Biblioteca Multimediale Marxista
Trascrizione dell'intervista video al giudice GUIDO SALVINI, realizzata il 18 aprile 2000 (testo rivisto dallo stesso Salvini il 27 novembre 2000), parti della quale compaiono nel documentario "12 dicembre. Critica allo Stato dei misteri" prodotto da SUTTVUESS.
D: A quali risultati hanno portato le sue indagini, quali le novità di
questo processo?
SALVINI: Le indagini condotte in questi ultimi anni hanno consentito,
inizialmente, di riannodare i fili di indagini più vecchie e di mettere
alla luce, con nuove testimonianze, degli episodi emblematici che erano di collegamento
con i più gravi episodi di strage. Siamo partiti dal mettere a fuoco
episodi che costituivano il prodromo dei fatti di strage. Ne cito rapidamente
alcuni. Ad esempio sono stati acquisiti i nastri, sino a quel momento occultati,
sul golpe Borghese e sul tentativo di golpe della "Rosa dei Venti"
che solamente nel 1992 il capitano Labruna del SID ha consegnato alla magistratura,
in forma integrale e con i nomi che nel '74 la direzione del SID aveva cancellato.
È stato possibile mettere a fuoco episodi di collegamento, ad esempio
la vicenda dell'arsenale di Camerino. Un arsenale con armi ed esplosivi che
fu scoperto nel 1972, fu attribuito subito a gruppi di estrema sinistra e invece
abbiamo scoperto che era stato preordinatamente allestito da personale del SID
e dei Carabinieri. Abbiamo potuto approfondire altri episodi importanti quali
la fornitura di armi, da parte di esponenti del Comando Divisione Pastrengo
dei Carabinieri, al gruppo MAR, Movimento di Azione Rivoluzionaria, di Carlo
Fumagalli che operava, all'inizio degli anni '70, per un progetto di colpo di
stato, di intesa e con la collusione di parte del mondo militare.
Quindi siamo partiti da episodi emblematici che ci hanno consentito poi, progressivamente,
di arrivare al cuore dei fatti più gravi, e cioè, le stragi.
D: Come si inserisce l'attentato di Piazza Fontana nella strategia della tensione?
SALVINI: È il punto culminante di una strategia che si è concretizzata
prima con gli episodi minori che ho citato e che si è sviluppata poi
con gli attentati ai treni che hanno preceduto Piazza Fontana, nell'agosto del
1969: dieci bombe collocate su treni nel pieno periodo delle ferie estive per
creare un clima di terrore. Certamente la strage che poi seguì non era
solo il gesto di qualche neofascista o neonazista più esaltato di altri,
ma aveva un progetto politico di fondo: se non direttamente un golpe, sicuramente
la creazione di una situazione di governo forte, di governo autoritario. Parallelamente
alle stragi che vi sono state, da Piazza Fontana al colpo di coda di Brescia,
vi sono stati progetti di svolte autoritarie o golpiste che man mano nel corso
delle indagini sono venute alla luce. Quindi le stragi all'interno di un progetto
politico di cui comunque bisogna ancora definire molti contorni.
D: Qual è il significato della sentenza di condanna recente per la strage di Via Fatebenefratelli?
SALVINI: È quasi passato sotto silenzio che per uno degli episodi di
strage, e mi riferisco alla strage dinanzi alla Questura di Milano, del 17 maggio
1973, quando una bomba fu lanciata da Gianfranco Bertoli contro la folla che
assisteva ad una manifestazione, presente l'On. Rumor, si è avuto un
primo positivo riscontro processuale con una condanna pronunziata dalla Corte
d'Assise nel marzo 2000. Ciò è molto importante perché
quando iniziammo queste indagini vi era un forte scetticismo. L'opinione pubblica,
sovente era stata portata a pensare: "tanto anche questa volta le indagini,
anche se condotte con impegno, finiranno in niente". Così non è
stato e per quella strage vi sono state quattro condanne all'ergastolo e altre
condanne minori, pronunziate dalla Corte d'Assise di Milano nei confronti di
elementi di Ordine Nuovo o collegati ad Ordine Nuovo, individuati come i mandanti
e gli organizzatori della strage materialmente commessa da Gianfranco Bertoli.
Quindi un primo risultato che sicuramente dà il senso del valore del
lavoro che si è fatto fra tante difficoltà e che contribuisce
ad aprire uno squarcio di verità non solo giudiziaria ma anche storica
su un pezzo della nostra storia.
D: Quali furono le dinamiche di infiltrazione e strumentalizzazione degli anarchici di Milano e di Roma?
SALVINI: Dobbiamo fare un passo indietro. Abbiamo appena parlato della strage
del 1973, ma Piazza Fontana è di quattro anni prima, è del 1969.
