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L'essenza di classe del gandhismo
Questo articolo è stato pubblicato sul n. 3 del 1953 della rivista sovietica "Voprosy filosofii".
Il 30 gennaio 1948, a Delhi, veniva ucciso Mohandas Karamchand
Gandhi, - il più influente leader del Congresso Nazionale indiano e uno
tra i più popolari esponenti politici dell'India.
Nonostante che scopo della sua attività Gandhi ritenesse l'unificazione
e l'indipendenza dei popoli indiani, il contenuto utopistico-reazionario della
sua teoria sociale e i metodi di lotta riformistici ad essa legati hanno portato
a che la sua attività non soltanto non favorisse il rovesciamento del
giogo coloniale, ma che fosse anche largamente utilizzata dall'imperialismo
inglese per i suoi egoistici interessi.
Dopo la seconda guerra mondiale la crisi del sistema coloniale inglese legata
alla crisi generale del capitalismo spinse gli imperialisti, inglesi a una nuova
manovra politica che consisteva nel tendere a smembrare l'India in due Stati
al fine di rinfocolare al massimo l'ostilità tra questi e conservare
così il dominio su di essi. E l'ostilità indo-musulmana, riaccesa
dai colonizzatori inglesi in India, assunse anche la forma di conflitti militari
tra stati (per esempio, nel Kashmere e nel Pejambé). Gandhi, essendo
sostenitore di un'India unita, cercò da parte sua di far cessare i sanguinosi
scontri tra le comunità religiose provocati dall'imperialismo inglese,
e invitò alla pace tra gli indù e i musulmani. Un anno e mezzo
dopo la divisione dell'India egli veniva ucciso da un attivista indù
di un'organizzazione politica di tipo parafascista. La borghesia imperialistica
inglese, dopo aver utilizzato pienamente Gandhi in quelle fasi in cui ciò
era stato possibile, nella nuova fase della lotta vide in questa figura un ostacolo
per il proprio dominio ed egli venne tolto di mezzo. L'essenza sociale del gandhismo
e il suo ruolo reazionario nella storia del movimento di liberazione nazionali
dell'India, fino ad oggi, non sono stati ancora chiariti nella letteratura marxista.
Dopo la seconda guerra mondiale la crisi del sistema coloniale dell'imperialismo
fu strettamente legata alla possente ascesa del movimento di liberazione nazionale
nell'Oriente coloniale. In India, una delle colonie più grandi e industrialmente
evolute, la fine della seconda guerra mondiale aveva schiuso una nuova fase
nello sviluppo del movimento di liberazione nazionale, e questa si caratterizzò
per la grande ripresa del movimento operaio e contadino e per il passaggio della
borghesia nazionale nel campo dell'imperialismo.
Un compito di primo piano del proletariato indiano, in quella fase, divenne
l'emancipazione delle masse contadine dall'influenza ideologica e politica della
borghesia e, in particolare, dall'influsso dell'ideologia gandhiana. Senza una
tale emancipazione, infatti, è impossibile, come indica Stalin, "far
avanzare la rivoluzione e conquistare una completa indipendenza delle colonie
capitalisticamente sviluppate e dei paesi dipendenti".
Una svolta radicale nello sviluppo dei movimenti nazionale delle colonie e dei
paesi dipendenti la produsse la grande Rivoluzione d'Ottobre, la quale attivizzò
grandemente anche i contadini indiani, il cui risveglio politico prese a trasformare
il movimento di liberazione borghese dell'India in un movimento di liberazione
popolare.
