Biblioteca Multimediale Marxista
Quest'articolo venne pubblicato sul n. 5 del 1954 della rivista "Voprosy Istorii".
L'azione delle leggi economiche nelle formazioni antagonistiche
di classe
Il riconoscimento del carattere oggettivo delle leggi dello
sviluppo sociale, come si sa, rappresenta una delle pietre angolari del materialismo
storico. Il marxismo infatti muove dall'idea che il processo di sviluppo della
società, come anche quello della natura, ha carattere regolare ed è
quindi soggetto all'azione di leggi oggettive, indipendenti dalla volontà
degli uomini.
Questo principio marxista si contrappone a tutti i sistemi idealistico-soggettivi
e volontaristici della sociologia borghese, la quale - al contrario - nega allo
sviluppo sociale qualsiasi conformità a leggi che ne regolino il corso,
e presenta la storia come fosse un'assurda congerie di casualità risultanti
dalla "libera creazione" di singole eminenti personalità. Nel
palese intento di diffamare la teoria scientifica del materialismo storico,
i filosofi e i sociologi borghesi affermano che essa, "riducendo a nulla"
l'attività storica dell'uomo, porta inevitabilmente al fatalismo e al
quietismo; o meglio, come essi dicono, se la storia è creata da leggi
oggettive, allora per l'attività cosciente degli uomini non può
esserci alcun posto, mentre se essa è creata dall'uomo, allora non c'è
posto per leggi oggettive che ne regolino il corso. Se voi riconoscete il socialismo
come oggettivamente necessario e ineluttabile, disse per esempio Stammler, perché
allora organizzate un partito che lotti per il socialismo?
In realtà il marxismo non ha mai avuto, e nemmeno potrebbe avere, niente
in comune con il fatalismo. Anzi, nella concezione marxista la legge non è
né un destino e nemmeno un fato, ma soltanto il riflesso di più
sostanziali nessi interni oggettivamente inerenti alle cose e ai fenomeni del
mondo reale, e quindi non un qualcosa di esterno ai rapporti sociali, ma che
è loro intrinsecamente proprio. Come Marx ha infatti più volte
rilevato, nei rapporti sociali (come anche, del resto, nella natura) la legge
che esprime il nesso interno e necessario tra due fenomeni esteriormente in
contraddizione tra loro si manifesta non in forma pura, ma soltanto "come
tendenza dominante, come una certa media - peraltro mai fissata con certezza
- tra continue variazioni". Lenin, da parte sua, osservò che il
marxismo intende il carattere oggettivo delle leggi di sviluppo sociale non
nel senso che esse esistono indipendentemente dalla società umana, "non
nel senso che la società degli esseri coscienti, degli uomini, possa
esistere e svilupparsi indipendentemente dall'esistenza degli esseri coscienti...
ma nel senso che l'essere sociale è indipendente dalla coscienza sociale
degli uomini". Che è come dire, in altre parole, che tutti i rapporti
sociali - nel cui novero quelli economici - sono sempre e comunque un risultato
dell'attività umana, anche se questa non abbraccia mai interamente la
coscienza sociale, ma anzi le resiste come qualcosa di oggettivo e da essa indipendente.
L'attività umana, dunque, si svolge sempre sulla base di oggettive leggi
inerenti allo sviluppo sociale e di cui l'uomo può valersi in vario modo.
Quando infatti non sono intese esse si manifestano come una forza cieca ed elementare,
mentre gli uomini, pur agendo in conformità ad esse (per esempio, scambiando
merci sulla base della legge del valore), non ne conoscono l'esistenza e quindi
non possono servirsene coscientemente nell'interesse della società e
prevenirne così l'azione distruttiva.