Ma dagli atti emerge che il progetto di strage, o comunque il progetto di una
serie di attentati gravi a catena, da attribuire a gruppi maoisti o anarchici,
era un progetto iniziato ancora parecchi mesi prima. Tanto è vero che
sia Avanguardia Nazionale sia Ordine Nuovo infiltrarono loro elementi nei gruppi
di estrema sinistra, soprattutto anarchici a Roma, ma anche filocinesi a Milano
e in Veneto, con la precisa finalità di studiarne i movimenti, facilitando
il lavoro di controllo della polizia giudiziaria, e parlo soprattutto dell'Ufficio
Affari Riservati del Ministero degli Interni. In questo modo questi uffici divennero
in grado di dirigere, conoscendo dall'interno come si muovevano questi piccoli
gruppi spesso con scarso controllo sui propri militanti, immediatamente la magistratura
sull'ipotesi di colpevolezza di questi gruppi che erano i capri espiatori della
strategia. Vi fu ad esempio un fatto singolare: in un piccolo gruppo, come il
"22 Marzo", che si formò a Roma pochi mesi prima della strage,
sia Avanguardia Nazionale sia l'ufficio Affari Riservati, avevano collocato
dei loro uomini in quanto ciò serviva a seguire le mosse di coloro che
poi avrebbero dovuto essere consegnati alla magistratura, nonostante la loro
non colpevolezza.
D: Molti, non solo la sinistra extraparlamentare, hanno parlato di strage di Stato. In che modo le sue indagini avvalorano questa tesi o la contrastano?
SALVINI: La strage di Stato è il titolo del lavoro di controinformazione
che uscì già pochi mesi dopo la strage di Piazza Fontana. Io credo
che, pur nella sua incompletezza, questa espressione abbia comunicato molto
di vero, proprio alla luce di quello che ho appena detto. Quando si collocano
all'interno di gruppi che poi devono essere colpiti dalle indagini, degli infiltrati
che devono seguire le mosse delle future vittime delle indagini stesse, non
si può dire che non ci siano responsabilità istituzionali. E lo
stesso quando si fanno scomparire testimoni importanti. Abbiamo parlato poco
fa del capitano Labruna. Il capitano Labruna, ebbe l'incarico, quando le indagini,
fallite quelle sugli anarchici, alla fine si portarono decisamente nel 1972,
sui gruppi di estrema destra, grazie al lavoro dei colleghi Calogero e Stiz,
ebbe l'incarico dai suoi superiori, di far espatriare Marco Pozzan di Ordine
Nuovo e Guido Giannettini agente del SID, affinché fossero sottratti
agli interrogatori dell'autorità giudiziaria.
Per questo episodio vi è la condanna definitiva della Corte d'Assise
di Catanzaro. In generale quando noi possiamo inanellare decine di episodi simili
che sono emersi nel corso delle nostre indagini e hanno spesso aggiunto pezzi
di verità a quello che era emerso dalle vecchie, è difficile negare
che sia anche strage di Stato. Nel senso che lo Stato invece di reprimere, con
buona parte dei suoi apparati, ha colluso con chi stava progettando le stragi,
ha difeso chi le aveva compiute dal pericolo di essere incriminati e ha fatto
fuggire, quando necessario, i testimoni. Quindi l'espressione, anche se può
apparire molto forte, e se poteva sembrare una forzatura politica all'epoca,
è in fondo confermata da tanti nuovi elementi. E quindi sul piano storico
politico ha un senso profondo di verità.
D: Ci sono state piste false e depistaggi fin dall'inizio. Come sono state ostacolate le indagini nel corso del tempo dalla classe politica?
SALVINI: Io voglio ricordare che i nastri che il capitano Labruna ci ha consegnato
solo nel 1992, non erano ignoti alla classe politica. Tanto è vero che
furono ascoltati e commentati in buona parte in uffici di ministri di allora.
In questi nastri c'erano i nomi di militari di alto livello, esponenti anche
del mondo industriale e della massoneria, coinvolti in tentativi come il golpe
Borghese, che non erano tentativi da operetta come si è voluto far credere.
Eppure questi nastri sono stati occultati nonostante che il mondo politico li
conoscesse. Lo stesso vale a dire per operazioni come la fuga di Giannettini,
lo stesso vale a dire per tanti altri episodi, quali l'occultamento di corpi
reato che si è scoperto solo recentemente. Presso il ministero dell'Interno
vi erano centinaia di faldoni addirittura parti di corpi di reato utili per
la magistratura, che non sono arrivati se non pochi anni fa, all'autorità
giudiziaria. Quindi è difficile pensare che il mondo politico non fosse
al corrente del compromesso che era avvenuto, un compromesso di cui era oggetto
anche la non perseguibilità di fatto degli autori delle principali stragi.