La nuova fase di tale movimento, aperta dalla Rivoluzione d'Ottobre, si iniziò
con la possente ripresa rivoluzionaria degli anni 1919-1922. La grande borghesia
indiana si trovò così di fronte al fatto di una enorme crescita
del movimento antimperialista delle masse popolari indiane e, utilizzando la
forza del movimento di massa come arma di pressione sull'imperialismo inglese,
al tempo stesso cercò i mezzi che le avrebbero dato la possibilità
di contenere l'energia rivoluzionaria delle masse entro limiti ad essa necessari
ed accettabili. "Temendo la rivoluzione più che l'imperialismo -
ha scritto Stalin, - preoccupandosi degli interessi della propria borsa più
che degli interessi della propria Patria, questa parte della borghesia - la
più ricca e influente, - con entrambe le gambe si pone nel campo degli
acerrimi nemici della rivoluzione e conclude un blocco con l'imperialismo contro
gli operai e i contadini del suo proprio paese". Ed è proprio in
quel momento, allarmante per la borghesia nazionale, che apparve sull'arena
politica dell'India una nuova figura di predicatore politico quale era Gandhi,
con la sua teoria della "nonviolenza" e della tattica "nonviolenta",
e in un'aureola di gloria da mezzo santo che egli si era procurato nel periodo
della sua ventennale attività politica in Sud Africa, dove gli era riuscito
di ottenere un certo successo nella lotta contro la discriminazione razziale
degli indiani.
Gandhi aveva costruito la sua dottrina socio-politica sui principi della religione
dell'induismo, largamente diffusa tra i contadini indiani, uno dei cui dogmi
principali si riduce all'esigenza di non causare violenza ad alcuno. Elementi
di tolstoismo, poi, mescolati a questo dogma, conferirono al gandhismo una sua
originale "ricerca della verità", indicando quali vie per conseguirla
l'amore, la sofferenza e l'autosacrificio. Data la sua intima simbiosi con l'ideologia
religiosa delle masse indiane, è difficile determinare dove finisce l'influsso
del gandhismo e dove cominci quello della religione. Il gandhismo, come anche
la religione in genere, è uno degli aspetti "dell'oppressione spirituale
che sta dovunque tra le masse popolari schiacciate da un eterno lavoro per gli
altri, dal bisogno e dalla solitudine" (Lenin). La combinazione di religione
e politica, caratteristica del gandhismo, non rappresenta certo niente di nuovo
in linea di principio. Il ruolo storico della religione consiste nel fatto che
essa è uno strumento di asservimento spirituale delle masse popolari
e, di conseguenza, un determinato strumento politico. Parlando delle radici
di classe della religione odierna, Lenin scrisse: "Oppressione sociale
delle masse lavoratrici, apparente completa loro impotenza di fronte alle cieche
forze del capitalismo... - ecco in cosa consiste la più profonda radice
odierna della religione". Va da sé, quindi, che la principale radice
del gandhismo quale fenomeno delle masse contadine è la stessa indicata
da Lenin. Infatti, gli elementi anticapitalistici presenti nel ganhdismo sono
espressi debolmente e in modo estremamente inconseguente (per esempio, l'atteggiamento
critico di Gandhi verso l'industria capitalistica e la cultura borghese), anche
se anch'essi hanno favorito la sua popolarità tra le masse. In India,
paese il cui sviluppo è stato contenuto dai colonizzatori inglesi al
livello di rapporti semifeudali, le condizioni di vita socio-economiche aiutarono
senz'altro la diffusione del gandhismo, il quale, e non a caso, ha un suo rapporto
diretto con l'ideologia feudale ancora presente nella società indiana.
Gandhi esorta a volgere la ruota della storia verso un sistema comunitario di
tipo medioevale - base del dispotismo orientale, - ed esalta la miseria, l'ascetismo
e una primitiva vita agreste. Egli propone poi di non elevare il livello di
vita dei contadini pauperizzati, mentre a tutte le classi chiede di abbassarlo
a un grado minimo di sopravvivenza che rimane la sorte di milioni di indiani.
Le sue reazionarie concezioni utopistiche sullo sviluppo economico dell'India
Gandhi le espose nella sua "Confessione di fede". Il programma economico
del gandhismo consiste nella conservazione dell'arretratezza feudale delle campagne
indiane e nella sua ferma opposizione a qualsiasi forma di industrializzazione
(o "macchinismo" secondo la terminologia di Gandhi). L'attuazione
pratica di questo programma egli la vede: 1) nello sviluppo dell'artigianato
contadino; 2) nella diffusione della "ciarka" (filatoio a mano); 3)
nella propaganda del "Khadi" (metodo di tessitura manuale).