Come Stalin ha giustamente rilevato, riconoscere il carattere oggettivo delle
leggi dello sviluppo sociale significa riconoscere che gli uomini non possono
né agire a loro dispetto e "creare" la storia secondo fantasia,
né mutare a priori gli indirizzi dello sviluppo sociale. Ciò nondimeno,
i tempi e le concrete forme di attuazione di una tendenza storica oggettiva
sono unicamente determinati dall'attività umana nel suo insieme e da
tutte quelle infinite condizioni empiriche venutesi a creare nel corso di tale
attività. Se dunque gli uomini non possono né abolire, né
trasformare o creare leggi di per sé oggettive, essi possono tuttavia
influire attivamente sulle condizioni alla cui esistenza è legata l'azione
stessa di queste leggi, e cercare quindi di conseguire, per questa via, dei
mutamenti nella sfera d'azione o nel carattere di queste o quelle leggi.
Ne consegue che il principio secondo cui è l'uomo stesso che crea la
propria storia, e quello invece per il quale lo sviluppo della società
si compie sulla base di leggi oggettive la cui esistenza è indipendente
dalla volontà degli uomini; ebbene, entrambi questi principi non soltanto
non sono in contraddizione tra loro, ma, al contrario, possono essere intesi
solamente nella loro dialettica unità. Per essere più precisi,
senza conoscere le oggettive leggi di sviluppo della società non è
possibile concepire la creazione storica dell'uomo come un processo unico e
regolare, mentre, per inverso, senza aver compreso il ruolo di tale creazione
è altresì impossibile intendere adeguatamente tanto il contenuto
che il meccanismo d'azione delle oggettive leggi economiche. Queste dunque,
per loro essenza, sono sempre leggi proprie all'attività sociale degli
uomini, la quale può essere intesa solo e unicamente sulla base di esse,
mentre le leggi, a loro volta, lo possono essere soltanto in rapporto con la
vivente storia concreta. Di qui la prova di quanto assurde siano le affermazioni
di sociologi ed economisti borghesi circa il fatto che il marxismo, a loro dire,
verrebbe a separare i risultati dell'attività umana dall'uomo stesso.
L'opera di Stalin "Problemi economici del socialismo in Urss" ha di
recente richiamato l'attenzione dell'intera comunità scientifica sull'importante
problema teorico dell'impiego delle leggi economiche, da parte dell'uomo, nell'interesse
della società.
Leggi economiche e classi sociali
Nel rilevare che questa non è affatto impotente dinanzi a tali leggi,
e che quindi - conoscendole - può utilizzarle nel proprio interesse limitando
la sfera d'azione delle une e creando favorevoli condizioni per le altre, Stalin
sottolinea altresì che nella storia, sempre e comunque, il ruolo decisivo
lo svolgono le larghe masse popolari, cioè i produttori diretti dei beni
materiali. Tuttavia, egli precisa, se è giusto in generale affermare
che in ogni fase del suo sviluppo l'umanità si è sempre valsa
di leggi economiche oggettive, è pur vero che in condizioni storiche
differenti i limiti, il carattere e le forme di un tale impiego sono e non potrebbero
non essere differenti tra loro. Per chiarire dunque il problema dell'impiego
di queste leggi oggettive nelle formazioni di classe sfruttatrici - a cui è
proprio per l'appunto, l'antagonismo di classe - un grande rilievo teorico ha
la questione della causa intrinseca che determina un tale loro impiego e, quindi,
del rapporto che intercorre tra queste leggi e la lotta di classe in generale.
Il quale problema però, a sua volta, si divide in altre due questioni
strettamente legate tra loro e che sono: 1) in che modo le leggi economiche
si manifestano nell'attività degli uomini e quale importanza assume la
lotta di classe (indipendentemente dal suo grado di consapevolezza) nell'attuazione
di queste o altre tendenze economiche; 2) come e in che misura gli uomini possono,
in condizioni di formazione antagonistica, valersi coscientemente delle leggi
economiche oggettive nel proprio interesse di classe e in quello dell'intera
società.
A tutti questi importanti quesiti cercheremo ora di dare una risposta sulla
base della teoria scientifica del materialismo storico e della metodologia marxista-leninista.