Purtroppo su questo versante sono stati fatti pochi passi. Abbiamo avuto nuovi
testimoni di Ordine Nuovo, abbiamo avuto testimoni, anche se a livello medio
basso, dei Servizi di allora come il capitano Labruna, ma nessuna voce di verità
da quella parte del mondo politico che ancora oggi è vivente e che potrebbe
testimoniare sui compromessi di allora. Non abbiamo avuto nessun uomo politico
come testimone di rilievo nell'aiutarci a proseguire lungo la strada della verità.
Ci siamo fermati a livello operativo o a livello militare. Il compromesso politico
di quegli anni è un argomento ancora largamente insondato e che potrà
forse essere oggetto di analisi nelle relazioni della commissione stragi.
D: Come mai l'ambiente politico, che era almeno apparentemente più interessato, alla verità sulle stragi oggi invece ostenta indifferenza verso le sue indagini?
SALVINI: Le indagini del mio ufficio sono forse arrivate politicamente in ritardo,
e vorrei spiegare quale può essere la ragione. Se avessimo svolto questo
lavoro dodici; quindici anni fa sarebbe stato seguito con impegno, con simpatia
da quell'opposizione che aveva sempre fatto della denunzia delle collusioni
e complicità un cavallo di battaglia e un argomento forte di critica
alle forze che in Italia avevano governato per quarant'anni. Oggi non è
più così. Nelle ultime indagini si è messo a fuoco il ruolo
delle basi americane in Veneto della NATO, che sono coinvolte nei fatti più
importanti della strategia della tensione, in particolare addirittura che elementi
di Ordine Nuovo entravano e uscivano dalle basi, svolgendo con una doppia veste
attività di informazione, mentre si stavano preparando gli attentati.
Recentemente l'ordinovista Carlo Digilio ha parlato di rapporti diretti fra
suo padre, anch'egli agente americano e il capo dell'OSS in Italia, James Angleton.
Notizie di questo tipo, cioè che gli agenti americani e ordinovisti agissero
in sintonia, dodici o quindici anni fa, avrebbero provocato un terremoto. Interpellanze
parlamentari, richieste di chiarimento al governo alleato degli Stati Uniti,
campagne di stampa. Invece non è accaduto nulla a mio avviso per un motivo
molto semplice. Quando le forze di opposizione, nel 1996 e cioè nel momento
del primo sviluppo di queste indagini si sono legittimate al governo, probabilmente
non intendevano disturbare, creare problemi, rimestare avvenimenti considerati
vecchi e ormai superati, davanti al principale alleato dell'Italia rispetto
al quale bisognava mostrarsi comunque come una forza di governo "responsabile".
Così è accaduto che su queste novità che riguardano in
particolare il ruolo della NATO nella strategia della tensione è caduto
un assoluto silenzio e se noi pensiamo a quello che sarebbe avvenuto invece
in passato, è veramente sconcertante il fatto che nessuno abbia fatto
nemmeno la più limitata protesta davanti a queste emergenze veramente
impressionanti. Solo recentemente qualcosa in termini di interesse a quanto
si è scoperto sembra essere nuovamente cambiato. Mi riferisco, ad esempio,
alla relazione del gruppo DS della Commissione Stragi presentata nello scorso
giugno.
D: In relazione alla polemica relativa all'apertura degli archivi del Viminale, l'allora ministro degli Interni Napolitano venne accusato di voler coprire gli informatori coinvolti nella strategia della tensione, quale è stata all'epoca la sua esperienza diretta?
SALVINI: Il ministro degli Interni viene scelto per una serie di intese politiche,
spesso, come sappiamo cambia rapidamente, e difficilmente può impadronirsi
di una situazione che si è stratificata negli anni, perché esiste
una burocrazia, esiste un sistema di gestione di notizie e di archivi che certamente
il ministro, in pochi mesi, non è nemmeno in grado di percepire. Si poteva
fare forse qualcosa di più, anche da parte del ministro che lei ha citato,
ma certamente si è trovato di fronte a qualcosa che era sedimentato in
quasi trent'anni di voluta non informazione degli avvenimenti più gravi
che sono oggetto di queste indagini. È stato necessario il lavoro di
un perito, il dottor Aldo Giannuli, che ha esplorato per noi negli archivi del
ministero degli Interni, per far venire alla luce tanti faldoni, tanti documenti
per scoprire parti sin ora inesplorate di quelle che erano le attività
informative dell'epoca. Ed è proprio qui fra l'altro che sono emersi
gli atti relativi a quell'opera di infiltrazione negli ambienti anarchici e
di direzione delle indagini su quegli ambienti. In sostanza la polizia sapeva
che gli anarchici non c'entravano e aveva manovrato infiltrati all'interno di
essi, per colpirli e quei documenti sono rimasti sepolti fino a pochi anni fa.
