Biblioteca Multimediale Marxista
La strage di piazza Fontana ha cambiato la storia d'Italia. Su questo non esiste
praticamente difformità di opinione tra nessuno dei principali o secondari
soggetti politici, osservatori, politologi, storici attendibili o contafrottole
di bassa lega. Le bombe esplose il 12 dicembre inaugurarono la "strategia
delle stragi", prolungatasi fino al 1980 - quella con il bilancio più
alto di vittime, il 2 agosto, alla stazione di Bologna. Tutte incontrovertibilmente
stragi di Stato, ovvero stragi compiute da uomini facenti parte direttamente
degli apparati più "coperti" dello Stato, oppure da fascisti
da loro personalmente organizzati, indirizzati, finanziati, protetti - senza
alcuna eccezione, fino al momento di andare in tipografia con questa nuova edizione.
Il libro La strage di Stato ha a sua volta cambiato la storia di questo paese.
Non la "mentalità della sinistra", ma proprio la Storia in
senso stretto. Ha infatti impedito che la strage di piazza Fontana raggiungesse
il suo scopo: far scattare un "riflesso d'ordine" nel paese, chiudere
il biennio rosso '68-'69, rinchiudere nuovamente gli studenti nel ghetto delle
scuole e gli operai nell'inferno delle fabbriche, senza più resistenze,
contestazioni, antagonismo.
Come è potuto riuscire un libretto scritto da 15 anonimi compagni qualsiasi,
alcuni dei quali allora praticamente bambini (con il metro attuale), a fare
tanto?
Con l'inchiesta, attenta e non indulgente alle facili suggestioni. Una contro
inchiesta, più precisamente.
Ma andiamo con ordine.
Lo scopo politico della strage di Milano poteva essere realizzato soltanto se
tutta l'Italia fosse rimasta convinta che i responsabili fossero alcuni di quegli
"estremisti di sinistra" che quotidianamente attraversavano in corte
le strade della penisola. I più deboli tra quegli "estremisti"
- sul piano politico, delle allenze o anche solo nell'immaginario sociale -
erano gli anarchici. Loro - fu deciso nelle segrete stanze dei palazzi governativi
e di quelli della cospirazione governante - dovevano essere indicati come i
responsabili di una mattanza tanto truce quanto ingiustificabile. Non un'azione
di guerriglia, per quanto poco comprensibile potesse essere. Una strage casuale,
invece, indifferente nella scelta delle vittime. C'è un legame di continuità
- ma anche una decisa rottura - con la strage di Portella delle Ginestre, compiuta
il primo maggio del '47. Quella infatti aveva preso di mira una manifestazione
sindacale, "i comunisti" in festa sotto le bandiere rosse. Troppo
facile individuarne i mandanti politici. A Milano nel '69 si prova a rovesciare
le parti vittima-carnefice, ma ad esclusivo beneficio dell'immaginario popolare.
Il gioco, si diceva, non riesce grazie alla resistenza del movimento degli studenti,
che istintivamente non accetta l'idea stessa che gli anarchici possano essere
responsabili di una strage del genere. Ma un ruolo enorme, decisivo, va al movimento
operaio, che fin dal primo momento si slega dalla tutela idiota del Pci - altrettanto
immediatamente aggregatosi tramite il proprio quotidiano, l'Unità, al
coro dei reazionari che gridavano al "mostro Valpreda".
Il gruppo di compagni che ha redatto questo libro, giorno dopo giorno, dà
corpo alla convinzione di tanti. La strage è di Stato. E lo provano proprio
smontando pezzo pezzo l "'inchiesta" poliziesca che per mano del commissario
Calabresi, del questore Guida e del capo della squadra politica, Allegra, si
erano indirizzate "a colpo sicuro" sugli anarchici.
L'altro elemento che scombina il "piano" di incriminazione di Valpreda
e compagni è la morte di Giuseppe Pinelli all'interno dalla questura
di Milano. Per giustificare questa morte gli "inquirenti" milanesi
fanno ricorso a una massa di "giustificazioni ad hoc" che, nel loro
insieme, compongono un quadro senza senso, una massa di contraddizioni che è
da sola un ammissione di colpevolezza. Smagliature nella trama della "verità
di Stato' che doveva seppellire gli anarchici - e con loro il '68-'69 - sotto
l'infamia e la condanna popolare. Dentro queste smagliature gli autori della
controinchiesta infilano il robusto cuneo dell'intelligenza politicamente orientata;
niente affatto cieca o preconcetta. Fino a smontare completamente la versione
della polizia sia in merito alla strage di piazza Fontana, sia alla morte Pinelli.
I due fatti stanno insieme, indissolubilmente. Se gli anarchici sono innocenti,
la polizia è colpevole per la morte di Pinelli. E anche per la strage
(sa chi sono i responsabili, o chi l'ha ordinata, ma si muove consapevolmente
e volontariamente all'interno dello stesso "disegno criminoso", indirizzando
le indagini nella direzione voluta da chi ha compiuto la strage).