I piani di riforme economiche di Gandhi si basano su di una infima produttività
del lavoro, su di una tecnica primitiva e su primitivi metodi di produzione.
Il suo atteggiamento verso l'industrializzazione è in diretto rapporto
con la sua predica del lavoro rurale. Ma in tale questione le concezioni di
Gandhi subirono anche alcuni mutamenti, passando da una totale negazione della
"satanica" civiltà e del "macchinismo" al riconoscimento,
ma soltanto a certe condizioni, di una loro eventuale opportunità. Infatti,
dopo aver iniziato col negare la meccanizzazione nel 1909, dopo trent'anni egli
giunse alla conclusione che "la meccanizzazione è buona quando non
richiede mani per il lavoro. Ma è un male quando si hanno più
mani di quanto il lavoro richieda, come in India".
Il programma socio-economico di Gandhi è inoltre pieno di inconciliabili
contraddizioni. Così, per esempio, egli riconosce la necessità
(non la possibilità, ma la necessità!) di conservare la proprietà
terriera latifondista e feudale in India - che considera inviolabile, - e al
tempo stesso si dichiara per un miglioramento delle condizioni di vita dei contadini
indiani. Gandhi, inoltre, difende la necessità di conservare un tale
sostegno della reazione e del dispotismo quali sono i principati indiani, giungendo
a una diretta giustificazione dell'ineguaglianza sociale e al riconoscimento
della necessità delle caste. Secondo le sue stesse parole, la necessità
di conservare le caste "è basata sull'economia dell'energia sociale
(sulla sua giusta ripartizione) e su di una sana autolimitazione dell'uomo per
mezzo della volontà". In tal modo l'"economia delle forze sociali"
deve attuarsi, per Gandhi, in favore della condizione privilegiata delle classi
sfruttratrici, mentre ad una "sana autolimitazione" egli richiama
soltanto le affamate classi inferiori. Sotto una simile fraseologia pseudoscientifica
non è certo difficile scorgere una giustificazione dei privilegi sociali,
uno smussamento dell'antagonismo di classe e un'esaltazione del conservatorismo
e della reazione.
A Gandhi, naturalmente, è estranea una impostazione storico-concreta
dei problemi: egli ragiona per astrazioni, dal punto di vista dei cosiddetti
"eterni principi" della morale e della religione, e un tale modo di
pensare non è che il riflesso ideologico del vecchio ordine di vita feudale.
A proposito dei consimili filosofemi "sovrastorici" di Tolstoj Lenin
ha scritto: "... una ideologia del sistema orientale, del sistema asiatico,
- questo è il tolstoismo nel suo reale contenuto storico. Di qui l'ascetismo,
la non resistenza al male con la violenza, le profonde noterelle di pessimismo
e la convinzione che `tutto è nulla, tutto è il nulla materiale"'.
La teoria gandhiana della "nonviolenza", nella sua forma, è
sì equivalente alla teoria tolstoiana della "non resistenza al male".
Ma il contenuto sociale del gandhismo è diametralmente opposto al tolstoismo.
Quest'ultimo, infatti, a dire di Lenin, è espressione della spontanea
protesta e dell'indignazione del contadino patriarcale russo, e ne riflette
i lati deboli e quelli forti. Il gandhismo, invece, è sorto quale determinata
forma della lotta di classe della borghesia reazionaria indiana contro il movimento
rivoluzionario delle masse popolari indiane. Gandhi, in definitiva, utilizza
"la spontanea protesta e l'indignazione" delle masse contadine indiane,
oppresse da un duplice giogo, e ne sfrutta l'ideologia religiosa per i fini
di classe della borghesia e dei latifondisti indiani.