Vi ricordo un altro episodio paradossale. In questi archivi il nostro perito
quattro anni fa ha trovato addirittura alcune parti di un ordigno, che faceva
parte di una di quelle dieci bombe deposte nell'agosto 1969 in altrettante stazioni
o treni. Quella parte di ordigno che invece di essere consegnata alla magistratura
era rimasta in un faldone del ministero degli Interni. È evidente che
allora, se la magistratura avesse avuto allora questi reperti, facendo delle
comparazioni avrebbe potuto raggiungere qualche risultato in più. Oggi
è ormai troppo tardi anche se deve farci porre tante domande il fatto
che sulla scrivania dei magistrati pezzi di una bomba collocata trent'anni fa
siano arrivati nel 1996.
D: Qual è stato l'atteggiamento dell'ex ministro della Giustizia Diliberto nei confronti della sua inchiesta e della sua persona?
SALVINI: Lei mi pone una domanda difficile. Io posso dirle che l'indagine del
mio ufficio ha avuto una serie impressionante di ostacoli dovuti a ragioni in
relazione ai quali forse altri un giorno riusciranno a capire, se si sia trattato
di motivazioni soggettive o di una vera e propria strategia politica. Sta di
fatto che il mio ufficio dal 1995, per anni, mentre stava svolgendo gli interrogatori
più importanti e irripetibili, è stato bersagliato letteralmente
da esposti, azioni disciplinari, interventi del Consiglio Superiore della Magistratura
o della Procura generale presso la Cassazione, che hanno rischiato di paralizzare
il lavoro che stavamo svolgendo. È chiaro che quando ti devi difendere
da falsità, calunnie, vere e proprie manipolazioni di documenti, resta
pochissimo tempo per condurre gli interrogatori e svolgere gli accertamenti
e le perizie prima che scada il termine per le indagini. È stato uno
stillicidio, letteralmente, che abbiamo dovuto subire e forse i prossimi anni
daranno una risposta anche alle ragioni di ciò. Certamente avrei sperato
che la presenza del nuovo ministero ponesse fine a questa attività di
disturbo, quasi di sabotaggio nei confronti delle indagini sulle stragi. Ma
ciò non è avvenuto ed anzi in buona parte è proseguito.
Tanto che il ministro personalmente ha impugnato in Cassazione, la mia assoluzione
dalle accuse che erano state mosse contro di me presso il CSM. Un'impugnazione
simile non avviene quasi mai, la Corte di Cassazione mi ha dato ragione, la
richiesta del ministro, in ottobre, è stata completamente respinta, ma
a causa di ciò ancora per mesi e mesi, il dibattimento in corso è
stato esposto a possibili utilizzi strumentali di tale iniziativa da parte dei
difensori degli ordinovisti.
D: Dunque lei viene da alcune parti ostacolato. Lei stesso quando il procuratore generale della Cassazione Ferdinando Zucconi Galli Fonseca ha promosso l'azione disciplinare contro di lei, ha dichiarato al Corriere della Sera: "L'hanno fatto per affossare definitamente le mie indagini", chi l 'ha fatto e perché?
SALVINI: Io posso solo risponderle con parole che non sono mie, ma sono le parole
di Delfo Zorzi e di un altro militante di Ordine Nuovo intercettati nei giorni
in cui, nel '97, era uscita sulla stampa la notizia delle azioni disciplinari
della Procura Generale della Cassazione contro di me. Le precise parole fra
colui che è indicato come il presunto autore materiale della strage di
Piazza Fontana, e il suo interlocutore del suo stesso ambiente, nel commentare
l'azione della Procura Generale, sono state: "È roba da leccarsi
i baffi". Ciò che è avvenuto è qualcosa di sconcertante:
una buona parte della magistratura invece di sostenere chi stava svolgendo un'azione
investigativa difficile, che non era stato possibile portare a termine trent'anni
prima, ha cercato in tutti i modi di colpire con azioni del tutto infondate,
chi stava impegnandosi per poter raggiungere la verità. Faccio solo un
esempio fra i moltissimi possibili, che ritengo giusto sia conosciuto. Nel '95,
quando stavamo giungendo al cuore delle cellule eversive, un capo di Ordine
Nuovo, il dottor Carlo Maria Maggi, per allentare la pressione presentò
un esposto, sostenendo di essere stato sottoposto dai miei investigatori a pressioni
o abusi. Ma contemporaneamente vi erano delle intercettazioni, svolte dalla
Procura di Milano, da cui emergeva che l'esposto era fasullo, un inganno suggerito
a pagamento da altri militanti che stavano all'estero al fine proprio di mettere
in difficoltà chi stava indagando. Nelle intercettazioni era quindi chiarissimo
che fosse un esposto strumentale. Ebbene queste intercettazioni non furono mai
trasmesse né a chi, a Venezia, aveva aperto le indagini contro di noi,
né alla Procura Generale, in modo tale che noi fossi per anni delegittimati
da questo sospetto. Ci sono voluti più di tre anni, anche per colpa delle
omissioni altrui, perché questo procedimento si disintegrasse, ma ormai
il danno era fatto. Ora io mi chiedo: è possibile che la magistratura,
scoprendo di essere caduta nel tranello di un elemento ordinovista che stava
cercando di colpire un magistrato, che era vicino a simili risultati, abbia
potuto tenere in un cassetto la prova della manovra contro di lui. È
un episodio sconcertante. All'interno della magistratura non c'è stata
collaborazione, favorendo in questo modo i presunti autori delle stragi, che
speravano di restare impuniti.