Dunque, come si è detto, le leggi oggettive della storia si manifestano
nell'attività sociale degli uomini, che quindi ne sono - di fatto - i
creatori. Ma, come si sa, in condizioni di formazioni sociali antagonistiche
la società è anche divisa in classi i cui interessi sono inconciliabilmente
opposti tra loro. Com'è allora possibile, qui, valersi delle leggi dello
sviluppo sociale, se ciò che è vantaggioso per una classe non
lo è per l'altra? Per rispondere a questa domanda occorre anzitutto aver
presente che queste leggi, riflettendo gli essenziali nessi intrinsechi tra
condizioni oggettive assai diverse tra loro e in complessa interdipendenza l'una
con l'altra, non sono affatto degli schemi rigidi e fissi a cui ogni azione
dell'uomo è passivamente soggetta, ma possono assumere -come vedremo
più avanti - forme, caratteri e tempi loro propri, dovuti alle circostanze
in cui l'attività umana viene a svolgersi. In ogni società si
intrecciano strettamente e lottano tra loro il vecchio e il nuovo, ciò
che ha fatto il suo tempo e ciò che invece sta per nascere. Ma dato che,
come Marx ebbe più volte a rilevare, non è possibile figurarsi
la storia della società nei toni mistici di una generale predeterminazione,
assolutamente necessaria per noi è soltanto la tendenza generale dello
sviluppo storico, vale a dire le leggi di sviluppo e il succedersi delle formazioni
economico-sociali in cui queste agiscono, e che tuttavia si attuano pur sempre
in circostanze empiriche infinitamente varie. Per cui, in definitiva, tutte
le leggi economiche - nessuna esclusa - operano non in modo fatale e in forma
pura secondo un piano prestabilito, ma sotto forma di tendenze dominanti che
determinano la direzione dello sviluppo.
Ogni formazione economico-sociale rappresenta un insieme unico che si caratterizza
per sue determinate condizioni oggettive e per una qual certa sua unità
tra forze produttive e rapporti di produzione. L'unità e l'interrelazione
tra tutti i processi economici di una data formazione sono riflesse nella sua
legge economica fondamentale, la quale ne determina tutti gli aspetti principali;
inoltre, il fine della produzione da un lato, e le esigenze di questa legge
dall'altro, hanno entrambi carattere oggettivo, e non dipendono quindi da alcuna
volontà delle classi di una data società. Anzi, queste classi
sono esse stesse un prodotto delle condizioni economiche date, il che tuttavia
non impedisce all'azione di questa legge di essere sempre e comunque contraddittoria,
ossia che le sue leggi si attuino non in modo meccanico, ma in complessa interazione
con altre leggi, nella lotta tra contraddittorie (e, nelle formazioni antagonistiche,
contrapposte) tendenze economiche.
Prendiamo, per esempio, la questione dello sviluppo proporzionale dei vari settori
dell'economia nazionale socialista e, per inverso, dell'anarchia produttiva
invece tipica del sistema economico capitalistico. È noto che nessuna
produzione può esistere senza un qualche relativo equilibrio tra i suoi
diversi settori. E questa tendenza ha avuto un suo particolare riflesso negli
schemi marxisti della riproduzione allargata, che ci hanno mostrato quale realmente
sia - per ogni riproduzione allargata - la forza di una legge economica oggettiva.
A questa tendenza alla proporzionalità, tuttavia, si oppone, nelle condizioni
del capitalismo, la legge dell'anarchia produttiva dovuta all'esistenza della
proprietà privata dei mezzi di produzione, la quale esclude sì
la possibilità di uno sviluppo pianificato, sistematico e costante della
produzione, ma non potrà mai eliminare l'oggettiva tendenza a una certa,
relativa proporzionalità della produzione. Al contrario, trasferendo
capitali da un settore produttivo all'altro la produzione capitalistica si livella
in modo spontaneo proprio in condizioni di azione della legge dell'anarchia
produttiva e della concorrenza. Per cui, come Marx ebbe a rilevare, nel capitalismo
"la produzione proporzionale è sempre e soltanto il risultato della
produzione non-proporzionale basata sulla concorrenza" ("Teorie del
plusvalore", vol. II).
