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PARTE PRIMA
CAPITOLO I
Come Candido è allevato in un bel castello e come n'è cacciato
via
Era nella Vesfalia, nel castello del baron di Thunder-ten-tronckh,
un giovinetto che aveva avuto dalla natura i più dolci costumi. Se gli
leggeva il cuore nel volto. Univa egli a un giudizio molto assestato una gran
semplicità di cuore, per la qual cosa, cred'io, chiamavanlo Candido.
I vecchi servitori di casa avean de' sospetti ch'ei fosse figliuolo della sorella
del signor barone, e d'un buon gentiluomo e da bene di quel contorno, che questa
signora non volle mai indursi a sposare perchè non aveva egli potuto
provare più di settantun quarti di nobiltà, il resto del suo albero
genealogico essendo perito per l'ingiuria de' tempi.
Era il signor barone uno de' più potenti signori della Vesfalia, perchè
il suo castello aveva porta e finestre; e di più sala con arazzi. Tutti
i cani de' suoi cortili componevano in caso di bisogno una muta di caccia; i
suoi staffieri erano i suoi cacciatori, e il piovano del villaggio il suo grande
elemosiniere. Gli davan tutti dell'Eccellenza, e ridevano quando contava delle
novelle.
La signora baronessa, che pesava circa trecentocinquanta libbre, si attirava
per questo un grandissimo riguardo, e faceva gli onori della casa con una dignità
che la rendeva più rispettabile ancora. La di lei figlia Cunegonda, in
età di diciassett'anni, era ben colorita, fresca, grassotta, da far gola.
Il figlio del barone si mostrava tutto degno germe di suo padre. Il precettore
Pangloss era l'oracolo di casa, e il giovanetto Candido ne ascoltava le lezioni
con tutta la buona fede dell'età sua e del suo carattere.
Pangloss insegnava la metafisico-teologo-cosmologo-nigologia. Provava egli a
maraviglia che non si dà effetto senza causa, e che in questo mondo,
l'ottimo dei possibili, il castello di S. E. il barone era il più bello
de' castelli, e Madama la migliore di tutte le baronesse possibili.
- È dimostrato, diceva egli, che le cose non posson essere altrimenti;
perchè il tutto essendo fatto per un fine, tutto è necessariamente
per l'ottimo fine. Osservate bene che il naso è fatto per portar gli
occhiali, e così si portan gli occhiali; le gambe son fatte visibilmente
per esser calzate, e noi abbiamo delle calze, le pietre son state formate per
tagliarle e farne dei castelli, e così S. E. ha un bellissimo castello;
il più grande de' baroni della provincia dev'essere il meglio alloggiato,
e i majali essendo fatti per mangiarli, si mangia del porco tutto l'anno. Per
conseguenza quelli che hanno avanzata la proposizione che tutto è bene;
han detto una corbelleria, bisognava dire che tutto è l'ottimo.
Candido ascoltava tutto attentamente, e se lo credeva innocentemente; perch'ei
trovava Cunegonda bella all'estremo, sebbene non avesse mai avuto l'ardire di
dirlo a lei. Egli concludeva che dopo la fortuna di esser nato barone di Thunder-ten-tronckh,
il secondo grado di felicità era d'esser Cunegonda, il terzo di vederla
tutti i giorni, il quarto di ascoltare il precettore Pangloss, il più
gran filosofo della provincia, e in conseguenza del mondo.
Un giorno Cunegonda, passeggiando presso il castello in un boschetto cui si
dava il nome di parco, vide tramezzo alle fratte il dottor Pangloss che dava
una lezione di fisica sperimentale alla cameriera di sua madre, vezzosa brunetta
e docilissima. Cunegonda ritornossene tutta agitata e pensosa, pensando a Candido
L'incontrò ella nel ritornare al castello, e arrossì; Candido
arrossì anch'egli; ella gli diede il buon giorno con una voce interrotta,
e Candido le parlò senza saper quel ch'ei si dicesse. Il giorno dopo
nell'escir da pranzo, Cunegonda e Candido si trovarono dietro a un paravento,
Cunegonda si lasciò cascare il fazzoletto, Candido lo raccattò;
ella gli prese innocentemente la mano, egli innocentemente baciolla, con una
vivacità, con un trasporto, con una grazia particolarissima; le loro
bocche s'incontrarono, i loro occhi inffiammaronsi, le lor ginocchia caddero,
le mani si strinsero. Il signor barone di Thunder-ten-tronckh passò accanto
al paravento, e vedendo questa causa e questo effetto, cacciò via Candido
dal castello a pedate. Cunegonda svenne, fu schiaffeggiata dalla baronessa appena
rinvenuta che fu, ed ogni cosa fu sottosopra nel più bello e nel più
delizioso di tutti i castelli possibili.
CAPITOLO II
Quel che divenne Candido fra i Bulgari
Scacciato Candido dal paradiso terrestre, vagò lungo tempo senza saper
dove, piangendo, alzando gli occhi al cielo, e spesso rivolgendogli al bellissimo
fra' castelli che racchiudeva la bellissima delle baronessine. Si coricò
senza cenare in mezzo a' campi fra due solchi, e la neve fioccava. Candido intirizzito
dal freddo si strascinò il giorno dopo verso la città vicina che
chiamavasi Waldberghoff-trarbk-dikdorff, senza un quattrino, morto di fame,
e di stanchezza; si fermò pien di tristezza alla porta di un'osteria.
Due uomini vestiti di turchino l'osservarono:
- Camerata, disse un di loro, ecco un giovanotto ben fatto, della statura che
si vuole.
S'avanzarono verso Candido, e con tutta civiltà il pregarono a pranzar
seco loro.
- Mi fan troppo onore, signori, disse lor Candido con una modestia che incantava,
ma io non ho da pagar lo scotto.
- Eh signore, replicogli un di quegli, le persone della sua figura e del suo
merito non pagan mai nulla; non è ella cinque piedi e cinque pollici
d'altezza?
- Sì, signori, diss'egli, con una bella riverenza, questa è la
mia statura.
- Ah signore, si metta a tavola: non solo noi la farem franco di spesa, ma non
soffrirem mai che un par suo manchi di danaro. Gli uomini son fatti per soccorrersi
scambievolmente l'un l'altro.
- Me l'ha sempre detto il signor Pangloss, riprese Candido; han ragione, ed
io vedo chiaramente che tutto è per lo meglio.
Lo pregano di accettare qualche danaro, ei lo prende, e vuol farne l'obbligo;
non se ne vuol saper nulla, e si mettono a tavola.
- Non amate voi teneramente?...
- Tenerissimamente io amo, diss'egli, la signora Cunegonda.
- Eh no, replicò un di loro, si chiede se voi amate teneramente il re
de' Bulgari.
- Niente affatto, diss'egli, perchè non l'ho mal veduto.
- Come? questo e il più amabile di tutti i re, e s'ha da bere alla sua
salute.
- Oh volentierissimo, signori miei; e beve.
- Tanto basta, gli dicono, eccovi l'appoggio, il sostegno, il difensore, e l'eroe
dei Bulgari; ecco fatta la vostra fortuna, ecco stabilita la vostra gloria.
Immediatamente gli si mettono i ferri ai piedi, e lo si conduce al reggimento.
Si fa voltare a dritta e a sinistra, levar la bacchetta, rimetter la bacchetta,
impostarsi tirare, raddoppiar le file, e gli si regalano trenta bastonate; il
giorno dopo fa un po' meno male l'esercizio, e non ne riceve che venti: l'altro
giorno non ne ha che dieci, ed è da' suoi camerati riguardato come un
prodigio.
Candido stupefatto non sapeva raccapezzare ancor bene, come egli fosse un eroe:
s'avvisò in una bella giornata di primavera d'andarsene a passeggiare,
marciando di fronte, piè innanzi piè, credendo essere un privilegio
della specie umana, come della specie animale, il servirsi delle sue gambe a
sua voglia. Non aveva fatto due leghe, che eccoti quattro eroi di sei piedi
lo raggiungono, lo legano, e lo conducono in una prigione. Gli si domanda giuridicamente
se avea più gusto di passare trentasei volte per le bacchette da tutto
il reggimento, o di ricever tutt'a un tratto dodici palle di piombo nel cervello.
Aveva un bel dire che le volontà son libere, ch'ei non voleva né
l'uno né l'altro; bisognò risolversi a scegliere. In virtù
di quel dono di Dio che chiamasi libertà, egli si determinò a
passare trentasei volte per le bacchette, e se ne prese due spasseggiate. Il
reggimento era composto di duemila uomini e questo gli compose sul fil delle
rene quattromila frustate, che dalla nuca del collo per infino al bel di Roma
gli scopersero ti muscoli e i nervi. S'era per procedere alla terza carriera,
quando Candido non ne potendo più, domandò in grazia che volessero
aver la bontà di moschettarlo. Egli ottenne questo favore; gli si bendano
gli occhi, lo si fa mettere ginocchioni; il re de' Bulgari passa in quel momento,
s'informa del delitto del paziente; e come questo re aveva grand'ingegno, comprese
subito da ciò che intese da Candido, esser egli un giovine metafisico,
molto ignorante delle cose di questo mondo, e accordogli la grazia con un tratto
di clemenza che sarà celebrato da tutti i giornali, e da tutti i secoli.
Un bravo chirurgo guarì Candido cogli emollienti insegnati da Dioscoride
in tre settimane. Aveva egli rimessa un po' di pelle, e poteva marciare, quando
il re de' Bulgari diè battaglia al re degli Abari.
CAPITOLO III
Come Candido scappò da' Bulgari e quel che gli avvenne.
Non si può dar cosa più bella, più addestrata, più
all'ordine, dei due eserciti. Le trombe, i pifferi, gli oboe, i tamburi, i cannoni
formavano un'armonia, che non se ne sente una simile a casa al diavolo. Le cannonate
buttaron giù al primo saluto vicino a seimila uomini da ambe le parti,
quindi la moschetteria portò via dall'ottimo dei mondi nove o diecimila
birbanti che ne infettavano la superficie. La bajonetta fu anch'essa la ragion
sufficiente della morte di qualche migliajo; in tutto poteva montare a una trentina
di mila uomini.
Candido che tremava come un filosofo, si appiattò meglio che potè
durante quest'eroico macello.
Finalmente, mentre ognuno nel suo campo facevano i due re cantare il Te Deum,
prese il partito d'andarsene a raziocinare altrove degli effetti e delle cause.
Passò di sopra a mucchi di morti e di moribondi, e arrivò a un
villaggio vicino. Era questo un villaggio degli Abari che i Bulgari, secondo
le leggi del gius pubblico, avevan ridotto in cenere. Da una parte vecchi crivellati
da' colpi stavano a veder morir scannate le mogli che tenevano i lor bambini
alle sanguinanti mammelle; dall'altra fanciulle sventrate dopo aver satollato
le brame d'alcuni eroi, rendeano l'ultimo fiato; altre mezzo bruciate chiedevano
colle strida che si finisse di ucciderle; ed era coperto il terreno di sparse
cervella accanto a braccia e gambe tagliate.
Candido se ne fuggì a tutta furia in un altro villaggio. Apparteneva
questo a' Bulgari, ed aveva ricevuto dagli Abari eroi un simile trattamento.
Candido, camminando sempre su delle membra ancor palpitanti, e tramezzo alle
ruine, arrivò finalmente fuor del teatro della guerra, con qualche piccola
provvisione nella bisaccia, e colla memoria ancor fresca della sua Cunegonda.
Gli mancaron le provvigioni arrivato che fu in Olanda, ma, avendo sentito dire
che quivi tutti eran ricchi, e che era paese di cristiani, non dubitò
punto di esser trattato come nel castello del signor barone, prima d'esserne
scacciato per i begli occhi di Cunegonda.
Dimandò egli la limosina a molte gravi persone, ma gli fu da tutte risposto
che se seguitava a far quel mestiere l'avrebbero ficcato in una casa di correzione,
perchè imparasse a vivere.
S'accostò quindi ad un uomo che aveva appunto finito di parlar egli solo
per un'ora di seguito in una grande assemblea sulla carità. Questo oratore
guardandolo a traverso:
- Che venite voi a far qui? gli disse. Vi siete voi per la buona causa?
- Non si dà effetto senza causa, rispose Candido con tutta modestia;
in tutto v'è una concatenazione necessaria, e un'ottima disposizione.
È bisognato ch'io sia cacciato via d'appresso a Cunegonda, ch'io sia
passato per le bacchette e bisogna ch'io accatti per mangiare finch'io possa
guadagnarmelo. Tutto questo non poteva essere altrimenti.
- Amico, gli disse l'oratore, credete voi che il Papa sia l'Anticristo?
- Io non l'avevo ancora sentito dire, rispose Candido ma o lo sia o non lo sia,
io non ho pan da mangiare.
- Tu non meriti d'averne, riprese l'altro, monello, birbante, vattene via e
non mi venir mai più d'intorno.
La moglie dell'oratore fattasi alla finestra, e scorgendo un uomo che dubitava
che il Papa fosse l'Anticristo, gli rovesciò addosso un pien... O cielo!
a quale eccesso arriva nelle dame lo zelo di religione.
Un uomo che non era stato battezzato, un buon anabattista nomato Giacomo, vide
l'ignominiosa e crudel maniera con cui trattavasi uno de' suoi confratelli,
una creatura bipede implume, la quale aveva un'anima; lo condusse in sua casa,
lo nettò, gli diè del pane e della birra, gli fe' presente di
due fiorini, anzi volle insegnargli a lavorar nella sua fabbrica, alle stoffe
di Persia che si fanno in Olanda. Candido inginocchiandosegli innanzi esclamava:
«Il maestro Pangloss me l'aveva ben detto che in questo mondo tutto è
per lo meglio; io sono infinitamente più commosso dell'estrema vostra
generosità, che dell'asprezza di quel signore dal mantello nero e della
sua moglie.»
Il giorno dopo andando a spasso s'imbatte in un accattone tutto coperto di bolle,
cogli occhi smorti la punta del naso rosicchiata, la bocca storta, i denti neri,
la voce affogata, tormentato da una tosse violenta, e che ad ogni nodo di tosse
sputava un dente.
CAPITOLO IV
Come Candido ritrova il suo antico maestro di filosofia il dottor Pangloss,
e quel che ne segue.
Candido più commosso ancora di compassione che d'orrore, diede a quello
spaventevole accattone i due fiorini che avea ricevuti da quell'uom dabbene
dell'anabattista Giacomo. Quel fantasma gli fissò gli occhi addosso,
cominciò a piangere, e gli saltò al collo. Candido spaventato
si tira indietro.
- Ahimè dice un miserabile all'altro, non ravvisate il vostro caro Pangloss?
- Che ascolto? Voi il mio caro maestro! Voi in questo orribile stato! Che sciagura
v'è dunque accaduta? Perchè non siete voi più nel bellissimo
fra i castelli? E di Cunegonda, la perla delle donzelle, il capolavoro della
natura che n'è?
- Io non ne posso più, dice Pangloss.
Candido lo mena immediatamente alla stalla dell'anabattista, ove gli dà
del pane a mangiare, e riavuto che fu alquanto:
- Ebbene: e Cunegonda? gli chiese.
- Cunegonda è morta, rispose quegli.
Candido svenne a tai detti; l'amico lo fece ritornare in sè con del cattivo
aceto che per caso si trovò nella stalla. Riapre Candido gli occhi:
- Cunegonda è morta! O mondo l'ottimo dei possibili dove sei tu? Ma di
qual male è ella morta? Forse d'avermi veduto scacciare dal bel castello
del signor padre a furia di gran pedate!
- No, risponde Pangloss, ella è stata sventrata da soldati Bulgari: dopo
esser stata oltraggiata quanto esser si possa. Al barone, che voleva difenderla,
è stata fracassata la testa; la baronessa tagliata a pezzi, il mio povero
pupillo trattato per appuntino come la sorella; e del castello non n'è
rimasto pietra sopra pietra, non un granajo, non un montone, non un'anatra,
non un sol albero: ma abbiamo avuta la rivincita; perchè gli Abari han
fatto l'istesso di una baronia vicina che apparteneva a un signore bulgaro.
A questo discorso Candido tornò a svenire; ma rinvenuto che fu, e detto
quel che avea a dire, s'informò della causa e dell'effetto, e della ragion
sufficiente, che aveva ridotto Pangloss a un sì compassionevole stato.
- Ahimè disse l'altro, questo è l'amore; l'amore, il conforto
dell'uman genere, il conservatore dell'universo, l'anima di tutti gli esseri
sensibili, il tenero amore.
- Ahimè, disse Candido, io l'ho conosciuto cotesto amore, cotesto signor
de' cuori, cotest'anima dell'anima nostra, egli non mi ha fruttato che un bacio,
e venti pedate nel messere. Come mai una sì bella cagione ha potuto produrre
in voi un si abbominevole effetto?
Pangloss così rispose:
- O mio caro Candido! voi avete conosciuto Pasquetta, la leggiadra damigella
della nostra augusta baronessa, nelle sue braccia ho io gustato le dolcezze
del Paradiso; che mi han prodotto questi tormenti d'inferno, onde lacerar mi
vedete... Candido andò a gettarsi ai piedi del suo caritatevole anabattista
Giacomo, e gli fece un ritratto sì vivo dello stato lacrimevole in cui
era ridotto il suo amico, che non esitò punto quell'uomo da bene ad accogliere
il dottor Pangloss, e a farlo guarire a sue spese. Altro non perdè Pangloss
in questa cura, che un occhio e un orecchio. Egli avea buona mano di scrivere,
e sapeva a perfezione far di conto. L'anabattista lo fece suo scritturale. In
capo a due mesi essendo per affari del suo commercio obbligato di andare a Lisbona,
condusse seco i due filosofi nel suo bastimento. Pangloss gli spiegò
come il tutto era l'ottimo. Giacomo era d'un altro parere. Bisogna, ei diceva,
che gli uomini abbiano alquanto corrotta la natura, perchè non son nati
lupi, e lupi divengono; Dio non ha dato loro nè cannoni da ventiquattro,
nè bajonette, ed essi son fatti per distruggersi con bajonette e cannoni.
Potrei metter su questo conto e i fallimenti e la giustizia che mette le mani
su' beni de' falliti per defraudarne i creditori. - Tutto questo, replicava
il guercio dottore, era indispensabile, e le sciagure particolari fanno il bene
generale; talmente che più disgrazie particolari vi sono, più
tutto è ottimo.
Nel tempo che ei ragiona l'aria si abbuja, si scatenano i venti da quattr'angoli
del mondo, e il bastimento è assalito in vista del porto di Lisbona da
orribile tempesta
CAPITOLO V
Tempesta, naufragio, terremoto e quel che avvenne di Pangloss, di Candido e
dell'anabattista.
La metà de' passeggieri, languidi, e affranti dalle indicibili angosce
che il tentennìo d'un bastimento produce ne' nervi e in tutti gli umori
del corpo agitati in contrarie direzioni, non avea nemmeno la forza di mettersi
in pena del suo pericolo; l'altra metà gettava delle strida, e innalzava
preghiere. Eran lacere le vele, gli alberi spezzati, sdruscito il bastimento.
Lavorava chi poteva, non vi era chi s'intendesse, non vi era chi comandasse.
L'anabattista dava un po' di ajuto alla manovra; egli era sul cassero; un marinajo
furioso lo colpisce malamente, e lo distende sulla coperta, ma dal colpo che
diede a lui ebbe egli stesso una scossa sì violente che cadde a capo
riverso fuor del bastimento. Restava egli sospeso e abbriccato a un pezzo d'albero
rotto. Il buon uomo di Giacomo corre al di lui soccorso, e l'ajuta a risalire,
ma dallo sforzo che fece è precipitato egli nel mare in vista del marinajo
che non si degnò nemmeno di rimirarlo. Candido si accosta, vede il suo
benefattore che ricomparisce a galla un momento, e resta inghiottito per sempre.
Vuole egli gettarsegli dietro nel mare, il filosofo Pangloss lo ritiene, provandogli
che la spiaggia di Lisbona era stata formata apposta, perchè quest'anabattista
vi si annegasse. Mentre lo stava provando a priori, s'apre il bastimento e tutti
periscono, a meno di Pangloss, di Candido, e del marinaro brutale che aveva
affogato il virtuoso anabattista. Quel birbante nuotò fino alla riva,
ove Pangloss e Candido furono trasportati anch'essi sopra d'un asse.
Ritornati che furono un poco in sè, presero il cammino verso Lisbona.
Restava a loro qualche denaro con cui speravano di scampar la fame dopo aver
scampato il naufragio.
Appena messo piede in città, piangendo la morte del loro benefattore,
sentono tremare la terra sotto i lor piedi; il mare si solleva ribollendo nel
porto, e fracassa i bastimenti che sono all'áncora. Vortici di fiamme
e di cenere coprono le strade o le piazze, crollano gli edifizj, si rovesciano
tutti sulle fondamenta, e le fondamenta dispergonsi. Trenta mila abitanti d'ogni
età e d'ogni sesso restano schiacciati dalle rovine. Il marinajo fischiando,
e bestemmiando dicea fra sè: - Qui v'è da buscar qualche cosa.
- Qual può esser la ragion sufficiente da' un tal fenomeno? dicea Pangloss.
- Questa è la fine del mondo, esclamava Candido.
Il marinajo corre addirittura tramezzo alle rovine ad affrontar la morte per
trovar de' quattrini, ne trova, se ne impadronisce, s'ubbriaca, e avendo smaltito
il vino, compra i favori della prima ragazza cortese che se gli para davanti,
sulle ruine delle case distrutte, e in mezzo dei moribondi e de' morti. Pangloss
lo tirava intanto per la manica, «amico, dicendogli, la non va bene, voi
mancate alla ragione universale, voi impiegate malamente il tempo.» -
Corpo di... sangue di... rispondeva l'altro, son marinajo e nato a Batavia;
oh va che tu hai trovato il tuo, colla tua ragione universale!
Candido era stato ferito da alcune scaglie di pietre, e coperto di frantumi
di rovine giacea disteso sulla strada. - Ahimè, diceva egli a Pangloss,
procurami un po' di vino, e un po' d'olio, ch'io mi muojo. - Questo terremoto
rispondeva Pangloss, non è cosa nuova; la città di Lima sofferse
in America le stesse scosse l'anno passato: l'istessa cagione produce l'istesso
effetto: bisogna che certamente sotto terra vi sia una striscia di zolfo da
Lima fino a Lisbona - Non vi è niente di più probabile, diceva
Candido, ma datemi per Dio un po' di vino e un po' d'olio. - Come probabile?
replica il filosofo; la cosa è evidente, ed io la sostengo.
Candido perdè il lume degli occhi, e Pangloss gli recò dell'acqua
d'una fontana vicina.
Il giorno dopo, avendo trovato qualche po' di provvisioni con ficcarsi tramezzo
alle rovine, si rinfrancarono un po' di forze, quindi si posero come gli altri
a lavorare per sollievo degli abitanti ch'erano scampati alla morte. Alcuni
cittadini sovvenuti da essi gli diedero da desinare qual poteva apprestarsi
in tanta sciagura. Era il pranzo veramente assai tristo, bagnando i convitati
il loro pane di lacrime, ma Pangloss li consolava assicurandoli, che le cose
non potevano andare altrimenti; perchè, diceva egli, tutto quel che è,
è ottimo, imperocchè se vi è un vulcano a Lisbona non poteva
essere altrove non essendo possibile che le cose non sieno dove sono; perchè
ogni cosa è bene. Un omiciattolo moro famiglio dell'Inquisizione, che
gli era accanto, prese civilmente la parola, e gli disse: - Al vedere il signore
non crede al peccato originale; perchè se ogni cosa è per lo meglio,
non v'è dunque nè caduta nè castigo. - Domando umilissima
scusa a vostra eccellenza, rispose anche più civilmente Pangloss, perchè
la caduta dell'uomo e la maledizione entravano necessariamente nell'ottimo de'
mondi possibili. - Vossignoria non crede dunque la libertà? riprese il
famiglio. - Mi scusi vostr'eccellenza, replicò Pangloss, la libertà
può sussistere, con la necessità assoluta, perchè era necessario
che noi fossimo liberi, perchè finalmente la volontà determinata...
Pangloss era in mezzo a questo discorso, quando il famiglio fece un cenno al
suo staffiere che lo serviva a tavola con del vino di Porto.
CAPITOLO VI
Come si fece un bell'auto-da-fè per impedire i tremoti e come Candido
fu frustato.
Dopo il terremoto che avea distrutto tre quarti di Lisbona,
i dotti del paese non avevan trovato mezzo più efficace per impedire
una total rovina, che di dare al popolo un bell'auto-da-fè. Era stato
deciso dall'Università di Coimbra che lo spettacolo di qualche persona
bruciata a fuoco lento in gran cerimonia era un segreto infallibile per impedire
che la terra non si scuota. Aveano in conseguenza catturato un biscaglino convinto
d'aver sposato la comare, e due portoghesi che, mangiando un pollastro, ne aveano
levato il lardo; si venne poi dopo pranzo alla cattura del dottor Pangloss,
e di Candido suo discepolo; di quello per aver parlato, e di questo per aver
ascoltato in aria d'approvazione. Furono tutti e due condotti separatamente
in appartamenti freschissimi, ne' quali non s'era mai infastiditi dal sole.
Otto giorni dopo furono tutti rivestiti d'un sambenìto, e vennero loro
adornate le teste di mitere di carta, la mitera e il sambenìto di Candido
eran dipinte con delle fiamme all'ingiù, e con de' diavoli senza granfie
e senza coda; ma i diavoli nel sambenìto di Pangloss avean granfie e
coda, e le fiamme eran dritte. Andarono così vestiti a processione e
sentirono un sermone assai patetico seguito da una bella musica in falso bordone;
Candido fu frustato sul messere a tempo di battuta mentre cantavano; il biscaglino
e quei due che non avean voluto mangiar del lardo furono bruciati, e Pangloss
fu appiccato, benchè non sia questo il costume. Il medesimo giorno vi
fu un'altra scossa di terremoto con un fracasso spaventevole. Candido spaventato,
confuso, smarrito, tutto insanguinato, tutto affannato dicea fra sè:
«Se questo mondo è l'ottimo dei possibili che mai son gli altri?
Se io non sono stato altro che nerbato a posteriori, lo sono stato anche fra
i Bulgari; ma, o mio caro Pangloss, il massimo de' filosofi, ho io avuto a vedervi
impiccare senza ch'i' sappia perchè! Oh mio caro anabattista, ottimo
degli uomini, avev'io a vedervi annegare nel porto! O Cunegonda, perla delle
fanciulle, er'egli dovere che avessero a spaccarvi la pancia! »
Egli se ne ritornava mal reggendosi in piedi, sermonizzato, ma assoluto e benedetto,
quando una vecchia gli si fa innanzi, e gli dice: «Fatevi animo, figliolo
mio, e seguitatemi.»
CAPITOLO VII
Come una vecchia prese cura di Candido e come egli ritrova quel che volea.
Candido non si fece animo, nè punto, nè poco,
ma seguitò la vecchia in una casupola rovinata, dove diedegli della pomata
per strofinarsi, gli lasciò da mangiare, e da bere, un letto molto pulito,
e accanto al letto da rivestirsi da capo a piedi. «Mangiate, bevete, e
dormite gli diss'ella, la Madonna d'Antiochia, don S. Antonio di Padova, e don
S. Giacomo di Galizia abbian cura di voi. Io ritornerò dimattina.»
Candido stordito ognor più di quel che avea veduto, di quel che aveva
sofferto, e molto più ancora della carità della vecchia, volle
baciarle la mano.
- Eh, non è la mia mano, che avete a baciare, rispose la vecchia, io
tornerò domani. strofinatevi colla pomata, mangiate e dormite.
Candido, malgrado tante disgrazie, mangiò e dormì. La mattina
dopo, la vecchia gli porta da colazione, gli dà una rivista alla schiena,
lo stropiccia con dell'altra pomata, gli porta poi da desinare; ritorna sulla
sera e gli reca da cena. Il posdomani fa l'istessa cerimonia.
- Chi siete voi? badava a dirle Candido, chi vi ha inspirato tanta bontà?
quali grazie poss'io io rendervi?
La buona donna non rispondeva mai nulla; ritornò la sera, e non portò
nulla da cena.
- Venite con me, gli diss'ella, e non fiatate.
Se lo prende per braccio e cammina con esso per la campagna circa un quarto
di miglio. Arrivano a un casino isolato, circondato di giardini e di canali.
Bussa la vecchia a una porticella; si apre; conduce ella Candido per una scaletta
segreta in un gabinetto tutt'oro; lo lascia sopra un canapè di broccato,
richiude la porta, e se ne va via. Candido si credea di sognare, e considerava
tutta la sua vita passata come un sogno funesto, o il momento presente come
un sogno dilettevole.
La vecchia ricomparve ben tosto; sosteneva ella a fatica una donna tremante,
d'una statura maestosa, tutta rilucente di gioje, e ricoperta da un velo.
- Levate quel velo, disse a Candido la vecchia.
Egli si accosta, alza il velo con mano timorosa. Oh momento! oh sorpresa! Credè
di vedere Cunegonda, ei la vedeva in fatti, era ella stessa. Gli mancano le
forze, non sa proferir parola, e si lascia cascare a' suoi piedi; e Cunegonda
si abbandona sul canapè, la vecchia li carica d'acque odorose, finchè
ritornano in sè e possono parlarsi. Non eran sul primo che parole interrotte,
domande e risposte, che facevano a urtarsi, sospiri, lacrime e strida. La vecchia
lor raccomanda di far meno rumore, e li lascia in libertà. - Come! le
dice Candido, voi Cunegonda? voi viva? Voi in Portogallo? Non vi han dunque
oltraggiata? - Non v'han spaccata la pancia come mi aveva assicurato Pangloss?
- Sibbene, dicea Cunegonda, egli è vero, ma non sempre di questi due
accidenti si muore. - Ma vostro padre e vostra madre son eglino stati uccisi?
- Pur troppo, disse Cunegonda piangendo, lo sono stati. - E il vostro fratello?
- Ucciso ancor egli. - E come siete voi in Portogallo, e come sapeste ch'io
vi fossi, e - per quale strana avventura fui condotto in questa casa? - Vi dirò
tutto, replicò la donna, ma ditemi prima voi tutto quel che vi è
succeduto dopo il bacio innocente che mi deste, e le pedate che ne buscaste.
Candido l'obbedì con un profondo rispetto, e benchè fosse confuso
e avesse la voce fievole e tremante, e benchè gli facesse anche un po'
male la schiena, le raccontò nella maniera più semplice quel che
egli aveva sofferto dal momento della loro separazione. Cunegonda alzava gli
occhi al cielo; pianse amaramente alla morte del buon anabattista, e di Pangloss,
e parlò quindi in questi termini a Candido, che non ne perdeva una parola,
e che la mangiava cogli occhi.
CAPITOLO VIII
Istoria di Cunegonda.
«Ero nel mio letto e dormivo saporitamente, quando al
ciel piacque di mandare i Bulgari nel nostro bel castello di Thunder-ten-tronckh;
essi scannarono mio fratello e mio padre, e tagliaron mia madre a pezzi. Un
gran bulgaro alto sei piedi, vedendo che a un tale spettacolo avevo perduto
il conoscimento, mi oltraggiò; questo mi fece rinvenire e ripigliare
i miei sensi. Gridai, mi dibattei, morsi, sgraffiai, volli cavar gli occhi a
quel bulgaro, non sapendo che tutto quel che accadea nel castello era cosa solita
e d'uso. Quel brutale mi diede una coltellata sul fianco sinistro, di cui porto
anche il segno. - Ahimè, spero che me lo farete vedere, disse il semplice
Candido. - Voi lo vedrete, ma andiamo avanti, disse Cunegonda. - Andiamo pur
avanti, disse Candido.