Oltre al suo programma socio-economico, il gandhismo include in sé la
teoria etico-religiosa della "nonviolenza" - il cui metodo pratico
è la "resistenza nonviolenta", - e la teoria dell'"armo-nia"
degli interessi di classe, la cui conclusione pratica è l'appello alla
collaborazione della classi. In risposta alle sanguinose repressioni con cui
gli imperialisti inglesi soffocarono il movimento popolare, Gandhi chiese al
popolo indiano di "... imparare a mantenere il proprio equilibrio spirituale
alla vista non di un solo migliaio di uccisioni di uomini e donne innocenti,
ma di molte migliaia di loro... Che ognuno guardi alla forca come ad una cosa
comune nella vita". Nel febbraio 1922, ancora, egli faceva la seguente
dichiarazione: "Io apprezzo la mia propria salvezza più di qualsiasi
altra cosa, anche più della salvezza dell'India", e "quindi
io sono dapprima un indù, e poi un patriota". Inoltre, in questo
momento decisivo per l'India, Gandhi - pur riconosciuto leader del movimento,
- concluse un vile e a dir poco spregiudicato compromesso con il governo inglese,
decapitando con ciò stesso il movimento rivoluzionario di massa (febbraio
1922). In seguito, nel suo articolo "la mia colpa" ("Mea culpa"),
Gandhi motivò questo "sviamento" (più esattamente, tradimento)
del movimento con il fatto che le masse avevano violato il principio della "nonviolenza".
E come tale, come "violenza delle masse", egli stigmatizzava il rifiuto
dei contadini di pagare la rendita terriera ai latifondisti! Va qui da sé
che soltanto la logica degli interessi di classe induceva Gandhi a vedere in
tale pacifica forma di protesta delle "azioni violente". Caratteristica,
a tale proposito, è la seguente sua dichiarazione: "Se non vogliamo
che la violenza sia creata dalla non resistenza al male con la violenza, noi
dobbiamo alla svelta tornare indietro... Che l'avversario ci accusi pure di
codardia, - meglio una cattiva gloria che il tradimento del proprio dio".
La dottrina gandhiana della "nonviolenza" era il riflesso della paura
delle classi sfruttatrici dinanzi al crescente movimento popolare di emancipazione.
Più tardi, nel 1930, Gandhi stesso riconobbe apertamente la necessità
di una lotta su due fronti: contro il nemico esterno - l'imperialismo inglese,
- e contro il nemico interno, vale a dire il movimento rivoluzionario delle
masse. "Il mio scopo - egli scrisse al viceré dell'India, - consiste
nell'indirizzare il movimento della nonviolenza sia contro la violenza della
forza organizzata del dominio britannico, sia contro il crescente partito della
violenza".
L'essenza di classe del gandhismo, poi, si rivela con particolare evidenza nella
teoria della cosiddetta "armonia" tra gli interessi degli sfruttatori
e degli sfruttati. Essa rappresenta la parte nodale del gandhismo, dalla quale
derivano conseguentemente il carattere riformistico della politica e della tattica
di Gandhi e la sua continua tendenza al compromesso e alla collaborazione di
classe. Si è qui in presenza della chiave che ci rivela il senso sociale
delle altre sue parti: la dottrina etico-religiosa della "nonviolenza",
la tattica della "resistenza nonviolenta" e il suo programma socio-economico.
Facciamo qualche esempio. Quale unico mezzo per la soluzione dei conflitti tra
il contadino e il proprietario terriero Gandhi propone l'arbitrato: la lotta
di classe, per lui, è cosa da vietarsi in modo categorico e incondizionato.
Pur reclamandosi difensore dei contadini indiani, al tempo stesso egli cerca
di smussare le contraddizioni antagonistiche che oppongono il contadino al proprietario.
Inoltre, se da un lato Gandhi teorizza l'"autentico democratismo"
in una idealizzata "semplice vita agreste", dall'altro lato - e malgrado
tutti i suoi raziocini di tipo tolstoiano, - non soltanto riconosce la necessità
di conservare il sistema del latifondo, ma trova anche che tale sistema sia
"auspicabile" per gli interessi dell'economia indiana.