Dato che ogni formazione economico-sociale si caratterizza per un suo particolare
tipo di rapporti di produzione e per una sua particolare struttura di classe,
sarebbe un serio errore metodologico comparare per analogia il sistema schiavistico
o feudale con quello capitalistico. Una via, questa, su cui purtroppo si sono
posti alcuni dei nostri economisti e storici, i quali hanno cercato di formulare
la legge economica fondamentale della formazione feudale o di quella schiavistica
basandosi, per l'appunto, sul modello della legge economica fondamentale del
capitalismo contemporaneo. Questo errore, in modo particolare, si evidenzia
nell'articolo di D.K. Trifonov "La questione delle leggi economiche fondamentali
delle formazioni precapitalistiche", dove l'autore definisce quella del
modo di produzione schiavistico come "l'assicurazione del sovraprodotto
in misura soddisfacente i bisogni parassitari della classe schiavista mediante
l'asservimento dei popoli allogeni, la trasformazione dei produttori diretti-schiavi
in proprietà assoluta degli schiavisti, e l'intensificazione del loro
sfruttamento sulla base di una tecnica infima".
La legge economica fondamentale
Con una simile concezione della legge economica fondamentale ciò che
non risulta affatto chiaro - o che, anzi, è assolutamente incomprensibile
- è in che modo le forze produttive potessero dunque svilupparsi se,
come afferma l'autore, il fine oggettivo della produzione era tutto nel solo
soddisfacimento di bisogni improduttivi e parassitari. Del problema, infatti,
questa formula non considera alcuni aspetti essenziali, e in primo luogo che
non tutti gli schiavisti - e nemmeno per l'intero periodo di esistenza della
formazione schiavistica - condussero un genere di vita parassitario; poi che
sia in Grecia che a Roma esisteva anche un'economia di liberi contadini e artigiani
i quali, pur utilizzando anch'essi degli schiavi come forza-lavoro supplementare
lavoravano essi stessi; e infine la circostanza che in una tale economia (peraltro
apparsa soltanto nel periodo di decadenza della formazione schiavistica) le
forze produttive ebbero comunque a svilupparsi. Infatti non è per niente
casuale che la crisi della forma schiavistica sia stata organicamente legata
alla rovina del libero contadino e dell'artigianato. Evidentemente la formula
del Trifonov che considera la classe dominante come parassita tout court, se
pur giusta in generale, può tuttavia essere applicata soltanto al periodo
di decadenza e di crisi del sistema schiavistico, non potendo in alcun modo
servire quale spiegazione dell'intero sviluppo della data formazione sociale.
Ne risulta dunque che non è in alcun modo possibile semplificare l'oggettiva
complessità dello sviluppo sociale in genere o anche di una data formazione
dovendosi invece considerare questo processo in tutta la sua varietà
e contraddittorietà, legando cioè la lotta delle diverse tendenze
economiche alle alterne vicende della lotta di classe.
Cercando di mascherare e di dissimulare la lotta di classe in atto nella società
capitalistica, la sociologia reazionaria borghese si prova, e non da ora, a
insidiare il concetto marxista di classe sociale. Afferma infatti il sociologo
americano O'Boyle che il concetto di classe è di per sé molto
vago, e che la classe non costituisce affatto alcuna unità, ma si scinde
in gruppi più piccoli. L'ineguaglianza di classe, gli fa eco il francese
Chaix-Ruy, ha le sue radici "non nelle condizioni economiche, e nemmeno
in un determinato sistema di produzione, ma in un sistema di credenze e di pregiudizi".
La cosiddetta "psicologia sociale" poi, largamente diffusa negli Stati
Uniti, si prova a sostituire il concetto di "classe" con quello di
"gruppo sociale" inteso come una certa "comunanza psichica"
di persone. Quanti poi debbano rientrare in questo gruppo e che cosa li possa
unire - l'impegno politico o il gioco al poker - è per essa del tutto
inessenziale. Lo stesso senso ha anche la proposizione del concetto di "generazione"
(Lorenz, Ortega y Gasset e altri) quale categoria storica fondamentale.