Ella così riprese il filo della sua istoria: «Un capitano de' Bulgari
entrò, vide me tutta insanguinata, e il soldato che non facea vista di
muoversi. Il capitano in collera pel poco rispetto che avea per lui, quel brutale,
me l'ammazzò accosto; mi fece quindi curare, e mi menò prigioniera
di guerra nel suo quartiere. Io gl'imbiancavo quelle po' di camicie che aveva,
io gli faceva la cucina; egli mi trovava, per dir vero, molta bellezza, ed io
nol negherò ch'ei fosse assai ben fatto; del restante niente di spirito
e meno di filosofia; si vedeva bene che non era stato allevato dal dottor Pangloss.
«In capo a tre mesi, avendo perduti tutti i quattrini ed essendo ristucco
di me, mi vende ad un ebreo chiamato don Issaccar, che negoziava in Olanda,
e in Portogallo, e a cui piacevano estremamente le donne. Questo ebreo mi si
affezionò moltissimo, ma non potè trionfare della mia ritrosia.
L'ebreo mi condusse in questa villetta che voi vedete. Avevo sempre creduto
che il castello di Thunder-ten-tronckh fosse quel che vi può esser di
più bello nel mondo, ma mi son disingannata.
«Il grand'Inquisitore mi vide un giorno alla messa, mi adocchiò
lungamente, e mi fece dire che avea da parlarmi per affari segreti. Fui condotta
al suo palazzo, gli scopersi i miei natali, ed egli mi fece delle rimostranze
di quanto disconvenisse al mio rango l'esser in balìa d'un ebreo. Fece
egli propor per sua parte a don Issaccar di cedermi a monsignore. Ma don Issaccar,
ch'è il banchiere di Corte, e un uomo di credito, non ne volle saper
niente. L'inquisitore lo minacciò d'un auto-da-fè, sicchè
l'ebreo impaurito, concluse un contratto, in virtù del quale e la casa,
e la mia persona appartenessero a tutti due loro in comune; ma fecero i conti
senza di me, che non voglio alcuno.
«Finalmente per distornare il flagello de' terremoti, e per impaurire
don Issaccar, volle monsignor inquisitore celebrare un auto-da-fè, e
mi fè l'onor d'invitarmici. Ebbi un buonissimo posto, e fra la messa
e il supplizio si servirono i rinfreschi alle dame. Mi raccapricciai per dir
vero, a veder bruciar vivi quei due ebrei, e quel galantuomo di Biscaglia, che
avea sposata la comare. Ma qual fu la mia sorpresa, il mio raccapriccio, la
mia agitazione, quando in sambenito e mitera vidi una figura che rassomigliava
a Pangloss! Mi stropicciai gli occhi, lo riguardai attentamente, lo vidi impiccare,
e svenni. Ritornata appena in me vi vidi spogliar nudo, e fu per me il colmo
del dolore, della costernazione, della disperazione, dell'orrore. Alzai un grido,
e fermate, dir volli, o barbari, fermate; ma la voce mancommi, e a nulla avrebbero
servito le mie strida. Quando fosti stato ben ben frustato -come mai può
darsi, dicea fra me, che l'amabil Candido, e il saggio Pangloss si trovino a
Lisbona, uno per pigliarsi cento frustate, e l'altro per farsi impiccare d'ordine
di monsignore inquisitore mio cicisbeo? Pangloss mi ha dunque crudelmente ingannata,
con dirmi, che tutto quel che segue è per lo meglio?
«Agitata, smarrita, ora fuori di me; ed ora sentendomi morir di debolezza,
aveva l'anima ripiena della strage di mio padre, di mia madre, e di mio fratello,
di quel birbon di soldato bulgaro, della coltellata che mi aveva data, della
mia condizione servile, del mio mestiere di cuciniera, del mio capitano, di
quella brutta figura di don Issaccar, di quell'abbominevole inquisitore, dell'impiccatura
di Pangloss di quel gran miserere in falso bordone, e sopra tutto del bacio
che dato vi aveva dietro un paravento quel giorno che io vi vidi per l'ultima
volta. Ringraziai il cielo che a me si riconduceva per tante prove; e mi raccomandai
alla mia vecchia, perchè si prendesse cura di voi, e vi conducesse a
me più presto che si potesse. Ella ha eseguito a maraviglia la sua commissione,
ho gustato il piacere indicibile di rivedervi, di ascoltarvi, di favellarvi.
Dovete avere una fame terribile, io ho un grand'appetito, cominciamo a cenare.»
Eccoli tutti e due a tavola, e dopo la cena si ripongono a sedere, quando don
Issaccar, un do' padroni di casa, arrivò.
CAPITOLO IX
Quel che successe di Cunegonda, di Candido, del Grand'Inquisitore e d'un Ebreo.
Questo Issaccar era un'ebreo il più collerico che si
fosse seduto in Israelle dopo la schiavitù babilonese. - Ah cagna di
Galilea, diss'egli, non ti basta l'inquisitore? Vuoi mettermi a parte anco con
questo furfante?
In questo cava fuori un lungo pugnale di cui era sempre provvisto, e non credendo
provveduto di alcun arme la sua parte avversa si avventa a Candido. Ma il nostro
bravo Vesfalo che insieme coll'abito di tutto punto aveva ricevuto dalla vecchia
una bella spada, mette mano addirittura, e benchè fosse d'un assai dolce
costume, distende morto sul terreno l'israèlita ai piedi di Cunegonda..
- Santissima Vergine! grida ella, che sarà di noi? Un uomo ucciso in
mia casa! Se vien la giustizia siamo perduti. - Se Pangloss non fosse stato
impiccato, disse Candido, ci daria qualche buon consiglio in simile estremità;
egli era un gran filosofo. In sua mancanza consultiamo la vecchia.
Questa era molto prudente, e mentre cominciava a dire il suo parere, eccoti
che s'apre un'altra porticina. Era un'ora dopo mezzanotte, ed era il principio
della domenica, giorno assegnato a monsignor inquisitore. Entra egli, e vede
il frustato Candido colla spada in mano, un cadavere steso per terra, Cunegonda
smarrita, e la vecchia a dar consiglio.
Ecco quel che in tal momento si presentò allo spirito di Candido, e come
ei ragionò: «se questo sant'uomo grida soccorso mi farà
bruciare infallibilmente e potria far l'istesso di Cunegonda. Ei mi ha fatto
frustare senza pietà, egli è mio rivale, io ho già preso
il verso a ammazzare, e non v'è da esitare un momento.» Questo
ragionamento fu semplice e corto, e senza dar tempo all'Inquisitore di rivenire
dalla sua sorpresa, lo passa da parte a parte, e lo distende accanto all'ebreo.
- Eccoti la seconda di cambio, grida Cunegonda, non c'è più remissione;
noi siamo scomunicati, è venuta per noi l'ultim'ora. Come avete potuto
fare voi, che siete nato così pacifico, ad ammazzare in due minuti di
tempo un prelato ed un ebreo? - Ah, bella Cunegonda, rispose Candido, quando
uno è innamorato, geloso e frustato dal Sant'Uffizio, esce fuori di sè.
La vecchia prese allor la parola: «Vi sono, diss'ella, tre cavalli d'Andalusia
nella stalla, con tutto il lor fornimento; Candido li metta all'ordine, madama
ha delle doppie e delle gioje; montiamo addirittura a cavallo, bench'io non
possa star che sopra una parte sola, e andiamocene a Cadice; fa il più
bel tempo del mondo, ed è proprio un piacere il viaggiar col fresco della
notte.»
Candido mette immediatamente la sella al cavalli; Cunegonda, la vecchia, ed
esso fan trenta miglia tutte d'un fiato. Mentre s'allontanavano, arriva alla
casa la Santa Hermandad, si sotterra monsignore in una bellissima chiesa, e
si butta Issaccar al Campaccio.
Candido, Cunegonda e la vecchia eran già nella piccola città d'Avacèna
in mezzo alle montagne della Sierra Morena, e così se la discorrevano
in 'osteria.
CAPITOLO X
In quale indigenza Candido, Cunegonda e la vecchia arrivarono a Cadice e del
loro imbarco.
- E chi poteva dunque rubarmi le mie doppie e i mie diamanti?
dicea Cunegonda piangendo. Come faremo a campare? dove raccapezzare degli inquisitori,
e degli ebrei che me ne dieno degli altri? - Ahimè, diceva la vecchia,
io ho gran sospetto di un reverendo zoccolante che dormì con noi a Badajoz
nell'istessa locanda. Dio mi guardi di fare un giudizio temerario, ma egli entrò
due volte nella nostra camera, e partì molto tempo prima di noi. - Ahimè,
diceva Candido, me l'aveva sovente provato Pangloss, che i beni di questa terra
son comuni a tutti gli uomini, e che ciascheduno v'ha l'istesso diritto. Quel
zoccolante doveva bene secondo questo principio, lasciarci da finire il viaggio.
Non vi riman dunque nulla nulla, bella Cunegonda? - Nemmeno un picciolo, diss'ella.
- A qual partito appigliarci? diceva Candido. - Vendiamo un de' tre cavalli,
disse la vecchia; io monterò in groppa dietro alla signora e arriveremo
a Cadice.
Vi era nell'istessa locanda un priore de' Benedettini, che comprò il
cavallo a buon mercato. Candido, Cunegonda e la vecchia passarono per Lucena,
per Chillas, per Lebrixa e finalmente giunsero a Cadice. Vi si equipaggiava
una flotta, e vi si radunavan delle truppe per mettere a dovere i reverendi
padri gesuiti del Paraguai, i quali eran accusati di aver fatto ribellare una
delle migliori provincie contro i re di Portogallo, e di Spagna i presso alla
città del SS. Sacramento. Candido, che aveva militato fra i Bulgari,
fece l'esercizio alla bulgara dinanzi al generale della piccola armata con tanta
grazia, con tanta celerità, con tanta destrezza, con tanta bravura e
agilità che gli è dato il comando di una compagnia di fanti. Eccolo
fatto capitano; egli s'imbarca con Cunegonda e la vecchia, due servitori, e
i due cavalli d'Andalusia, che eran già stati di monsignore di Portogallo.
Durante tutto il passaggio parlarono assai sulla filosofia del povero Pangloss.
- Noi andiamo in un altro mondo, diceva Candido, forse è là dove
tutto e ottimo; perchè confessar bisogna che vi sarebbe da sospirare
di quel che segue nel nostro, tanto in morale che in politica. - Ora vi voglio
veramente bene, dicea Cunegonda, perchè ho l'anima anch'io tutta disgustata
di quel che vi ho provato e veduto. - Tutto passerà bene, ripetea Candido,
in questo novello mondo; il mare istesso è migliore che quel di Europa;
egli è più placido, e il vento vi è men variabile. Al vedere
è il mondo nuovo il migliore degli universi possibili. - Iddio lo voglia,
dicea Cunegonda, ma son stata così orribilmente maltrattata nel mio,
che ho il cuore quasi intieramente chiuso alla speranza - Voi vi lamentate,
riprese la vecchia, ahimè, che voi non avete provato sciagure simili
alle mie.
A Cunegonda scapparon quasi le risa, e le parve molto ridicola quella povera
vecchia a pretendere di esser più infelice di lei. - Eh cara mia, le
disse ella, quando non siate stata offesa da due Bulgari invece di uno, quando
non abbiate ricevuto due coltellate nella pancia, quando non siano stati demoliti
due de' vostri castelli e scannati sotto i vostri occhi due vostre madri, e
due padri, e frustati due vostri amanti in un auto-da-fè, non vedo che
possiate superarmi in disgrazia. Aggiungete che nata son io baronessa con settantadue
quarti di nobiltà, e che sonmi ridotta a far da cucina. - Ah signorina,
rispose la vecchia, voi non sapete qual è la mia nascita, e se io vi
mostrassi il mio bel di Roma non parlereste così, e sospendereste il
vostro giudizio. Questo discorso risvegliò nell'animo di Cunegonda e
di Candido un'estrema curiosità. La vecchia lor parlò in questi
termini:
CAPITOLO XI
Istoria della vecchia.
«Io non son stata sempre cogli occhi cisposi e orlati
di scarlatto, il mio naso non è sempre andato a ritoccarsi col mento,
nè sempre serva stata son io. Io son figlia di papa Urbano decimo, e
della principessa di Palestrina. Fui fino all'età di quattordici anni
allevata in un palazzo, a cui tutti i castelli dei vostri baron tedeschi avrian
potuto servir di stalla; e valeva più un de' miei abiti che tutte le
magnificenze della Vesfalia. Crescevo in bellezza, in grazia, e in talento,
in mezzo a' piaceri, agli ossequi ed alle speranze, e inspiravo già amore:
quali occhi! quali palpebre! quai ciglia! quali fiammelle scintillavano dalle
mie pupille, e oscuravano il fulgore delle stelle! come diceanmi i poeti del
luogo.
«Io fui promessa in isposa a un principe sovrano di Massa di Carrara.
Che principe! impastato di dolcezza e di vezzi, pieno d'uno spirito brillante,
e d'un fervido amore. L'amavo qual suole amarsi ne' primi amori, con idolatria,
e con trasporto. Le nozze eran già preparate, con una pompa e una magnificenza
inaudita; non si trattava che di feste, di scarrozzate e di burlette in musica
a tutto pasto; e si fecero per tutta l'Italia de' sonetti sul mio soggetto,
di cui non ve ne fu pur uno di passabile. Ero presso al momento della mia felicità,
quando una vecchia marchesa che era stata cicisbea del mio principe, invitollo
a prender la cioccolata da lei. Morì egli in men di due ore fra orribili
convulsioni; ma questo non è nulla. Mia madre disperava, e pur molto
meno afflitta di me, volle per qualche tempo involarsi a un sì funesto
soggiorno. Aveva ella una bellissima terra presso Gaeta; c'imbarcammo in una
galera del paese, dorata come l'altar di san Pietro, ed ecco che un corsal salettino
ci dà addosso, e ci abborda. I nostri soldati si difesero da soldati
papalini, si misero tutti in ginocchione, gittando le armi, e chiedendo al corsale
un'assoluzione in articulo mortis.
«Furono immediatamente spogliati ignudi come tanti scimmiotti; così
mia madre e le nostre damigelle d'onore, e così pur io.
«Non starò a dirvi quanto sia cosa dura per una giovine principessa
l'esser condotta schiava al Marocco; voi comprendete benissimo quel che dovemmo
soffrire nel bastimento del corsaro. Mia madre era ancora bellissima, le nostre
damigelle d'onore, le nostre semplici cameriere aveano più vezzi di quel
che possa trovarsene in tutta l'Africa. Io poi ero un incanto, ero la bellezza
o la grazia medesima ed ero fanciulla...
«Marocco nuotava nel sangue allorchè vi arrivammo; cinquanta figli
dell'imperatore Muley-Ismaele avean ciascuno un partito che produceva in effetto
cinquanta guerre civili di neri contro neri, di zaini contro zaini, e di mulatti
contro mulatti, ed era un continuo macello in tutta l'estensione dell'impero.
«Fummo appena sbarcate, che alcuni neri di una fazione nemica a quella
del nostro corsale si presentarono per involargli la preda. Dopo l'oro e i diamanti
eravamo noi quel che egli aveva di più prezioso. Io fui testimone d'una
zuffa qual mai non può vedersi nei nostri climi d'Europa. I popoli settentrionali
non hanno il sangue troppo bollente, nè il furor per le donne nel grado
ch'è ordinario nell'Africa. Par che gli Europei abbiano latte nelle vene
laddove è vetriolo e fuoco quel che scorre nelle vene agli abitanti del
monte Atlante e dei paesi vicini. Si combatteva col furor de' leoni, delle tigri,
de' serpenti della contrada a chi ci avrebbe a possedere. Un moro prese mia
madre pel braccio destro, il luogotenente del mio capitano la riteneva per il
sinistro, un soldato l'afferrò per una gamba, un de' nostri pirati la
ritenne per l'altra, e in un momento tutte le nostre donne trovaronsi nell'istessa
guisa tirate da quattro soldati. Il mio capitano mi teneva nascosta dietro a
lui, avea impugnata la scimitarra, ed uccideva tutto quel che opponevasi al
suo furore. Finalmente vidi tutte le nostre italiane, compresa mia madre, sbranate,
trucidate e tagliate a pezzi dai mostri che se le disputavano. Gli schiavi miei
compagni, coloro che li avevan presi, soldati marinari, negri, bianchi, mulatti,
e finalmente il mio capitano, tutto restò ucciso, ed io rimasi esangue
sopra un mucchio di cadaveri. Simili scene seguivano, come è noto, in
tutta l'estensione di più trecento leghe, senza si mancasse intanto alle
cinque preghiere quotidiane ordinate da Maometto.
«Mi sbarazzai a gran fatica dalla folla di tanti cadaveri sanguinosi ammonticchiati
l'uno sull'altro, e mi trascinai sotto un grand'albero d'arancio sul margine
d'un ruscelletto vicino. Mi vi abbandonai svenuta dallo spavento, dalla stanchezza,
dall'orrore, dalla disperazione e dalla fame. Non andò guari, che i miei
sensi oppressi s'abbandonarono a un sonno che aveva più del deliquio
che del riposo. Ero in quello stato di debolezza e d'insensibilità fra
la morte e la vita, quando sentii qualcuno che mi toccava stranamente. Apersi
gli occhi, e vidi un uomo bianco, e di buon aspetto, che dicea sospirando fra'
denti: oh che sciagura d'esser... quel che sono!
CAPITOLO XII
Seguito delle sciagure della vecchia.
«Fra lo stordimento e il contento a udire il linguaggio
della mia patria, e non meno stupita dalle parole che proferiva colui, gli risposi
che vi erano delle disgrazie maggiori di quella di cui lamentavasi. L'istrussi
in poche parole delle cose orribili da me sofferte, e caddi in isvenimento.
Mi trasportò egli in una casa vicina, mi fece mettere a letto, mi fece
dar da mangiare, mi servì, mi consolò, mi accarezzò, mi
disse di non aver mai veduta beltà maggiore della mia.
«- Io sono nato a Napoli, mi diss'egli; vi si accapponano tutti gli anni
due o tremila ragazzi, altri ne muoiono, altri acquistano una voce più
bella di quella delle donne, altri vanno a governar degli Stati. Mi fu fatta
questa operazione con grandissimo successo, e sono stato virtuoso della cappella
della principessa di Palestina.
«- Di mia madre! esclamai.
«- Di vostra madre! esclamò egli piangendo. Come! sareste voi quella
giovine principessa, che io ho allevata fino all'età di sei anni, e che
prometteva fin d'allora di dover riuscire quella bellezza, che voi siete?
«- Io son quella stessa; mia madre è lontana di qui quattrocento
passi, sbranata in quarti sotto un monte di morti.
«Gli contai tutto quel che mi era accaduto, egli mi narrò finalmente
le sue avventure, e mi disse come egli era stato inviato al re di Marocco da
una potenza cristiana per concludere con quel monarca un trattato, in virtù
del quale gli si somministrerebbe polvere, cannoni e bastimenti per ajutarlo
a sterminare il commercio degli altri cristiani.
- La mia commissione è eseguita, continuò quell'onorato eunuco,
io devo imbarcarmi a Ceuta e di là ricondurvi in Italia.
«Io lo ringraziai con lacrime di tenerezza, egli invece di condurmi in
Italia mi menò ad Algeri, e mi vendè al Deì di quella provincia.
Appena fui venduta, quella pestilenza che ha fatto il giro dell'Africa, dell'Asia
e dell'Europa si scatenò furiosamente in Algeri. Voi avete udito il terremoto,
ma non avete mai signorina mia, provata la peste. Se provata l'aveste, confessereste
ch'ella è ben qualche cosa di più che un terremoto. Ella è
comunissima in Africa, ed io ne restai infetta. Figuratevi qual condizione per
una figlia di papa, in età di quindici anni, che in tre mesi di tempo
avea provata la povertà, la schiavitù, aveva veduto spaccare in
quarti la madre, avea provata la fame e la guerra, e se ne moriva appestata
in Algeri. Io però ne scampai, ma il Deì, e quasi tutto il serraglio
d'Algeri perì.
«Passata la prima furia di questa orribile pestilenza si venderono le
schiave del Deì. Un mercante mi comprò e mi condusse a Tunisi.
Mi vendè egli a un altro mercante che mi rivendè a Tripoli, da
Tripoli fui rivenduta al Alessandria, d'Alessandria a Smirne, e da Smirne a
Costantinopoli. Toccai finalmente ad un Agà de' giannizzeri ch'ebbe ben
tosto il comando di andare a difendere Azof contro i Russi, che l'assediavano.
L'Agà, ch'era un onestissimo uomo, condusse seco tutto il suo serraglio,
e ci diè quartiere in una fortezza sulla palude Meotide sotto la guardia
di due eunuchi, e di venti soldati. Fu ucciso un prodigioso numero di Russi,
ma essi si presero ben la rivincita. Azof fu messo a ferro e fuoco, e non si
risparmiò nè sesso, nè età. Non vi restò
che la nostra piccola fortezza, e i nemici pensarono di prenderci con affamarci.
I venti giannizzeri s'erano impegnati con giuramento di non arrendersi mai,
e l'estremità della fame a cui furon ridotti, li costrinse a mangiarsi
i nostri due eunuchi, per timore di violare il giuramento, e a capo di pochi
giorni risolverono di mangiarsi le donne.
«Avevamo un pio Imano molto compassionevole, che fe' loro un bellissimo
sermone per persuaderli a non ucciderci affatto. - Tagliate, diss'egli, solamente
una parte... carnosa per una a queste signore, e avrete da scialare. Se sarà
necessario ritornarci un'altra volta fra pochi giorni, ne avrete altrettanto;
il cielo vi saprà buon grado d'un'azione sì caritatevole, e ne
sarete soccorsi.
«Siccome era molto eloquente, li persuase; ci fu fatta quest'orribile
operazione, e l'Imano ci applicò l'istesso balsamo che si adopra a' bambini
dopo la circoncisione; noi eravam tutte per morire.
«Appena avevano i giannizzeri terminato il pasto che noi imbandito loro
avemmo, eccoti su de' battelli piatti arrivare i Russi, e neppur un giannizzero
si salvò. I Russi non badarono punto allo stato in cui ci trovavamo.
Vi son dappertutto dei chirurghi francesi; uno di questi molto bravo prese cura
di noi, e ci guarì, ci disse a tutte di consolarci, perchè in
molti assedj era stato praticato lo stesso, ed esser così la legge di
guerra.
Quando le mie compagne furono in grado di camminare ci mandarono a Mosca. Io
toccai in sorte un bojardo; che mi fece sua giardiniera, e mi regalava di venti
frustate al giorno; ma questo signore, essendo stato arruotato in capo a due
anni con una trentina d'altri bojardi, per impicci di corte, profittai di questa
avventura e me ne scappai. Traversai tutta la Russia; fui lungo tempo a servire
in una osteria a Riga, indi a Rostock, a Veimar, a Lipsia a Cassel, a Utrecth,
a Leida, all'Aja, a Rotterdam; sono invecchiata nella miseria e nell'obbrobrio,
ricordandomi sempre d'esser figlia di papa. Ho voluto uccidermi cento volte;
ma amavo ancora la vita. Questa debolezza ridicola è forse delle nostre
inclinazioni la più funesta. Perchè vi è nulla di più
ridicolo che di voler portar continuamente un fardello, che si vorrebbe ad ogni
momento buttar giù? Di aver in aborrimento la propria esistenza, e di
non poter distaccarsene? D'accarezzar finalmente il serpe che ci divora, finchè
non ci abbia mangiato il cuore?
«Ho veduto ne' paesi che la fortuna m'ha fatto scorrere e nelle osterie
dove ho servito, un numero prodigioso di persone, che detestavano la propria
esistenza, ma otto soli ne ho veduti che abbian volontariamente posto fine alla
lor miseria, tre negri, quattro inglesi e un professore tedesco nominato Robek.
Finalmente; sono stata a servire in casa dell'ebreo don Issaccar che mi mise
appresso di voi signorina mia bella; mi vi sono affezionata, e mi son data più
pensiero delle vostre avventure che delle mie. Non vi avrei nemmen parlato mai
delle mie disgrazie, se voi non m'aveste un po' piccata e se non fosse l'uso
sui bastimenti di contar istorielle per divertirsi. Finalmente, signora, io
ho dell'esperienza e conosco il mondo. Pigliatevi un gusto; impegnate i passeggeri
a contarvi ognun la sua istoria, e se uno solo se ne trova che non abbia sovente
maledetto il punto in cui nacque, e che non abbia sovente detto a sè
medesimo d'essere il più infelice che viva, gettatemi a capo all'ingiù
nel mare, ch'io mi contento.»
CAPITOLO XIII
Come Candido fu obbligato di separarsi dalla bella Cunegonda e dalla vecchia
La bella Cunegonda udita che ebbe l'istoria della vecchia le
fe' tutte le cortesie che a persona del di lei merito e del di lei rango si
convenivano, ed avendo accettato il consiglio, impegnò tutti i passeggieri
a contare, uno dopo l'altro, le loro avventure, ed ebbe, insieme con Candido,
a confessare che la vecchia aveva ragione. - Che peccato, diceva Candido, che
il saggio Pangloss sia contro il costume stato impiccato in un auto-da-fè!
ei ci direbbe delle cose ammirabili sul mal fisico e sul mal morale onde è
coperta la terra e il mare, ed io mi sentirei forza bastante di fargli con tutto
il rispetto delle obbiezioni.
A misura che ognuno andava contando la propria istoria il bastimento avanzava
cammino. Abbordarono a Buenos-Aires, e Cunegonda, il capitan Candido, e la vecchia
andarono a casa del governatore don Fernando d'Ibaraa y Figueora y Mascarenes
y Lampourdos y Souza. Questo signore avea tutta la fierezza che convenivasi
a un uomo che portava una sì lunga sfilata di nomi, egli parlava alla
gente con un sì nobil disdegno, arricciava talmente il naso, alzava sì
spietatamente la voce, prendeva un tuono da imporre talmente e affettava un
portamento sì altiero, che faceva venir voglia di bastonarlo a chiunque
gli favellava. Amava furiosamente le donne, e Cunegonda gli parve quanto di
più bello avesse mai veduto. La prima cosa ch'ei fece, fu di dimandare
s'ella era moglie del capitano, e fece questa domanda in un'aria, che mise Candido
in apprensione; non ardì egli dire che era sua sorella perchè
non lo era nemmeno, quantunque questa bugia officiosa fosse di moda fra gli
antichi e potesse essere utile tra i moderni; aveva l'anima troppo pura per
avere a tradire la verità. -La signora Cunegonda, diss'egli, deve farmi
l'onor di sposarmi, e siamo a supplicar l'Eccellenza Vostra a degnarsi di fare
le nostre nozze.
Don Fernando d'Ibaraa y Figueora y Mascarenes y Lampourdos y Souza, arricciando
le basette, sorrise amaramente, e ordinò al capitano Candido d'andare
a far la visita della sua compagnia. Candido obbedì; e il governatore
si fermò con Cunegonda; le dichiarò la sua passione, le protestò
che il giorno appresso l'avrebbe sposata in faccia alla Chiesa, o altrimenti,
come più fosse piaciuto alla di lei bellezza; Cunegonda gli domandò
un quarto d'ora per raccogliersi, per consultar la vecchia, e determinarsi.
La vecchia diceva a Cunegonda: - Signorina, voi avete settantadue quarti di
nobiltà, e nemmeno un picciolo; non sta che a voi il divenir la moglie
del più gran signore dell'America Occidentale, e che ha una bella basetta:
vorrete voi piccarvi d'una fedeltà a tutta prova?
Voi siete stata oltraggiata da' Bulgari; un ebreo e un inquisitore si sono succeduti.
Le disgrazie danno de' privilegi; ed io confesso, che se fossi ne' vostri piedi
non mi farei il minimo scrupolo di sposare il signor governatore, e di far la
fortuna di Candido.
Mentre la vecchia così parlava con tutta la prudenza che viene dall'esperienza
e dagli anni, si vide entrar nel porto un piccolo legno, che portava un alcade,
e degli alguazil; ed ecco quel che era successo.
La vecchia aveva molto bene indovinato, che era questi un francescano conventuale,
che avea rubato i danari e le gioje di Cunegonda nella città di Badajoz,
quando in tutta fretta se ne fuggiva con Candido. Questo frate avendo voluto
vendere alcune di quelle gioje a un giojelliere, furon da lui riconosciute per
quelle dell'inquisitore, e il francescano aveva, prima di farsi impiccare, confessato
d'averle rubate, indicando le persone e la strada ch'esse avean presa. La fuga
di Cunegonda e di Candido era già nota, s'inseguirono fino a Cadice,
e senza perder tempo si spedì un bastimento per tener lor dietro, ed
era già questi nel porto di Buenos-Aires. Si sparse la nuova che era
per sbarcarne un alcade, che veniva in traccia degli assassini di monsignore
il grand'Inquisitore; e la vecchia prudente, vide in un istante quel che era
da farsi. - Voi non potete fuggire, diss'ella a Cunegonda, e non avete nulla
da temere. Non siete voi quella che ha ucciso l'inquisitore, e d'altra parte
il governatore che vi ama non vi lascerà maltrattare; restate.
Corre immediatamente da Candido, e «fuggite, gli dice, fra un'ora vi bruceranno.»
Non vi era un momento da perdere, ma come lasciar Cunegonda, e dove rifugiarsi?
CAPITOLO XIV
Come Candido e Cacambo furono ricevuti da' Gesuiti del Paraguai
Candido aveva condotto da Cadice un servitore di quelli che
trovansi in abbondanza sulle coste di Spagna e sulle colonie. Era questi un
quarto di spagnuolo nato da un meticcio nel Tucuman, era stato chierico di coro,
sagrestano, marinaio, frate, fattore, soldato e lacchè. Si chiamava Cacambo,
e amava molto il padrone, perchè il padrone era un bell'uomo. Sellò
egli immediatamente i due cavalli d'Andalusia, e «andiamo, disse al padrone,
seguitiamo il consiglio della vecchia, partiamo e galoppiamo senza voltarci
indietro.» - Oh mia cara Cunegonda, dicea Candido piangendo, ho io ad
abbandonarvi adesso che il signor governatore è per stringere i nostri
sponsali? Oh Cunegonda, condotta di sì lontano che sarà di voi?
- Farà quel che potrà, dicea Cacambo, le donne san ben levarsi
d'intrigo. Iddio le provvede, scappiamo. - Dove mi meni tu? dove si va? che
farem noi senza Cunegonda? - Per San Jacopo di Compostella, diceva Cacambo,
tu andavi a far la guerra a' gesuiti, andiamo a farla per loro, io son pratico
delle strade, e vi condurrò nel lor regno, ed essi avranno un gusto grandissimo
di avere un capitano che faccia l'esercizio alla bulghera, e voi farete una
fortuna prodigiosa. Quando non si trova il suo conto in un mondo si va in un
altro, ed è un gran piacere vedere, e far cose nuove. - Tu sei dunque
stato altre volte nel Paraguai? disse Candido. - E come! rispose Cacambo, sono
stato sguattero nel collegio dell'Assunzione, e conosco il governo de los Padres
quanto le strade di Cadice. Che cosa maravigliosa che è quel governo!
Il regno ha di già trecento leghe di diametro diviso in trenta provincie.
I padri vi hanno tutto e i popoli nulla. Questo è il capo lavoro della
ragione e della giustizia. Io non vedo per me niente di sì divino quanto
i padri che fan qui la guerra al re di Spagna e di Portogallo, e sono in Europa
i lor confessori. Qui ammazzano gli Spagnuoli e a Madrid li mandano in paradiso.
