva consegnati, i
coltelli, a Jaime dicendogli: «saranno la tua difesa o la tua condanna,
la difesa o la condanna dei tuoi discendenti».
Ma Jaime, il cui cervello era imbevuto di idee di rivolta più che di
magia, Jaime che non sopportava di vedere la snella figura del padre rinsecchire
per gli anni; Jaime permeato da un'ansia giovanile e dall'odio. contro tutto
quanto non si trasformava in azione, aveva pugnalato il padre nel sonno nell'ora
stessa in cui la processione si avviava: cercando, lui che non credeva agli
spiriti, vendetta nel terrore della gente che mai avrebbe saputo quale fosse
stata la fine di suo padre. Ammazzando l'ultimo sopravvissuto della stirpe degli
stregoni impenitenti e animosi nel momento stesso in cui nella chiesa si celebrava
la festa in onore di San Pedro Claver, si potevano richiamare per l'ultima volta
le streghe e i maghi i cui spiriti vagavano nello spazio. Lo aveva detto Angel
Lazaro, e Jaime - sapendo che il padre era l'ultimo rampollo di questa razza
- lo aveva freddamente assassinato.
Il sacrestano, chiamato a rendere conto del cadavere di Angel Lazaro, si fece
largo in mezzo alla folla che gremiva la piazza spiegando che lo aveva gettato
in mare. Monsignor Luque, con volto atteggiato a disprezzo sentenziò:
«Così hai coperto un crimine». E alzò tra le bianche
mani un nodo scorsoio e glielo annodò alla nuca e poi tenne nodo e corpo
sospesi nell'aria, finché i movimenti frenetici si placarono e la lingua
del sacrestano si confuse con il nodo. Poi lasciò andare il corpo minuscolo
che cadde di colpo, spiaccicandosi contro le pietre del selciato.
«Il figlio di Angel Lazaro» disse la vecchietta minuta mentre monsignor
Luque studiava un nodo speciale che si confacesse alla sua gola sottile, «è
più pericoloso del padre: la terra tremerà sotto i suoi piedi».
Ma non riuscì a finire la frase. Monsignor Luque non si preoccupò
più di trovare il nodo giusto: con frenesia le fece girare cinque volte
il cappio intorno alla gola; poi la sollevò accuratamente, lentamente,
preoccupandosi che il corpo della vecchia non si sfracellasse al suolo, come
quello del sacrestano. Per due ore la gente guardò il córpicino
muoversi al vento, come un pendolo; per due ore ascoltò incantata il
rumore di quel corpicino che sbatteva contro le fiancate del patibolo; e per
due ore benedisse in silenzio le viscere di chi aveva partorito un figlio capace
di assassinare il proprio padre.
Cien Puertas corse con gli occhi alle ultime righe del libro. Poi lo chiuse
di colpo e passò subito a un'altro volume dalla rilegatura funebre che
il comandante Elisandro gli aveva messo a portata di mano, corrugò la
fronte, lo aprì alla prima pagina e scandì lentamente: «Storia
dei crimini del parricida benedetto dal popolo: jaime Lazaro».
«Padre del qui presente prigioniero» aggiunse josefo toccandosi
con l'indice il petto.