Spacciando la storia come collaborazione e lotta tra differenti generazioni
d'età, la sociologia borghese cerca così di occultare e di sminuire
il fatto decisivo della lotta di classe.
In antitesi a queste teorie reazionarie borghesi il marxismo sottolinea invece
che la scoperta e l'impiego delle leggi economiche hanno sempre un intrinseco
movente di classe, e che quindi si possono realizzare soltanto nel corso della
lotta di classe. Le condizioni economiche di ogni data società si riflettono
nella coscienza sociale soprattutto nella forma di interessi che nelle formazioni
antagonistiche assumono immancabilmente un carattere di classe. Gli stessi e
medesimi processi economici, cioè, riflettendosi nella coscienza degli
uomini, generano interessi del tutto diversi tra loro a seconda di quale posto
una determinata classe occupa nel processo della produzione e di quale sia il
suo rapporto con gli strumenti e i mezzi di produzione. Per cui, in forza di
ciò, classi diverse sono atte a recepire e ad utilizzare le stesse leggi
in modo diverso. Classi tra loro differenti, dunque, rappresentano tendenze
economiche differenti, e quale di queste debba poi vincere sarà la lotta
di classe a deciderlo, per quanto - in ultima analisi - lo sia sempre quella
progressista espressa dalla nascente classe avanzata.
Quanto alla legge economica fondamentale del feudalesimo l'autore formula i
suoi principali aspetti ed esigenze come "assicurazione del sovraprodotto,
nella forma di rendita terriera feudale, in misura soddisfacente i bisogni improduttivi
della classe dei feudali e della sua numerosa servitù, mediante l'asservimento
dei produttori diretti, la spartizione dei loro mezzi di produzione, e l'intensificazione
dello sfruttamento in forma di barscina e obròk sulla base di una tecnica
consuetudinaria". Anzitutto, anche qui si dà un unilaterale risalto
al consumo improduttivo della classe dei feudali, allorché Engels parla
della produzione feudale in termini di produzione "finalizzata al consumo
diretto dei prodotti da parte del produttore stesso o del suo signore feudale".
In secondo luogo, se l'intero sovraprodotto viene consumato dal feudale e se
questo sfruttamento feudale, poi, non fa che intensificarsi tutto il tempo,
viene allora da chiedersi da dove l'economia contadina possa prendere quel certo
prodotto eccedente senza il quale è impossibile ogni ulteriore sviluppo
delle forze produttive che predisponga il passaggio al capitalismo. Infine,
quale principale mezzo per assicurare il fine della produzione l'autore indica,
in sostanza, la costrizione extraeconomica, cioè la dipendenza servile
dei contadini dal loro signore, mentre in realtà, come è risaputo,
nel feudalesimo il ruolo decisivo ebbe a svolgerlo la proprietà feudale
sulla terra.
Queste stesse obiezioni, poi, nella loro gran parte, possono essere riferite
anche alla concezione espressa da B.F. Porsnev. È infatti sua opinione
che "nella legge della rendita feudale, come in un unico focus, si sono
riflessi tutti i rapporti di produzione del feudalesimo", mentre invece
le cose stanno ben altrimenti. Nel produttore diretto l'accumulazione del prodotto
eccedente grazie alla quale si ha l'ulteriore sviluppo delle forze produttive,
non può essere affatto spiegata con la legge della rendita feudale, come
pure non è possibile convenire con l'affermazione dello stesso circa
l'aumento della rendita feudale e l'intensificazione dello sfruttamento dei
contadini. Se infatti la rendita fosse sempre aumentata e lo sfruttamento pur
intensificato, l'accumulazione nell'economia contadina sarebbe stata impossibile;
il contadino, in tal caso, avrebbe perso ogni interesse per il proprio lavoro,
e l'intero feudalesimo avrebbe poggiato esclusivamente sulla costrizione extraeconomica.
Invece sarebbe stato più logico legare l'avvicendamento delle forme della
rendita feudale non già all'intensificazione dello sfruttamento, ma alla
crescita delle forze produttive e allo sviluppo della produzione mercantile.