È un incanto; tiriamo avanti; voi diventerete il più felice di
tutti gli uomini. Che piacere avranno los padres, quando sapranno che vien da
loro un capitano, che fa l'esercizio alla bulghera!
Arrivati che furono alla prima barriera, Cacambo disse alla sentinella che un
capitano voleva parlare a monsignor comandante. Si andò a darne avviso
alla gran guardia. Un uffiziale paraguaino corse a' piedi del comandante a dargliene
parte; Candido e Cacambo furono immediatamente disarmati, e furon loro presi
i due cavalli d'Andalusia. I due forestieri vengono introdotti in mezzo a due
file di soldati, in fondo alle quali era il comandante colla berrettina a tre
punte in capo, la toga tirata su, la spada al fianco e lo spuntone In mano.
Fece egli un segno, e immediatamente i due forastieri furono circondati da ventiquattro
soldati. Gli disse un sergente che conveniva aspettare, che il comandante non
potea parlargli, perchè il reverendo padre provinciale non permette ad
alcun spagnuolo di aprir la bocca fuorchè in sua presenza, o di restare
in paese più di tre ore. - Ma il signor capitano, disse Cacambo, che
muor di fame come me, non è spagnuolo, è tedesco; non potrebb'egli
intanto che si aspetta Sua Reverenza, far colazione?
Il sergente andò subito a render conto di questo discorso al comandante.
- Ringraziato sia Dio, disse questo signore, giacchè è tedesco
posso parlargli, conducetelo nella mia pergola.
Candido viene allora introdotto in un gabinetto di verdura adorno d'un bel colonnato
di marmo verde venato d'oro, di e belle graticolate con entrovi de' pappagalli,
dei colibrì, degli uccelli mosche, dei pintades, e tutti gli uccelli
i più rari. Era di già all'ordine in piatti d'oro una colazione
squisita, e mentre i paragauini mangiavano del mais in scodelle di legno alla
campagna aperta e al bollor del sole, il reverendo padre comandante entrò
sotto il pergolato.
Era egli un bel giovanotto, pienotto di viso, di carnagion bianca e colorita,
colle ciglia rilevate, l'occhio vivo, l'orecchie rosse, le labbra vermiglie,
e l'aria fiera, ma di una fierezza non da spagnuolo e non da gesuita. Furono
a Candido e a Cacambo rendute le armi lor prese, come ancora i due cavalli d'Andalusia.
Cacambo gli mise a mangiar dell'avena vicino al pergolato, avendo sempre l'occhio
addosso a loro per paura di qualche sorpresa.
Candido baciò il lembo della veste al comandante, e quindi si misero
a tavola. - Voi siete dunque tedesco, gli disse in quella lingua medesima il
gesuita. - Reverendo padre, sì, disse Candido, e l'uno e l'altro in ciò
dire si guardavano con estremo stupore e con un'emozione che trattener non.
potevano. - E di che paese di Germania siete voi? disse il gesuita. - Della
sudicia provincia di Vesfalia. disse Candido; io son nato nel castello di Thunder-ten-tronckh.
- Oh cielo! è egli possibile! esclamò il comandante. - Che miracolo!
esclamò Candido. - Sareste voi, disse il comandante. Eh eh non può
essere disse Candido...
Si lasciano entrambi cadere a traverso, s'abbracciano e versano un fiume di
lacrime. - Come? Sareste voi, padre reverendo, il fratello della bella Cunegonda,
voi che foste ucciso da' Bulgari! voi il figlio del signor barone! Voi gesuita
nel Paraguai! Bisogna confessare che questo mondo è una strana cosa.
O Pangloss, Pangloss, qual piacere sarebbe ora il nostro se non foste stato
impiccato.
Il comandante fece ritirare gli schiavi negri, e i paraguaini che servivano
a tavola recando da bere in gotti di cristallo di rocca; ringraziò Dio
e sant'Ignazio mille volte, si stringeva Candido fra le braccia, e il lor viso
era bagnato di lacrime. - Voi restereste più stupefatto, più commosso,
e più fuor di voi, disse Candido, se lo vi dicessi che Cunegonda vostra
sorella, che avete creduta sventrata è piena di sanità. - Dove
mai? - Nelle vostre vicinanze, in casa del governatore di Buenos Aires; ed io
venivo per farvi la guerra.
Ogni parola che profferivano in questa lunga conversazione accumulava prodigio
sopra prodigio. Tutta l'anima volava sulla lingua, era attenta sulle orecchie,
brillava loro sugli occhi. Siccome eran tedeschi stettero molto tempo a tavola,
aspettando il molto reverendo provinciale; e il comandante così parlo
al suo caro Candido.
CAPITOLO XV
Come Candido uccise il fratello della sua cara Cunegonda.
«Mi ricorderò finch'io viva di quel giorno orribile
in cui i vidi uccidere mio padre e mia madre, e offender mia sorella. Ritirati
che furonsi i Bulgari questa sorella adorabile non si trovo più; si mise
in una carretta mia madre, mio padre ed io, con tre altri ragazzi scannati per
condurci a seppellire in una cappella di Gesuiti due leghe distante dal castello
de' miei maggiori. Un gesuita ci sparse sopra dell'acqua benedetta, che era
terribilmente salata, me n'entrarono alcune gocce negli occhi, e quel Padre
s'accorse che la mia pupilla facea un piccol moto. Mi pose la mano sul cuore,
e lo sentì palpitare; fui dunque soccorso, e in capo a tre settimane
era tornato sano. Il reverendo padre Didio superior della casa concepì
per me un'affezione la più tenera. Mi diè l'abito di novizio,
e qualche tempo dopo fui mandato a Roma. Aveva il padre generale bisogno di
reclute di gesuiti tedeschi; perchè i sovrani del Paraguai ricevon men
che possono gesuiti spagnuoli; hanno più gusto a' forestieri di cui si
credono più assoluti padroni. Fui prescelto a proposito dal padre generale
di venire a lavorare in questa vigna, onde partimmo un polacco, un tirolese,
ed io. Fui al mio arrivo onorato del suddiaconato e dell'impiego di tenente.
Io sono al presente colonnello, e sacerdote. Le truppe del re di Spagna saranno
ricevute con vigore, ve ne assicuro io, e saranno scomunicate e battute. La
provvidenza vi ha qui mandato per secondarci; ma è egli vero che la mia
cara Cunegonda sia qui vicino dal governatore di Buenos Aires?»
Candido l'assicurò con giuramento che era verissimo, e le lor lacrime
ricominciarono.
Il barone non sapea saziarsi d'abbracciar Candido chiamandolo suo fratello e
salvatore. - Ah forse, diss'egli, potremo entrar assieme trionfanti nella città
e ripigliar Cunegonda. - Questo è tutto quel che più bramo, diceva
Candido, perchè contavo di sposarla, e lo spero. - Come, insolente, riprese
allora il barone, avreste voi la sfacciataggine di sposar mia sorella che vanta
settantadue quarti di nobiltà? Mi parete bene sfrontato ad aver l'ardire
di parlarmi di un disegno sì temerario.
Candido restò di sasso a questa escita, e: Tutt'i quarti del mondo, replicò,
non ci han che far nulla, padre mio reverendo. Io ho levato vostra sorella di
mano a un ebreo, e ad un inquisitore; ella mi deve dell'obbligazioni e vuole
sposarmi. - Maestro Pangloss mi ha sempre detto che gli uomini son tutti eguali,
e sicuramente la sposerò. - Lo vedremo, pezzo di birbante, disse il gesuita
baron di Thunder-ten-tronckh, e in queste dire gli diè una gran piattonata
sul viso.
Candido pose immediatamente mano alla spada o l'immerse fino all'elsa nel corpo
del baron gesuita; ma nel ritirarla tutta fumante si mise a piangere; «ahimè!
dicendo, che io ho ucciso il mio vecchio padrone, il mio amico, il cognato,
io sono il miglior uomo del mondo, e intanto ho ammazzato già tre persone,
e fra queste due sacerdoti.»
Cacambo che faceva la sentinella alla porta del gabinetto accorse, e: - Non
ci resta; gli disse il padrone, che a vender cara la nostra vita; entreranno
senza dubbio nel gabinetto, bisogna morir coll'armi alla mano.
Cacambo che si era trovato in altri imbrogli non si si smarrì punto,
prese egli la toga da gesuita che portava il barone, la mise addosso a Candido,
gli diede il berrettino del morto, e lo fece montare a cavallo; tutto questo
fu fatto in un batter d'occhio.
«Galoppiamo, padrone, sarete da tutti preso per un gesuita, che va a dar
degli ordini, e si saran passate le frontiere prima che vi possan dar dietro.»
Nel dir queste parole volava via gridando in spagnuolo: - Largo, largo, al reverendo
padre colonnello.
CAPITOLO XVI
Quel che avvenne a' due viaggiatori con le due femmine, due scimmie, e gli uomini
selvaggi chiamati Orecchioni.
Candido e il suo servo si trovarono al di là degli steccati,
che nel campo non si sapeva ancora la morte del gesuita tedesco. Il vigilante
Cacambo avea pensato a empir la valigia di pane, di cioccolata, di prosciutti
e di alcune misure di vino. S'internarono co' lor cavalli andalusi in una contrada
incognita, dove non era vestigio di strada alcuna; finalmente si presentò
loro una bella prateria, tramezzata di ruscelli. Ivi i nostri viaggiatori fan
pascere i lor cavalli; Cacambo propone al suo padrone di mangiare, e glie ne
dà l'esempio. - Come vuoi tu, dice Candido che io mangi del prosciutto,
quando ho ammazzato il figlio del signor barone, e che mi vedo condannato a
non riveder più la bella Cunegonda in tutto il tempo di vita mia? A che
mi servirà il prolungare i miei giorni, s'io devo condurli lungi da lei
nel rimorso, e nella disperazione? Che dirà il Giornale di Trevoux?
Così parlando, non lasciava però di mangiare. Il sole tramontava,
quando i due smarriti sentirono alcune piccole strida, che parean di femmine;
essi non sapevano se quelle strida eran di dolore, o di gioja; si alzaron precipitosamente
con quella inquietudine, e con quello spavento che tutto inspira in un paese
incognito. Quei clamori si partivano da due giovani, che leggermente correvano
lungo la sponda della prateria, mentre due scimmie le mordevano alle spalle.
Candido ne fu mosso a pietà; aveva egli imparato a tirare da' Bulgari,
ed avrebbe colpito una nocciuola in mezzo a un cespuglio, senza toccar le foglie;
prende egli il suo fucile spagnuolo a due canne, tira e ammazza le due scimmie.
- Dio sia lodato, mio caro Cacambo, io ho liberato da un gran periglio quelle
due povere creature; se ho commesso un peccato ammazzando un inquisitore e un
gesuita, io vi ho ben rimediato, salvando la vita a due giovani, saran forse
due damigelle di condizione, e questa avventura ci può procurare gran
vantaggi nel paese.
Volea più dire, ma restò colla parola in bocca quando vide quelle
due giovani abbracciare teneramente le due scimmie, cadere piangendo su' loro
corpi ed empir l'aria di dolorose grida. - Io non mi aspettava un cuor tanto
buono, disse finalmente a Cacambo, il qual gli replicò: - Voi avete fatto
un bel servizio padron mio: avete ammazzato i due amanti di quelle damigelle.
- I loro amanti! è possibile? Tu mi burli, Cacambo, come posso crederlo?
- Mio caro padrone, interrompe Cacambo, voi vi fate sempre maraviglia di tutto;
perchè ha egli a parervi strano che in qualche paese vi sieno delle scimmie
che ottengano simpatie dalle dame? esse son un quarto d'uomo com'io sono un
quarto di spagnuolo. - Ah, ripiglia Candido, mi sovviene d'aver inteso dire
dal mio maestro Pangloss, che altre volte sono accaduti simili accidenti, e
che avean prodotto degli Egipani, de' Fauni, dei Satiri, stati veduti dai più
gran personaggi dell'antichità; ma io la credeva un favola. - Ora dovete
esserne convinto, disse Cacambo. Quel che io temo per altro, è che quelle
dame non ci pongano in qualche imbroglio.
Queste solide riflessioni determinarono Candido ad abbandonare la prateria,
e ad internarsi in un bosco, ove cenò con Cacambo, e dopo d'aver ambedue
maledetto l'inquisitor di Portogallo, il governator di Buenos-Aires, e il barone,
si addormentarono sull'erba. Al risvegliarsi sentirono che non si potean muovere,
e la ragione era che nella notte gli Orecchioni abitanti del paese, ai quali
erano essi stati accusati dalle due dame, li avevano ammanettati con corde di
scorza d'albero. Si videro noi attorniati da una cinquantina d'Orecchioni armati
di frecce, di clave, e di asce di sasso; gli uni facean bollire una gran caldaja,
gli altri preparavano degli spiedi gridando tutti: - È un gesuita, è
un gesuita, noi saremo vendicati; e faremo un buon pasto, mangiamo un gesuita,
mangiamo un gesuita!
- Io ve l'aveva detto, mio caro padrone, grida afflitto Cacambo, che quelle
due giovani ci avrebbero fatto un cattivo tiro. Candido, scorgendo la caldaja
e gli spiedi grida: «Noi certamente saremo arrostiti e lessati. Ah, che
direbbe il maestro Pangloss s'egli vedesse come la pura natura è fatta?
Tutto va bene; lo sia pure, ma io provo che è cosa crudele l'aver perduta
la bella Cunegonda, e l'esser infilato su uno spiede dagli Orecchioni.»
Cacambo non si smarrì mai: - Non disperate di nulla, diss'egli all'afflitto
Candido: io intendo un poco il gergo di questi popoli. - Non lasciate dice Candido,
di far loro vedere qual orribile inumanità è quella di cuocer
gli uomini, e che non è da cristiani. - Signori, dice Cacambo, voi credete
dunque di mangiar oggi un gesuita: benissimo fatto; niente v'è di più
giusto che il trattar così i propri nemici; in fatti il diritto naturale
c'insegna ad uccidere il nostro prossimo, e questo si costuma ancora in tutta
la terra. Se noi non usiamo del diritto di mangiar gli uomini, è perchè
abbiamo d'altra parte di che scialare, ma voi non avete il medesim rinfranco
di noi; certamente è meglio mangiare i suoi nemici, che abbandonare ai
corvi e alle cornacchie i frutti di sua vittoria; ma, signori, voi non vorreste
mangiar il vostro amico, voi credete d'infilare e arrostire un gesuita; ed egli
è un vostro difensore, un nemico de' vostri nemici: per me, io son nato
nel vostro paese, e questo signore che vedete è mio padrone; che ben
lungi d'essere un gesuita, ne ha poc'anzi ammazzato uno, e ne porta le spoglie.
Ecco l'oggetto del vostro errore. Per verificare quel ch'io vi dico, prendete
la sua toga, portatela al primo steccato del regno de los Padres, e informatevi
se il mio padrone non ha ammazzato un uffiziale gesuita: poco tempo vi abbisognerà,
e potrete sempre mangiarci quando troviate ch'io abbia mentito, ma io vi ho
detto la verità: voi conoscete troppo i principj del gius pubblico, i
costumi e le leggi per non farci grazia.
Gli Orecchioni trovarono questo discorso molto ragionevole, e deputarono due
cittadini de' più ragguardevoli per andar con diligenza a informarsi
della verità. I due deputati eseguirono la lor commissione da gente di
spirito, e ritornarono ben tosto ad apportar buone nuove.
Gli Orecchioni liberarono allora i due prigionieri, fecero loro ogni sorta di
civiltà, offrirono loro delle ragazze, diedero loro rinfreschi, e li
ricondussero ai confini dei loro Stati, gridando con allegrezza: Non è
gesuita, non è gesuita.
Candido non lasciava di ammirare la sua liberazione - Che popolo! diceva egli,
che uomini! Che costumi! Se io non avessi avuta la fortuna di dare una stoccata
a traverso il corpo del fratello di Cunegonda, io era mangiato senza remissione;
ma finalmente la pura natura è buona, poichè questa gente in luogo
di mangiarmi, mi ha fatto mille gentilezze, allorchè han saputo che io
non era gesuita.
CAPITOLO XVII
Arrivo di Candido e del suo servo al Paese d'Eldorado e ciò ch'essi vi
videro.
Quando furono alle frontiere degli Orecchioni: - Vedete voi,
disse Cacambo a Candido, che quell'emisfero non è miglior dell'altro:
credete a me, ritorniamocene in Europa per la più corta. - Come ritornarci?
disse Candido, e dove andare? Se vado nel mio paese, i Bulgari e gli Abari ci
scannano; se ritorno in Portogallo, son bruciato; se restiamo in questo paese,
corriamo rischio ogni momento di esser messi sullo spiedo; e poi come risolversi
ad abbandonare la parte del mondo ove abita la bella Cunegonda? - Volgiamoci
verso la Cajenna, dice Cacambo, noi vi troveremo de' Francesi, i quali vanno
per tutto il mondo ed essi potranno ajutarci. Dio avrà forse pietà
di noi.
Non era così facile di andare alla Cajenna. Essi sapevano press'a poco
qual cammino bisognava prendere, ma fiumi, precipizj, assassini, selvaggi, eran
per tutto terribili ostacoli; i lor cavalli morirono di fatica; le loro provviggioni
furono consumate, e si nudrirono un mese intero di frutti selvatici; finalmente
si trovarorono presso un fiumicello ornato di alberi di cocco, che sostennero
la lor vita o le loro speranze.
Cacambo che sempre dava, al par della vecchia, de' buoni consigli, disse a Candido:
- Noi non ne possiam più, abbiamo camminato assai, vedo un barchetto
vuoto, empiamolo di cocco, e gettiamoci dentro, a discrezione della corrente;
un fiume conduce sempre in qualche parte abitata; se non troveremo delle cose
aggradevoli, troveremo almen delle cose nuove. - Andiamo, disse Candido, raccomandiamoci
alla provvidenza.
Essi vogarono per qualche lega fra ripe or fiorite, ora sterili, or piane, ed
ora scoscese. Il fiume si faceva sempre più largo; finalmente si perdeva
sotto una volta di spaventevoli scogliere che si ergevano fino al cielo. I due
viaggiatori ebbero l'ardire d'abbandonarsi al flutto, sotto quella volta. Il
fiume, chiuso in quello stretto, portava con una rapidità e un fracasso
terribile. In termine di ventiquattr'ore rividero la luce, ma il lor barchetto
si fracassò negli scogli, onde bisognò strascinarsi di rupe in
rupe e per una lega intera; finalmente discuoprirono un orizzonte immenso contornato
di montagne inaccessibili. Il paese era coltivato sì per piacere, come
per bisogno, e da per tutto il prodotto era aggradevole. Le strade eran coperte,
o piuttosto adornate di vetture, d'una forma e d'una materia brillante, portando
addentro degli uomini e delle donne d'una bellezza singolare, condotte rapidamente
da grossi montoni rossi, che sorpassavano in corporatura i più bei cavalli
d'Andalusia, di Tituano e di Mequinez.
- Ecco a buon conto, disse Candido, un paese che val più della Wesfalia.
Mise i piedi a terra con Cacambo al primo villaggio che gli si presentò.
Alcuni ragazzi, coperti di un broccato d'oro tutto stracciato, giuocavano alle
piastrelle all'entrata del borgo. I nostri due uomini dell'altro mondo s'occupavano
ad osservarli; le loro piastrelle erano tonde, assai larghe, gialle, rosse,
verdi, e gettavano uno splendore singolare; venne voglia ai viaggiatori di raccoglierne
alcune, e videro ch'erano d'oro, di smeraldi, di rubini, la minor delle quali
sarebbe stato il più grand'ornamento del trono del Mogol. - Senza dubbio,
disse Candido, questi ragazzi sono i figli del re del paese, che giocano alle
piastrelle.
Apparve in quel momento il maestro del villaggio per ricondurli a scuola: -
Ecco, dice Candido, il precettore della famiglia reale.
Quei baroncelli abbandonaron tosto il giuoco, lasciando in terra le lor piastrelle
e tutto ciò che aveva servito al lor divertimento. Candido le raccolse,
corse dal precettore, e gliele presentò umilmente, facendogli intendere,
a forza di cenni, che le loro altezze reali si erano dimenticate del loro oro
e delle loro gemme. Il maestro del villaggio, sorridendo, le gettò per
terra, guardò un momento la figura di Candido con stupore e continuò
il suo cammino.
I viaggiatori non lasciarono di raccorre l'oro, i rubini e gli smeraldi. - Dove
siamo noi? grida Candido: bisogna che i figli del re di questo paese sieno bene
educati, perché s'insegna loro a sprezzar l'oro e le gemme.
Cacambo n'era meravigliato al par di Candido. Si avvicinarono in fine alla prima
casa del villaggio, la quale era fabbricata come un palazzo europeo; una folla
di popolo si affrettava verso la porta, e più ancora al di dentro; si
faceva sentire una musica graziosissima e un odor delizioso di cucina. Cacambo
s'appressò alla porta, e sentì che si parlava peruviano; era questo
il suo linguaggio materno, poiché ognun sa che Cacambo era nato al Tucuman,
in un villaggio ove non si conosceva che questa lingua. - Io vi servirò
d'interprete, disse a Candido; entriamo, qui v'è un'osteria.
Immediatamente due giovani e due ragazze dell'osteria, vestite di drappi d'oro
e guarnite i capelli di nastri, li invitano a porsi a tavola. Furon serviti
di quattro minestre guarnite ciascuna di due pappagalli, d'un lesso che pesava
duecento libbre, di due scimmie arrostite, d'un gusto eccellente, di trecento
colibrì in un piatto, e di seicento uccelli mosca in un altro, di ragù
squisiti, e di paste deliziose, il tutto in certi piatti d'una specie come di
cristallo di rocca, e i giovani e le ragazze versavan loro più liquori
estratti da canne da zucchero.
I convitati erano per la maggior parte mercanti e vetturini, tutti d'una somma
civiltà; questi fecero alcune domande a Cacambo col più circospetto
riguardo, e risposero alle sue con una maniera più che propria a soddisfarlo.
Terminato il pasto, Cacambo e Candido crederono di ben pagare la loro parte
col gettare sulla tavola dell'oste due di que' grossi pezzi d'oro che avean
raccolti; l'oste e l'ostessa diedero in uno scoppio di risa e si tennero per
lungo tempo le coste; finalmente rimessosi: - Signori, disse l'oste, vediamo
bene che siete forestieri; noi non siamo soliti a vederne; scusateci perciò
se ci siamo messi a ridere quando ci avete offerto i ciottoli delle nostre strade;
voi, senza dubbio, non avete moneta del paese, ma non è necessario d'averne
per desinar qui: tutte le osterie erette per il comodo del commercio son pagate
dal governo: avrete avuto un cattivo trattamento, perchè questo è
un povero. villaggio; ma, altrove sarete ricevuti come meritate d'esserlo.
Cacambo spiegò a Candido tutto il discorso dell'oste, e Candido l'ascoltò
con la stessa ammirazione, e con lo stesso stupore che ne aveva risentito il
suo amico Cacambo. «Che paese dunque è questo, diceva l'uno all'altro,
incognito a tutto il resto della terra; e dove la natura è sì
diversa dalla nostra? Questo, probabilmente, è il paese dove tutto va
bene, giacchè bisogna assolutamente che uno ve ne sia di questa specie:
dica quel che vuole il maestro Pangloss, io mi sono spesso avveduto che tutto
andava molto male in Wesfalia.»
CAPITOLO XVIII
Ciò che videro nel paese d'Eldorado.
Cacambo testificò al suo oste tutta la sua curiosità;
l'oste gli disse: - Io sono molto ignorante, e me ne trovo bene; ma qui abbiamo
un vecchio ritiratosi dalla Corte; che è il più sapiente uomo
del regno, e il più comunicativo.
Egli condusse Cacambo dal vecchio; Candido allora che non faceva altra figura
che di secondo personaggio, seguiva il suo servo. Entrarono essi in una casa
molto semplice, poichè la porta non era che di argento, e le soffitte
degli appartamenti non erano che d'oro, ma lavorate con gusto tale, che le più
ricche soffitte non le oscuravano; l'anticamera non era invero incrostata che
di rubini e di smeraldi, ma l'ordine, nel quale tutt'era disposto, correggeva
bene quella somma semplicità.
Il vecchio ricevè i due forastieri sopra un sofà spiumacciato
di penne di colibrì, fece lor presentare de' liquori in vasi di diamanti,
e appagò poi la lor curiosità in questi termini:
- Io sono nell'età di settantadue anni, e ho saputo dal fu mio padre,
scudiere del re, le stupende rivoluzioni del Perù, delle quali egli fu
testimone. Il regno ove noi siamo è l'antica patria degli Incas che ne
uscirono imprudentemente per andare a soggiogare una parte del mondo, e che
furono finalmente distrutti dagli Spagnuoli. I principi della lor famiglia che
restarono nel lor paese nativo furono più saggi; essi comandarono col
consenso della nazione che nessuno abitante non uscisse dal nostro piccolo regno;
ed ecco come ci siamo conservati nella nostra innocenza, e nella nostra felicità.
Gli Spagnuoli hanno avuta una conoscenza confusa di questo paese; essi l'hanno
chiamato l'Eldorado, ed un inglese nominato il cavalier Raleigh ci si avvicinò
circa a cent'anni sono; ma siccome noi siamo circondati da scogliere inaccessibili
e da precipizj, perciò siamo sempre stati fino al presente al sicuro
dalla rapacità delle nazioni d'Europa; che hanno un'avidità incomprensibile
per i sassi e per il fango della nostra terra, e che per averne, ci ucciderebbero
tutti dal primo all'ultimo.
La conversazione fu lunga, o andò a cadere sulla forma di governo, su'
costumi, sulle femmine, su i pubblici spettacoli e sulle arti. Candido infine,
che avea sempre piacere alla metafisica, fece dimandare da Cacambo se nel paese
vi era una religione.
Il vecchio arrossì un poco - Come dunque, diss'egli, potete voi dubitarne?
ci prendete forse per ingrati?
Cacambo gli dimandò umilmente qual era la religione d'Eldorado. Il vecchio
arrossì ancora. - Che forse possono esservi due religioni? diss'egli:
noi abbiamo la religione, cred'io, di tutto il mondo: noi adoriamo Iddio dalla
sera alla mattina. - Non adorate voi che un solo Iddio? disse Cacambo, che serviva
sempre d'interprete a' dubbi di Candido - Apparentemente, disse il vecchio non
ve ne sono nè due, nè tre, nè quattro: io vi confesso che
mi pare che le genti del vostro mondo faccian delle dimande ben singolari.
Candido non lasciava di far interrogare questo buon vecchio: ei volle sapere
come si pregava Iddio nell'Eldorado. Non lo preghiamo, disse il buono e rispettabile
vecchio: non abbiamo nulla da chiedergli: ei ci dà tutto ciò che
ci abbisogna, e noi lo ringraziamo senza fine.
Candido avea la curiosità veder de' preti, e fece domandare se ve n'erano.
Il buon vecchio sorrise. - Amici miei, disse egli, noi siamo tutti preti: il
re e tutti i capi di famiglia cantan degl'inni di rendimento di grazie; solennemente,
e tutte le mattine, e cinque o seimila musici li accompagnano. - Come! voi non
avete frati, che insegnino, che disputino, che governino, che brighino e che
facciano bruciare la gente che non è del lor parere. - Bisognerebbe che
noi fossimo ben pazzi, disse il vecchio: noi siamo tutti di un medesimo sentimento,
e non intendiamo ciò che vogliate dire co' vostri frati.
Candido a tutti que' discorsi restava maravigliato, e diceva fra sè medesimo
- «Questo paese è ben differente dalla Wesfalia, e dal castello
del signor barone: se il nostro amico Pangloss avesse veduto Eldorado non avrebb'egli
più detto che il castello di Thunder-ten-tronckh era quel che v'è
di meglio sulla terra. È certo che bisogna viaggiare.»
Dopo questa lunga conversazione, il buon vecchio fece, attaccar la carrozza
a sei montoni e diede dodici de' suoi domestici ai due viaggiatori per farli
condurre alla Corte - Scusatemi, disse loro, se la mia età mi toglie
l'onore di accompagnarvi. Il re vi riceverà in una maniera, di cui non
sarete mal soddisfatti, e voi perdonerete senza dubbio agli usi del paese, se
ve ne sono alcuni che vi dispiacciano.
Candido e Cacambo salirono in carrozza; i sei montoni volavano, e in meno di
quattr'ore arrivarono al palazzo del re situato alla cima della capitale. L'ingresso
era di duecentoventi piedi di altezza, e cento di larghezza. È impossibile
di esprimere qual ne fosse la materia: si può considerare qual prodigiosa
superiorità ella doveva avere su que' sassi e su quella sabbia che noi
chiamiamo oro e gemme.
Venti belle ragazze della guardia ricevettero Candido e Cacambo al discendere
dalla carrozza; li condussero ai bagni, li vestirono di abiti tessuti di piuma
di colibrì, e dopo i grand'uffiziali e grand'uffizialesse della corona
li introdussero all'appartamento di sua maestà in mezzo a due file ciascuna
di mille musici, secondo l'uso ordinario. Quand'essi si avvicinarono alla sala
del trono, Cacambo dimandò a un grand'uffiziale come bisognava contenersi
per salutare sua maestà: se si stava ginocchioni o colla pancia per terra,
se si mettevano le mani sulla testa o sul di dietro, se si leccava la polvere
della sala, in una parola qual era il cerimoniale. - L'uso, disse il grand'uffiziale,
è di abbracciare il re e baciarlo da una parte e dall'altra.
Candido o Cacambo saltarono al collo di sua maestà, ed egli li ricevè
con tutta la grazia immaginabile, e gl'invitò gentilmente a cena.
Frattanto si fece lor vedere la città, gli edifizj pubblici innalzati
fino alle nuvole, i passeggi adornati di mille colonne, le fontane d'acqua pura,
quelle d'acqua di rosa, quelle di liquor di canna di zucchero, che gettavano
zampilli continuamente nelle vaste piazze lastricate di una specie di pietre
che tramandavano un odore simile a quello del garofano e della cannella. Candido
chiese di vedere il palazzo della giustizia, e il parlamento, o gli si disse
che non vi era nulla di questo, nè mai si facean liti. Dimandò
se vi erano delle prigioni, e gli si disse che no. Ciò lo stupì
d'avvantaggio, e finalmente quel che più gli piacque fu il palazzo delle
scienze, nel quale ei vide una galleria di duemila passi, tutta piena di strumenti
di fisica.
Dopo di aver trascorsa, tutto il dopo pranzo, press'a poco la millesima parte
della città, furono ricondotti dal re. Candido si mise al tavola fra
sua maestà, il suo servo Cacambo e molte dame. Non si poteva far miglior
pasto, nè si poteva cenare con maggior gusto, di quel che ne provò
il re. Cacambo spiegava le idee del re a Candido, e benchè tradotte,
eran sempre concettose. Di tutto quel che maravigliava Candido questo non era
il meno.
Essi passarono un mese alla Corte; Candido diceva sempre a Cacambo: «È
vero, amico, che il paese ov'io son nato non ha nessun grado di comparazione
col paese ove siamo, ma finalmente la bella Cunegonda non v'è, e voi
ancora avrete senza dubbio qualche amante in Europa. Se noi restiamo qui non
vi faremo maggior figura degli altri, invece se torniamo nel nostro mondo con
dodici montoni carichi de' ciottoli d'Eldorado, saremo più ricchi di
tutti insieme i re: non avremo più inquisitori da temere, e potremo facilmente
riprenderci la bella Cunegonda.
Piacque tal discorso à Cacambo; s'ha tanto gusto a gironzare e farsi
valere fra i suoi, e far mostra di ciò che s'è veduto viaggiando,
che i due fortunati si risolverono di più non esserlo, e di prender congedo
da sua maestà.