Per quanto poi riguarda i rapporti tra capitale e lavoro Gandhi propone agli
operai di appellarsi al "buon senso" dei capitalisti, mentre riduce
l'intera lotta in questione alla sola aspirazione a conquistare il "cuore
dei padroni", e non certo i diritti umani. Su questo punto egli si espresse
in modo significativo nel suo articolo "Salari e valori" ("Wages
and values"), affermando: "Io so che lo sciopero è un diritto
imprescindibile degli operai per garantire la giustizia, ma esso deve considerarsi
come un delitto subito dopo che i capitalisti adottano il principio dell'arbitrato...
Quando gli operai di fabbrica cominciano a identificare i propri interessi con
gli interessi del fabbricante, allora si innalzano anch'essi, e con essi l'industria
del nostro paese".
In una completa e più totale antitesi con le idee del socialismo scientifico,
poi, Gandhi propagandò anche un suo tipo particolare di "socialismo",
fatto apposta per tutte le classi sociali, - sfruttatori e sfruttati. Nel 1934
egli scrisse: "Il nostro socialismo e comunismo deve essere fondato sulla
nonviolenza e sulla armonica collaborazione tra il lavoro e il capitale, tra
il proprietario terriero e l'affittuario". Per poi, dopo sei anni, dichiarare
pubblicamente: "Spero che non si possa credere che io abbia iniziato una
lotta che si potrebbe concludere con l'anarchia e il pericolo rosso". Sul
caso di una possibile rivoluzione, poi, egli si espresse nel modo seguente:
"Io non prenderò mai parte alla privazione delle classi proprietarie
della loro proprietà privata senza che ci sia una giusta (!) causa. Voi
potete star certi che io impiegherò tutta la forza del mio influsso per
evitare una guerra di classe. Nel caso in cui sarà fatto il tentativo
di privarvi ingiustamente della vostra proprietà io lotterò dalla
vostra parte". L'essenza reazionaria e antipopolare del gandhismo non potrebbe
esprimersi meglio.
Nel pieno del movimento rivoluzionario degli anni 1919-1922 il governo inglese
aveva emanato una legge che abrogava le consuete procedure giudiziarie e che
autorizzava a infliggere la carcerazione senza alcun processo preventivo (la
cosiddetta "legge Rowlett"). Questa legge suscitò una seria
preoccupazione tra le vaste masse popolari, e Gandhi, che agiva per delega e
a nome del Congresso Nazionale indiano, e di conseguenza della borghesia indiana,
cercò di assoggettare il movimento popolare mediante l'organizzazione
di una "resistenza nonviolenta" a tale progetto di legge. Le masse
dell'intero paese, invece, risposero all'appello di Gandhi con forme attive
di lotta che superavano di molto i desideri e la volontà del "grande
saggio": nel paese dilagò una grande ondata di scioperi, dimostrazioni
e rivolte in cui si esprimeva la straordinaria umanità di tutti i popoli
dell'India, senza differenze di caste, religioni e lingue. Questo movimento
venne poi schiacciato con atroci e violentissime repressioni. Al che Gandhi,
spaventato dall'attivismo rivoluzionario delle massa, tradì gli interessi
del suo popolo, e dichiarò di non avere alcun rapporto "con le dubbie
persone che hanno commesso i disordini". Cercando poi di riportare il movimento
entro limiti accessibili al controllo dei leaders del Congresso, Gandhi stesso,
e per la prima volta in India, avanzò un piano di "non collaborazione
nonviolenta" che avrebbe dovuto, nelle sue intenzioni, porre gli imperialisti
inglesi nella necessità di concedere l'indipendenza ai popoli indiani.
Esso prevedeva in sé varie fasi: dal boicottaggio delle merci inglesi
a quello degli organi legislativi e degli istituti d'insegnamento, e infine
- ma solo quale ultima ed estrema misura, - il rifiuto di pagare le imposte.