La lotta di classe del proletariato
La stessa cosa può vedersi anche sull'esempio della lotta per la giornata
lavorativa. Contrariamente al capitalista, l'operaio è vitalmente interessato
a una sua riduzione. Ma all'offensiva del capitale, però, il singolo
operaio - com'è ovvio - non è assolutamente in grado di esercitare
alcuna resistenza che sia minimamente efficace, per cui la lotta non può
che manifestarsi nella forma di una lotta di classe tra gli operai e la borghesia.
Generalizzando la storia della legislazione di fabbrica inglese, Marx scrisse
che "l'istituzione della normale giornata lavorativa è il prodotto
di una continua e più o meno latente guerra civile tra la classe dei
capitalisti e quella operaia". E ciò anche se la lotta, come si
sa, non finisce affatto qui, dato che la borghesia - in particolare nell'epoca
dell'imperialismo - prosegue la sua offensiva contro gli operai anche a dispetto
di accordi o di legislazioni, che per essa hanno un valore del tutto irrisorio".
Ne consegue che nel capitalismo il livello del salario e la durata della giornata
lavorativa sono sempre determinati, in ultima analisi, da oggettive leggi economiche
la cui esistenza non dipende né dalla volontà dell'operaio, né
da quella del capitalista. Tuttavia, il modo in cui tali leggi operano in ogni
singolo caso concreto e quale poi dovrà essere la concreta norma di sfruttamento,
questo dipenderà in primo luogo dal rapporto esistente tra le varie forze
di classe e dal grado di sviluppo assunto dalla lotta di classe del proletariato
in quel dato periodo o momento particolare.
Nelle formazioni antagonistiche, dunque, sulla concreta attuazione delle leggi
economiche si dispiega un'accanita lotta di classe il cui indirizzo e carattere
- per quanto sia sempre la lotta di classe, poi, a decidere della vittoria di
questa o quella tendenza - sono determinati da leggi economiche oggettive. Dal
che si può ben comprendere, tra l'altro, quanto errate ed estranee al
marxismo siano, da un lato, le astratte costruzioni del cosiddetto "materialismo
economico" (che nega il ruolo della lotta di classe nello sviluppo della
società, e che presenta la storia come se fosse un lineare sviluppo autogeno
di processi economici avulsi dall'uomo) e, dall'altro lato, il distacco idealistico-soggettivo
della lotta di classe dalla sua base economica. Ma il fatto che ogni azione
dell'uomo poggi, in un modo o nell'altro, su determinate leggi economiche non
significa affatto che ogni classe sia in grado di valersene nello stesso modo
e in ugual misura delle altre.
Un ruolo decisivo dello sviluppo di ogni data formazione lo svolgono le specifiche
leggi sue proprie, e prima fra tutte la legge economica fondamentale. Va da
sé tuttavia che, nel modo ad essa più vantaggioso, di tali leggi
potrà valersi soltanto la classe che in quella data formazione è
dominante o che, per meglio dire - secondo l'espressione di Lenin - "gestisce"
il dato ordinamento economico e detiene, quindi, gli strumenti e i mezzi di
produzione. Il fine oggettivo di questa poi, espresso nella legge economica
fondamentale della formazione data, è al tempo stesso - e pur con tutte
le sue possibili e infinite modificazioni - il fine soggettivo di chi è
parte di quella data classe dominante. Se cioè il fine della produzione
capitalistica è il conseguimento del massimo profitto capitalistico,
questo, al tempo stesso, è anche il fine soggettivo della classe dei
capitalisti. Per cui, ne consegue, la legge economica fondamentale del capitalismo
(pur essendo, com'è ovvio, tra le cause prime che porteranno alla rivoluzione
sociale e, dunque, ad una sostituzione del capitalismo con un nuovo e superiore
ordinamento economico) risponde pienamente agli interessi della classe dominante,
la quale - anche senza averne coscienza - su di essa fa leva ed in essa ha il
suo movente.