- Voi fate una pazzia, disse loro il re: so bene che il mio paese è piccola
cosa, ma quando si vive passabilmente in qualche luogo, bisogna restarvi; io
non ho al certo il diritto di ritenere i forastieri; questa è una tirannia
che non è nè secondo i nostri costumi, nè secondo le nostre
leggi. Tutti gli uomini sono liberi; partirete quando vorrete, ma sappiate che
l'escita è ben difficile. È impossibile di rivalicare il rapido
fiume su cui siete qui giunti per miracolo, e che corre sotto a volte di scogliere.
Le montagne che chiudono tutto il mio regno, hanno diecimila piedi d'altezza,
e son diritte come muraglie; esse occupano in larghezza uno spazio di dieci
leghe per ciascuna, e non si può discenderle che per precipizj. Per altro,
giacchè volete assolutamente partire, io darò ordine agli intendenti
di macchine di farne una che comodamente possa trasportarvi; ma quando sarete
condotti a traverso le montagne nessuno vi potrà accompagnare; perchè
i miei sudditi han fatto voto di non uscir giammai dal loro recinto, ed essi
son troppo saggi per rompere il loro voto; pel resto chiedetemi tutto ciò
che vi piacerà. - Noi non chiediamo a vostra maestà, disse Cacambo,
che alcuni montoni carichi di viveri, de' ciottoli o del terriccio del paese.
- Il re rispose: Io non capisco, qual gusto abbiano le vostre genti d'Europa
per la nostra mota gialla; ma portatevene quanta ne vorrete, e buon pro vi faccia.
Egli died'ordine in quell'istante a' suoi ingegneri di fare una macchina per
levar in alto, e calar fuor del regno i due uomini straordinari. Tremila bravi
fisici vi lavorarono; essa fu pronta in termine di quindici giorni, e non costò
più di venti milioni di lire sterline, moneta del paese. Furon messi
sulla macchina Candido e Cacambo; vi eran due gran montoni sellati, e brigliati
per servir loro di cavalcatura quando avessero scalato lo montagne: venti montoni
da basto carichi di viveri, trenta che portavano di regali, consistenti in ciò
che il paese aveva di più raro, ed altri cinquanta carichi d'oro, di
pietre, e di diamanti. Il re abbracciò teneramente i due forestieri.
Fu un bello spettacolo la lor partenza, e la maniera ingegnosa con cui furono
innalzati essi e i lor montoni alla cima delle montagne. I fisici presero da
lor congedo. Dopo di averli posti in sicurezza, a Candido non restò altro
desiderio che d'andare a presentare i suoi montoni alla sua bella Cunegonda,
messa forse a prezzo. - Camminiamo verso la Cajenna, imbarchiamoci, e vedremo
in seguito qual regno potremo comprare.
CAPITOLO XIX
Ciò che accadde loro a Surinam e come Candido fece conoscenza con Martino.
Il primo giorno de' nostri viaggiatori fu piacevole. Essi erano
incoraggiati dall'idea di vedersi possessori di tesori di gran lunga maggiori
di quanti ne avessero potuti riunire l'Asia, l'Europa e l'Africa. Candido entusiasmato,
scrisse il nome di Cunegonda sugli alberi. Il secondo giorno due de' lor montoni
s'affondarono nelle paludi, e vi subissarono col lor carico; due altri montoni
morirono di fatica alcuni giorni appresso; sette o otto perirono in seguito
dalla fame in un deserto; altri in termine di alcuni giorni caddero da precipizj;
finalmente dopo cento giorni di cammino non restaron loro che due montoni. Candido
disse a Cacambo: - Vedete, amico, come le ricchezze di questo mondo son caduche:
nulla vi è di stabile come la virtù, e la fortuna di veder Cunegonda.
- Lo confesso anch'io, rispose Cacambo; ma ci restano ancor due montoni con
più tesori che non avrà mai il re di Spagna e vedo da lontano
una città, che io suppongo Surinam, appartenente agli Olandesi. Eccoci
al termine dello nostre fatiche e al principio della nostra felicità.»
Avvicinandosi alla città s'incontrarono in un negro disteso in terra,
che non aveva che la metà del suo abito, cioè un par di braghe
di tela azzurra; mancava a questo povero uomo la gamba sinistra, e la mano dritta.
- Mio dio! gli dice Candido, che fai tu là, amico, in questo stato orribile
in cui ti vedo? - Attendo il mio padrone il signor Vanderdendur il famoso negoziante,
risponde il negro. - E questo signor Vanderdendur, dice Candido, ti ha conciato
così? - Sì, signore, risponde il negro, quest'è l'uso:
ci vien dato un par di brache di tela per vestito due volte l'anno: quando lavoriamo
alle zuccheriere, e che la macina ci acchiappa un dito, ci si taglia la mano;
quando vogliam fuggire ci si taglia la gamba; a questo prezzo voi mangiate dello
zucchero in Europa. Intanto, allorchè mia madre mi vendè per dieci
scudi patacconi sulla costa di Guinea, ella mi diceva: figliuol mio, benedici
i nostri feticci, adorali tutti i giorni, essi ti faran vivere fortunato; tu
hai l'onore d'essere schiavo de' nostri signori i bianchi, e tu fai la fortuna
di tuo padre e di tua madre. Ah! io non so se ho fatto la lor fortuna, so bene
che essi non han fatto la mia: i cani, le scimmie, i pappagalli son mille volte
meno disgraziati di noi. I feticci olandesi che mi han convertito, mi dicon
tutte le domeniche che noi siamo tutti figli d'Adamo, bianchi e neri; io non
sono genealogista, ma se quei predicatori dicono il vero noi siam tutti fratelli
cugini; or voi converrete che non si possono usare tra parenti trattamenti più
orribili.
- O Pangloss! grida Candido, tu non avevi pensato a questa abominevole circostanza;
ed è pur cosa di fatto; bisognerà finalmente che io rinunzii al
tuo ottimismo. - Che cos'è quest'ottimismo? dice Cacambo. - Ah, risponde
Candido, è la maniera di sostenere che tutto va bene quando si sta male.
Intanto versava lagrime riguardando il negro, e piangendo entrò in Surinam.
La prima cosa di cui essi s'informarono, fu se v'era nel porto alcun vascello
che si potesse spedire a Buenos-Aires. Quello a cui si presentarono era appunto
un padrone spagnuolo, che si offrì di far con essi un onesto partito,
e disse loro d'andare a far capo a un'osteria. Candido e il fedele Cacambo vi
andarono, e ivi l'aspettarono co' loro due montoni. Candido che aveva il cuor
sulle labbra, raccontò allo spagnuolo tutte le sue avventure, e gli confessò
che volea rapire Cunegonda. - Io mi guarderò bene di darvi il passaggio
a Buenos-Aires, disse il padrone. Saremmo impiccati ambedue; la bella Cunegonda
è l'amante favorita di sua eccellenza.
Questo fu un colpo di fulmine per Candido; diede in dirotto pianto, e infine
tirò a parte Cacambo: - Ecco, o caro amico, gli dic'egli, ciò
che hai da fare: abbiamo ciascuno di noi nella tasca cinque o sei milioni di
diamanti; tu sei più abile di me, va a prendere Cunegonda a Buenos-Aires;
se il Governatore fa delle difficoltà dàgli un milione; se non
s'arrende, dagliene due; tu noi hai ammazzato inquisitori, né sarai per
conto alcuno persona sospetta; io noleggerò un altro bastimento, ed andrò
ad attenderti a Venezia; questo è un paese libero dove non vi sono da
temere nè Bulgari, nè Abari, nè Ebrei, nè inquisitori.
Cacambo applaudì una sì saggia risoluzione; gli dispiaceva di
separarsi dal suo buon padrone, divenuto suo intimo amico, ma il piacere d'essergli
utile prevalse al dolore d'abbandonarlo. Si abbracciarono colle lagrime agli
occhi; Candido gli raccomandò di non scordarsi della buona vecchia, e
Cacambo partì il giorno stesso. Era pure il buon uomo questo Cacambo!
Candido soggiornò per qualche tempo in Surinam, aspettando che qualche
altro padrone lo conducesse in Italia coi due montoni che gli restavano. Ei
prese de' domestici, e comprò tutto quel che gli era necessario per un
lungo viaggio; infine il signor Vanderdendur padrone di un grosso bastimento
venne a presentarglisi.:
- Quanto volete voi, disse Candido a costui, per condurre addirittura a Venezia
me, la mia gente, il mio bagaglio e que' due montoni là?
Il padrone chiese dieci mila piastre; Candido non fiatò.
- Oh oh, disse fra sè il prudente Vanderdendur, questo forastiere accorda
diecimila piastre tutte a un colpo! bisogna ch'egli sia ben ricco.
Gli si fece avanti un momento dopo, e gli significò che non poteva partire
per meno di ventimila. - E bene, voi le avrete, rispose Candido.
- Capperi! quest'uomo, disse fra sè il mercante, dà ventimila
piastre sì facilmente come diecimila; ritorna di nuovo, e gli dice che
non poteva condurlo per meno di trentamila piastre. - Voi ne avrete dunque trentamila,
rispose Candido.
- Oh oh, dice nuovamente fra sè il mercante olandese, trentamila piastre
non son niente a quest'uomo; senza dubbio i due montoni portano tesori immensi;
non insistiamo di più, facciamogli pagar subito le trentamila piastre,
e poi vedremo.
Candido vendè due piccoli diamanti, il minore dei quali valeva più
del danaro che chiedeva il padrone, e pagò anticipatamente. I due montoni
furono imbarcati, e mentre Candido andava per raggiungere in un piccolo battello
il bastimento alla rada, il padrone coglie il tempo, si mette alla vela, leva
l'ancora e il vento lo favorisce. Candido smarrito e stupefatto lo perde di
vista, e: - Ahimè! grida, ecco un tratto degno del vecchio mondo. Ritorna
al porto assorto nel suo dolore, poichè finalmente avea perduto tanto
da fare la fortuna di venti monarchi.
Si trasferisce dal giudice olandese, e brusco come egli era, picchia fieramente
alla porta; entra, espone il suo caso, e grida in tuono un poco più alto
di quel che conveniva. Il giudice comincia a fargli pagare diecimila piastre
per lo strepito ch'egli aveva fatto; indi l'ascoltò pazientemente; gli
promette d'esaminare il caso tosto che il mercante sia tornato, e si fa pagare
diecimila altre piastre per le spese dell'udienza.
Una tale procedura pose in disperazione Candido; egli aveva in vero provato
delle disgrazie mille volte più triste, ma la pacatezza del giudice,
e quella del padrone, da cui era stato truffato, accese la sua bile, e lo gettò
in una nera melanconia; la perfidia degli uomini si presentava alla di lui mente
in tutta la sua laidezza, ed egli non si nutriva che di torve idee. Finalmente
un vascello francese essendo sul punto di partire per Bordeaux, giacchè
egli non aveva più montoni carichi di diamanti da imbarcare, pattuì
una camera su quello a giusto prezzo, e fece intendere nella città, ch'ei
pagherebbe il passaggio, il nutrimento, e darebbe duemila piastre a un galantuomo
che volesse fare il viaggio con lui, a condizione ch'ei fosse il più
contento del proprio stato, e il più sventurato della provincia.
Gli si presentò una folla tale di pretendenti che una flotta non avrebbe
potuto contenerla. Candido, volendo fare una scelta di quelli che ne avevano
più l'apparenza, distinse una ventina di persone che a lui pareano assai
sociabili, e che pretendevano tutte di meritar la preferenza. Egli le adunò
nella sua osteria, e diè loro da cena, a condizione che ciascuno giurasse
di raccontar fedelmente la sua istoria; promettendo di sceglier quello ch'ei
avrebbe giudicato il più scontento del proprio stato a più giusto
titolo, e di dare agli altri qualche gratificazione.
La seduta durò sino alle quattro del mattino; e Candido, ascoltando tutte
le loro avventure, si ricordava di ciò che gli aveva detto la vecchia,
andando a Buenos-Aires, e della scommessa che aveva fatta, che non v'era alcuno
sul bastimento a cui non fossero occorse delle grandi sciagure; pensava egli
altresì a Pangloss in ciascuna avventura che gli si raccontava e diceva:
- Questo Pangloss sarebbe bene imbrogliato a far valere il suo sistema; io vorrei
ch'ei fosse qui. Certamente se tutto va bene, tutto va bene nell'Eldorado, e
non già in tutto il resto della terra. Finalmente si determinò
a favore d'un povero letterato che avea lavorato dieci anni per le librerie
d'Amsterdam giudicando che niun altro mestiere potesse darsi al mondo, di cui
si potesse essere più malcontenti.
Questo letterato era d'altra parte un buon uomo; era stato tradito dalla sua
moglie, bastonato dal figlio, e abbandonato dalla figlia, che s'era fatta rapire
da un portoghese; era stato privato di un modesto impiego da cui traeva la sua
sussistenza, e i predicatori di Surinam lo perseguitavano perchè lo credevano
un socciniano. Bisogna confessare che gli altri eran forse più disgraziati
di lui, ma Candido sperava che il letterato lo avrebbe divertito nel viaggio;
tutti gli altri suoi rivali si lamentavan con Candido della grand'ingiustizia
che lor faceva, ma egli gli acquietò, dando a ciascuno cento piastre.
CAPITOLO XX
Ciò che accadde sul mare a Candido e a Martino.
Il vecchio letterato che si chiamava Martino, s'imbarcò
dunque per Bordeaux con Candido. L'uno e l'altro avean troppo veduto e troppo
sofferto; e quando il bastimento avesse dovuto far vela da Surinam al Giappone,
per il capo di Buona Speranza avrebbero avuto con che trattenersi sul male morale
e sul male fisico in tutto il viaggio
Intanto Candido aveva un gran vantaggio sopra Martino; egli aveva la speranza
di riveder Cunegonda, e Martino nulla aveva da sperare; di più aveva
egli dell'oro e de' diamanti, e sebbene avesse perduto cento grossi montoni
rossi carichi de' più gran tesori della terra, sebbene avesse sempre
sul cuore la ribalderia del padrone olandese, pure, quand'egli pensava a ciò
che gli restava in tasca, e quando parlava di Cunegonda, specialmente in fin
di tavola, pendeva verso il sistema al Pangloss.
- Ma voi, signor Martino, diceva egli al letterato, che pensate voi su tutto
questo? qual è la vostra idea sul mal morale, o sul mal fisico? - Signore,
risponde Martino, i miei preti mi hanno accusato di essere socciniano; ma la
verità del fatto è che io son manicheo. Voi mi burlate, dice Candido,
non vi son più manichei al mondo - Vi son io, dice Martino: non so che
farvi, ma non; posso pensate altrimenti. Bisogna che voi abbiate il diavolo
addosso, dice Candido. - Ei si mescola tanto nelle cose del mondo, dice Martino,
che potrebbe esser ben nel mio corpo, come in ogni altra parte; ma io vi confesso
che dando un'occhiata su questo globo, o piuttosto su questo globetto, io penso
che Dio l'abbia abbandonato a qualche essere malefico, eccettuato sempre Eldorado;
io non ho mai veduto città che non desideri la rovina della città
vicina: niuna famiglia che non voglia sterminare qualche altra famiglia: per
tutto i deboli hanno in esecrazione i potenti, innanzi a' quali s'avviliscono,
e i potenti trattano quegli come le pecore, di cui si vende la lana e la carne;
un milione d'assassini arruolati, corre da una parte all'altra dell'Europa,
esercitando l'omicidio e la ruberia con disciplina, per guadagnare il pane,
perchè non hanno più onesto mestiere; e nelle città che
sembrano goder la pace, e dove fioriscono l'arti, gli uomini son divorati da
più gare, più pensieri, e più inquietudini, che una città
assediata non prova fiamme; le tristezze secrete sono ancor più crudeli
che le miserie pubbliche: in una parola io ho veduto tanto e tanto ho provato,
che son manicheo.
- Vi è per altro del buono, replicava Candido. - Può essere, diceva
Martino, ma io non lo conosco. A mezzo di questa disputa si sente uno strepito
di cannone, lo strepito cresce a ogni istante, e ciascuno prende il suo cannocchiale.
Si scorgono due vascelli che combattono tre miglia distante; il vento conduce
l'uno e l'altro sì vicino al vascello francese, che si ha il piacere
di vedere il combattimento a tutt'agio; infine uno di quegli scarica sull'altro
una fiancata sì bassa, e sì ben misurata, che lo cola a fondo;
Candido e Martino videro distintamente un centinajo d'uomini sul cassero del
vascello che andava a picco, che alzavano tutti le mani al cielo, e gettavano
spaventevoli strida; ad un tratto tutto fu inghiottito.
- Ebbene, dice Martino, ecco come gli uomini si trattano gli uni cogli altri.
- È vero, dice Candido: v'è qualche cosa di diabolico in questo.
Così discorrendo ei scorge un non so che di rosso lucente, che nuotava
verso il suo bastimento. Fece staccare la scialuppa per conoscere ciò
che poteva essere; era uno de' suoi montoni, e Candido in ritrovare quel montone,
provò un contento maggiore dell'afflizione che avea provata in perderne
cento tutti carichi di grossi diamanti d'Eldorado.
Il capitano francese conobbe tosto che il capitano del vascello vittorioso era
spagnuolo, e quel del vascello sommerso era un pirata olandese, ed era quello
stesso che avea tradito Candido. Le ricchezze immense di cui quello scellerato
si era impadronito, furono seppellite con lui nel mare: un montone solo s'era
salvato. - Voi vedete, dice Candido a Martino: il delitto alcuna volta è
punito: questo furfante di padrone olandese ha avuto la sorto che meritava.
- Sì, dice Martino, ma i passeggieri non han dovuto perire anch'essi?
Dio ha punito quel briccone, e il diavolo ha annegati gli altri.
Intanto il vascello francese e lo spagnuolo continuarono il lor cammino e Candido
continuò le sue conversazioni con Martino. Essi disputarono quindici
giorni di seguito e in que' quindici giorni essi eran tanto avanzati quanto
il primo; ma finalmente parlavano, si comunicavano delle idee, e si consolavano.
Candido accarezzava il suo montone. -
Giacchè io ho ritrovato te, diceva, potrò ben ritrovare la mia
bella Cunegonda.»
CAPITOLO XXI
Candido e Martino si avvicinano alle coste di Francia e ragionano.
Si scorsero infine le coste di Francia. - Siete mai stato in
Francia, signor Martino? dice Candido. - Sì, risponde Martino, io ne
ho trascorso più provincie, ve ne sono alcune dove una metà degli
abitanti sono pazzi, alcune dove son molto astuti, altre dove son assai minchioni,
altre dove si fa il bello spirito; ed in tutte la principale occupazione è
l'amore, la seconda il mormorare, e la terza il dir scempiaggini. - Signor Martino,
avete voi veduto Parigi? - Sì, l'ho veduto: là vi sono tutte queste
specie: e un caos, e, una calca dove ciascuno cerca il piacere, e dove quasi
nessuno lo trova almen per quanto mi è parso: io vi ho dimorato poco,
e vi fui derubato di tutto ciò che avevo al mio arrivo da' ladri della
fiera di San Germano: indi io stesso fui preso per un ladro, e stetti otto giorni
in prigione, dopo di che mi feci correttore di stamperia, Per guadagnare tanto
da ritornare a piedi in Olanda. Io vi ho conosciuto la canaglia degli scrittori,
la canaglia de' cavillatori e la canaglia de' convulsionari; si dice che vi
è della gente assai civile in quel paese: io voglio crederlo.
- Per me, io non ho niuna curiosità di veder la Francia, dice Candido;
voi vi persuaderete facilmente, che quando sl è passato un mese nell'Eldorado
non viene voglia di veder altro sulla terra, che la bella Cunegonda; io vado
ad aspettarla a Venezia; noi traverseremo la Francia per passare in Italia,
non mi accompagnerete voi? - Volentierissimo, risponde Martino; si dice che
Venezia non è buona che per i nobili veneziani, ma che intanto si son
ben ricevuti i forastieri, quand'essi però hanno molto danaro: io non
ne ho punto, voi ne avete, ed io vi seguirò per tutto. - A proposito,
dice Candido, pensate voi che la terra sia stata originariamente un mare, come
si assicura in quel grosso libro appartenente al capitano del vascello? - Io
non credo niente affatto a questo, risponde Martino, e neppure di tutti i sogni
che si spacciano da qualche tempo. - Ma a qual fine questo mondo è stato
dunque formato? ripiglia Candido. - Per farci arrabbiare, risponde Martino.
- Credete voi, dice Candido, che gli uomini si siano sempre vicendevolmente
straziati, come lo fanno al presente? ch'essi siano sempre stati bugiardi, furbi,
perfidi, ingrati, assassini, pieni di debolezze, ladri, vili, invidiosi, ingordi,
ubbriaconi, avari, ambiziosi, sanguinari, calunniatori, discoli, fanatici, ipocriti
e pazzi? - Credete voi, dice Martino, che gli sparvieri abbian sempre mangiato
degli uccelli quando ne han trovati? - Sì, senza dubbio, dice Candido.
Ebbene, soggiunge Martino, se gli sparvieri han sempre avuto il medesimo carattere,
perchè volete voi che gli uomini abbian cambiato il loro? - Oh, dice
Candido, vi è ben differenza perchè il libero arbitrio.... Così
ragionando arrivarono a Bordeaux.
CAPITOLO XXII
Ciò che accadde in Francia a Candido e a Martino.
Candido non si trattenne in Bordeaux che tanto tempo quanto
gliene abbisognò a vendere de' ciotoli d'Eldorado, e per provvedersi
d'una buona carrozza a due posti, non potendo più discostarsi dal suo
filosofo Martino. Si separò solamente, e con rincrescimento dal suo montone,
lasciandolo all'Accademia delle scienze di Bordeaux, la quale propose per soggetto
del premio di quell'anno di trovare perchè la lana di quel montone era
rossa; ed il premio fu assegnato ad un sapiente del nord, che dimostrò
per A più B meno C diviso per Z, che il montone dovea esser rosso o dovea
morire.
Intanto tutti que' viaggiatori che Candido incontrava nell'osteria per la strada
che faceva, gli dicevano: «noi andiamo a Parigi.» Questa festa universale
fece finalmente anche a lui venir la voglia di vedere quella capitale, tanto
più che non molto si discostava dal cammino per Venezia.
Entrò egli per il borgo di San Marcello, e credè di essere nel
villaggio più vile della Wesfalia.
Appena Candido giunse al suo albergo fu assalito da una leggiera malattia causata
dalle sue fatiche, e siccome aveva in dito un diamante smisurato, e si era veduta
fra il suo equipaggio una cassetta eccedentemente pesante, egli ebbe immediatamente
presso di lui due medici, stati mandati da alcuni intimi amici, che non l'abbandonavano,
e due bacchettone gli facevano scaldare le bevande; Martino diceva: - Mi ricordo
di essere stato ammalato anch'io a Parigi nel mio primo viaggio, e perchè
ero molto povero, non ebbi nè amici, nè bacchettone, nè
medici, eppur guarii.
Intanto a forza di medicine e cavature di sangue, la malattia di Candido divenne
seria. Un abitante del quartiere venne con dolcezza a chiedergli un biglietto
pagabile al latore per l'altro mondo; Candido non volle farlo; le bacchettone
l'assicurarono che questa era un nuova moda; Candido rispose ch'ei non era punto
uom alla moda; Martino volea gettar colui fuori della finestra; un chierico
giurò che non si sarebbe sotterrato Candido; Martino giurò ch'ei
seppellirebbe il chierico se continuava ad importunarlo: la contesa si riscaldò
e Martino lo prese per le spalle, e lo scacciò fieramente. Questo cagionò
un grave scandalo, e se ne fece un processo verbale.
Candido guarì e nella sua convalescenza ebbe una buonissima compagnia
a cenar seco lui. Si giuocava di grosso e Candido si stupiva di veder che non
gli venivano mai gli assi; ma non se ne stupiva Martino.
Fra quei che facevano gli onori della città vi era un abatino di Perigord,
uno di quei tipi sempre officiosi, sfrontati, adattabili a tutto, che corteggiano
i forastieri che raccontan loro l'istoria scandalosa della città e offrono
loro i piaceri a ogni prezzo; questo condusse subito Candido e Martino al teatro
della Commedia; si recitava una tragedia nuova; Candido si trovò fra
alcuni belli spiriti; questo non gl'impediva di piangere su certe scene perfettamente
rappresentate; ma uno de' ragionatori gli disse in tempo di un intermezzo: -
Voi avete torto di piangere: quell'attrice è molto cattiva, l'attore
che recita seco è cattivo anch'egli, il contenuto della tragedia è
peggiore degli attori, l'autore non sa una parola araba, e intanto la scena
è in Arabia; di più egli è un uomo che non crede alle idee
innate; io vi farò vedere domani venti libercoli contro di lui. - Signore,
gli dice l'abate di Perigord avete voi osservato quella giovinetta che ha un
volto sì attraente, e un personale sì ben composto? ella non vi
costerà che diecimila franchi il mese e cinquantamila scudi di diamanti.
«- Io non ho tempo di occuparmi di lei, dice Candido perchè son
chiamato a Venezia per un affare che mi preme. La sera, dopo cena, l'insinuante
Perigordino raddoppiò le sue convenienze e le sue attenzioni. - Voi avete
dunque, signore, una cosa di premura a Venezia. - Sì signor abbate, dice
Candido, bisogna assolutamente che io vada a trovar madamigella Cunegonda.
E qui impegnato dal piacere di ciò che amava, contò secondo il
suo uso una parte de' casi suoi con quella illustre wesfaliana.
- Io credo, disse l'abate, che Cunegonda, abbia molto spirito, e che ella scriva
delle lettere graziose. - Io non ne ho mai ricevute, disse Candido, perchè
figuratevi che, essendo stato scacciato dal castello per amor di lei, io non
potei scriverle: che immediatamente dopo, seppi che ella era morta: che in seguito
la ritrovai e la perdei, e che le ho inviato un espresso lontan di qui duemila
e cinquecento leghe, e ne aspetto la risposta.
L'abate ascoltava attentamente, e pareva un poco pensieroso; ei si licenziò
finalmente dai forastieri dopo averli teneramente abbracciati; il giorno appresso
riceve Candido, all'alzarsi dal letto, una lettera concepita in questi termini:
«Signore; amante mio carissimo, sono otto, giorni che sono ammalata in
questa città; so che voi vi siete; volerei nelle vostre braccia, se io
potessi muovermi: ho saputo il vostro passaggio a Bordeaux; io vi ho lasciato
il fedele Cacambo, e la vecchia, che devono ben tosto seguirmi. Il governatore
di Buenos-Aires ha preso tutto, ma mi resta il vostro cuore. La vostra presenza
o mi renderà la vita, o mi farà morir di piacere.»
Questa graziosa lettera, questa lettera inaspettata trasportò Candido
in una gioja inesprimibile, e la malattia della sua cara Cunegonda lo oppresse
di dolore; diviso così fra un sentimento e l'altro, ei prende il suo
oro, e i suoi diamanti, e si fa condurre con Martino all'albergo ove dimorava
Cunegonda. Ivi entra tutto tremante, tutto agitato; gli palpita il cuore, singhiozza,
vuole aprire le cortine del letto, vuol far portare il lume. - Avvertite di
non farlo, gli dice la servente: il lume l'ammazza, e immantinente ella serra
la cortina - Mia cara Cunegonda, dice Candido piangendo, come state? Se voi
non potete vedermi, parlatemi almeno. - Ella non può parlare, dice la
servente.
La dama allora leva una mano pienotta, e Candido la bagna di lacrime; l'empie
in seguito di diamanti, e lascia sulla sedia un sacco d'oro.
A mezzo i suoi trasporti giunge il bargello seguito dall'abate perigordino e
da una squadra. - Questi son dunque, dic'egli, que' due forastieri sospetti?
Ei li fa tosto legare, e ordina ai suoi famigli di condurli in prigione. - Non
si trattan così i forastieri nell'Eldorado, dice Candido. - Io son manicheo
più che mai, dice Martino. - Ma, signore, dove ci conducete? soggiunse
Candido. - In un fondo di segreta, risponde il bargello.
Martino, riprendendo la sua mente fredda, giudicò che la dama che si
pretendeva Cunegonda fosse una furfante; un furfante il signor abate; che si
era così presto servito dell'innocenza di Candido, e un altro furfante
il bargello, da cui si potessero facilmente sbrogliare.
Candido, piuttosto che esporsi alle procedure della giustizia, e d'altra parte
impaziente di rivedere la vera Cunegonda, si attenne al consiglio di Martino,
e offrì al bargello tre piccoli diamanti di circa tremila pezze l'uno.
- Ah signore, gli disse l'uomo del baston d'avorio, quando aveste commessi tutti
i delitti immaginabili, siete il più galantuomo del mondo: tre diamanti!
Signore, io mi farei ammazzar per voi, non che condurvi in carcere: tutti i
forastieri si arrestano; ma lasciate fare a me: ho un fratello a Dieppe in Normandia,
voglio condurvici, e se avete qualche diamante da dargli egli avrà cura
di voi, come io stesso.
- E perchè si arrestano i forastieri? - Perchè, dice allora l'abate
perigordino prendendo la parola, un birbante del paese d'Atrebazia ha sentito
fare e tanto e bastato per fargli commettere un parricidio, non come quello
del 1610 del mese di maggio ma come quello del 1513 nel mese di dicembre, e
come diversi altri commessi in altri anni, e in altri mesi da altri birbanti,
che avevano inteso dello sottigliezze.
Il bargello spiegò allora di che si trattava. - Ah, mostri dell'umanità,
gridava Candido; tali orrori fra un popolo che balla e che canta! non potrei
io uscire al più presto di questo paese ove le scimmie attizzano le tigri?
Io ho veduto degli orsi nel mio paese, e non ho veduto degli uomini che nell'Eldorado.
In nome di Dio, signor bargello, menatemi a Venezia, ove devo attendere la mia
Cunegonda. - Io non posso menarvi che nella bassa Normandia, dice il bargello.
Immantinente gli fa levare i ferri, dicendo d'aver preso uno sbaglio; licenzia
la sua gente, conduce a Dieppe Candido e Martino, e li lascia nelle mani di
suo fratello. V'era piccolo vascello olandese alla rada; il normanno o coll'ajuto
di tre altri diamanti diviene l'uomo più officioso del mondo, e imbarca
Candido colla sua gente nel vascello, che facea vela per Portsmouth in Inghilterra.
Non era questo il cammino per Venezia, ma Candido credeva di liberarsi dall'inferno
e facea conto di riprendere la via per Venezia alla prima occasione.
CAPITOLO XXIII
Candido e Martino arrivano sulle coste d'Inghilterra e ciò che vi vedono.
- Ah Pangloss! Pangloss! ah Martino! Martino ah mia cara Cunegonda!
che mondo è questo? dice Candido sul vascello olandese. - Qualche cosa
di ben pazzo e di ben abominevole, diceva Martino. - Voi conoscerete forse l'Inghilterra;
vi sono là dei pazzi come in Francia? - Là v'è un'altra
specie di pazzia, dice Martino: voi sapete che queste due nazioni sono in guerra
per alcune staja di terreno nevoso verso il Canada, e ch'essi spendono per questa
bella guerra molto più di quanto vale tutto il Canada; il dirvi precisamente
se vi sian più pazzi in un paese, o nell'altro, la mia debole cognizione
non mel permette: solamente so che in generale le genti che stiamo per vedere
sono molto barbare.
Discorrendo così approdarono a Portsmouth; una moltitudine di popolo
cuopriva la riva e attentamente osservava un omaccione che stava ginocchioni
cogli occhi bendati sul cassero d'una nave da guerra; quattro soldati impostati
dirimpetto a lui gli tirarono ciascuno una fucilata a tre palle nel cranio con
la maggior placidezza del mondo, e tutta l'assemblea se ne ritornò estremamente
soddisfatta. - Che cosa è questa? dice Candido: qual demonio mai esercita
per tutto il suo impero? chi era quell'omaccione che han ammazzato in cerimonia?