Il movimento di massa, tuttavia, e fin dai suoi primi passi, travalicò
di gran lunga i limiti del programma politico riformista di Gandhi, dato che
le masse non erano affatto propense ad attendere elemosine dai loro sfruttatori,
organizzando invece scioperi, rivolte contro i proprietari e, infine, un grandioso
sciopero generale della durata di alcuni giorni. La "nonviolenza"
di Gandhi, che significava condanna della lotta di classe dei lavoratori in
ogni sua forma e condanna dell'azione rivoluzionaria del proletariato e dei
contadini indiani, ne subì così una seria sconfitta, rivelando
alle masse che essa non si presentava affatto al suo predicatore come un fine
in sé, ma quale strumento di lotta politica e sociale nelle mani della
grande borghesia reazionaria e dei latifondisti feudali.
"In nessun caso la violenza delle masse" era il motto di Gandhi, e
gli imperialisti inglesi, il cui dominio in India veniva minacciato ad ogni
ripresa della lotta di liberazione, consideravano il gandhismo - lo volesse
o meno lo stesso Gandhi, - come un loro fedele alleato, tant'è che Gandhi
stesso, quando cadde il dominio inglese in India, dichiarò che ciò
che aveva consentito tale caduta era "funesto" per... l'India medesima,
in quanto la violenza delle "folle" è inammissibile "perfino
in risposta a una grave provocazione". In realtà egli non si era
mai posto il compito di rovesciare concretamente e attivamente il dominio coloniale
inglese: il suo scopo si limitava soltanto ad influire "moralmente"
sui colonizzatori al fine di "convincerli" della necessità
di concedere all'India l'autonomia.
Un altro esempio di come Gandhi intendesse la sua famigerata teoria della "nonviolenza",
il cui metodo di lotta egli definiva come "omeopatico", lo si ebbe
nel 1930, durante i grandi fatti accaduti a Peshavar. Quando il movimento di
massa raggiunse proporzioni di un certo rilievo, i soldati indù dei due
plotoni del 18• Reggimento reale inviati a Peshavar per reprimerlo si
rifiutarono di sparare sulla folla dei musulmani. Si iniziò così
una fraternizzazione, e molti dei soldati presenti consegnarono ai peshavari
le proprie armi. Vennero allora immediatamente evacuate tutte le truppe di stanza
a Peshavar, e così per dieci giorni la città si trovò nelle
mani del popolo. In seguito 17 soldati del Reggimento vennero severamente condannati
dal tribunale militare di campo.
In che modo Gandhi accolse questa manifestazione di "alleanza tra fedi
e classi"? Siccome questa "nonviolenza" e questa "alleanza
delle classi" avevano creato una reale minaccia non solo all'imperialismo
inglese ma anche per l'esistenza stessa delle classi dirigenti nazionali, Gandhi
condannò nel modo più risoluto i fatti e i soldati di Peshavar,
dichiarando: "Il soldato che non si sottomette all'ordine di aprire il
fuoco viola il giuramento da lui stesso prestato, rendendosi colpevole di una
criminale insubordinazione...". Assai più tardi, nel 1946, Gandhi
stesso rivelò fino in fondo i veri motivi della sua indignazione del
1930, non mascherandosi più con parole come "giuramento" e
"insubordinazione", ma dichiarando apertamente che l'unità
di operai e contadini, come anche di musulmani e indù, "... avrebbe
significato abbandonare l'India alla mercé della gentaglia... Io non
vorrei vivere nemmeno 125 anni per vedere una simile fine. Piuttosto vorrei
bruciare vivo nel fuoco". Così egli disse!
Poi, nei casi in cui Gandhi fece invece appello alla disubbidienza, egli chiese
che essa fosse "breve", "umile" e "volontaria".
Amore verso gli oppressori, umiltà e volontaria sottomissione ai colonizzatori
imperialisti - ecco a che cosa, in definitiva, esortava Gandhi il suo popolo.
Caratteristico è poi il fatto che egli, temendo più di tutto le
azioni rivoluzionarie delle masse, in tutta la sua lunga vita sociale e politica
non abbia mai indetto delle campagne di disobbedienza civile di massa!