Questa classe inoltre, valendosi del suo potere politico, non soltanto può
utilizzare nel proprio interesse le oggettive leggi della sua formazione, ma
in certa misura può anche neutralizzare alcune delle tendenze che per
essa sono pericolose. Così, per esempio, nelle condizioni del capitalismo
opera la legge - scoperta da Marx - in forza della quale, a misura dello sviluppo
del capitalismo, si ha una riduzione del saggio generale di profitto. L'azione
di questa legge di tendenza, ovviamente, è svantaggiosa per la borghesia,
e quindi essa, per ridurne gli effetti, pone in atto altre oggettive tendenze
economiche quali l'intensificazione del lavoro, il ribasso del salario al di
sotto del valore della forza-lavoro, la riduzione degli elementi di capitale
costante, una relativa sovrappopolazione che consenta di ridurre il salario
per eccedenza di manodopera, oppure il commercio estero con il cosiddetto "Terzo
mondo" che permette una più elevata norma di profitto. Nell'epoca
dell'imperialismo, poi, la creazione di giganteschi monopoli rende assolutamente
inevitabile la tendenza del capitale non già ad un profitto medio, ma
al suo massimo possibile; per cui l'azione della suddetta legge di tendenza
viene a paralizzarsi ancor di più. È qui applicabile, dunque,
la tesi di Marx secondo cui "le stesse cause che portano alla diminuzione
del saggio generale di profitto provocano anche contraddizioni che frenano questa
diminuzione, la rallentano e, in parte, la paralizzano. Esse non distruggono
la legge, ma ne indeboliscono l'azione" ("Il Capitale", vol.
III). Per cui, se ne desume, ogni classe dominante dispone sempre di più
o meno larghi margini di azione, o, per meglio dire, di impiego delle oggettive
leggi economiche della propria formazione.
Il capitalista però, è bene precisare, vede soltanto la superfice
dei fenomeni economici; e una superfice, oltretutto, falsata dalla rivalità
di concorrenza e dall'anarchia stessa della produzione. Egli, cioè, non
è affatto in grado di discernere, dietro l'ingannevole esteriorità,
l'essenza intrinseca e la struttura interna del processo economico che storicamente
egli stesso rappresenta. Ed anche se ne fosse capace, comunque, egli non sarebbe
in grado di rimuovere od eliminare il carattere spontaneo che è alla
base delle leggi stesse del capitalismo, dato che questo, per l'appunto, ha
origine in quel dominio della proprietà privata sui mezzi di produzione
che rende inevitabile lo scontro degli interessi umani e che genera, quindi,
la più aspra ed accanita lotta di classe.
Certo è che nella storia dell'umanità nessuna classe sfruttatrice
ha mai potuto prendere chiara coscienza delle oggettive leggi dello sviluppo
sociale; e a maggior ragione, di quella della necessaria corrispondenza dei
rapporti di produzione al carattere delle forze produttive. Lo sviluppo della
società, per meglio dire, è determinato non soltanto dalle specifiche
leggi inerenti alle sue singole formazioni, ma anche da leggi sociologiche generali
che rispecchiano l'oggettivo nesso esistente tra le diverse formazioni economico-sociali
e l'unità dell'intera storia umana. Anzi, si può senz'altro affermare
che tutte le specifiche leggi delle varie formazioni non possono che agire sulla
base di queste leggi più generali. Fintanto che un dato sistema di rapporti
di produzione, in un modo o nell'altro, sa rispondere al carattere delle forze
produttive della sua formazione, finquando cioè le esigenze della legge
della necessaria corrispondenza dei rapporti di produzione al carattere delle
forze produttive verranno esaudite dalla classe che è al potere, questa
allora potrà utilizzare la suddetta legge a proprio vantaggio e nel proprio
interesse. Ma appena tale corrispondenza dovesse essere violata o venire meno,
in tal caso verrebbe a maturare la necessità di una sostituzione rivoluzionaria
dei vecchi rapporti con altri e nuovi rapporti di produzione più conformi
alle esigenze di questa legge. La borghesia, per esempio, quando compì
le sue rivoluzioni inglese e francese dei secoli XVII e XVIII, di tale legge
si valse senz'altro nell'interesse della società, ma soltanto nella misura
in cui questo interesse della società poteva coincidere o corrispondere
con gli interessi di classe della borghesia al potere. Per cui, inevitabilmente,
una simile coincidenza - oltreché del tutto inadeguata e contraddittoria
- non poteva che rivelarsi anche, sul piano storico, di breve durata.