E gli si risponde: Questo è un ammiraglio. - E perchè ammazzare
quest'ammiraglio? - Perchè, gli vien detto, non ha fatto ammazzare della
gente abbastanza: ei diede una battaglia navale a un ammiraglio francese e si
è saputo che egli non era abbastanza vicino al nemico. - Ma l'ammiraglio
francese, dice Candido, era egli egualmente lontano dall'altro? - Senza dubbio,
gli si replica, ma in questo paese è bene ammazzare di tempo in tempo
un ammiraglio per incoraggiare gli altri.
Candido restò sì stordito e sì commosso da ciò che
vedeva e da ciò che udiva, che non volle neppure metter piede a terra,
ma pattuì col padrone olandese (non credendolo un ladro come quello di
Surinam) per farsi condurre senza dilazione a Venezia.
Il padrone olandese fu lesto in termine di due giorni; si costeggiò la
Francia, si passò alle viste di Lisbona e Candido ivi raccapricciò:
s'entrò nello stretto, indi nel Mediterraneo e infine si approdò
a Venezia. - Sia lodato Iddio, disse Candido abbracciando Martino, qui rivedrò
la bella Cunegonda; io conto su Cacambo come su me stesso. Tutto è bene,
tutto va bene, tutto va alla meglio che sia possibile.
CAPITOLO XXIV
Visita al signor Pococurante, nobile veneziano.
Tosto che ei fu a Venezia fece cercar Cacambo in tutte le osterie,
in tutti i caffè, e non si trovò; ei mandava tutti i giorni a
fare scoperta di tutti i vascelli, di tutte le barche; non si sentiva nulla
di Cacambo. - Come, diceva egli a Martino, io ho avuto il tempo di passare da
Surinam a Bordeaux, d'andare da Bordeaux a Parigi, da Parigi a Dieppe, da Dieppe
a Portsmouth, di costeggiare il Portogallo e la Spagna, di traversare tutto
il Mediterraneo, di passare qualche mese a Venezia e la bella Cunegonda non
è arrivata! Io non ho riscontrato che una tristanzuola in vece sua, e
un abate di Perigord! Cunegonda è morta senza dubbio e non resta anche
a me che morire. Ah! era meglio rimanere nel paradiso d'Eldorado che tornare
in questa maledetta Europa. Voi avete ragione, mio caro Martino, tutto non è
che illusione e calamità.
Ei cadde in una nera malinconia e non prestò attenzione alcuna all'opera
alla moda, ne ad alcun altro divertimento del carnevale, e niuna dama diè
a lui la minima tentazione. Martino gli diceva: - Voi siete pur buono, a figurarvi
che un servo bastardo che ha cinque o sei milioni in tasca vada a cercare la
vostra amante in capo al mondo e ve la conduca a Venezia! ei la prenderà
per sè, se la trova, e se non la trova ne prenderà un'altra; io
vi consiglio a scordarvi del vostro servo Cacambo e della vostra amante Cunegonda
Martino non era troppo consolante; la malinconia di Candido s'aumenta, e Martino
non cessa di provargli che vi era poca virtù e poca felicità sulla
terra, eccettuato forse nell'Eldorado, dove nessuno poteva entrare.
- Si parla, dice Candido, d'un certo senatore Pococurante che abita in quel
bel palazzo sulla Brenta, che è tanto compito co' forastieri. Si pretende
che questo sia un uomo che non abbia mai provata tristezza. - Io vorrei vedere
una specie sì rara, dice Martino
Candido manda immediatamente a chiedere al signor Pococurante la permissione
di visitarlo il giorno appresso. Candido e Martino andarono in gondola sulla
Brenta, ed arrivarono al palazzo del nobil Pococurante. I giardini erano di
buon gusto, ed ornati di belle statue di marmo, e il palazzo di bellissima architettura.
Il proprietario del luogo, uomo di sessant'anni, molto ricco, ricevè
con molta compitezza i due visitatori, ma con altrettanta freddezza, il che
sconcertò Candido, e non dispiacque punto a Martino.
Tosto due belle ragazze, portarono la cioccolata, che avean fatta bene spumare.
Candido non potè fare a meno di lodare la loro bellezza, la loro grazia,
la loro attività. - Queste sono buonissime creature, disse il senatore
Pococurante; non mi dispiacciono perchè sono stufo delle:. dame della
città, per le loro civetterie, per le loro contese, per i loro capricci,
per il loro orgoglio, per le loro bassezze, per lo loro pazzie, e per i sonetti
che bisogna fare, o far fare per loro. Ma anche queste due ragazze cominciano
ad annojarmi.
Candido dopo la colazione passeggiando in una lunga galleria, fu colpito dalla
bellezza de' quadri; dimandò di quale artista erano i due primi. - Son
di Raffaello, disse - il senatore; li comprai a caro prezzo per vanità,
anni or sono: si dice che non vi è cosa più bella in Italia, ma
a me non piacciono niente affatto; il colore è cupissimo, le figure non
son bene arrotondate, e non risaltano abbastanza; il panneggiamento non somiglia
punto a un panno insomma, checchè se ne dica, io non vi trovo una vera
imitazione della natura: a me non piacerà un quadro se non allora che
vi vedrò la natura medesima: di questa: specie non ve ne sono: io ho
molti quadri, ma non li guardo mai.
Pococurante, aspettando il desinare, si fece eseguire un concerto; a Candido
parve la musica graziosissima - Questo suono, dice Pococurante, può divertire
per una mezz'ora, ma se dura di più annoja tutti, sebbene nessuno ardisca
di confessarlo: la musica oggigiorno non è altro che un'arte di eseguir
cose difficili, e ciò che è solamente difficile, a lungo andare
piace. Io avrei forse maggior piacere all'opera se non si fosse trovato il secreto
di farne un mostro, che mi fa stomacare: vada chi vuole a veder delle cattive
tragedie in musica, ove le scene non son fatte che per introdurre male a proposito
due o tre ariette ridicole che fanno valere il gorgozzulo d'un'attrice; si intenerisca
di piacere chi vuole, o chi può, vedendo un castrato trillare sulla parte
di Cesare, e di Catone, e passeggiare goffamente sul palco; per me, io ho rinunziato
da gran tempo a tali leggerezze, che fanno la gloria oggigiorno del teatro italiano,
e che son pagate da' sovrani a carissimo presso.
Candido contese un poco su questo, ma con discrezione, e Martino fu interamente
del sentimento del senatore.
Si misero a tavola, e dopo un eccellente desinare entrarono nella biblioteca.
Candido, vedendo un Omero magnificamente legato, lodò l'illustrissimo,
sul suo buon gusto. - Ecco, dic'egli, un libro che era la delizia del gran Pangloss,
il miglior filosofo dell'Alemagna. - Non è già la mia, risponde
freddamente Pococurante: mi si diede ad intendere in passato, che io provavo
piacere a leggerlo, ma quella ripetizione continua di combattimenti che sempre
si rassomigliano, quegli Dei che agiscon sempre per non concluder nulla, quell'Elena
ch'è il soggetto della guerra che appena comparisce sulla scena, quella
Troja che si assedia, e non si prende mai, tutto mi cagionava una noja mortale:
io ho dimandato qualche volta ad alcuni letterati se s'annojavano come me in
quella lettura: i più sinceri mi han confessato che il libro cadeva lor
dalle mani, ma che bisognava per altro averlo nella biblioteca, come un monumento
dell'antichità, e come quelle medaglie rugginose, che non sono buone
a spendersi.
- Vostr'Eccellenza non penserà così di Virgilio, dice Candido.
- Io convengo, risponde Pococurante, che il secondo, il quarto e il sesto libro
della sua Eneide sono eccellenti: ma per quel suo pio Enea e il forte Cloante,
e l'amico Acate, e il piccolo Ascanio, e il melenso re Latino, e la villanzona
Amata, e l'insipida Lavinia, io non credo che vi sia niente di più freddo,
e di più disaggradevole; stimo meglio il Tasso, e le fandonie dell'Ariosto,
sebbene sonniferi da fare dormire uno in piedi.
- Signore, disse Candido, non avete un gran piacere a leggere Orazio? - Vi sono
delle massime, risponde, Pococurante, dalle quali un uomo di mondo può
ricavar del profitto, e che, essendo raccolte in versi, che hanno molta forza,
s'imprimono più facilmente nella memoria; ma io fo pochissimo caso, del
suo viaggio a Brindisi, e della sua descrizione di un cattivo desinare, e della
contesa de' facchini tra un certo Rupilio, le cui parole, dic'egli, erano piene
di marcia, ed un altro le cui parole erano aceto; io non ho letto, che con infinito
disgusto i suoi versi grossolani contro le vecchie, e contro le streghe, e non
so qual merito possa egli avere per dire al suo antico Mecenate che se fosse
stato da lui aggregato alla schiera de' poeti lirici, avrebbe colla sua fronte
sublime dato di cozzo alle stelle. I pazzi ammiran tutto, in un autore stimato;
io non leggo che per me, e non ho piacere se non a quel che mi aggrada.
Candido, ch'era stato educato a non giudicar cosa alcuna da per sé stesso,
era molto stupefatto di ciò che sentiva, e Martino trovava la maniera
di pensare di Pococurante assai ragionevole.
- Oh, ecco un Cicerone, dice Candido, io credo che vostr'eccellenza non lascerà
punto di leggere cotesto grand'uomo. - Io non lo leggo mai, risponde il Veneziano:
che m'importa ch'egli abbia difeso la causa di Rabirio o di Cluenzio? Ne ho
d'avanzo de' processi da giudicare; mi sarei adattato a leggere le sue opere
filosofiche, ma quando mi son accorto che ei dubitava di tutto, ho concluso
che io ne sapeva quanto lui, e che non avevo bisogno d'alcuno per essere ignorante.
- Oh, ecco là ottanta volumi di raccolte d'un'accademia di scienze, dice
Martino, può essere che in quelle vi sia del buono. - Ve ne sarebbe,
risponde Pococurante, se un degli autori di coteste bagatelle avesse inventato
almen l'arte di far delle spille; ma non v'è in tutti que' libri che
vani sistemi, e niuna cosa utile.
- Quante opere di teatro io vedo là! dice Candido, in italiano, in spagnuolo,
e in francese. - Sì, osserva il senatore. Ve ne son tremila, ma non ve
ne saran tre dozzine delle buone. Quelle raccolte poi di sermoni, che tutti
insieme non vagliono una pagina di Seneca, e tutti que' gran volumi di teologia,
credetelo, non si aprono mai, né da me né da alcuno.
Vide Martino degli scaffali carichi di libri inglesi. - Io credo, diss'egli,
che un repubblicano abbia ordinariamente ad aver piacere di cotesti libri, scritti
liberamente. - Sì, rispose Pococurante, è bello scrivere ciò
che si pensa, ed è questo un privilegio dell'uomo: in tutta la nostra
Italia non si scrive se non quel che non si pensa. Coloro che abitano la patria
di Cesare, e degli Antonini non osano aver un'idea, senza la permissione di
un domenicano. Io sarei contento della libertà che inspirano gl'ingegni
inglesi, se la passione, e lo spirito di partito non corrompesse totalmente
ciò che quella preziosa libertà ha di stimabile.
Candido scorgendo un Milton gli dimandò se considerava quell'autore per
un grand'uomo. - Chi? dice Pococurante, quel barbaro che fa un lungo commentario,
in dieci libri di versi duri, del primo capitolo della Genesi, quel grossolano
imitator de' Greci, che disfigura la creazione, e che mentre fa da Mosè
rappresentar l'Ente increato che produce il mondo con una parola, fa prendere
un gran compasso dal Messia, in un armadio del cielo, per disegnar la sua opera?
Io dovrei forse stimar colui che ha guastato l'inferno e il diavol del Tasso:
che Trasforma Lucifero ora in gigante, e ora in pigmeo: che gli fa ribattere
cento volte i medesimi discorsi: che lo fa disputare sulla teologia, che imitando
seriamente l'invenzione comica dell'armi da fuoco dell'Ariosto, fa sparare il
cannone nel cielo da' diavoli? Né io, né alcun altro in Italia
ha potuto trar piacere da queste triste stravaganze; e il maritaggio del peccato
colla morte, e i serpi che partorisce il peccato, non fanno vomitare ogni uomo
che ha il gusto un poco delicato? Quel poema oscuro, bizzarro e disgustevole
fu schernito fin dalla sua nascita, ed io lo tratto oggi come lo fu nella sua
patria da' contemporanei; del resto, io dico ciò che penso, e curo pochissimo
che gli altri pensino come me.
Candido era mal soddisfatto di que' discorsi; egli rispettava Omero, ed amava
Milton. - Ahimè, diss'egli sottovoce a Martino, io ho ben paura che quest'uomo
abbia un sommo disprezzo per i nostri poeti alemanni. - Non vi sarebbe gran
male, dice Martino. - Oh che uomo superiore! dicea pur Candido fra' denti. Che
spirito è questo Pococurante! Non può niente piacergli.
Dopo di aver fatta così la rivista di tutti i libri, discesero nel giardino;
Candido ne lodò tutte le bellezze. - Io non so di cattivo gusto, disse
il padrone: noi abbiam qui delle figurine, ma dopodomani voglio farvene porre
d'un disegno più nobile.
Allorchè i due visitatori si furono licenziati da sua eccellenza, Candido
chiese a Martino:
- Voi dunque converrete meco, che quello è il più felice di tutti
gli uomini, perché è al di sopra di tutto ciò che possiede.
- E non vedete voi, rispose Martino, che di tutto ciò che possiede egli
è disgustato? Platone disse, molto tempo fa, che i migliori stomaci non
son quelli che rigettano tutti gli alimenti.
- Ma, disse Candido, non è un piacere a criticar tutto? A trovar de'
difetti, dove gli altri uomini credon vedere delle bellezze?
Intanto i giorni e le settimane passavano; Cacambo non tornava, e Candido era
immerso nel dolore.
CAPITOLO XXV
D'una cena che Candido e Martino fecero con sei forestieri, e chi erano.
Una sera che Candido, seguitando Martino andava a porsi a tavola
co' forestieri che alloggiavano nella stessa osteria, un uomo col viso color
di fuliggine, gli andò di dietro, e gli disse:
- Siate pronto a partir con noi; non mancate.
Ei si voltò, e vide Cacambo. Non v'era che la vista di Cunegonda, che
potesse stupirlo d'avvantaggio; ei fu sul punto d'impazzire dall'allegrezza:
abbraccia il caro amico.
- Cunegonda è qui senza dubbio; dove è ella? menatemi da lei,
ond'io con lei muoja di gioja.
- Cunegonda non è qui, rispose Cacambo; ella è a Costantinopoli.
- Cielo! a Costantinopoli! ma foss'ella anche nella China, io vi volo, partiamo.
- Partiremo dopo cena, ripigliò Cacambo, non posso dirvi di più:
io sono schiavo, il mio padrone mi aspetta, bisogna ch'io vada a servirlo a
tavola; non fate parola, e tenetevi pronto.
Candido, fra l'allegrezza ed il dolore, felice d'aver riveduto il suo fedele
agente, stupito di vederlo schiavo, pieno dell'idea di ritrovare la sua amata,
col cuore agitato, coll'animo scomposto, si mette a tavola con Martino (il quale
non si scompose a tutte quelle avventure) e co' sei forestieri che eran venuti
a passare il carnevale a Venezia.
Cacambo, che dava da bere ad uno di que' tre forestieri, s'avvicina all'orecchio
del suo padrone sul fin della tavola, e gli dice: - Sire, vostra maestà
partirà quando le piace; il bastimento e pronto.
Dette queste parole esce. Stupiti i convitati si guardavano l'un l'altro, senza
far parola; quando un altro domestico, avvicinandosi all'altro suo padrone,
gli dice:
- Sire, la sedia di Vostra Maestà è a Padova, e la barca è
pronta.
Il padrone fa un cenno e il domestico parte; i convitati tornano a guardarsi,
e raddoppia lo stupore di tutti. Un terzo servo, avvicinandosi pure a un terzo
forestiero gli dice: - Sire, vostra maestà faccia a mio modo, non si
trattenga di più: io vado a preparare il tutto.
Tosto sparisce
Candido e Martino non ebbero più dubbio allora che quella non fosse una
mascherata da carnevale. Viene un quarto domestico, e dice a un quarto padrone:
- Vostra maestà partirà quando vorrà; e parte. - Un quinto
domestico dice altrettanto a un quinto padrone; ma il sesto servo parla direttamente
al sesto forestiero, che era accanto a Candido e gli dice: - In fede mia, sire,
non si vuol dar credenza a vostra maestà, e neppure a me, ed io e voi
potremmo esser benissimo carcerati in questa notte: io vado a provvedere a'
miei affari: addio.
Spariti tutti i domestici, i sei forestieri, Candido e Martino, restarono in
un profondo silenzio; infine, proruppe Candido: - Signori, questa è una
burla singolare: perché farvi tutti re? per me io vi confesso che nè
io, nè Martino non lo siamo.
Il padrone di Cacambo prese allora a parlare gravemente, e disse in italiano:
- Per me non è punto una burla. Io mi chiamo Acmet III; sono stato gran
sultano per più anni; levai dal trono mio fratello; e mio nipote ne ha
levato me; si tagliò la testa a' miei visiri; io termino i miei giorni
nel vecchio serraglio: mio nipote il gran sultano Mahmud mi permette di viaggiare
qualche volta per mia salute, e son venuto a passare il carnevale a Venezia.
Un altro uomo giovine, che era accanto ad Acmet, parlò dopo di lui, e
disse: - Io mi chiamo Ivan; sono stato imperatore di tutte le Russie; fui detronizzato
in cuna; mio padre e mia madre furono rinserrati; io allevato in prigione; qualche
volta ho la permissione di viaggiare accompagnato da coloro che mi guardano,
e son venuto a passare il carnevale a Venezia.
Il terzo disse: - Io son Carlo Odoardo re d'Inghilterra: mio padre mi ha ceduti
i suoi diritti al regno; ho combattuto per sostenerlo; è stato strappato
il cuore a ottocento de' miei partigiani e si è tolta loro ogni speranza;
sono stato in carcere; or vado a Roma a fare una visita al re mio padre, detronizzato
come me, e come mio nonno, e son venuto a passare il carnevale a Venezia.
Indi il quarto prese a parlare, e disse: - lo son re de Polacchi: la sorte della
guerra mi ha privato de' miei stati ereditari; mio padre provò le stesse
avversità; io mi rassegno a]la Provvidenza come il sultano Acmet l'imperator
Ivan, e il re Carlo Odoardo, che Dio conceda lor lunga vita; e son venuto a
passare il carnevale a Venezia.
Disse il quinto: - Sono ancor io re de' Polacchi: ho perduto due volte il mio
regno ma la Provvidenza mi ha dato un altro stato, nel quale ho fatto miglior
fortuna di quella che han fatta tutti insieme i re de' Sarmati sulle sponde
della Vistola; io ancora mi rassegno alla Provvidenza, e son venuto a passare
il carnevale a Venezia.
Restava a, parlare il sesto monarca: - Signori, diss'egli io non sono sì
gran signore come voi, ma finalmente fui re al pari d'ogni altro; sono Teodoro,
eletto re in Corsica; fui chiamato maestà, e presentemente mi si dà
appena del signore; feci batter moneta., ed ora non possiedo un danaro; ebbi
due secretari di Stato, ed ora ho appena un servitore; mi vidi sul trono, e
poi per lungo tempo in prigione a Londra sulla paglia; temo d'esser trattato
egualmente qui, benchè io sia venuto come le maestà vostre a passare
il carnevale a Venezia.
I cinque altri re ascoltarono questo discorso con una nobile compassione; ciascuno
di essi dette venti zecchini al re Teodoro per comprarsi degli abiti e delle
camicie, e Candido gli regalò un diamante di due mila zecchini. - Chi
è dunque, diceano gli altri cinque re, questo semplice particolare che
è in istato di dare cento volte più di ciascuno di noi, e che
lo dà?
Nell'istante in che s'usciva da tavola, ecco nell'osteria quattro altezze serenissime
che avean pure perduti i lor Stati per la sorte della guerra, e che venivano
a passare il resto del carnevale a Venezia: ma Candido non ci badò nemmeno,
non pensando ad altro che di andare a trovar la sua cara Cunegonda a Costantinopoli.
CAPITOLO XXVI
Viaggio di Candido a Costantinopoli
Il fedele Cacambo avea già ottenuto la permissione da
padrone turco, che andava a ricondurre il sultano Acmet a Costantinopoli, di
potere ricevere a bordo Candido e Martino. L'uno e l'altro vi si trasferirono
dopo d'essersi inchinati avanti a sua miserabile altezza. Candido, nell'andare
a bordo, disse a Martino: - Ecco intanto sei re detronizzati, co' quali abbiamo
cenato, e fra questi sei re ve n'è ancora uno a cui ho fatto l'elemosina,
Vi saranno forse altri principi molto più infelici; per me io non no
perduto se non cento montoni, e volo nelle braccia a Cunegonda: mio caro Martino,
qualche volta Pangloss avea ragione tutto è bene. - Io lo desidero, rispose
Martino. - Ma, ripigliò Candido, è un'avventura ben poco verosimile
quella che ci si è presentata a Venezia; non si era giammai veduto nè
udito che sei re detronizzati si trovassero a cenar insieme all'osteria. - Questo
non è più stravagante, disse Martino, di tante altre cose che
ci sono accadute. È cosa comunissima che vi sieno de' re balzati dal
trono, e rispetto all'onore che abbiamo avuto di cenar con loro, è una
bagattella che non merita la nostra attenzione.
Appena che Candido fu nel vascello, saltò al collo del suo antico servo,
del suo amico Cacambo: - Ebbene, gli disse, che fa Cunegonda? è ella
sempre un prodigio di bellezza? mi ama ella sempre? come sta ella? Tu gli hai
senza dubbio comprato un palazzo a Costantinopoli?
- Mio caro padrone, rispose Cacambo, Cunegonda rigoverna le scodelle sulle sponde
della Propontide, in casa di un principe che ha pochissime scodelle; ella è
schiava in casa d'un antico sovrano chiamato Ragotski, a cui il Gran Turco dà
tre scudi il giorno, e l'asilo; ma ciò che è ben più tristo,
si è che ella ha perduta la sua bellezza ed è diventata orribilmente
brutta. - Ah! o bella o brutta, dice Candido, io son galantuomo, e il mio dovere
è di amarla sempre; ma come mai può ella essersi ridotta in uno
stato si miserabile co' cinque o sei milioni che tu avevi portati? - Buono!
dice Cacambo, non mi è abbisognato di dare due milioni al signor don
Fernando d'Ibaraa y Figueora y Mascarenes y Lampourdos y Souza, governatore
di Buenos-Aires, per ottenere Cunegonda? Ed un pirata non ci ha bravamente spogliati
di tutto il resto? Questo pirata non ci ha egli condotti al capo di Matapan,
a Milo, a Nicaria, a Samos, a Petra, a Dardanelli, a Marmora, a Scutari? Cunegonda
e la vecchia servono quel principe, di cui vi ho parlato, ed io son schiavo
del sultano detronizzato. - Che spaventevoli calamità concatenate le
une alle altre! dice Candido; ma finalmente io ho ancora alcuni diamanti, e
libererò facilmente Cunegonda. Ma è un peccato che sia divenuta
sì brutta.
Indi rivolgendosi a Martino: - Chi pensate voi che sia più degno di compassione
l'imperatore Acmet, l'imperatore Ivan, il re Carlo Odoardo, od io?
- Non lo so, risponde Martino, bisognerebbe che io fossi ne' loro cuori per
saperlo. - Ah, dice Candido, se fosse qui Pangloss ei lo saprebbe. - Io non
so, ripiglia Martino con quali bilance il vostro Pangloss potrebbe pesare l'infelicità
degli uomini e valutare i lor dolori; io son di sentimento che vi sieno de'
milioni d'uomini sulla terra da compiangersi molto più del re Carlo Odoardo,
dell'imperatore Ivan e del sultano Acmet. - Potrebb'essere risponde Candido.
Arrivarono in pochi giorni sul canale del mar Nero. Candido cominciò
dal riscattare Cacambo a caro prezzo e senza perder tempo, s'imbarcò
sopra una galera co' suoi compagni, per andare sulla riva della Propontide a
cercar Cunegonda, per quanto brutta esser potesse.
Vi erano fra la ciurma due forzati che remavano malissimo, e a' quali il padrone
levantino applicava di tempo in tempo alcune nerbate sulle nude spalle. Candido,
per una naturale compassione, gli osservava più attentamente degli altri
galeotti, e s'avvicinò tutto pietoso verso di loro. Alcuni tratti del
viso disfigurato di due di quei miserabili gli parvero aver qualche similitudine
con Pangloss, e col disgraziato gesuita, quel barone, quel fratello di madamigella
Cunegonda. Tali somiglianze lo intenerirono e lo attristarono; e sempre più
considerandoli attentamente, disse a Cacambo: - Se io non avessi veduto impiccare
il maestro Pangloss, e se non avess'io, per mia disgrazia, ammazzato il barone,
crederei che fossero quelli là che remano.
Al nome del barone e di Pangloss, i due forzati alzarono delle strida, si fermarono
sul loro banco, e si lasciarono cadere i remi. Il padrone levantino accorse,
e raddoppiò loro lo nerbate. - fermate, fermate, signore, grida Candido,
io vorrei... - Come! questo è Candido! si dicono l'un l'altro i due forzati.
- Sogno, dice Candido, o son desto? Son io in questa galera? È quello
là il signor barone che ho ammazzato? e quello là il maestro Pangloss,
che io ho veduto impiccare?
- Siamo noi, siamo noi, rispondean essi. - Come! è quello là il
gran filosofo? dicea Martino. - Eh, signor padrone! dice Candido, qual somma
volete voi per il riscatto di Thunder-ten-tronckh, uno de' primari baroni dell'impero,
e del signor Pangloss, il più profondo metafisico dell'Alemagna? - Can
di cristiano, risponde il levantino padrone, giacchè questi due cani
di forzati cristiani son baroni e metafisici, che sono, senza dubbio, dignità
grandi nel lor paese, tu mi darai cinquantamila zecchini. - Voi li avrete, signore,
conducetemi come un fulmine a Costantinopoli, e li avrete addirittura; ma no,
conducetemi da madamigella Cunegonda. Il padrone levantino, alla prima offerta
di Candido, aveva girata la prora verso la città, e facea remare con
maggior impeto d'un uccello che fenda l'aria.
Candido abbracciò cento volte il barone e Pangloss. - E come non vi ho
io ammazzato mio caro barone? e come, mio caro Pangloss siete restato in vita
dopo d'avervi veduto impiccare? e perchè siete tutti e due in galera
in Turchia? - È vero che mia sorella sia in questo paese? diceva il barone.
- Sì, rispose Cacambo. - Io rivedo dunque il mio caro Candido, gridava
Pangloss.
Candido presentò loro Martino e Cacambo; tutti si abbracciarono, e parlavan
tutti a una volta; la galera volava ed eran già nel porto. Si fece venire
un ebreo a cui Candido vendè per cinquantamila zecchini un diamante del
valor di centomila, perchè l'ebreo giurò per Abramo che non potea
pagarlo di più. Candido pagò incontanente il riscatto del barone
o di Pangloss. Questi gettossi ai piedi del suo liberatore e lo bagnò
di lacrime; l'altro lo ringraziò con un segno di testa, e promise di
rendergli il danaro alla prima occasione.
- Ma è possibile, diceva questi, che mia sorella sia in Turchia? - Niente
di più possibile, riprese Cacambo, giacchè ella lava i piatti
in casa di un principe di Transilvania.
Si fecero immediatamente venir due ebrei; Candido vendè nuovamente alcuni
diamanti, e tutti si rimbarcarono in un'altra galera per andare a liberare Cunegonda.
CAPITOLO XXVII
Ciò che accade a Candido, a Cunegonda, a Pangloss, a Martino, ecc.
- Perdono, per questa volta, dice Candido al barone, perdono,
mio reverendo padre, di avervi dato una stoccata traverso il corpo. - Non ne
parliamo più, risponde il barone: io fui un po' troppo vivo, lo confesso
ma giacchè, volete sapere per quale avventura mi avete veduto in galera,
vi dirò, che dopo d'essere stato guarito della mia ferita dal padre speziale
del collegio, fui attaccato e preso da un partito spagnuolo, e fui messo in
prigione a Buenos-Aires nel tempo che mia sorella ne partiva. Chiesi di tornare
a Roma presso il padre generale, e fui nominato per servire quale elemosiniere
a Costantinopoli l'ambasciatore di Francia. Non erano otto giorni ch'io era
entrato in funzione, quando trovai sulla sera un giovine turco; facea molto
caldo; il giovine volle bagnarsi, ed io presi quell'occasione per bagnarmi anch'io.
Io non sapea che fosse un delitto capitale per un cristiano l'esser trovato
nudo con un giovine musulmano; un cadì mi fece dare cento bastonate sotto
le piante de' piedi, e mi condannò alla galera. Io credo che non possa
darsi una più orribile ingiustizia. Ma vorrei sapere perchè mia
sorella è nella cucina d'un principe di Transilvania, rifugiato fra'
Turchi? -.
- Ma voi, mio caro Pangloss, come può darsi che io vi riveda? - È
vero, dice Pangloss che voi mi avete veduto impiccare; io dovea naturalmente
esser bruciato, ma vi ricorderete che piovve a distesa, allorchè si volea
cuocermi; la tempesta fu sì violenta, che si disperò di accendere
il fuoco; fui impiccato, perchè non si potea fare di meglio; un chirurgo
comprò il mio corpo, e mi condusse a casa sua per notomizzarmi. Mi fece
tosto un'incision crociale dall'ombelico fino alla clavicola. Io non, potea
essere stato impiccato peggio di quel che lo era: l'esecutore dell'alte opere
della santa Inquisizione, il quale era suddiacono, bruciava invero la gente
a maraviglia, ma non era accostumato ad impiccare: la corda era bagnata, e scorse
male: il nodo era altresì mal fatto; insomma io respirava ancora. L'incisione
crociale mi fece alzare un sì gran strido, che il mio chirurgo cadde
indietro, e credendo di notomizzare il diavolo, mezzo morto di paura fuggì
ruzzolando per la scala. A quello strepito corse la moglie da un gabinetto vicino
e vedendomi disteso sulla tavola coll'incision crociale, ebbe maggior paura
di suo marito, fuggì e cadde sopra di lui. Quando furono un poco rinvenuti,
io sentii che la chirurga diceva al chirurgo: - Mio caro, perchè proporti
di notomizzare un eretico? non sai che il diavolo e sempre nei corpi di simil
gente? Io vado ora a cercare un prete per esorcizzarlo.
Raccapricciai a tal proposizione, e raccolsi le poche forze che mi restavano
per gridare: -Abbiate pietà di me. Allora il barbiere portoghese riprese
l'ardire, e ricucì la mia pelle; la sua moglie medesima prese cura di
me, ed io fui libero in termine di quindici giorni. Il barbiere mi trovò
da servire, e mi fece lacchè d'un cavalier di Malta che andava a Venezia,
ma non avendo il mio padrone di che pagarmi, io mi misi al servizio di un mercante
veneziano, e lo seguii a Costantinopoli.