D: C'è stata una fuga di notizie che le ha creato notevoli difficoltà. Chi ha avuto interesse a farlo?
SALVINI: Effettivamente la scelta di collaborazione di Martino Siciliano e il
fatto che Delfo Zorzi fosse indagato per la strage sono stati resi anticipatamente
noti dalla stampa di Venezia fra l'ottobre e il novembre '95, quando le indagini
erano ancora segrete e in pieno svolgimento. Il danno è stato enorme
e chi aveva a cuore queste indagini, soprattutto i parenti delle vittime, deve
sapere che questa operazione ha impedito in modo irreversibile il raggiungimento
di molti risultati.
La fuga di notizie è avvenuta certamente nell'ambiente giudiziario veneziano,
insofferente per le indagini del mio ufficio che stava seguendo una pista autonoma
rispetto a quella di Gladio e per di più le notizie sono state fornite
in modo manipolato e tale da delegittimare agli occhi dei possibili testimoni
le indagini che stavamo conducendo.
Se ne deve trarre un'amara conclusione: se la ragione dell'istituzione della
Commissione Stragi è scoprire perché vi è stata per anni
la mancata individuazione degli autori delle stragi una parte della risposta
a questa domanda di verità deve essere cercata per i tempi recenti anche
all'interno della magistratura. Bisogna laicamente disfarsi del pregiudizio
secondo cui il ruolo della magistratura, in questo settore, è stato sempre
immune da vizi e la colpa dei mancati o solo parziali risultati è solo
dei poteri occulti o comunque di altri.
Non vi sono stati solo situazioni di "concorrenza" tra uffici ma anche,
più frequentemente, disinteresse e sottovalutazione dei possibili risultati
di queste indagini soprattutto da parte dei capi degli uffici. Vi farò
solo un brevissimo esempio di quanto si è verificato nel mio stesso ufficio
a Milano.
Ho avuto la netta percezione che la mia indagine non interessasse a nessuno,
benché proprio Milano fosse la città colpita dalla strage e che
si preferisse che l'indagine fosse lasciata morire in modo indolore. Forse,
anche per questo, in quegli anni si è avuto cura di riempirmi di altri
processi, come se l'indagine sulla strage non esistesse. Voi potete immaginare
che se hai centinaia di casi da trattare, un lavoro approfondito e continuativo
come richiede l'indagine su un fenomeno eversivo con alle spalle un contesto
istituzionale, diventa quasi impossibile. Cercare di impedire materialmente
ad un giudice di avere lo spazio per lavorare porta oggettivamente al rischio
di insabbiamento di un'indagine.
D: Lei critica il ruolo fondamentale che ha attribuito la maggior parte dei suoi colleghi alla struttura Gladio, nelle indagini, mirate a scoprire la verità sulla strategia della tensione. Perché, secondo lei, questa pista non ha portato alla verità sulle stragi?
SALVINI: Io voglio premettere che ho ritenuto sempre molto importante svolgere
un'attività di indagine completa sull'organizzazione Gladio, che non
era nota fino al 1990 e di cui i cittadini italiani non conoscevano l'esistenza.
Ritengo però che forse uno degli errori di fondo del metodo delle indagini
sulla destra eversiva, sia stata un'eccessiva sovradeterminazione dell'ipotesi
Gladio. Nel senso che è stata giusta una messa in chiaro completa di
un'organizzazione ufficiale ma occulta che non rispondeva al Parlamento ma nello
stesso tempo, trascinati da una sorta di entusiasmo, vi è stato un grave
errore di impostazione, quando si è pensato che indagando su Gladio si
sarebbe arrivati alla verità sulle stragi.