Di qui non si esce. La versione finale della procura di Milano sulla morte di
Giuseppe Pinelli (un "malore attivo"; non proprio un suicidio, ma
quasi) è un monumento all'impunità dei funzionari dello Stato,
all'ipocrisia del potere, alla mai abbastanza riconosciuta dipendenza della
magistratura dal potere politico. Il fatto che l'archiviazione delle indagini
sulla morte di Pinelli porti la firma di Gerardo D'Ambrosio è la chiusura
di un cerchio - logico e politico - non un "incidente di percorso".
Certo, oltre D'Ambrosio, alcuni altri "santi" dell'iconografia ufficiale
escon male da queste pagine. Lo stesso Calabresi, credibilmente raggiunto d
un attentato di sinistra, e Occorsio, ucciso dal neofascista Concutelli, non
fanno una gran figura di "democratici". Ma questo è un problema
di chi nel "doppio Stato" crede. Non degli antagonisti.
La controinchiesta non si limita a demolire quella poliziesca. Va un attimo
più in là, individuando nei fascisti i possibili "manovali"
di una strage decisa "nelle alte sfere". È straordinario come
in questa autentica inchiesta non venga mai smarrito il senso della realtà,
della misura, l'attenzione alla verità per come è.
Questo, infatti, non è un libro dietrologico. Non ricostruisce fatti
trascegliendo solo gli avvenimenti che possono far comodo alla versione che
si intende sostenere. Non chiude gli occhi di fronte alla violenza dicendo -
cioè mentendo - che "la violenza è solo fascista". Sa
vedere e distinguere la violenza dei fascisti, quella dello Stato e anche quella
del movimento antagonista. Se c'è conflitto - sembra banale dirlo, ma
a molti suona oggi quasi come un'eresia - i colpi si prendono, ma si danno anche.
Questo libro non ha insomma nulla a che spartire con quella sub-cultura della
"teoria del complotto universale" fiorita negli anni successivi. Gli
autori non cadono mai nella trappola della teoria del "doppio Stato",
cara ai dietrologi (pseudo-storici) di ascendenza Pci che si sono, al massimo,
limitati a definire le stragi come semplicemente fasciste. Non credono insomma
che in Italia sia mai esistito uno" Stato buono" che conviveva conflittualmente
con quello "cattivo". Lo Stato era ed è soltanto uno: l'apparato
(i servizi, la polizia, i carabinieri, la magistratura, ecc.) non si muove indipendentemente
dal potere politico. Ma lo Stato non è neppure la riproduzione organizzata
delle molteplici presenze politiche in parlamento. Esistono anche nell'apparato
i "sinceri democratici" o semplicemente i funzionari onesti. Ma la
controinchiesta svela senza possibilità di errore come i secondi vengano
sempre rimossi, sostituiti, allontanati, quando la loro opera non coincide con
le finalità dell'azione generale dell'apparato.
Senza teoria del "doppio Stato" non ci può essere dietrologia.
La dimostrazione di una simile affermazione sta tutta nel fatto che quasi quattro
anni di governo di centrosinistra (la stessa formula in vigore nel '69, ma con
in più una fetta consistente dell'ex Pci) e un ministro dell'interno
ex "comunista:" (Giorgio Napolitano) non hanno fatto uscire dagli
archivi una sola notizia in più sulle stragi e i loro autori. Quando
i dietrologi sono andati al governo, insomma, la verità sulle stragi
è rimasta occultata esattamente come prima. Il che dimostra non solo
la loro malafede, ma l'inattendibilità stessa della "teoria".
In questo senso La strage di Stato è un libro sull'irriformabilità
democratica dello Stato, quanto meno di questo paese, sul suo consistere reazionario
indipendentemente dal succedersi di governi che se ne servono senza mai metterlo
in discussione.
Senza illusioni su una sempre invisibile "parte buona dello Stato",
insomma, ci può invece essere la capacità di vedere le cose come
stanno. È questa inchiesta che porta per la prima volta alla ribalta
della notorietà nomi che diventeranno tristemente famosi nei decenni
successivi: Sindona, Màrcinkus, Rauti e tanti altri che ricorreranno
come una litanìa in tutti gli scandali a sfondo golpistico tra i '70
e gli '80.
Dopo trent'anni le stragi sono ancora e sempre "impunite". È
un'espressione ormai consunta. Perché mai lo Stato dovrebbe punire se
stesso per quello che ha fatto? Perché dovrebbe, se i movimenti che lo
misero in crisi, e per la cui repressione la strategia delle stragi prese corpo,
non sono più sulla scena politica? Perché dovrebbe criticarsi,
se i suoi più accesi critici hanno percorso in pochi anni la via del
"pentimento" e l'approdo al liberismo più selvaggio, al bellicismo
senza remore, alla distruzione sistematica delle residue garanzie della forza
lavoro?
Al contrario, quanti si sono opposti allo Stato stragista - qualcuno anche armi
alla mano - sono stati tutti ,e più che duramente "puniti".