Un giorno mi venne la fantasia di entrare in una moschea; non v'era che un vecchio
imano, e una giovine bacchettona molto bella che diceva i suoi paternostri;
sul seno aveva un bel mazzetto di tulipani, di rose, d'anemoni, di ranuncoli,
di giacinti e d'orecchie d'orso. Ella lasciò cadere il suo mazzetto,
ed lo con una fretta rispettosissima glielo raccolsi, ma l'imano entrò
in collera, e vedendo che io era cristiano gridò al sacrilegio. Fui menato
dal cadì, egli mi fece dare cento staffilate sotto le piante de' piedi,
e mi condannò alla galera. Fui incatenato appunto nella galera e al banco
medesimo del signor barone. V'erano in quella galera quattro giovani marsigliesi,
cinque preti napolitani, e due frati di Corfù, i quali ci dissero che
simili avventure accadevano tutti i giorni. Il signor barone pretendeva d'aver
sofferto una ingiustizia maggiore della mia; noi disputavamo senza fine, e ricevevamo
venti nerbate il giorno, quando il concatenamento degli eventi di quest'universo
vi ha a noi condotto.
- Ebbene, mio caro Pangloss, gli dice Candido, quando voi siete stato impiccato,
notomizzato, arruotato, ed avete remato nella galera, avete sempre pensato che
tutto andava ottimamente? - Io son sempre del mio primo sentimento, risponde
Pangloss, perchè finalmente essendo io filosofo, non mi conviene il disdirmi.
Leibnitz non può aver torto, e l'armonia prestabilita è la più
bella cosa del mondo, come il pieno e la materia sottile
CAPITOLO XXVIII
Come Candido ritrova Cunegonda e la vecchia.
Mentre Candido, il barone, Pangloss, Martino e Cacambo raccontavano
le loro avventure, e ragionando sugli avvenimenti contingenti e non contingenti
di quest'universo, disputavano sugli effetti e le cause, sul mal morale e sul
mal fisico, sulla libertà e la necessità, sulle consolazioni che
si possono provare trovandosi in galera in Turchia, approdarono sulle rive della
Propontide alla casa del principe dì Transilvania. I primi oggetti che
si presentarono loro furono Cunegonda e la vecchia, che stendevano alcuni tovagliuoli
sopra le funi per farli asciugare. Il barone impallidì a quella vista;
il tenero amante Candido vedendo la sua bella Cunegonda imbrunita, cogli occhi
scerpellati, il petto risecco, le gote aggrinzite, le braccia abbronzite e scagliose,
si ritirò tre passi indietro pieno d'orrore; s'avanzò poi per
convenienza, ed ella abbracciò Candido e il suo fratello; fu abbracciata
la vecchia e furono ricomprate tutte due.
V'era un piccolo podere nel vicinato; la vecchia propose a Candido di comprarlo,
aspettando che tutta la truppa avesse un miglior destino. Cunegonda non sapea
d'esser così imbruttita, perchè di ciò niuno l'avea prevenuta.
Ella fece ricordare a Candido le di lui promesse con un parlar sì assoluto
che egli non osò di far ripulsa. Egli fece dunque intendere al barone
che volea maritarsi colla sua sorella. Io non soffrirò giammai, disse
il barone, una tal bassezza dalla parte sua, e una tale insolenza dalla vostra:
questa infamia non mi sarà giammai rimproverata: i figli di mia sorella
non potrebbero entrare nei capitoli d'Alemagna: no, la mia sorella non sposerà
giammai altri che un barone dell'impero.
- Cunegonda si gettò a' suoi piedi, e li bagnò di lagrime; egli
fu inflessibile. - Bel mio stivale, gli disse Candido, io ti ho scampato dalla
galera, io ti ho pagato il tuo riscatto, io ho pagato quello di tua sorella
- ella lavava qui le stoviglie, ella è brutta, io ho la bontà
di farla mia moglie, e tu pretendi anche di opportici? io ti riammazzerei, se
mi lasciassi vincere dalla collera - Tu puoi pure ammazzarmi, disse il barone,
ma non sposerai la mia sorella, me vivente.
CAPITOLO XXIX
Conclusione della prima parte.
Candido nel fondo del buon cuore non aveva alcuno stimolo di
sposare Cunegonda; ma l'estrema impertinenza del barone lo determinava a concludere
il maritaggio, o Cunegonda lo pressava sì vivamente ch'ei non poteva
ritirarsene. Consultò egli Pangloss, Martino e il fedele Cacambo. Pangloss
fece un bel discorso, col quale ei provava che il barone non aveva alcun diritto
sulla sorella, e che ella poteva, secondo tutte le leggi dell'impero, sposar
Candido colla mano sinistra.
Martino concluse di gettare il barone nel mare; Cacambo decise che doveasi renderlo
al padrone levantino e rimetterlo in galera per poi rimandarlo a Roma al padre
generale col primo bastimento. Il progetto fu trovato assai buono; la vecchia
l'approvò; non se ne disse niente alla sorella, la cosa fu eseguita mediante
qualche danaro, e s'ebbe il piacere d'ingannare un gesuita, e di punir l'orgoglio
di un barone tedesco
Egli era ben naturale immaginarsi che dopo tanti disastri, Candido maritato,
e in compagnia del filosofo Pangloss, del filosofo Martino, del prudente Cacambo
e della vecchia, avendo di più portato tanti diamanti dalla patria degli
antichi Incas, dovesse condurre la vita più deliziosa del mondo; ma egli
fu tanto truffato dagli ebrei, che non gli restò null'altro che la sua
villetta. La sua consorte, divenendo ogni giorno più brutta, era altresì
inquieta e insopportabile la vecchia era inferma, e di peggiore umore di Cunegonda.
Cacambo che lavorava al giardino e andava a vendere i legumi a Costantinopoli,
era oppresso dalle fatiche e malediceva il suo destino. Pangloss era in disperazione
per non poter fare il bello in qualche università d'Alemagna. Martino
poi, era persuaso che si stava ugualmente male da per tutto, e prendeva ogni
cosa con pazienza. Candido, Martino e Pangloss disputavano qualche volta sulla
metafisica, e sulla morale. Si vedevano spesso passare sotto le finestre della
villetta, dei battelli carichi di effendi, di bascià e di cadì,
che si mandavano in esilio a Lemno, a Metelino e ad Erzerum, e si vedean tornare
altri cadì, altri bascià e altri effendi, che andavano a occupare
i posti degli esiliati. Si vedevano delle teste decentemente impalate, che si
andavano a presentare alla Porta. Questi spettacoli facevano aumentare le dissertazioni;
e quando non si disputava, era così eccessiva la noja che la vecchia
osò un giorno dir loro: - Io vorrei sapere qual è la peggiore
cosa, o l'essere offesa cento volte dai pirati negri, il passare per le bacchette
fra' Bulgari, l'esser frustato e Impiccato in un auto-da-fè, l'essere
notomizzato remare in galera, provare infine tutto le miserie che noi abbiamo
passate, oppure il restar qui a non far niente. - Questa è una gran questione,
disse Candido.
Un tal discorso fece nascere nuove riflessioni e Martino soprattutto concluse
che l'uomo era nato per vivere fra le agitazioni dell'inquietudine e nel letargo
della noja. Candido non ne conveniva, ma non assicurava nulla.
Pangloss confessava d'aver sempre orribilmente sofferto ma siccome aveva sostenuto
una volta che tutto andava a maraviglia, seguitava a sostenerlo, e non credeva
a niente.
Vi era nel vicinato un dervis famosissimo che passava per uno de' migliori filosofi
della Turchia; essi andarono a consultarlo; Pangloss si fece avanti e disse:
- Maestro, noi veniamo a pregarvi di dirci perchè un animale sì
stravagante come l'uomo è stato formato.
- Di che ti occupi tu? disse il dervis tocca egli a te? - Ma reverendo padre,
disse Candido, vi sono de' mali orribili sulla terra. - Che t'importa, soggiunse
il dervis, che vi sia del male o del bene? Quando sua altezza spedisce un vascello
in Egitto, s'imbarazza ella se i topi vi sieno a lor agio o no? - Che bisogna
dunque fare? disse Pangloss. - Tacere, rispose il dervis. - Io mi lusingava,
disse Pangloss di ragionare un poco con voi degli effetti e delle cause dei
migliore de' mondi possibili, dell'origine del male, della natura dell'anima
e dell'armonia prestabilita.
Il dervis a tali parole gli serrò l'uscio in faccia.
- Nel tempo di questa conversazione si sparse la nuova che erano stati strangolati
a Costantinopoli due visiri del soglio ed il muftì, e che erano stati
impalati diversi loro amici. Questa catastrofe fece per tutto un grande strepito
di poche ore. Pangloss, Candido e Martino, ritornando alla villetta s'incontrarono
in un buon vecchio, che prendeva il fresco sulla sua porta sotto un pergolato
d'aranci; Pangloss che era altrettanto curioso quanto ragionatore, gli dimandò
come si chiamava il muftì che era stato strangolato. - Io non so niente,
rispose il buon uomo, e non ho mai saputo il nome di alcun muftì, nè
di alcun visir, anzi ignoro il caso di cui mi parlate; son di parere bensì
che generalmente coloro che si mescolano negli affari pubblici, qualche volta
miseramente periscono, e non senza lor colpa; ma non m'informo mai ai ciò
che si fa a Costantinopoli. Mi contento di mandare a vendervi le frutta del
giardino che io coltivo
Dopo tali parole egli fece entrare i forestieri nella sua casa. Due sue figlie,
e due suoi figli presentaron loro diverse qualità di sorbetti, che essi
facevano, di kaimak macolato, di scorze di cedrato candito, d'aranci, di cedri
di limoni, di pistacchi e di caffè di Moca, che non era punto mescolato
col cattivo caffè di Batavia e dell'Isole dopo di che le due ragazze
di quel buon musulmano profumarono le barbe a Candido, a Pangloss ed a Martino
- Voi dovete avere, disse Candido al turco, una vasta e magnifica terra. - Io
non ho che venti staja, rispose il turco; le coltivo co' miei figli, ed il lavoro
allontana da noi tre mali: la noja, il vizio e il bisogno.
Candido ritornando alla sua villetta fece delle profonde riflessioni sul discorso
del turco, e disse a Pangloss ed a Martino: - Quel buon vecchio sembra che siasi
fatta una sorte ben preferibile a quella de' sei re, co' quali avemmo l'onore
di cenare. - Le grandezze, disse Pangloss, sono molto pericolose, secondo ciò
che ne dicono tutti i filosofi; perchè finalmente Eglon, re de' Moabiti,
fu assassinato da Aod; Assalonne restò appiccato per i capelli e ferito
da tre lancie; il re Nadab figlio di Geroboamo, fu ucciso da Zambri; Giosia
dal Jehu; Atalia da Jojada; il re Gioachimo, Jeconia, Sedecia andarono schiavi.
Voi sapete come perirono Creso, Dario, Dionigi di Siracusa, Pirro, Perseo, Annibale,
Giugurta, Ariovisto, Cesare, Pompeo, Nerone, Ottone, Vitellio, Domiziano, Riccardo
II d Inghilterra, Odoardo II, Enrico VI, Riccardo III, Maria Stuarda, Carlo
I, i tre Enrichi di Francia. l'imperatore Enrico IV? Voi sapete... - Io so ancora,
disse Candido, che bisogna coltivare il nostro giardino. - Voi avete ragione,
ripetè Pangloss, poichè quando l'uomo fu messo nel giardino d'Eden
vi fu messo ut operaretur eum, perchè lavorasse; ciò che prova
che l'uomo non è nato per il riposo. - Lavoriamo senza ragionare, disse
Martino; questo, è il solo mezzo di render la vita sopportabile.
Tutta la piccola società prese parte in quel lodabile disegno; ciascuno
si mise ad esercitare i suoi talenti. La piccola terra fruttò molto.
Cunegonda era invero ben deforme, ma ella divenne un'eccellente pasticciera;
la vecchia ebbe cura della biancheria; Pangloss diceva qualche volta a Candido.
- Tutti gli avvenimenti sono concatenati nel miglior de' mondi possibili, perchè
finalmente se voi non foste stato scacciato a pedate da un bel castello per
amor di Cunegonda, se voi non foste stato messo all'Inquisizione, se non aveste
scorso l'America a piedi, se non aveste dato una stoccata al barone, se non
aveste perduto tutti i vostri montoni del buon paese d'Eldorado, voi non mangereste
qui dei cedri canditi e de' pistacchi. - Benissimo detto, rispondea Candido,
ma intanto bisogna coltivare il giardino.
PARTE SECONDA
CAPITOLO I
Come Candido si separa dalla sua società e ciò che accade
Di tutto ci stanchiamo nella vita; le ricchezze affaticano
quei che le possiede; l'ambizione soddisfatta non lascia che rimorsi; le dolcezze
dell'amore, a lung'andare, non son più dolcezze; e Candido, nato a provare
tutte le vicende della fortuna, s'annoia ben presto di coltivare il suo giardino.
- Maestro Pangloss, diceva egli, se noi siamo nati nel migliore de' mondi possibili,
mi confesserete almeno che non è un godere della porzione di felicità
possibile, il vivere ignoto in un piccolo angolo della Propontide, senza altri
conforti che quelli delle mie braccia, che potrebbero un giorno mancarmi; senz'altri
piaceri che quelli che mi procura Cunegonda, che è molto brutta, e, quel
ch'è peggio, è mia moglie; senz'altra compagnia che la vostra,
che qualche volta m'annoja, o quella di Martino che m'attrista, o quella della
vecchia che fa racconti da far dormire in piedi.
Allora Pangloss prese a parlare e disse: - La filosofia c'insegna che le monadi
divisibili in infinito, si dispongono con una intelligenza meravigliosa per
comporre i differenti corpi che osserviamo nella natura. I corpi celesti son
quello che devono essere: essi descrivono i cerchi che devono descrivere; l'uomo
inclina a quel che doveva inclinare: egli è quel che doveva essere, e
fa quel ch'ei doveva fare. Voi vi lamentate, o Candido, perché la monade
dell'anima vostra s'annoja; ma la noja è una modificazione dell'anima,
e non impedisce che tutto non sia per il meglio, tanto per voi che per gli altri.
Quando mi avete veduto tutto coperto di piaghe, io non sosteneva meno il mio
sentimento; perché se ciò non fosse stato, io non v'avrei incontrato
in Olanda, non avrei dato cagione all'anabattista Giacomo di fare un'opera meritoria,
non sarei stato impiccato a Lisbona, per edificazione del prossimo, non sarei
qui a sostenervi co' miei consigli e farvi vivere e morire nell'opinione leibnitziana.
Sì, mio caro Candido; tutto è concatenato, tutto è necessario
nel migliore de' mondi possibili; bisogna che il cittadino di Montalbano istruisca
i re: che il vermiciattolo di Quimper-Corentin, critichi, critichi, critichi:
che il referendario de' filosofi si faccia crocifiggere nella strada San Dionigi:
che il torzone degli zoccolanti, e l'arcidiacono di San Malò distillino
il fiele e la calunnia ne' lor giornali cristiani, che si portino le accuse
di filosofia al tribunal di Melpomene: e che i filosofi continuino a illuminar
l'umanità, malgrado gli strepiti di quelle bestie ridicole, che gracchiano
nel pantano della letteratura; e quando doveste esser scacciato di nuovo nel
più bel de' castelli a pedate, imparare l'esercizio de' Bulgari, passar
per le bacchette, nuotare dinanzi a Lisbona, essere crudelissimamente frustato
per ordine della santissima Inquisizione, incontrare i medesimi pericoli fra
los Padres, fra gli Orecchioni e fra i Francesi; quando doveste finalmente provare
tutte le calamità possibili, e non intendere giammai Leibnitz meglio
di quel che l'intendo io stesso, voi sosterrete sempre, che tutto è bene,
che tutto è per lo meglio; che il pieno, la materia sottile, l'armonia
prestabilita e le monadi sono le più belle cose del mondo, e che Leibnitz
è un grand'uomo, fin per quelli che non lo comprendono.
A quel bel discorso, Candido, l'essere il più dolce della natura, benchè
avesse ammazzato tre uomini, due de' quali erano preti, non fece parola, ma
annojato del dottore e della società, il giorno appresso con una canna
in mano, se ne fuggì, senza saper dove, cercando in luogo ov'ei non s'annojasse,
e dove gli uomini non fossero uomini, come nel buon paese d'Eldorado.
Candido meno sfortunato, inquantochè non amava più Cunegonda,
campando della liberalità di differenti popoli che non son Cristiani,
ma che fan l'elemosina, arrivò dopo un lunghissimo e penosissimo cammino
a Tauride sulle frontiere della Persia, città celebre per le crudeltà
che i Turchi e i Persiani vi hanno esercitato ognuno a sua volta.
Rifinito dagli stenti. e non avendo altro indosso che quanto gli abbisognava
per nascondere le sue membra, Candido non piegava troppo verso l'opinione di
Pangloss, quando un persiano gli si fece innanzi con un'aria delle più
civili, e lo pregò di nobilitare la sua casa con la di lui presenza.
- Voi mi burlate, gli disse Candido: io sono un povero diavolo che abbandono
una miserabile abitazione che avevo nella Propontide, perchè ho sposato
Cunegonda, la quale è diventata molto brutta, e che m'annojavo; in coscienza
non son punto fatto per nobilitare la casa di alcuno: non son nobile per me
medesimo, grazie a Dio; e s'io avessi l'onore di esserlo, il barone di Thunder-ten-tronckh
m'avrebbe pagate ben care le pedate, con le quali ei mi gratificò; ovvero
ne sarei morto di vergogna. Ciò che sarebbe stato più filosofico;
d'altra parte, sono stato frustato ignominiosamente dai carnefici della santissima
Inquisizione, e da duemila eroi da tre soldi e sei danari al giorno. Datemi
ciò che vi piace, ma non insultate la mia miseria con degli scherni che
vi toglierebbero tutto il pregio de' vostri benefizj. - Signore, replicò
il persiano, voi potete essere un accattone, e questo apparisce ben chiaro,
ma la religione m'obbliga all'ospitalità; è bene che voi siate
uomo e disgraziato, perché la mia pupilla sia il sentiero de' vostri
passi, e vi dico: degnatevi di nobilitare la sua casa con la vostra presenza.
- Io farò quel che vorrete, rispose Candido. - Entrate dunque, disse
il persiano.
Entrarono, e Candido non lasciava d'ammirare le rispettose attenzioni che il
suo ospite aveva per lui. Le schiave prevenivano i di lui desiderj, e tutta
la casa non parea occupata che a stabilire la sua soddisfazione. - Se questo
dura, diceva Candido fra sé stesso, le cose non van tanto male in questo
paese. - Eran passati tre giorni durante i quali le buone grazie del persiano
non si eran punto smentite, e Candido già gridava: - Maestro Pangloss,
io ho sempre dubitato che aveste ragione: voi siete un gran filosofo.
CAPITOLO II
Come Candido uscì dalla casa del Persiano
Candido, ben pasciuto, ben vestito, e non annojato, divenne
ben presto così colorito, così fresco, così bello come
lo era in Wesfalia. Ismael Raab suo ospite vide quel cambiamento con piacere.
Questi era un uomo alto sei piedi, ornato di due occhietti estremamente rossi,
e di un grosso naso tutto bernoccoluto che mostrava assai chiaro ch'ei non stava
troppo attaccato alla legge di Maometto; le sue basette erano rinomate nella
provincia, e le madri non desideravano altro a' loro figli che le basette di
Raab. Raab aveva alcune mogli perché era ricco, ma pensava come si pensa
moltissimo in Oriente, e in alcuni collegi d'Europa. - Vostra eccellenza è
più bella delle stelle, disse un giorno il persiano a Candido, solleticandogli
leggermente il mento; voi avete dovuto cattivarvi ben de' cuori, siete propriamente
fatto per render felice e per esserlo. - Ah! rispose il nostro eroe, io non
fui felice che per metà, dietro un paravento, ove stavo non troppo ad
agio. Cunegonda era bella allora...
In quel tempo uno de' più saldi sostegni della milizia monacale di Persia,
il più dotto dei dottori maomettani, che sapeva l'arabo sulla punta delle
dita, ed anche il greco che si parla oggigiorno nella patria di Demostene e
di Sofocle, il reverendo Ed-Ivan-Baal-Denk tornava da Costantinopoli ov'egli
era andato a conversare col reverendo Mamud Abram sopra un punto di dottrina
ben delicato, cioè se il profeta avesse strappata dall'ale dell'angelo
Gabriele la penna di cui si servì per scrivere l'Alcorano, o se Gabriele
glien'avesse fatto un presente. Essi disputarono per tre giorni e tre notti
con un calore degno de' più be' secoli della controversia; e il dottore
se ne tornava persuaso, come tutt'i discepoli d'Alì, che Maometto avesse
strappata la penna, e Mamud Abram era restato convinto come il resto de' settatori
di Omar, che il profeta fosse incapace di quella inciviltà, e che l'angelo
gli avesse presentata la sua penna col miglior garbo del mondo.
L'arrivo di Candido avea fatto molto strepito in Tauride, e più persone
che l'aveano sentito discorrere degli effetti contingenti e non contingenti,
avevano sospettato ch'ei fosse filosofo. Se ne parlò al reverendo Ed-Ivan-Baal-Denk,
ed egli ebbe la curiosità di vederlo, e Raab che non potea ricusar nulla
a una persona di quella considerazione, fece venir Candido in sua presenza.
Parve soddisfattissimo della maniera con cui Candido parlò del mal fisico
e del mal morale, dell'agente e del paziente. - Io comprendo che voi siete un
filosofo, e tanto basta. Basta così, Candido, disse il venerabile cenobita:
non conviene ad un grand'uomo come voi l'essere trattato sì indegnamente
nel mondo, come ho udito. Voi siete forastiero: Ismael-Raab non ha niun diritto
sopra di voi: voglio condurvi alla corte, e vi riceverete un favorevole accoglimento.
Il sofì ama le scienze. Ismael, ponete nelle mie mani questo giovine
filosofo, o temete d'incorrere la disgrazia del principe, e di attirar su di
voi le vendette del cielo, e soprattutto de' frati.
Quest'ultime parole spaventarono l'intrepido persiano; egli acconsentì
a tutto, e Candido uscì lo stesso giorno di Tauride col dottor maomettano.
Presero la volta d'Ispahan, ove arrivarono carichi di benedizioni e di benefici
de' popoli.
CAPITOLO III
Candido Ricevuto alla Corte, e ciò che ne segue
Il reverendo Ed-Ivan-Baal-Denk non tardò a presentar
Candido al re. Sua maestà ebbe un piacere singolare nell'ascoltarlo.
Lo mise in lizza coi maggiori letterati della corte, e questi lo trattarono
da pazzo, da ignorante, da idiota, il che contribuì a persuadere sua
maestà ch'egli era un grand'uomo. - Perché, disse loro, voi non
comprendete niente de' ragionamenti di Candido, per questo lo insultate; nemmeno
io ne comprendo niente, ma vi assicuro ch'egli è un gran filosofo, e
lo giuro sulle mie basette.
Queste parole imposero silenzio ai letterati. Fu alloggiato Candido in palazzo,
gli si diedero delle schiave per servirlo, lo si rivestì d'un abito magnifico,
ed il sofì ordinò che per qualunque cosa ch'egli avesse potuto
dire, alcuno non ardisse di provare ch'egli avesse torto. Sua maestà
non si ristrinse a questo solo. Il venerabil monaco non cessava di sollecitarla
in favore del suo protetto, ed ella risolse alfine di metterlo numero de' suoi
più intimi favoriti.
- Dio sia lodato e il nostro santo Profeta, disse l'imano facendosi innanzi
a Candido: vengo a parteciparvi una nuova ben grata: oh quanto siete felice,
mio caro Candido! oh quanti gelosi siete per fare! Voi sguazzerete nell'opulenza:
voi potrete aspirare ai più bei posti dell'impero. Almeno non vi scordate
di me, caro amico: pensate che sono stato io che vi ho procurato il favore di
cui siete per godere: che il giubilo regni sull'orizzonte del vostro volto.
Il re vi accorda una grazia ben mendicata; e voi siete per dare uno spettacolo,
di cui la corte non ha goduto da due anni. - E quali sono i favori di cui il
principe m'onora? dimanda Candido. - Questo giorno medesimo, rispose il monaco
tutto contento, riceverete cinquanta nerbate sotto le piante de' piedi in presenza
di sua maestà. Gli eunuchi nominati per profumarvi già vengono;
preparatevi a sopportare gagliardamente questa piccola prova, e a rendervi degno
del re dei re. - Che il re dei re si tenga le sue bontà, gridò
Candido in collera, se bisogna ricevere cinquanta nerbate per meritarle. - Questo
è l'uso, riprese freddamente il dottore, con quelli su cui vuole versare
i suoi benefizi. Perché vi amo troppo non voglio far caso al piccolo
disgusto che dimostrate; voglio rendervi fortunato, vostro malgrado.
Non avea terminato ancor di parlare, che arrivarono gli eunuchi preceduti dall'esecutore
dei minuti piaceri di sua maestà, che era uno dei più grandi e
dei più robusti signori della corte. Candido ebbe un bel dire e un bel
fare; gli si profumarono le gambe e i piedi secondo l'uso; quattro eunuchi lo
portarono nel luogo destinato per la cerimonia, in mezzo a una doppia schiera
di soldati, allo strepito degli strumenti musicali, de' cannoni e delle campane
di tutte le moschee d'Ispahan. Il sofì già vi era, accompagnato
da' suoi principali uffiziali, e da' cortigiani più distinti. A un tratto
fu steso Candido sopra una panca tutta dorata, e l'esecutore dei minuti piaceri
di sua maestà cominciò la funzione. - O maestro Pangloss, se foste
qui... diceva Candido piangendo e gridando a più non posso; il che sarebbe
stato giudicato indecentissimo, se il frate non avesse dato a credere che il
suo protetto, non per altro faceva questo se non per meglio divertire sua maestà.
Infatti quel gran re rideva come un pazzo, e vi prese tanto piacere che oltre
ai cinquanta colpi dati, ne ordinò cinquanta altri; ma il suo primo ministro
avendogli esposto con una straordinaria fermezza, che quel favore inaudito verso
un forestiero poteva alienare i cuori dei sudditi, gli revocò quell'ordine
e Candido fu riportato nel suo appartamento.
Fu accompagnato al letto dopo che gli ebbero stropicciato i piedi con aceto.
I grandi vennero a turno a rallegrarsi con lui. Il sofì vi venne in seguito,
e non solamente gli diede la sua mano da baciare secondo l'uso, ma anche un
gran pugno ne' denti. I politici ne congetturarono che Candido farebbe una fortuna
quasi senza esempio; e quel ch'è raro, non s'ingannarono, benchè
politici.
CAPITOLO IV
Nuovi favori che riceve Candido, e sua elevazione
Dopo che il nostro eroe fu guarito, venne introdotto dal re
per fargli i suoi ringraziamenti. Quel monarca lo ricevè nel miglior
modo; gli diede due o tre schiaffi nel corso della conversazione, e lo ricondusse
fino alla sala delle guardie a pedate nel sedere. I cortigiani ebbero a creparne
di dispetto. Da che sua maestà si era data a percuotere la gente, di
cui ella faceva un caso particolare, non vi era ancora chi avesse avuto l'onore
di aver avuto più busse di Candido.
Tre giorni dopo questo congresso, il nostro filosofo, che si lamentava di esser
così favorito e trovava che le cose andavano molto male, fu nominato
governatore del Chusistan, con un potere assoluto; fu decorato d'un berretto
foderato, ch'è un gran segno di distinzione in Persia; ei prese congedo
dal sofì, che gli fece ancora altre carezze, e partì per Sus capitale
della sua provincia. Dal momento che Candido era comparso alla corte, i grandi
dell'impero avean tramata la sua perdita. I favori eccessivi di cui il sofì
l'avea colmato, non avean fatto che ingrossar la tempesta, pronta a piombargli
sul capo. Intanto egli si felicitava della sua fortuna, e soprattutto del suo
allontanamento: gustava anticipatamente i piaceri del grado supremo, e dicea
nel fondo del suo cuore: Troppo felici i sudditi lontani dal lor sovrano!
Non era ancora venti miglia distante da Ispahan, che ecco cinquecento persone
a cavallo armate da capo a piedi, che fanno una scarica furiosa sopra di lui,
e sopra la sua gente. Candido sul subito credette per un momento che quello
fosse per fargli onore; ma una palla che gli fracassò una gamba, lo fece
accorgere di che si trattava. La sua scorta depose le armi, e Candido più
morto che vivo fu portato in un castello isolato. Il suo bagaglio, i suoi cammelli,
le sue schiave, i suoi eunuchi bianchi, i suoi eunuchi neri, e trentasei femmine
che il sofì gli avea date, tutto fu preda del vincitore. Si tagliò
la gamba al nostro eroe per paura di cancrena, e s'ebbe cura de' suoi giorni
per dargli una morte più crudele.
- O Pangloss! Pangloss! che sarebbe del vostro ottimismo se voi mi vedeste con
una gamba di meno fra le mani de' miei più crudeli nemici, mentre che
io entrava nella carriera della fortuna, che io era governatore, o re, per così
dire, d'una delle più considerevoli provincie dell'antica Media, che
avevo de' cammelli, delle schiave, degli eunuchi bianchi, degli eunuchi neri,
e trentasei femmine!
Così parlava Candido appena che potè parlare.
Mentr'egli si lamentava, le cose andavano per lui nella miglior maniera del
mondo. Il ministero, informato della violenza che gli era stata usata, aveva
spedito una truppa di soldati agguerriti in traccia de' sediziosi; ed il frate
Ed-Ivan-Baal-Denk avea fatto pubblicare da altri frati che Candido, essendo
opera loro, era per conseguenza l'opera di Dio. Quelli che aveano cognizione
di quell'attentato lo rivelarono con tanta maggior premura, inquantochè
i ministri della religione assicurarono da parte di Maometto, che qualunque
uomo che avesse mangiato del porco, bevuto del vino, passato più giorni
senza andare al bagno, contro le espresse proibizioni dell'Alcorano, sarebbe
assoluto ipso facto, dichiarando quel che sapesse della cospirazione. Non si
tardò a discoprire la prigione di Candido; essa fu aperta a forza, e
siccome si trattava di religione, i vinti furono sterminati secondo la regola.
Candido, camminando sopra un mucchio di morti, scappò trionfante del
maggior periglio ch'egli avesse ancor corso, e riprese col suo seguito il cammino
pel suo governo. Ei vi fu ricevuto come un favorito che era stato onorato di
cinquanta nerbate sotto la pianta de' piedi in presenza del re dei re.
CAPITOLO V
Come Candido è un gran signore, e non è contento.
Il buono della filosofia è di farci amare i nostri simili.
Pascal è quasi il solo de' filosofi che par che voglia farceli odiare.
Per fortuna Candido non avea mai letto Pascal, ed egli amava con tutto il cuore
la povera umanità. Le genti da bene se n'accorgevano: esse eran sempre
state lontane dai missi dominici della Persia, ma non fecero difficoltà
di riunirsi a Candido, ed ajutarlo coi lor consigli. Ei formò alcuni
saggi regolamenti per incoraggire l'agricoltura, la popolazione, il commercio.
E l'arti: ricompensò quelli che avean fatto delle esperienze utili: incoraggì
quelli che non avean fatto che de' libri. - Quando ognuno sarà generalmente
contento nella mia provincia, lo sarò forse anch'io, diceva egli con
una ingenuità singolare. Candido non conosceva la specie umana; egli
si vide lacerato ne' libelli sediziosi, e calunniato in un'opera che avea per
titolo L'amico degli uomini. Ei trovò che lavorando a fare dei fortunati,
non avea fatto altro che del'ingrati. - Ah quanta fatica si dura, gridò
Candido, a governar alcuni esseri senza penne che vegetano sulla terra! E perché
non son io ancora nella Propontide, in compagnia di maestro Pangloss, di Cunegonda,
e della figlia di papa Urbano X?