Questo non poteva essere vero perché la struttura Gladio non ha avuto
alcuna diretta interessenza con gli episodi di strage.
È questo l'errore in cui sono caduti alcuni magistrati quando hanno a
lungo ipotizzato che addirittura l'attentato di Peteano fosse stato commesso
con l'esplosivo di un Nasco.
In realtà solo le cellule di Ordine Nuovo, con un diverso tipo di appoggi,
potevano essere state le cellule operative degli attentati e, seguendo l'ipotesi
Gladio molte indagini sono finite in un vicolo cieco.
Soprattuto l'errore maggiore è stato ipotizzare che Vincenzo Vinciguerra,
autore dell'attentato di Peteano, potesse essere un gladiatore o comunque un
esecutore al servizio di apparati dello stato, dimenticando che quella di Vinciguerra
è stata un'azione autonoma, una sorta di azione di guerra, non assimilabile
alle stragi e proprio per questo egli ha voluto rivendicarla con le sue dichiarazioni
e i suoi scritti, svelando anche la strategia dei "camerati" che avevano
invece agito in collusione con lo stato.
Qualificando Vinciguerra come un "gladiatore", si è rischiato
di perdere una voce importante per la ricostruzione della storia di quegli anni
e non si è reso omaggio alla verità.
Anche in questo senso l'indagine del mio ufficio che non ha cercato di appiccicare
a Vinciguerra etichette improprie e non ha perso così il suo contributo
alla ricostruzione dei fatti, non è stata molto gradita e le conseguenze
si sono viste.
D: Parliamo di Zorzi. In questo quadro ostile, come valuta che l'ex ministro
Diliberto abbia chiesto l'estradizione di Zorzi?
SALVINI: Voglio ricordare che si è pervenuti a questa richiesta solo
perché il problema è stato posto all'attenzione non solo del mondo
giapponese ma anche del nostro mondo politico da un singolo giornalista, il
quale, come talvolta avviene, è riuscito a far riemergere la questione.
Il giornalista del Manifesto, corrispondente dal Giappone, il quale è
riuscito a fare qualcosa che in piccolo ricorda altre situazioni di giornalismo
di indagine, come in alcuni casi nella stampa americana. Si deve a lui, dopo
due anni di silenzio, nei confronti di Delfo Zorzi, raggiunto da un ordine di
custodia ineseguito perché si trova in Giappone ed è cittadino
giapponese, il nostro ministero ha infine inoltrato un dossier completo di richiesta
di estradizione. Quindi l'iniziativa dell'ex ministro è stata molto importante,
perché poteva mettere in luce ad esempio il fatto che forse Delfo Zorzi
aveva ottenuto la cittadinanza giapponese con dichiarazioni non corrispondenti
a verità e quindi questa cittadinanza poteva essere revocata e forse
l'estradizione concessa. Ma, anche se importante, tale richiesta è giunta
molto tardivamente e se un giornalista non avesse da solo acceso i riflettori
sul caso in Italia e in Giappone, probabilmente di una richiesta di estradizione
non avremmo mai sentito parlare neanche nel momento in cui il processo per Piazza
Fontana si apriva davanti alla Corte d'Assise di Milano.
D: Ci può spiegare quale fu il ruolo di Zorzi nella strage di Piazza Fontana?
SALVINI: Devo premettere per correttezza che la magistratura milanese ha rinviato
a giudizio Delfo Zorzi, Carlo Maggi, Giancarlo Rognoni e il collaboratore di
giustizia Carlo Digilio, per concorso nella strage di Piazza Fontana e negli
attentati che sono avvenuti quel giorno anche a Roma. Però si tratta
di rinvii a giudizio, per cui non vi sono affermazioni di colpevolezza che potrebbero
giungere solo dalla Corte di Assise di Milano al termine di un dibattimento
che si preannuncia molto lungo e ricco di testimoni. Fatta questa premessa,
per cui non c'è nulla che possa oggi essere affermato in termini di certezza
giudiziaria, il ruolo di Delfo Zorzi così come delineato dalle indagini,
è quello di essere uno degli esecutori materiali della strage. Cioè
uno di coloro che materialmente giungendo a Milano dal Veneto, e ovviamente
in accordo con i camerati milanesi, entrò nella banca per deporre l'ordigno
che poi esplose nel pomeriggio del 12 dicembre. Quindi un ruolo prettamente
operativo. Digilio invece ha ammesso di aver partecipato alla preparazione degli
ordigni e nel contempo di aver svolto un ruolo di informatore per le basi americane.
Poi, risalendo nella scala delle responsabilità, si è arrivati
al dottor Maggi che invece in quanto capo di Ordine Nuovo per tutto il Veneto,
avrebbe avuto un ruolo di organizzatore. Di sopra e più in alto, per
il momento non si è andati.