Per altro verso, invece, quando nell'antica Roma si iniziò la crisi della
formazione schiavistica la classe dominante si provò ad uscirne cercando
di adeguarsi alle nuove condizioni che allora andavano maturando all'interno
della società. Più in particolare, il lavoro degli schiavi era
allora diventato economicamente poco produttivo e - men che meno - redditizio,
e inoltre esso non consentiva alcun perfezionamento tecnico di qualche rilievo.
Per cui gli schiavisti cercarono essi stessi di passare ad una forma di produzione
più progressiva e meglio conforme alle nuove esigenze, la quale venne
trovata nel colonato. Il colono, pur essendo formalmente indipendente dal suo
signore, era comunque obbligato a lavorare per lui e a pagargli una rendita.
Ma a differenza dello schiavo, egli già poteva disporre di una sua economia
e di una famiglia, mentre lo schiavo - ma soltanto a certe condizioni - poteva
tutt'al più accrescere di poco la quota di prodotto spettante a lui e
alla sua famiglia. All'allora livello delle forze produttive, dunque, la piccola
economia del colono corrispondeva assai meglio che non i vasti latifondi basati
sul lavoro schiavizzato, rappresentando essa, anche se solo in germe, l'inizio
di un nuovo modo di produzione - di tipo feudale - cresciuto nelle viscere del
sistema schiavistico.
Pur con l'aiuto del colonato, tuttavia, agli schiavisti non riuscì di
venir fuori dalla crisi in cui essi si dibattevano, dato che la sua efficacia
economica era come paralizzata da altre tendenze proprie al modo di produzione
schiavistico. Come Engels ha scritto, "la morente schiavitù aveva
lasciato il suo aculeo velenoso nello spregio dei liberi verso un lavoro produttivo.
Quello in cui cadde il mondo romano era un vicolo senza uscita: la schiavitù
si era resa economicamente impossibile, mentre il lavoro dei liberi era ancora
moralmente disprezzato". E gli stessi tentativi di frenare il degrado dell'economia
mediante un nuovo asservimento dei coloni, peraltro duramente contrastato, non
fecero che avvilire nuovamente questi ultimi alla loro precedente condizione
di schiavi. Non restava, dunque, che un'unica e sola via di uscita: una radicale
rivoluzione dei rapporti economici che li adeguasse al nuovo carattere delle
forze produttive sulla base di un nuovo modo di produzione, di tipo feudale,
che allora andava sorgendo dalla crisi del sistema schiavistico.
Questa legge della necessaria corrispondenza, per la prima volta, venne scoperta
nel secolo scorso dal genio di Karl Marx. E ciò nonostante, per parecchi
secoli, gli uomini se n'erano valsi sulla sola base delle sue manifestazioni
più immediate ed esteriori (ad essi, peraltro, ben note), ossia in un
modo del tutto incosciente. Diverso è invece il discorso, come si sa,
per quanto riguarda il moderno proletariato industriale, il quale - oltre che
essere l'unica classe della storia i cui interessi si possano identificare con
quelli della stragrande maggioranza della società - è anche vitalmente
interessato alla conoscenza delle oggettive leggi dello sviluppo sociale. La
vittoria della proprietà sociale, socialista, dei mezzi di produzione,
infatti, ha posto la produzione materiale, e per la prima volta nella storia,
sotto il cosciente controllo della società nella persona della classe,
per l'appunto, che sola può rappresentarla nella sua generalità,
la classe operaia .Non più dunque una cieca necessità di breve
momento come per il passato, ma l'atto cosciente di una nuova umanità
che, ormai infrante le catene della sua preistoria con l'arma della lotta di
classe, si è resa infine padrona dei propri destini.