Candido, nell'amarezza del suo dolore, scrisse una lettera pateticissima al
reverendo Ed-Ivan-Baal-Denk, e gli dipinse sì vivamente lo stato attuale
dell'anima sua, ch'ei ne fu sensibile a segno di fare aggradire al sofì
che Candido si dimettesse dai suoi impieghi. Sua maestà per ricompensa
de' sui servizj gli accordò una pensione considerevolissima. Alleggerito
del peso della grandezza, il nostro filosofo cercò immediatamente ne'
piaceri della vita privata l'ottimismo di Pangloss. Egli aveva vissuto fin allora
per gli altri, e pareva essersi scordato che aveva un serraglio. Se ne risovvenne
con quella sensibilità che ispira quel solo nome. - Tutto si prepari,
diss'egli al suo primo eunuco, per il mio ingresso dalle donne. - Signore, rispose
l'uomo con voce chiara: ora vostra eccellenza merita il soprannome di saggio.
Gli uomini per cui avete fatto tanto non eran degno d'occuparvi, ma le donne...
-
Può essere, disse modestamente Candido.
CAPITOLO VI
Disgusto di Candido. Incontro ch'ei non s'aspettava.
Il nostro filosofo in mezzo al suo serraglio ripartiva i suoi
favori con uguaglianza; ma non durò troppo, perch'ei sentì immediatamente
de' mali di reni violenti, delle coliche ardenti, e diventava uno scheletro,
divenendo felice. Allora osservò calmamente nelle donne de' difetti che
gli erano sfuggiti ne' primi trasporti della sua passione; non vide in loro
che un vergognoso passatempo: ebbe rammarico di aver camminato nel sentiero
del più saggio degli uomini, et invenit amariorem morte mulierem.
Con questi sentimenti cristiani Candido passava la sua oziosa tranquillità,
passeggiando per le strade di Sus. Ecco che un cavaliere superbamente vestito
gli salta al collo chiamandolo per nome. - Sarebbe possibile! grida Candido.
Signore, sareste voi... No, non è possibile; ma pure, v'assomigliate
tanto... signor abate perigordino. - Son io, risponde l'abate di Perigord.
Candido allora fa tre passi indietro, e dice in tono commovente - Come siete
felice, signor abate? - Bella domanda, risponde il perigordino: la piccola soperchieria
che io vi feci non ha poco contribuito a mettermi in credito. La politica m'ha
tenuto impiegato per qualche tempo, ed essendomi disgustato con essa, ho lasciato
l'abito ecclesiastico che non m'era più buono a niente. Son passato in
Inghilterra, dove le genti del mio mestiere son meglio pagate. Ho detto tutto
ciò che io non sapevo del forte e del debole del paese che avevo abbandonato.
Ho assicurato, soprattutto, che il francese è la feccia de' popoli, e
che il buon senso non risiede che a Londra; finalmente ho fatto un'illustre
fortuna, e vengo a concludere un trattato alla corte di Persia, consistente
in fare sterminare tutti gli europei, che vengono a cercare il cotone e la seta
negli stati del sofì, con pregiudizio degli Inglesi. - L'oggetto della
vostra commissione è lodabilissimo, dice il nostro filosofo, ma signor
abate, voi siete un furfante; io non stimo punto i furfanti ed ho qualche credito
alla corte: tremate, chè la vostra fortuna è giunta al suo termine:
troverete la sorte che meritate. - Illustrissimo signor Candido, grida l'abate
perigordino, gettandosegli ai piedi, abbiate pietà di me; io mi sono
spinto al male con una forza irresistibile, come voi vi sentite portato alla
virtù; presi quell'inclinazione fatale dall'istante che feci conoscenza
col signor Valsp, e che lavorai ai foglietti. - Cosa sono questi foglietti?
dicea Candido. - Sono, risponde il Perigordino, certi quinterni di settantadue
pagine di stampa, ne' quali si diverte il pubblico sul tuono della calunnia,
della satira e della materialità. Un galantuomo che sa leggere e scrivere,
non avendo potuto esser gesuita, come ha cercato per lungo tempo, si è
messo a comporre quella bella operetta, per aver di che comperare de' merletti
a sua moglie, e allevare i suoi figli nel timor di Dio; e alcuni galantuomini
per alcuni soldi, e alcuni boccali di vino di Brie, ajutano quel galantuomo
a sostenere la sua impresa. Questo signor Valsp è di una combriccola
deliziosissima, dove si divertono a far rinnegare Dio alla gente, quando ha
alzato un po' il gomito, ovvero andare a mangiare alle spalle d'un povero diavolo,
a fracassargli tutt'i mobili e a sfidarlo a duello da solo a solo; gentilezze
che questi signori chiamano mistificazioni, e che meritano l'attenzione della
politica. Finalmente, questo gran galantuomo del signor Vasp, che dice di non
essere stato in galera, è immerso in un letargo che lo rende insensibile
alle verità più austere; né si può distrarnelo che
con certi mezzi violenti, ch'ei sopporta con una rassegnazione e un coraggio
superiore ad ogni lode. Io ho lavorato qualche tempo sotto questa celebre penna,
e a poco a poco sono divenuto una penna celebre anch'io. Avevo appena abbandonato
il signor Valsp, per industriarmi da me solo, quando ebbi l'onore di farvi una
visita a Parigi. - Vi siete un bel birbante, signor abate, ma la vostra sincerità
mi commuove. Andate alla corte, e cercate del reverendo Ed-Ivan-Baal-Denk; io
gli scriverò in vostro favore, a condizione però che mi promettiate
di diventare galantuomo, e di non fare strangolare migliaja d'uomini per un
po' di seta e di cotone.
Il Perigordino promise tutto quel che volle Candido, ed ambedue si separarono
da buoni amici.
CAPITOLO VII
Disgrazie di Candido. Viaggi e avventure.
Il Perigordino appena arrivato alla corte impiegò tutta
la sua disinvoltura per guadagnare il ministro, e per rovinare il suo benefattore.
Egli sparse la voce che Candido era un traditore, e che avea sparlato delle
sacre basette del re de' re. Tutt'i cortigiani lo condannarono ad esser abbruciato
a fuoco lento, ma il sofì più indulgente, non lo condannò
che ad un esilio perpetuo, ed a baciare prima le piante de' piedi al suo accusatore,
secondo l'uso de persiani. Il Perigordino partì per far eseguire questa
sentenza; egli trovò il nostro filosofo in buonissima salute e disposto
a ridiventar fortunato.
- Amico, gli disse l'ambasciator d'Inghilterra, io vengo con mio rincrescimento
a farvi sapere che bisogna uscir quanto prima.da questo impero, e baciarmi i
piedi, con vero pentimento de' vostri enormi delitti... - Baciarvi i piedi,
signor abate! Che diamine dite voi? Io non raccapezzo nulla di questa celia
Entrarono allora alcuni muti che aveano seguito il Perigordino, e lo scalzarono.
Fu fatto intendere a Candido che bisognava accomodarsi a quella umiliazione,
o aspettarsi d'essere impalato. Candido, in virtù del suo libero arbitrio,
baciò i piedi all'abate. Fu rivestito d'uno straccio di tela, e il boja
lo scacciò dalla città gridando: - Egli è traditore: ha
sparlato delle basette del sofì: ha sparlato delle basette imperiali.
Che facea l'oficcioso cenobita mentre si trattava così il suo protetto?
Non lo so. È ben da credere ch'ei si fosse stancato di protegger Candido.
Chí può contare sul favore dei re, e sopratutto dei frati?
Intanto il nostro eroe camminava pieno di tristezza. - Io, diceva egli, non
ho parlato giammai delle basette del re di Persia. Io cado in un momento dal
colmo della felicità, in un abisso di disgrazie, perchè un miserabile
che ha violato tutte le leggi, m'accusa d'un preteso delitto, che io non ho
mai commesso, e questo birbante, questo mostro persecutore della virtù...
è felice.
Candido dopo qualche giorno di cammino si trovò sulle frontiere della
Turchia. Ei diresse i suoi passi verso la Propontide, col disegno di stabilirvisi,
e di passare il resto de' suoi giorni a coltivare il suo giardino. Vide, passando
di un piccolo villaggio, una quantità di gente affollata tumultuariamente.
Egli s'informo della causa e dell'effetto. - Questo è un accidente ben
particolare, gli disse il vecchio. È qualche tempo che il ricco Mehemet
chiese in isposa la figlia del giannizzero Tamud; essa non era fanciulla, e
secondo un principio ben naturale lo sposo, autorizzato dalle leggi, la rimandò
a suo padre dopo d'averla sfregiata. Tamud, oltraggiato da un tale affronto,
ne' primi trasporti d'un furore ben naturale, con un colpo di scimitarra svelse
dal busto della figlia quel volto disfigurato. Il suo figlio primogenito, saltò
addosso al padre, e inviperito di rabbia gl'immerse naturalmente un acutissimo
pugnale nel petto; dipoi come un leone che s' infuria a vedersi grondar dl sangue,
l' arrabbiato Tamud corse da Mehemet, rovesciò alcuni schiavi che s'opposero
a' suoi passi, e trucidò a pezzi Mehemet, le sue donne e due figli, il
che è ben naturale nella situazione violenta in cui egli flnalmente si
trovava. Egli poi finì per darsi la morte collo stesso pugnale fumante
del sangue di suo padre, e de' suoi nemici, il che pure è ben naturale.
- Oh quali orrori! grida Candido. Che direste voi, maestro Pangloss, se trovaste
tali barbarie nella natura? Non confessereste voi che la natura è corrotta,
che tutto non è... - No, disse il vecchio, perchè l'armonia prestabilita...
- Oh cielo! non m'ingannate? È Pangloss quel ch'io rivedo? dice Candido.
- Son io, rispose il vecchio: vi ho riconosciuto, ma ho voluto penetrare nei
vostri sentimenti prima di scoprirmi; qua: discorriamo un poco sugli effetti
contingenti, e vediamo se avete fatto de' progressi nell'arte della sapienza...
- Ah, dice Candido voi scegliete ben male il vostro tempo; fatemi piuttosto
sapere quel ch'è avvenuto di Cunegonda e dov'è la figlia dl papa
Urbano. - Non ne so niente, risponde Pangloss; son due anni che ho abbandonato
la nostra abitazione, per venirvi a cercare. Ho scorso quasi tutta la Turchia:
mi son portato alla corte di Persia, ove avevo saputo che stavate in barba di
micio, e non ho abitato in questo borghetto fra questa buona gente, senonchè
per riposarmi, affine di continuare il mio viaggio. - Che vedo mai? dice Candido
molto stupito, vi manca un braccio, caro dottore. - Non è niente, disse
il dottor guercio e monco; nulla di sì ordinario nel miglior de mondi,
che il veder delle genti le quali non hanno che un occhio e un braccio solo.
Quest'accidente mi è accaduto in un viaggio alla Mecca. La nostra carovana
fu attaccata da una truppa d'Arabi; la scorta volle far resistenza, e secondo
i diritti della guerra gli Arabi che si trovarono più forti; ci trucidarono
tutti spietatamente. Perirono circa cinquecento persone in questa mischia, fra
le quali vi era una dozzina di donne incinte; per me, io non ebbi che il cranio
offeso e un braccio tagliato; non ne morii, ed ho sempre trovato che tutto andava
ottimamente. Ma voi, mio caro Candido, come va che avete una gamba di legno?
Allora Candido cominciò a parlare, e raccontò le sue avventure.
I nostri filosofi ritornarono insieme nella Propontide, e fecero piacevolmente
il loro cammino, discorrendo del mal fisico, del mal morale, della libertà
e della predestinazione, delle monadi e dell'armonia prestabilita
CAPITOLO VIII
Arrivo di Candido e di Pangloss alla Propontide; ciò che videro e ciò
che avvenne.
- O Candido, dicea Pangloss, perchè avete lasciato di
coltivare il vostro giardino? Non mangiavamo noi de' cedrati canditi, e de'
pistacchi? Perchè vi siete annojato della vostra felicità? Perchè
tutto è necessario nel migliore de' mondi; bisognava che voi soffriste
le nerbate in presenza del re di Persia, che aveste la gamba tagliata, per rendere
felice il Chusistan, per provare l'ingratitudine degli uomini, e per attirar
sul capo di qualche scellerato i castighi che aveva meritati.
Così discorrendo arrivarono al loro antico soggiorno. Il primo oggetto
che si offrì a' loro occhi fu Martino in abito da schiavo. - Qual metamorfosi
è questa? disse Candido, dopo di averlo teneramente abbracciato. - Ah,
rispose singhiozzando, voi non avete più casa; un altro si è incaricato
di far coltivare il vostro giardino; ei mangia i vostri cedri canditi, i vostri
pistacchi, e mi tratta da negro. - Chi è quest'altro? domandò
Candido. - Egli è, disse Martino, il general di marina, l'uomo il meno
umano di tutti gli uomini. Il sultano volendo ricompensare i di lui servigi
senza che gliene costasse cosa alcuna, ha confiscato tutti i vostri beni, sotto
pretesto che voi siete passato fra i suoi nemici e ci ha condannati alla schiavitù.
Fate a mio modo, Candido, soggiunse, continuate il vostro viaggio: io ve l'ho
sempre detto, tutto è per il peggio, la somma de' mali eccede troppo
la somma de' beni: partite, e non dispero che diventiate manicheo, seppur già
non lo siete.
Pangloss voleva cominciare un argomento in forma, ma Candido l'interruppe per
dimandargli nuove di Cunegonda, della vecchia e di Cacambo. - Cacambo, rispose
Martino, è qui; egli è occupato attualmente a ripulire una fogna,
la vecchia è morta di una pedata che un eunuco le diè nel petto;
Cunegonda è ingrassata e ha ripreso la sua primiera bellezza: ella è
nel serraglio del nostro padrone. - Qual concatenamento di sventure! dice Candido,
bisognava che Cunegonda tornasse bella per farmi becco! - Importa poco, dice
Pangloss, che Cunegonda sia bella o brutta, e ch'ella sia vostra o di un altro;
questo non ha che fare col sistema generale; per me, io le desidero una numerosa
posterità. I filosofi non s'imbarazzano di ciò. La popolazione...
- Ah, dice Martino i filosofi dovrebbero piuttosto occuparsi a render felice
qualche individuo, invece d'impegnarlo a moltiplicare la specie de' sofferenti
Mentre discorrevano si sente un gran fracasso: era il general del mare che si
divertiva a far bastonare una dozzina di schiavi. Pangloss e Candido spaventati
si separarono colle lagrime agli occhi dal loro amico, e presero in fretta il
cammino di Costantinopoli.
Essi vi trovarono tutta la gente in moto; erasi appiccato il fuoco nel sobborgo
di Pera, e già cinque o seicento case erano incenerite, ed erano perite
fra le fiamme due o tremila persone. Qual orribil disastro! grida Candido. -
Tutto è bene, dice Pangloss; questi piccoli accidenti accadono tutti
gli anni, ed è ben naturale che s'appicchi il fuoco alle case di legno,
e che quelli che vi si trovano restino abbruciati; del resto, questo procura
lavoro a molti galantuomini che languiscono nella miseria. - Che sento? dice
un uffiziale dell'eccelsa Porta. Disgraziato, e puoi tu dire che tutto è
bene, quando la metà di Costantinopoli è in fuoco e in fiamma?
Va, cane maledetto dal Profeta, va a ricevere il castigo della tua audacia.
Dicendo queste parole, prese Pangloss per la vita, e lo precipitò nelle
flamme. Candido, mezzo morto, si strascinò come potè in un quartier
vicino, ove le cose eran più tranquille; e noi vedremo ciò che
accadde nel capitolo seguente.
CAPITOLO IX
Candido continua a viaggiare, ed in qual qualità.
- Io non ho altro partito da prendere, diceva il nostro filosofo,
che quello di farmi schiavo o turco; la fortuna mi ha abbandonato per sempre.
Un turbante corromperebbe tutt'i miei piaceri: io mi sento incapace di provare
la tranquillita dell'anima in una religione piena di imposture, e nella quale
non sarei entrato che per un vile interesse. No, non sarei mai contento se io
cessassi d'esser galantuomo. Facciamoci dunque schiavo.
Presa questa risoluzione, si mise Candido in dovere di eseguirla. Egli scelse
un mercante armeno per padrone. Era questi un uomo di buonissimo carattere,
e che passava per virtuoso quanto può esserlo un armeno. Egli diede dugento
zecchini a Candido per prezzo della sua libertà. L'armeno era sul punto
di partire per la Norvegia, e con sè condusse Candido, sperando che un
filosofo gli sarebbe utile nel suo commercio. S'imbarcarono, ed il vento fu
loro sì favorevole, che non impiegarono la metà del tempo che
si mette ordinariamente per fare un simil tratto; non ebbero neppur bisogno
di comprare del vento dai maghi della Lapponia, e si contentarono di dar loro
de' rinfreschi, purchè non fosse loro turbata la buona fortuna con gli
incantesimi, come accade qualche volta, se si deve credere al Dizionario di
Moreri.
Sbarcato che fu, l'armeno fece la sua provvisione di grasso di balena, e incaricò
il nostro fllosofo di andar per il paese a comprargli del pesce secco. Egli
adempì alla sua commissione al meglio che gli fu possibile; se ne tornava
con molte ceste cariche di quella mercanzia, e rifletteva profondamente sulla
differenza maravigliosa che passa fra i Lapponi, e gli altri uomini, quando
una piccola lappona, che aveva il capo un po' piu grosso del corpo, gli occhi
rossi e pieni di fuoco, il naso largo, e la bocca della maggior grandezza posslbile,
gli diede il buon giorno con mille smorfie. - Mio signorino, gli disse quell'essere
alto un piede e dieci dita, io vi trovo vezzoso, fatemi la grazia d'amarmi un
poco.
Così dicendo la lappona gli salta al collo; Candido la respinge con orrore;
ella grida, e viene suo marito accompagnato da più lapponi. - Cos'è
questo baccano? dissero eglino. - Egli è, disse il piccolo essere, che
questo forastiero.... ah, mi soffoca il dolore nel dirlo! egli mi disprezza.
- Che sento? disse il marito lappone: incivile, disonesto, brutale, infame,
furfante, tu copri d'obbrobrio la mia casa: tu mi fai l'ingiuria più
grave; tu ricusi di dormir, com'è l'usanza del paese, con mia moglie!
- Eccone un'altra! dice il nostro eroe; che avreste voi dunque detto se io avessi
dormito con lei? - Io ti avrei desiderato ogni sorta di prosperità, risponde
il lappone in collera, ma tu non meriti che la mia indignazione. Così
dicendo scaricò sul dorso di Candido un fracco di bastonate. Le ceste
furono sequestrate dai parenti della sposa offesa, e Candido, temendo di peggio,
si vide costretto a fuggirsene, e rinunziare per sempre al suo buon padrone,
perchè come poteva ardire di presentarsi a lui senza danaro, senza grasso
di balena e senza ceste?
CAPITOLO X
Candido continua i suoi viaggi. Nuove avventure
Camminò Candido lungo tempo senza saper dove dirigersi;
prese finalmente la risoluzione di portarsi in Danimarca; dove avea inteso dire
che le cose andavano molto bene. Si trovava ancora qualche po' di denaro regalatogli
dall'armeno, e con questo modesto peculio lusingavasi di finire il viaggio.
La speranza gli rese sopportabile la miseria, ed egli passò qualche momento
tranquillo. Capitò un giorno in un'osteria con tre viaggiatori; che gli
parlavano con calore del pieno e della materia sottile. - Benissimo, dicea fra
sè Candido; questi son filosofi. - Signori, diss'egli loro, il pieno
è incontrastabile: non v'è vuoto nella natura, e la materia sottile
è benissimo immaginata. - Voi siete dunque cartesiano, dicono i viaggiatori.
- Senza dubbio, risponde Candido, e, quel ch'è più, seguace di
Leibnitz. - Tanto peggio per voi, soggiungono i viaggiatori; Cartesio o Leibnitz
non avevano senso comune. Noi altri siamo neuttoniani, e ce ne gloriamo, e se
si disputa, è solamente per affondarci ne' nostri sentimenti, e siamo
tutti d'un istesso parere. Cerchiamo la verità sulle tracce di Newton,
perchè siamo persuasi che Newton è un grand'uomo. - Anco Cartesio,
anco Leibnitz, anco Pangloss, disse Candido, son grandi uomini, che non cedono
a un altro. - Voi siete un bell'impertinente, amico caro, replicarono i filosofi;
conoscete voi tutte le leggi della refrangibilità dell' attrazione? del
moto? Avete voi letto le verità che il dottor Clark dà in risposta
a' sogni del vostro Leibnitz? Sapete voi che cosa sia la forza centrifuga, e
la forza centripeta? Sapete voi che i colori dipendono dalle grossezze? Avete
voi qualche idea della luce e della gravitazione? Conoscete voi il periodo di
venticinquemila novecentoventi anni, che per disgrazia non s'accorda colla cronologia?
No, senza dubbio. Voi non avete delle cose che un'idea falsa. Chetatevi dunque,
monade miserabile, e guardatevi d'insultare i giganti con paragonarli a pigmei.
- Signori, rispose Candido, se Pangloss fosse qui vi direbbe di gran belle cose,
giacchè egli è un gran filosofo. Egli ha un sommo disprezzo pel
vostro Newton e come suo discepolo, non ne ho nemmen io troppo caso.
I filosofi, inveleniti di rabbia, se gli gettarono addosso, e il povero Candido
fu battuto veramente alla filosofica.
La loro collera s'ammansì, chiesero perdono a Candido di quella vivacità,
e quindi un di loro prese a parlare, e fece un bellissimo discorso sulla dolcezza
e la moderazione.
Nel mentre che stavan parlando, ecco si vede passare un magnifico funerale,
che diede occasione a' nostri filosofi di ragionare sulla ridicola vanità
de' mortali. - Non sarebb'egli più ragionevole, disse un di loro, che
i parenti e gli amici del morto portassero da sè la bara funebre, senza
pompa e senza susurro? Questa trista incombenza con rappresentar loro l'idea
della morte, non produrrebb'ella in loro il più salutare effetto, e il
più filosofico? Questa riflessione che verrebbe da sé: Il corpo
che io porto è quello del mio amico, è quello del mio parente.
Egli ha finito d'essere, e così devo far io nè più nè
meno, non sarebb'ella capace di risparmiar molti delitti a questo globo sciagurato,
e di ricondurre sulla buona strada quegli esseri che credono nell'immortalità
dell'anima? Purtroppo gli uomini son portati a sbandir da sè; il pensiero
della morte, perchè sia a temersi di presentarne loro delle immagini
troppo vive. Perchè allontanare da questo spettacolo una madre e una
sposa piangente? Le voci lamentevoli della natura, lo acute strida della disperazione,
onorerebbero molto più le ceneri di un defunto, che tutti questi individui
abbrunati da capo a' piedi, questa ciurma di ministri, che salmeggiano allegramente
delle preci che non intendono.
- Benissimo detto! rispose Candido. Se voi parlaste sempre così, senza
che vi venisse il ticchio di picchiar la gente, voi sareste un gran filosofo.
I nostri viaggiatori si separarono profondendosi in attestazioni dl confidenza
e d'amicizia. Candido, pigliando la strada di Danimarca, entrò dentro
a un bosco, e rimuginando fra sè tutte le sciagure occorsegli nel miglior
de' mondi possibili, escì di strada e si smarrì. Il giorno cominciava
a calare quando s'accorse dello sbaglio: si perdè di coraggio, ed alzando
tristamente gli occhi al cielo appoggiato ad un tronco d'albero il nostro eroe
parlò in questi termini: - Io ho scorso mezzo mondo; ho veduto trionfar
la calunnia e la frode; non ho cercato che di far bene al prossimo, e ne sono
stato perseguitato: un gran re mi onora del suo favore, e mi fa dare cinquanta
nerbate solenni; arrivo con una gamba di legno in una bellissima provincia,
a vi gusto i piaceri, dopo essermi abbeverato di fiele e d'amarezza; arriva
un abate, io me ne fo il protettore; egli s'insinua alla corte, ed eccomi costretto
a baciargli i piedi... Incontro il mio povero Pangloss, ma solo per vederlo
bruciare... Mi trovo con de' filosofi, la più dolce e più sociabile
specie animale dell'universo, e mi picchiano senza misericordia. Bisogna che
tutto vada bene, giacchè Pangloss l'ha detto, ma non per questo non son
io il più sciagurato di tutti gli esseri possibili.
Interruppe Candido il suo parlare per porgere l'orecchio a delle altissime strida
che sembravano escir da un luogo vicino. S'avanza per curiosità e se
gli presenta allo sguardo una giovine che si strappava i capelli con tutti i
segni della più fiera disperazione. - Chiunque voi siete, gli diss'ella,
se avete cuore in petto, seguitemi! S'accompagnano, e avean fatto appena pochi
passi che Candido vede stesi sull'erba un uomo e una donna. Dalla loro fisonomia
traspariva la nobiltà del loro animo e della lor nascita, e le loro sembianze,
benchè contraffatte dal dolore che provavano, avevano tanta nobiltà,
che Candido non potè fare a meno di compiangerli e di cercar con una
viva premura la cagione che avevali ridotti in sì compassionevole stato.
- Questi che voi vedete son mio padre e mia madre, gli disse la giovinetta,
sì; gli autori son questi degl'infelici miei giorni (continuò
ella gettandosi precipitosamente fra le loro braccia). Fuggivano per evitare
il rigore di una ingiusta sentenza; io compagna della lor fuga, ero abbastanza
contenta di divider con essi le loro sciagure, e di pensare che fra' deserti,
ove andavano ad albergare, queste mie deboli mani avrebbero potuto procurar
loro il necessario alimento. Ci siamo fermati qui per pigliare un poco di riposo;
ho scoperto l'albero che vedete, e il suo frutto mi ha tradita. Oh Dio, signore,
io sono una creatura in odio all'universo e a me stessa. S'armi il vostro braccio
per vendicar la virtù offesa, per punire un parricidio. Ferite! Questo
frutto... Io ne ho presentato a mio padre e a mia madre, essi ne han mangiato
con piacere, ed io mi applaudivo d'aver trovata la maniera di smorzar loro la
sete che tormentavali; me infelice! La morte avevo lor presentata: questo è
veleno!
Raccapricciò Candido a questo racconto, se gli rizzarono i capelli sul
capo, e un sudor freddo gli scorse per tutto il corpo. S'ingegnò, per
quanto permettevangli le circostanze, di dare ajuto a quella sfortunata famiglia
; ma il veleno aveva già fatto troppo progresso, e i più efficaci
rimedj non avrebber potuto arrestarne il funestissimo effetto
- Cara figlia, unica nostra speranza, esclamarono i due infelici, perdona te
stessa, come noi ti perdoniamo. Un eccesso in te di tenerezza è quel
che ci toglie la vita... Generoso straniero, degnatevi aver cura de' suoi giorni,
ella ha il cuor nobile e formato alla virtù; questo è un deposito,
che lasciamo alla vostra mano, infinitamente per noi più prezioso, che
tutta la nostra passata fortuna... Cara Zenoide, ricevi i nostri ultimi baci;
mescola le tue colle nostre lacrime. Oh cielo che deliziosi momenti son mai
questi per noi! Tu ci hai aperta la porta della prigion tenebrosa in cui da
quarant'anni languivamo. Tenera Zenoide, noi ti benediciamo. Ah non possa tu
mai scordarti di quelle lezioni che ti ha dettate la nostra prudenza, e possan
queste preservarti da quell'abisso che vediamo aprirtisi sotto i piedi!
Spirarono nel pronunziar queste ultime voci. Candido durò gran fatica
a far ritornare in sè Zenoide. La luna avea illuminato la lacrimevole
scena, e compariva già il giorno senza che Zenoide, immersa in una cupa
afflizione, avesse ancor ripreso l'uso de' sensi. Appena ebb'ella aperto gli
occhi, prega Candido di fare in terra una fossa per riporvi i cadaveri, e vi
lavorò anch'ella con un maraviglioso coraggio. Compito questo dovere,
lasciò libero il corso al piantò. Il nostro filosofo la trascinò
lontano da quel luogo fatale, e camminarono un pezzo senza tenere una strada
fissa, finchè scopersero una capannaccia.
Due persone sul declive degli anni abitavano quel deserto; esse s'ingegnarono
d'apprestar tutta l'aita, che la lor povertà offrir poteva, allo stato
lacrimevole de lor prossimi. Questi due vecchi eran quali ci vengon dipinti
Bauci e Filemone; da cinquant'anni gustavano le dolcezze dell'imeneo, senz'averne
assaporato mai le amarezze; una sanità robusta, frutto della temperanza
e della tranquillità dello spirito, semplici e dolci costumi, un fondo
inesausto di schiettezza nel lor carattere; tutte le virtù che l'uomo
non riconosce, che da sè stesso, formavano l'appannaggio accordato loro
dal cielo. Erano essi la venerazione di tutti í vicini villaggi i cui
abitanti immersi in una rusticità felice, avrebbero potuto passar per
gente da bene, se fossero stati cattolici. Si facevano essi un dovere di non
lasciar mancar nulla ad Agatone e Suname (tale era il nome de' due vecchi sposi)
e la loro carità si stendeva a nuovi ospiti.- Oh mio caro Pangloss, diceva
Candido, che peccato che voi siate stato bruciato! Avevate ben ragione; ma non
è in alcuna parte dell'Europa o dell'Asia che tutte le cose van bene;
è solo nell'Eldorado, dove non è possibile d'andare, e in una
capannuccia situata nel luogo più freddo, più arido, più
spaventevole della terra. Quanto piacere avrei a sentirvi qui ragionare dell'armonia
prestabilita e delle monadi! Oh quanto volentieri passerei io i miei giorni
fra questi luterani dabbene, sennonchè mi converrebbe rinunziare al privilegio
d'andare alla messa, e riserbarmi ad esser lacerato nel Giornale cristiano.
Candido aveva un gran desiderio di saper le avventure di Zenoide; ma non le
richiedeva per discretezza, ed ella che se ne accorse soddisfece alla di lui
impazienza, parlando in tal guisa.
CAPITOLO XI
Istoria di Zenoide. Come qualmente Candido se ne innamorò e quel che
ne seguì.
«Io nasco da una delle più antiche case della
Danimarca. Uno de' miei antenati perì in quel convito in cui il perfido
Cristierno apprestò la morte a tanti senatori. Le ricchezze e le dignità
accumulate nella mia famiglia non han prodotto finora che illustri sventurati.
Mio padre osò dispiacere a un uomo potente, dicendogli la verità;
gli si suscitarono contro degli accusatori che lo infamarono di mille immaginari
delitti; i giudici furono ingannati. Ah quali giudici posson mai evitare le
trappole, che la calunnia tende all'innocenza? Mio padre fu condannato ad esser
decapitato sopra un patibolo. La fuga sola potendolo liberar dal supplizio,
si rifugiò da un amico, che credeva degno di sì bel nome. Stemmo
qualche tempo nascosti in un castello ch'ei possiede sulla, riva del mare, e
vi saremmo ancora, se il crudele, abusando dello stato deplorabile in cui eravamo,
non avesse voluto vendere i suoi servigi a un prezzo che ce li fece detestare.
Aveva l'infame concepita una sregolata passione per mia madre e per me; tentò
la nostra virtù coi mezzi più indegni d'un galantuomo, e noi ci
vedemmo costretti ad esporci ai più spaventevoli pericoli, per evitar
gli effetti della sua brutalità. Prendemmo la fuga una seconda volta,
e voi sapete il resto.»