D: In che modo Zorzi è riuscito a rimanere intoccabile in Giappone in questi anni e che cosa è cambiato oggi?
SALVINI: Un elemento che posso riferire perché è stato poi oggetto
del dibattito che vi è' stato nel Parlamento giapponese quando il caso
è stato posto all'attenzione grazie all'impegno del giornalista Pio D'Emilia,
è questo. Voi sapete che il Giappone è un paese molto chiuso,
molto geloso della propria identità, in cui raramente e solo con procedure
molto lunghe, lo straniero, anche europeo, ottiene la cittadinanza giapponese.
Dal dibattito del Parlamento, quando vi sono state interrogazioni parlamentari
sul caso Zorzi, è emerso invece che la sua cittadinanza giapponese è
stata acquisita con una pratica, una procedura , molto rapida di pochi mesi
e senza grosse difficoltà, nonostante che Zorzi avesse avuto anche una
condanna definitiva ad esempio, per detenzione di armi ed esplosivi. Questo
dato, che è emerso, ripeto, da interrogazioni parlamentari, fa pensare
certamente a coperture non indifferenti che questi possa aver avuto.
D: Comunque c'è una cosa che accomuna tutti i processi sulla strategia della tensione: i mandanti politici italiani non sono mai stati sul banco degli imputati. Non crede che anche i risultati delle sue indagini rechino pochi elementi su questo piano?
SALVINI: Indubbiamente è stata scarsa di risultati la piena comprensione
del progetto politico sottostante le stragi. Però vi è stata ugualmente
una grossa novità. Abbiamo parlato dell'attentato commesso da Bertoli
nel '73 dinanzi alla Questura di Milano e l'obbiettivo di questo attentato avrebbe
dovuto essere il ministro Mariano Rumor, che stava uscendo in quel momento dalla
Questura dopo una cerimonia. Per l'organizzazione di questo attentato sono stati
condannati alcuni elementi di Ordine Nuovo, i quali sarebbero stati i mandanti
di Gianfranco Bertoli, aiutandolo nell'addestramento, nell'acquisizione della
bomba a mano e nel viaggio a Milano. Si è scoperto che questo episodio
si collega in modo molto netto con la strage di Piazza Fontana, perché,
come ha raccontato Digilio, si confidava che l'onorevole Rumor, allora presidente
del consiglio, dopo la strage del 12 dicembre, avrebbe decretato lo stato d'emergenza
e quindi dare un obiettivo sbocco politico agli attentati. Tuttavia di fronte
alla grande reazione che ci fu, dopo la strage, soprattutto il giorno dei funerali
delle vittime con una grande mobilitazione sindacale e popolare, la decretazione
dello stato d'emergenza divenne impossibile e il presidente del consiglio non
adottò alcun provvedimento. Probabilmente per questa ragione l'onorevole
Rumor fu poi l'obiettivo del fallito attentato del '73 che fece comunque vittime
tra le persone che erano presenti alla cerimonia.
Questo collegamento dà il senso del magma politico sottostante gli attentati
e probabilmente, si fronteggiavano un'ala che intendeva direttamente passare
a un giro di vite autoritario nel sistema politico italiano; e un'ala più
moderata che pensava ad una soluzione più cauta: niente stato di emergenza
ma neanche l'immediata evidenziazione dei veri colpevoli collocati a destra
e di chi aveva inteso proteggerli. Quest'ala in quel momento fu costretta forse
ad un compromesso con le forze dell'opposizione, che all'epoca erano rappresentate
dal partito comunista. Vi è forse qualcosa di non detto, che non è
mai venuto alla luce, nei convulsi incontri politici di quei giorni, ad altissimo
livello e sarebbe molto importante che qualcuno di coloro che ne sono stati
protagonisti parlasse, ma purtroppo da parte del mondo politico non è
venuta nessuna testimonianza.
D: Come si pone lei nei confronti della gestione del segreto di stato da parte del governo?