E oltre duecento prigionieri politici di Sinistra, e altrettanti esuli, a vent'anni
dai fatti, stanno ancora lì a dimostrarlo. Come non mettere confronto
la raffica di assoluzioni nei processi per piazza Fontana, Brescia, l'Italicus,
la stessa stazione di Bologna, e i ben trentadue ergastoli dati - e scontati
- per il sequestro di Aldo Moro? Come non veder che i Merlino, i Delle Chiaie,
i Tilgher sono tuttora personaggi politica mente attivi, protetti, assistiti,
senza aver praticamente mai conosciuto la galera? L'evoluzione degli avvenimenti
a partire dal '69 non lasci molti dubbi. Al di là delle diverse teorie
e progetti politici dei diversi gruppi armati di sinistra negli anni '7O, è
storicamente certo - evidente, diremmo - che la straordinaria partecipazione
quantitativa alle organizzazioni armate di sinistra trova una delle sue più
forti ragioni proprio nella reazione allo Stato delle stragi.
Un libro, dunque, non per "ricordare". Leggere La strage di Stato
serve a capire l'oggi, da dove viene questo paese, da quale storia sorge il
presente, di quali infamie sia capace il potere pur di conservarsi. Un libro,
ma soprattutto un metodo. Che non è l'esercizio della "memoria"
costa moltissimo e dura sempre troppo poco - ma un modo di guardare il presente.
Una diffidenza vigile, una convinzione non contingente nelle proprie ragioni,
un interrogarsi costante. Guardare con gli occhi ben aperti, non credere alle
favole dei media, imparare a distinguere sempre (tra il compagno ingenuamente
estremista e l'agente provocatore infiltrato, per esempio!). Perché l'antagonismo
ha bisogno di intelligenza, soprattutto. Di "rabbia" è fin
troppo pieno questo schifo di mondo.
Odradek
Il "gruppo dei compagni/compagne che indagarono e scrissero 30 anni fa
per smascherare la strage di Stato" ci ha chiesto di rieditare questo aureo
libretto e farlo uscire in tempo per il 12 dicembre, rispettando il loro anonimato.
Il libro esce con la firma di Eduardo Di Giovanni e Marco Ligini, deceduti in
questi anni, ma che peraltro furono gli animatori del gruppo e gli estensori
del testo.
Nella nota che precede abbiamo spiegato le ragioni politiche che ci hanno spinto
a corrispondere al loro desiderio; qui accenniamo brevemente ai criteri seguiti
nel preparare il materiale per questa edizione. Premesso che il pochissimo tempo
a disposizione ci ha impedito di preparare quell'edizione critica che il libro
meriterebbe, ci siamo basati sulla V edizione dell'ottobre 1971 (la I edizione
è del giugno 1970) ma dalla quale, per motivi di spazio, non abbiamo
ripreso la prefazione. Abbiamo del pari evitato di riprodurre le foto che corredavano
la I edizione, per le difficoltà che l'operazione comportava. Nella I
Appendice di questa edizione abbiamo riprodotto i materiali che corredavano
la V edizione. Nella II Appendice abbiamo inserito una cronologia e qualche
scheda di aggiornamento, richieste ad alcuni giornalisti "specializzati"
- che hanno preferito rimanere anonimi, nello spirito dell'iniziativa, ma che
qui ringraziamo a nome di tutti. Abbiamo inoltre tratto dalla "Ristampa
per il 12 dicembre 1993", supplemento al n° 48 di Avvenimenti - che
uscì a firma di Eduardo M. Di Giovanni e Marco Ligini - "Processi
a un libro" e "Come importammo la controinformazione"; riproduciamo
quest'ultimo testo con la firma di Edgardo Pellegrini, anche lui scomparso lo
scorso anno.
In questa ennesima ristampa, proponiamo come III Appendice il testo dell'intervista
del giudice Guido Salvini che compare nel video "12 dicembre. Critica allo
Stato dei misteri" realizzato da SUTTVUESS.
Resta il disappunto per la contraddizione che siamo costretti a registrare.
Il giudice Salvini, tra i pochi a continuare le indagini sulle stragi di Stato,
dimostra con la sua azione di essere persona onesta e coscienziosa, sia pure
avvalendosi di tutte le scorciatoie meno presentabili che la legislazione gli
mette a disposizione, come "pentiti" e intercettazioni. Vede con chiarezza
i blocchi politici frapposti alle indagini per 30 anni; vede che persino la
sedicente "sinistra di governo" ha rapidamente depennato dalla sua
agenda (ma non dalla propria retorica) la "ricerca della verità"
sulle stragi pur di sedersi senz'altri intoppi sulle più scomode poltrone
ministeriali (interni, giustizia, presidenza del consiglio). Eppure, Salvini
- forse per la solitudine in cui lo ha condotto il suo indagare - è costretto
a sperare in un soprassalto di dignità della Commissione parlamentare
d'inchiesta sulle stragi. Ovvero nell' "onestà" dell'organismo
che da quasi 20 anni, peggio che il "porto delle nebbie" della procura
di Roma, gestisce l'occultamento di ogni verità possibile sotto un cumulo
di ipotesi perennemente riformulate e programmaticamente non verificabili.