Nel finir questo racconto Zenoide pianse nuovamente. Candido asciugò
le sue lacrime, e disse per consolarla - Tutto è per lo meglio, signorina;
poiché se il vostro signor padre non moriva avvelenato, ei sarebbe stato
infallibilmente scoperto; e gli avrebbero tagliata la testa: la vostra signora
madre ne sarebbe certamente morta di dolore, e noi non saremmo in questa capanna,
ove le cose van molto meglio, che ne' più be' castelli possibili. - Ah!
signore, rispose Zenoide, mio padre non ha detto mai che tutto fosse per lo
meglio. Noi apparteniamo tutti a Dio che ci ama, ma che non ha voluto. allontanar
da noi le cure divoratrici, le malattie crudeli, i mali innumerabili che affliggon
l'umanità: nasce il veleno in America accanto alla chinachina: il più
felice mortale ha' sparso delle lacrime: dal mescuglio dei piaceri e delle pene
risulta quel che si chiama vita, cioè un tratto di tempo determinato,
sempre troppo lungo agli occhi del saggio, che deve impiegarsi a fare il bene
della società, nella quale ei si trova per godere le opere dell'Onnipotente,
senza ricercarne follemente le cagioni: a regolare la sua condotta sul testimone
di sua coscienza, ed a rispettare in ispecie la sua religione. O felice chi
può seguirla! Ecco quel che spesso diceami il mio rispettabile padre.
Venga il malanno, aggiungeva egli, a quegli scrittori temerari che cercano di
penetrare nei secreti dell'Onnipotente. Su questo principio, che Dio vuol essere
rispettato dalle migliaia di atomi a' quali ha dato l'essere, hanno gli uomini
unito chimere ridicole a verità rispettabili. Il dervis dai turchi, il
bramino in Persia, il bonzo in China, il talapuino nell'Indie, rendon tutti
un differente culto alla divinità, ma essi godono la quiete dell'anima
nelle tenebre ove sono immersi; e chi volesse dissiparle, renderebbe loro un
cattivo uffizio. Non è un voler bene agli uomini, il sottrarli dall'impero
del pregiudizio.
- Voi parlate come un filosofo, disse Candido: vorrei sapere, mia bella signorina,
di qual religione siate. - Io sono stata allevata nel luteranismo, rispose Zenoide:
questa è la religione del mio paese. - Tutto ciò che avete detto,
riprese Candido, è un tratto dl luce che mi ha colpito: io provo per
voi un mondo di stima e di ammirazione... Come può darsi che regni tanto
spirito in sì bel corpo? In verità. signorina, io vi stimo e vi
ammiro a un segno.... Candido borbottava ancor qualche parola, e Zenoide avvedendosi
della sua agitazione, lo lasciò. Ella evitò da quell'istante in
poi di trovarsi sola con lui, e Candido cercò di trovarsi solo con lei,
o d'esser solo affatto. Egli era immerso in una melanconia, che aveva per lui
del diletto; amava con trasporto Zenoide; e volea dissimularlo; i suoi sguardi
tradivano i segreti del suo cuore. - Ah diceva egli, se il maestro Pangloss
fosse qui, ei mi darebbe un buon consiglio, perchè egli era un filosofo.
CAPITOLO XII
Continuazione dell'amore di Candido.
L'unica consolazione che provava Candido, era di parlare alla
bella Zenoide in presenza de' loro ospiti. - Come, le disse un giorno, il re
a cui vivevate da presso, potè permettere l'ingiustizia che si fece alla
vostra casa? Voi dovete bene aborrirlo. - Ah, disse Zenoide, chi può
odiare il suo re? Chi può non amar quello in cui è riposta la
spada sfolgoreggiante delle leggi? I re sono le vive immagini della divinità,
e noi non dobbiamo condannare mai la loro condotta; l'obbedienza, e il rispetto
fanno il dovere de' buoni sudditi. - Io vi ammiro, sempre più rispose
Candido: conoscete voi, signorina, il gran Leibnitz, e il gran Pangloss, che
è stato abbruciato dopo che scampò da esser impiccato? Sapete
voi dello monadi, della materia sottile, e de' vortici? - No, disse Zenoide,
mio padre non mi ha parlato mai di alcuna di queste cose; egli mi ha dato solamente
una tintura della fisica sperimentale, e mi ha insegnato a disprezzare ogni
sorta di filosofia, che non concorra direttamente alla felicità dell'uomo,
che gli dia false nozioni di ciò ch'ei deve a se stesso, e di ciò
ch'ei deve agli altri, che non gl'insegni a regolare i costumi, che non gli
riempia lo spirito che di parole barbare, e di congetture temerarie, che non
gli dia più chiare idee dell'autore degli esseri che quella che gli somministrano
le di lui opere, e le maraviglie che si operano tutti i giorni sotto i suoi
occhi. - E maggiormente v'ammiro, signorina; voi m'incantate, voi mi rapite;
siete un angelo che il cielo m'ha inviato per illuminarmi sopra i sofismi del
maestro Pangloss. Povero animale ch'io era! Dopo d'aver sopportato un numero
prodigioso di pedate, di frustate sulle spalle, di nerbate sotto le piante de'
piedi; dopo d'aver sopportato un terremoto; dopo d'aver assistito all'impiccagione
del dottor Pangloss e averlo veduto abbruciare poco fa; dopo d'essere stato
preso per decreto del Divano, e battuto da alcuni filosofi, io credeva pure
che tutto andasse bene. A ch'io ne son ben disingannato! Intanto la natura non
mi è parsa mai tanto bella, quanto allora ch'io vi ho veduta. I concerti
campestri degli uccelli suonano al mio orecchio con una armonia che fino a questo
giorno io non conosceva; tutto si anima, e il sentimento che mi invade, pare
che imprima un altro colore su tutti gli oggetti: io più non sento quella
molle languidezza che provava ne' giardini che avevo a Sus. Quel che voi m'ispirate
è differente assolutamente. - O via, finiamola, disse Zenoide, il seguito
de' vostri discorsi potrebbe offendere la mia delicatezza, e voi dovete rispettarla.
- Tacerò, disse Candido, ma il mio fuoco non sarà che più
ardente.
Pronunziando queste parole riguardò Zenoide, si avvide che ella arrossiva,
e da uomo esperto concepì le più lusinghiere speranze
La giovine danese scansò per qualche tempo ancora di trovarsi con Candido.
Un giorno ch'ei passeggiava in fretta nel giardino degli ospiti, diede in un
trasporto amoroso. - Perchè non ho più i miei montoni del buon
paese d'Eldorado! Perchè non son io in stato di comprare un piccolo regno!
Ah s'io fossi re... - Che vi sarei io... disse una voce che colpì il
cuore del nostro filosofo. - Siete voi, bella, Zenoide? diss'egli cadendole
ai piedi. Io mi credeva solo; le poche parole che avete pronunziate pare che
mi assicurino fa felicità alla quale aspiro: io non sarò mai re,
nè forse mai ricco, ma se voi mi amate... non rivolgete da me quegli
occhi pieni di vezzi, che io vi leggo un consenso che può solo compire
i miei desideri. Bella Zenoide, io vi adoro; aprasi la vostr'anima alla pietà.
Che vedo! voi piangete! Ah ch'io son troppo fortunato! - Sì voi siete
fortunato, disse Zenoide: niente mi obbliga a celare la mia sensibilità
per un oggetto che io ne credo degno: finora non avete avuto pietà della
mia sorte che per i legami dell'umanità: è tempo ormai di stringere
questi legami con altri legami più santi. Io mi sono consigliata; riflettete
seriamente ai casi vostri, e pensate sopratutto che sposandomi, contraete l'obbligo
di proteggermi, e di mitigare e dividere le miserie che forse ancora mi serba
la sorte. - Sposarvi? dice Candido: queste parole mi illuminano sull'imprudenza
della mia condotta. Ah! caro idolo della mia vita, io non merito da voi tanta
bontà. Cunegonda non è morta ancora. - Chi è questa Cunegonda?
chiese Zenoide - Questa è mia moglie, rispose Candido colla sua solita
sincerità.
Restarono i nostri amanti qualche tempo senza aprir bocca voleano parlare, e
le loro parole spiravano su' lor labbri; i loro occhi erano molli di pianto;
Candido tenea fra le sue mani quelle di Zenoide, se le stringeva al cuore e
le divorava di baci. Ardì alzare gli sguardi e credè di vedere
scritto il suo perdono ne' begli occhi di lei - Caro amante, gli diss'ella,
la mia collera coprirebbe malamente i trasporti che autorizza il mio cuore.
Fermati per altro; tu mi rovineresti nell'opinione degli uomini, e saresti poco
capace d'amarmi se io diventassi l'oggetto de' loro disprezzi: fermati, e rispetta
la mia debolezza.
Non riferiremo tutta quella conversazione interessante; ci contenteremo di dire
che l'eloquenza di Candido abbellita dall'espressioni amorose, ebbe tutto quell'effetto
che egli potea aspettare sopra una filosofessa giovine e sensibile.
Questi amanti, i cui giorni passavano per l'innanzi fra la mestizia e fra l'inquietudine,
parvero felici; il silenzio delle foreste, le montagne coperte di bronchi e
spine, ed attorniate da precipizj, le pianure gelate, i campi ripieni d'orrore
de' quali erano circondati, li persuasero maggiormente del bisogno ch'essi avevano
di amarsi. Erano risoluti a non abbandonare quella solitudine orribile, ma il
destino non era stanco di perseguitarli, come lo vedremo nel capitolo seguente.
CAPITOLO XIII
Arrivo di Volhall. Viaggio a Copenaghen,
Candido e Zenoide trattenevansi sull'opere della divinità,
sul culto che gli uomini devono rendergli, su i doveri che li uniscono fra loro,
e specialmente sulla carità, virtù d'ogni altra virtù più
utile al mondo, e non vi s'occupavano con declamazioni frivole; insegnava Candido
ai giovinetti il rispetto dovuto al freno sacrato delle leggi; Zenoide istruiva
ragazze su quanto doveano a' lor parenti, ed ambi si riunivano per gettare in
quei giovani cuori i fecondi semi della religione. Un giorno ch'essi si dedicavano
in quelle pie occupazioni, venne Suname ad avvertire ch'era arrivato un vecchio
signore accompagnato da molti domestici, e che al ritratto che le avea fatto
di quella ch'ei cercava, non aveva potuto dubitare che non fosse la bella Zenoide.
Quel signore seguiva Suname alle calcagna ed entrò quasi nel tempo stesso
di lei nel luogo ov'erano Zenoide e Candido.
Svenne Zenoide alla sua vista, ma poco sensibile a spettacolo compassionevole,
la prese Volhall per mano e la tirò con tanta violenza ch'ella rinvenne;
ma non rinvenne che per spargere un rio di lacrime. - Mia nipote, le diss'egli
con un sorriso amaro, io vi trovo in molto buona compagnia: non mi stupisco
che la preferiate al soggiorno della capitale, alla mia casa, alla vostra famiglia.
Sì, signore, rispose Zenoide, io preferisco i luoghi ove abitano la semplicità
e il candore, al soggiorno del tradimento e dell'impostura. Io non rivedrò
che con orrore quel luogo ov'ebbero principio le mie sventure, ove ho ricevuto
tante prove del vostro nero carattere, ove non ho altri parenti che voi... -
Signorina, replicò Volhall, voi mi seguirete, se vi piace; quand'anche
doveste svenire un'altra volta.
Così dicendo, la strascinò seco, e la fe' montare in un calesse
che l'attendea. Ella ebbe appena tempo di dire a Candido di seguirla, e partì
benedicendo i suoi ospiti e promettendo loro di ricompensare i generosi servigi
ricevuti.
Un domestico di Volhall ebbe compassione del dolore in cui Candido era immerso;
credendo ch'ei non avesse altro affetto per la giovine danese, fuor quello che
inspira la virtù infelice, gli propose di andare a Copenaghen, e gliene
facilitò i mezzi; fece di più; gl'insinuò che potrebbe
essere ammesso al numero de' domestici di Volhall, s'ei non avesse altro modo
che il servizio per tirare avanti. Candido gradì quelle offerte, e tosto
che fu giunto, il suo futuro camerata lo presentò come un suo parente,
per cui egli stava garante. - Birbante, gli disse Volhall, voglio accordarti
l'onore di stare appresso a un pari mio. Non ti scordar mai del profondo rispetto
che devi alle mie volontà: previenile, se hai sufficiente istinto per
questo: considera che un pari mio si avvilisce parlando ad un uomo come te.
Il nostro filosofo rispose con tutta la sommissione a quel discorso impertinente,
e da quello stesso giorno fu rivestito della livrea del suo padrone.
È da immaginarsi facilmente quanto fu stupita e contenta Zenoide, riconoscendo
il suo amante fra i servitori dello zio; ella fece nascere le occasioni di trovarsi:
Candido ne profittò; si giurarono una costanza inviolabile. Avea Zenoide
qualche momento di cattivo umore; ella si rimproverava qualche volta il suo
amore per Candido; lo affliggea co' suoi capricci, ma Candido l'idolatrava;
ei sapea che la perfezione non è propria dell'uomo, e molto meno della
donna. Zenoide riprendeva il suo buon umore nelle di lui braccia.
CAPITOLO XIV
Come Candido ritrovò la moglie e perdè l'amante.
Non aveva il nostro eroe a soffrire altro che le alterigie
del suo padrone, e ciò non era un comprar troppa caro l'affetto della
dolce amante. L'amor soddisfatto non si cela così facilmente, come suol
dirsi: i nostri amanti si tradirono da loro stessi: il loro accordo non fu più
un mistero, se non agli occhi poco penetranti di Volhall, tutti i domestici
lo sapevano; Candido ne ricevea de' mirallegro che lo facevan tremare; aspettava
egli la tempesta vicina a cader sopra di lui; e non si sarebbe mai pensato che
una persona che gli era stata cara, fosse sul punto d'affrettare la sua disgrazia.
Erano alcuni giorni che aveva scorto un volto che si assomigliava a quello di
Cunegonda e l'aveva ritrovato ancora alla corte di Volhall; questa tal persona
era malissimo vestita e non vi era apparenza che una favorita d'un gran maomettano
si trovasse nel cortile d'un palazzo a Copenaghen. Intanto quell'oggetto disaggradevole
osservava Candido con moltissima attenzione: quell'oggetto s'avvicinò
tutt'a un tratto, e acciuffando Candido per i capelli gli diede il più
sonoro schiaffo ch'egli avesse mai ricevuto. - Io non m'inganno, grida il nostro
filosofo: oh cielo! chi l'avrebbe mai creduto? che cosa venite a far qui dopo
d'esservi lasciata sedurre da un settatrio di Maometto? Andate, perfida sposa,
io non vi conosco. - Tu conoscerai i miei furori, replicò Cunegonda:
io so la vita che tu meni, il tuo amore per la nipote del tuo padrone, e il
tuo disprezzo per me. Ahimè! son tre mesi che ho lasciato il serraglio,
perchè non ero più buona a niente; comprommi un mercante per ricucir
la sua biancheria, e mi condusse con lui in un viaggio che fece per queste coste.
Martino e Cacambo ch'egli avea pur comprati erano nello stesso viaggio: il dottor
Pangloss, per il caso più strano del mondo, trovossi nello stesso vascello
in qualità di passeggiere. Naufragammo qualche miglio lontano di qui;
io scampai dal periglio col fedele Cacambo: qui ti rivedo e ti rivedo infedele.
Tremane, e temi quanto si può temere una donna irritata!
Era Candido tutto stupefatto da quella affettuosa scena e lasciava andar Cunegonda,
senza pensare a quanto dobbiamo riguardarci da chi conosce il nostro segreto,
quando gli si fece innanzi Cacambo. Si abbracciarono teneramente; Candido ascoltò
quanto egli veniva a dirgli, e molto si afflisse della perdita del gran Pangloss,
che dopo d'essere stato impiccato e abbruciato, s'era annegato miseramente.
Essi parlavano con quella tenerezza di cuore che ispira l'amicizia, quando un
bigliettino che Zenoide gettò dalla finestra mise fine alla conversazione.
Candido l'aprì e vi trovò queste parole:
«Fuggi, mio caro bene; tutto è scoperto. Una inclinazione innocente
che la natura autorizza, e che non ferisce in niente la società, è
un delitto agli occhi degli uomini creduli e crudeli. Volhall esce dalla mia
camera ove mi ha trattata con l'estrema inumanità. Egli va ad ottenere
un ordine, per farti perire in un carcere. Fuggi, o troppo caro amante! poni
in sicurezza quei giorni che non puoi più passare presso me. Ecco il
fine di quei tempi felici, in cui la nostra reciproca tenerezza... Ah misera
Zenoide, che hai tu fatto al cielo, per meritare un trattamento sì rigoroso?
Io mi perdo: ricordati sempre della tua cara Zenoide. Caro bene, tu vivrai eternamente
nel mio cuore: no, tu non hai compreso mai quanto io t'amassi... Possa tu ricevere,
sulle mie labbra ardenti, il mio ultimo addio, e l'ultimo mio sospiro! Io mi
sento vicina a raggiungere il padre infelice: la luce del giorno ora mi è
in orrore; essa non illumina che misfatti.»
Cacambo, sempre saggio e prudente, trascinò Candido che era fuor di sè,
ed escirono dalla città per la più corta. Candido non apriva bocca,
ed erano già lontani da Copenaghen, ch'egli non era ancor uscito da quella
specie di letargo in cui era sepolto. Finalmente volse un guardo al fedele Cacambo,
e parlò in questi termini:
CAPITOLO XVI
Candido e Cacambo si ritirano in un ospedale. Incontro ch'essi fanno.
Cacambo e il suo antico padrone non ne potean più, e
cominciavano a dare in quella specie di malattia dell'anima che n'estingue tutte
le facoltà, cadeano nell'inquietudine e nella disperazione, quando videro
un ospedale eretto pei viaggiatori. Cacambo propose d'entrarvi, e Candido lo
seguì. S'ebbe per loro tutta la cura che si ha in tali abitazioni, e
furono trattati per l'amor di Dio, come si suol dire. In poco tempo furono guariti
dalle loro ferite, ma vi guadagnarono la rogna. Non v'era apparenza che quella
malattia fosse affare d'un giorno, e questo pensiero empieva di lacrime gli
occhi di Candido, che dicea grattandosi: - Tu non hai voluto lasciarmi tagliare
la gola, mio caro Cacambo; i tuoi cattivi consigli mi immergono di nuovo nell'obbrobrio
e nella sciagura; e se io voglio ora tagliarmi la gola, si dirà nel giornale
di Trevoux: questo è un vile che si è ammazzato perchè
aveva la rogna: ecco a quel che tu mi esponi per un malinteso interesse che
hai voluto prendere alla mia sorte
I nostri mali non sono senza rimedio, rispose Cacambo, e se vorrete fare a mio
modo, abbiamo a fissarci qui in qualità di fratelli; io so un poco di
chirurgia, e vi prometto di mitigare e render sopportabile la nostra miserabile
condizione. - Ah! dice Candido, crepin tutti gli asini, e in specie gli asini
cerusici, sì dannosi all'umanità. Io non comporterò mai
che tu ti spacci per quel che non sei; questo sarebbe un tradimento, le cui
conseguenze mi spaventano. D'altra parte, se tu sapessi quanto è dura,
dopo d'essere stato vicerè d'una bella provincia, dopo essersi veduto
in istato di comprare de' bei regni, dopo d'essere stato l'amante favorito di
Zenoide il risolversi a servire in qualità di fratello in un ospedale....
- Lo so, riprese Cacambo, ma so ancora che è assai dura cosa il morir
di fame; riflettete di più, che il partito ch'io vi propongo, è
forse l'unico che possiate prendere per isfuggire le ricerche del crudele Volhall,
e sottrarvi ai castighi ch'ei vi prepara.
Mentre parlavano così passò un fratello e gli fecero alcune dimande;
egli rispose in una maniera soddisfacente, e assicurò loro che i fratelli
erano bene nutriti, e godevano d'una onesta libertà. Candido si decise;
ei prese con Cacambo l'abito di fratello che gli si accordò addirittura,
e i nostri due miserabili si misero a servire altri miserabili.
- Un giorno che Cacambo distribuiva in giro poche cattive minestre, gli diè
nell'occhio un vecchio, il cui viso era livido, le labbra coperte di schiuma,
gli occhi mezzo stravolti, e sulle cui gote crespe e inaridite, appariva l'immagine
della morte. - Pover'uomo, gli disse Candido, quanto vi compiango! voi dovete
orribilmente soffrire. - Io soffro molto, rispos'egli con una voce da sepoltura;
si dice ch'io sono etico, polmoniaco e asmatico: se così è, io
son ben malato, ma intanto tutto non va male, e questo e quello che mi consola.
- Ah, esclama Candido, non v'è che il dottor Pangloss, che in uno stato
così deplorevole, possa sostenere la dottrina dell'ottimismo, quand'ogni
altro non predicherebbe che il pess... - Non pronunziate quella detestabil parola,
grida il pover'uomo; io sono quel Pangloss di cui voi parlate, disgraziato;
lasciatemi morire in pace, tutto è bene, tutto è per lo meglio.
Lo sforzo ch'ei fece pronunziando queste parole, gli costò l'ultimo dente,
ch'ei vomitò con una tremenda quantità di marcia. Spirò
pochi momenti dopo.
Candido lo pianse, perchè aveva il cuor buono. Il suo funerale fu una
sorgente di riflessioni per il nostro filosofo; egli si ricordava sovente tutte
le sue avventure. Cunegonda era restata a Copenaghen, ed ei seppe che v'esercitava
il mestiere di lavandaja, colla maggior distinzione possibile. La passione di
viaggiare l'abbandonò affatto. Il fedele Cacambo lo sosteneva co' suoi
consigli e colla sua amicizia. Candido non mormorò contro la Provvidenza.
- Io so che la felicità non è il retaggio dell'uomo, diceva egli
qualche volta: la felicità non risiede che nel buon paese d'Eldorado,
ma è impossibile d'andarvi.
CAPITOLO XVII
Nuovi incontri.
Candido non era tanto disgraziato, poichè aveva un vero
amico; ei l'avea trovato in un servo bastardo, ciò che invano si cerca
nella nostra Europa; forse la natura che fa crescere in America le erbe proprie
alle malattie corporali del nostro continente, vi ha piantato ancora de' rimedj
per le nostre malattie del cuore e dello spirito: forse vi son formati differentemente
da noi: chè non sono schiavi dell'interesse personale, che son degni
di ardere al bel fuoco dell'amicizia. Quanto sarebb'egli da desiderarsi, che
invece di ciurli d'indaco e di cocciniglia tutti coperti di sangue, ci si conducesse
qualcheduno di questi uomini. Una tal sorte di commercio sarebbe ben vantaggiosa
all'umanità. Cacambo valeva più per Candido, che una dozzina di
montoni rossi carichi di ciottoli dell'Eldorado. Il nostro filosofo ricominciò
a godere il piacere di vivere; era una consolazione per lui il vigilare alla
conservazione della specie umana e non essere un membro inutile nella società.
Iddio benedisse intenzioni sì pure, rendendo a lui, come a Cacambo, le
dolcezze della sanità. Essi non avevano più la rogna ed adempivano
piacevolmente le faticose funzioni del loro stato; ma la sorte tolse loro ben
tosto la sicurezza nella quale gioivano. Cunegonda, che s'era presa a petto
di tormentare il suo sposo, abbandonò Copenaghen per andarne in traccia;
il caso la condusse all'ospedale; era ella accompagnata da un uomo che Candido
riconobbe per il signor barone di Thunder-ten-tronckh; è da immaginarsi
facilmente qual dovesse essere la sua maraviglia; il barone se ne accorse e
gli parlò così:- Io non ho remato gran tempo sulle galere ottomane;
seppero i gesuiti la mia disgrazia, e mi riscattarono per onore della società:
ho fatto un viaggio in Alemagna, ove ho ricevuto alcuni benefizj dagli eredi
di mio padre; non ho niente trascurato per trovar mia sorella, ed avendo saputo
da Costantinopoli ch'ella era partita con un bastimento ch'era naufragato sulle
coste di Danimarca, mi sono travestito, ho preso delle lettere di raccomandazione
per alcuni negozianti danesi che han relazione colla società, e ho trovato
finalmente la mia sorella, la quale vi ama, benchè indegno voi siate
della sua amicizia; e giacchè avete avuta l'imprudenza di vivere con
lei, consento alla confermazione del matrimonio, o piuttosto a una nuova celebrazione
di nozze, ben intesi che mia sorella non vi darà che la mano sinistra;
il che è ben giusto, poichè ella ha settant'un quarto di nobiltà,
e voi non ne avete neppur uno.- Ah! dice Candido, tutt'i quarti del mondo senza
la bellezza... La signora Cunegonda era molto brutta, quando io ebbi l'imprudenza
di sposarla; ella è tornata bella, ed un altro vide i suoi vezzi; ella
è tornata brutta, e volete che io le ridia la mano? No per certo, mio
reverendo padre: rimandatela nel suo serraglio di Costantinopoli. Ella mi ha
fatto troppo danno in questo paese. - Lasciati compungere, ingrato, disse Cunegonda,
facendo contorsioni spaventevoli; non obbligare il signor barone, ch'è
prete, ad ammazzarci tutti e due per lavare nel nostro sangue la sua vergogna.
Mi credi tu capace d'aver mancato di buona voglia alla fedeltà che io
ti doveva? Che volevi tu ch'io facessi in faccia a un padrone che mi trovava
bella? Ecco il mio delitto, e questo non merita la tua collera. Un delitto più
grave agli occhi tuoi è quello di averti rapito la tua amante, ma questo
delitto deve darti prova del mio amore. Senti, mio caro Candido, se mai ritorno
bella, se... ciò non sarà che per te, mio caro Candido: noi non
siamo più in Turchia.
Questo discorso non fece molta impressione in Candido; ei chiese alcune ore
per determinarsi sul partito che aveva a prendere. Il signor barone gli accordò
due ore, durante le quali ei consultò il suo amico Cacambo. Dopo pesate
le ragioni del pro e del contra, essi si determinarono a seguire il gesuita,
e la sorella in Alemagna. Ecco che abbandonano l'ospedale, ed in compagnia si
mettono in cammino, non già a piede, ma su buoni cavalli, che aveva condotti
il baron gesuita, e arrivano sulle frontiere del regno. Un grand'uomo d'assai
cattiva cera considera attentamente i nostri eroi. - È lui, diss'egli,
porgendo gli occhi sopra un pezzetto di carta: signore, s'è lecito, non
vi chiamate voi Candido? - Si signore, così mi han sempre chiamato.-
Me lo figuravo signore; in fatti voi avete le ciglia nere, gli occhi al pari
della fronte, le orecchie d'una mediocre grandezza, il viso tondo e colorito,
e per quanto pare, dovete essere di cinque piedi e cinque pollici d'altezza.
- Sì, signore, questa è la mia statura; ma che volete voi dalla
mia statura e dalle mie orecchie? - Signore, non si può usare tanta circospezione
quanta basti nel nostro ministero; permettetemi di farvi ancora un'altra breve
dimanda: non avete voi servito il signor Volhall? - Signore, in verità,
rispose Candido tutto sconcertato, io non comprendo... - Lo comprendo ben io
a maraviglia, che voi siete quello di cui m'è stato mandato il contrassegno.
Datevi la pena d'entrare nel corpo di guardia. Soldati, conducete il signore,
preparate la camera bassa, e fate chiamare il fabbro per fare al signore una
piccola catena di trenta o quaranta libbre di peso. Signor Candido, voi avete
là un buon cavallo; avevo giusto bisogno d'un cavallo del medesimo pelame.
Ci aggiusteremo.
Il barone non ardì di reclamare il cavallo. Si strascinò Candido,
e Cunegonda pianse per quattr'ore. Il gesuita non mostrò alcun dispiacere
di quella catastrofe. - Io sarei stato obbligato ad ammazzarlo, e a rimaritarvi,
diss'egli alla sorella, ma considerato ogni cosa, quel che accade è molto
meglio per l'onore della nostra casa.
Cunegonda partì col fratello, e non vi fu che il fedele Cacambo, che
non volesse abbandonare il suo amico.
CAPITOLO XVIII
Seguito del disastro di Candido. Com'egli trovò la sua amante. La fine.
- Oh Pangloss, dicea Candido, gran danno che siate perito miseramente!
voi non siete stato testimone che di una parte delle mie disgrazie; io speravo
di farvi lasciare quell'insussistente opinione che avete sostenuta fino alla
morte. Non v'è uomo sulla terra che abbia sofferto più calamità
di me, nè ve n'è uno solo che non abbia maledetta la sua esistenza,
come ce lo diceva energicamente la figlia di papa Urbano. Che sarà di
me, mio caro Cacambo? - Non lo so, rispose Cacambo: quel ch'io so è che
non vi abbandonerò mai. - E Cunegonda mi ha abbandonato, disse Candido.
Ah, un amico bastardo val più d'una donna!
Candido e Cacambo così parlavano in carcere Furono tratti di là,
per essere condotti a Copenaghen. Là dovea il nostro filosofo sapere
il suo destino. Ei non s'aspettava che l'orribile prigione, ed i nostri lettori
pur se l'aspettano, ma Candido s'ingannava, ed i nostri lettori pure s'ingannano.
A Copenaghen l'aspettava la felicità. Appena vi fu arrivato, seppesi
la morte di Volhall. Quel barbaro non fu compianto da alcuna persona e ciascheduno
s'interessò per Candido. Furono rotti i suoi ferri, e la libertà
fu tanto più lusinghiera per lui, inquantochè gli procurò
i mezzi di ritrovar Zenoide. Corse da lei, stettero un pezzo senza parlare,
ma il lor silenzio diceva tutto: piangeano, s'abbracciavano, volevan parlare,
e piangevan ancora. Cacambo godeva di quello spettacolo, così tenero
per un essere che è sensiblle; dividevano la gioja col loro amico, ed
egli era quasi in uno stato simile al loro. - Caro Cacambo, adorabile Zenoide;
grida Candido, voi cancellate dal mio cuore la traccia profonda de' mali miei:
l'amore e l'amicizia mi preparano giorni sereni e momenti preziosi. Quante prove
ho passato, per giungere a questa felicità inaspettata! Tutto è
dimenticato, cara Zenoide; io vi veggo, voi m'amate, tutto va per lo meglio
per me; tutto è bene nella natura
La morte di Volhall avea lasciata Zenoide padrona della sua sorte. La corte
gli aveva assegnata una pensione sopra i beni di suo padre, che erano stati
confiscati; ella la ripartì con Candido e Cacambo; li tenne in casa,
e fece dire per la città che aveva ricevuto servizi sì importanti
da que' due forastieri, che la obbligavano a procurar loro tutti i beni della
vita, e a riparare alla ingiustizia della fortuna verso di loro. Vi fu chi penetrò
il motivo de' suoi benefici, ed era ben facile, poichè la sua corrispondenza
con Candido aveva dato malamente nell'occhio. Il maggior numero la biasimò,
e non fu approvata la sua condotta che da qualche cittadino che sapea pensare.
Zenoide che facea un certo caso della stima de' pazzi, soffriva di non esser
nel caso di meritarla. La morte di Cunegonda, che i corrispondenti de' negozianti
gesuiti sparsero in Copenaghen, procurò a Zenoide i mezzi di conciliare
ogni cosa. Ella fece fare una genealogia per Candido, e l'autore, che era un
uomo abile, lo fe' discendere da una delle più antiche case d'Europa;
pretese che il suo vero nome fosse Canuto, che porta uno de' re di Danimarca,
il che è verosimilissimo. Dido in uto non è una sì gran
metamorfosi, e Candido, per mezzo di questo leggier cambiamento, divenne un
grandissimo signore.
Sposò Zenoide in facie Eccelesiæ, ed essi vissero sì tranquillamente
quanto lo è possibile. Cacambo fu loro amico comune, e Candido diceva
spesso.
- Tutto non va sì bene quanto in Eldorado, ma non va neppur tanto male.