SALVINI: Vede, quello del segreto di stato è un falso problema. È
un ritornello che spesso anche in comizi e commemorazioni che ricordano fatti
di strage, viene agitato e sempre ottiene il facile applauso perché tutti
sono contro il segreto di Stato, ma in realtà è un modo non corretto
di informare l'opinione pubblica. Il segreto di stato in realtà non esiste,
nel senso che già da vent'anni, nel 1977, una legge ha impedito di opporre
ai magistrati il segreto di stato in materia di reati di strage o di eversione
ed effettivamente come tale non è più stato opposto. Non essendo
più opponibile, i magistrati non possono più sentirsi dire: "questo
documento, questo reperto, questa fonte informativa non ve la diamo perché
c'è il segreto di stato". Il problema semmai è un altro,
cioè la vigenza una sorta di segreto di fatto. Nel senso che non viene
detto: "questo materiale non te lo consegno", ma la situazione degli
archivi, il voluto disordine, la confusione e il disinteresse, impediscono di
trovare quel materiale, sempre che non sia stato dolosamente distrutto in passato,
che sarebbe ancora utile alle indagini e che è stato disperso magari
in, venti o venticinque anni fa luoghi periferici e che quindi di fatto non
è possibile né trovare né consultare. Ho ricordato nel
corso di questa conversazione che solamente quattro anni fa il perito nominato
dal mio ufficio, insieme ai faldoni in cui si parlava dell'infiltrazione da
parte dell'Ufficio Affari Riservati nel mondo anarchico, trovò fra l'altro
anche una parte dell'ordigno deposto in una stazione di Pescara nell'agosto
1969. Questo materiale era abbandonato in un deposito periferico in modo che
di fatto fosse segreto, perché non era possibile trovarlo con la probabile
volontà, quindi, di rendere non raggiungibile del materiale utile e chi
aveva operato in quel senso lo aveva fatto con una precisa volontà: rendere
non raggiungibile del materiale utile. Quindi il problema è semmai, svolgere
un'attività di indagine approfondita, un setaccio completo del materiale
documentale disponibile, come noi abbiamo tentato di fare in questi anni, in
tutti gli archivi pubblici e privati. Sarebbe stato importante seguire questa
linea e invece non limitarsi a ripetere ritornelli inutili come quelli del segreto
di Stato o della sua abolizione. È già abolito.
D: Cosa ci può dire su Pinelli?
SALVINI: Nelle nostre indagini non è emerso nulla di nuovo, sulla morte
di Giuseppe Pinelli, in questura il 15 dicembre del 1969. Si può fare
solo una riflessione, che è una riflessione al contrario, cioè
dare una risposta e tirando una conclusione su non è stato trovato sul
suo ambiente, cioè sull'ambiente anarchico. Vi spiego meglio, interrogando
centinaia di imputati, sentendo testimoni, esaminando migliaia di documenti,
non è stato trovato un solo documento, né acquisita una sola testimonianza
che portasse o riportasse le indagini nella direzione della pista anarchica
che era la prima che era stata seguita, per volontà del ministero degli
Interni. In sostanza si è trovato un'infinità di elementi di prova
sul mondo dell'estrema destra, su Ordine Nuovo, su Avanguardia Nazionale che
la Corte d'Assise dovrà considerare sufficienti o non sufficienti, ma
che comunque ancorano quei fatti, appunto, a quell'area. Pur avendo svolto attività
di setaccio, nulla, nessun elemento è emerso che portasse ad una responsabilità
di gruppi anarchici, eppure gli elementi nuovi trovati sono, lo ripeto, moltissimi,
come moltissimi i documenti che prima non era stato possibile esaminare. Il
che ci fa concludere che, anche se nulla di nuovo è stato trovato sulla
morte di Pinelli, che tutte le emergenze sono nell'univoca direzione: che quella
pista iniziale fosse sbagliata, fosse una pista fatta seguire volutamente alla
magistratura e che i gruppi anarchici, per primi oggetto delle indagini, non
avessero alcuna responsabilità in quei fatti.
D: Deve ammettere che, se hanno cercato di ostacolarla, è anche vero che non sono riusciti a toglierle l'inchiesta e che ha trovato appoggi da più parti e soprattutto nella commissione stragi. Dunque questo vuol dire che lo schieramento a lei ostile non è stato così compatto.
SALVINI: Sì, si è verificato un paradosso. Mentre buona parte della magistratura, come vi ho accennato, ha mostrato ritardi culturali nello svolgimento di queste indagini, vi è stato chi ha voluto dare un sostegno, anche morale e portare attenzione a quello che il mio ufficio stava cercando di fare. Mi riferisco alla Commissione stragi e al suo presidente il senatore Giovanni Pellegrino, il quale ha subito intuito l'importanza degli squarci di verità che si stavano aprendo, ha recepito molte delle risultanze dei nostri atti e ha contribuito in modo decisivo a far superare questi ritardi culturali. L'interpretazione complessi va delle stragi fra la fine degli anni '60 e la metà degli anni '70, come eventi collegati ad una pluralità di tentativi golpisti e con alle spalle un forte interessamento del mondo del patto atlantico, se verrà riversata, come sembra, in alcune relazioni della commissione, sarà il segno di un lavoro indipendente ma nello stesso tempo parallelo e con risultati comuni che in questi anni vi è stato fra il nostro ufficio e la commissione. Devo dire che senza questo sostegno non saremmo arrivati alla fine di queste indagini.