Predicando la "nonviolenza" quale principale metodo di lotta politica
e sociale il gandhismo ha causato un enorme danno alla lotta di classe e di
liberazione nazionale dell'India, distogliendo il movimento di massa dai suoi
obiettivi rivoluzionari e indirizzandolo nel solco di un inconseguente quanto
contraddittorio socialriformismo. Inoltre, esso non è stato un fenomeno
casuale. Infatti, il gandhismo è sorto proprio quando le masse indiane
si affacciarono per la prima volta alla vita politica, quando la coscienza di
classe del proletariato e dei contadini, nonché il loro spirito organizzativo,
erano ancora molto bassi. L'oppressione, l'arretratezza e il basso livello della
coscienza di classe delle masse indiane, uniti all'enorme ruolo della religione
in ogni sua forma, rappresentarono un terreno più che favorevole al diffondersi
del gandhismo e al rafforzamento del suo influsso tra le masse popolari. Ed
è in queste condizioni che le teorie utopistiche e reazionarie di Gandhi
- che si richiamavano all'antichità, idealizzavano la vita patriarcale
e consacravano le vecchie tradizioni e i canoni dell'induismo, - trovarono facilmente
sostegno tra le masse contadine. Insomma, portando sugli scudi i dogmi e gli
istituti dell'induismo, e rafforzando così quanto vi era di più
retrivo, immobile e consuetudinario nella vita e nella coscienza dei contadini
indiani, il gandhismo, con i suoi ideali sociali, si è palesemente rivelato
quale difensore della schiavitù spirituale del suo popolo e quale riconosciuto
strumento della grande borghesia reazionaria indiana nella sua lotta contro
il movimento rivoluzionario delle masse. Ed è proprio in questo che si
deve vedere la sua reale missione storica.
Nel suo rapporto politico al XVI Congresso del PC(b) Stalin ha dato la seguente
definizione degli esponenti politici borghesi del tipo di Gandhi: "I signori
borghesi fanno conto di inondare di sangue questi paesi e di basarsi sulle baionette
della polizia, chiamando in aiuto gente del tipo di Gandhi. Non può esserci
dubbio che le baionette della polizia siano un cattivo sostegno. Anche lo zarismo,
a suo tempo, si appoggiò sulle baionette della polizia, ma quale altro
sostegno ne venne fuori è a tutti noto. Per ciò che riguarda poi
i coadiutori del tipo di Gandhi, lo zarismo ne ebbe un intero gregge nei conciliatori
liberali d'ogni risma".
Il gandhismo sta oggi vivendo una sua profonda crisi interna. E lo sviluppo
del movimento di liberazione nazionale ha svolto un ruolo decisivo nell'approfondirne
questa crisi. la missione storica di Gandhi, dal punto di vista delle classi
sfruttatrici, si è conclusa con il passaggio della grande borghesia indiana
a una politica di incondizionata capitolazione dinanzi al capitale inglese e
americano. E questo anche se il ruolo del gandhismo, quale strumento di oppressione
spirituale delle masse arretrate dell'India, non si è ancora affatto
concluso. Il suo terreno sociale, infatti, è ancora presente nella realtà
del paese, e la lotta contro di esso rappresenta una delle forme della lotta
di classe del proletariato indiano. Ancora nel 1924 Stalin così indicava
le enormi possibilità rivoluzionarie dell'India: "Vi è un
giovane e combattivo proletariato rivoluzionario che ha con sé un alleato
come il movimento di liberazione nazionale, - vale a dire, un alleato indubbiamente
grande e indubbiamente serio. Dinanzi alla rivoluzione, invece, ci sta un avversario,
a tutti noto, come l'imperialismo straniero, - privo di credito morale e che
si è conquistato l'odio generale delle masse oppresse e sfruttate dell'India".
Con la fine della seconda guerra mondiale il movimento di liberazione nazionale
indiano è entrato in una nuova e superiore fase del suo sviluppo, il
cui tratto caratteristico sono principalmente lo spirito organizzativo dimostrato
dal proletariato e la crescita della sua coscienza di classe. La ripresa della
lotta rivoluzionaria delle masse ha poi portato a una divisione delle forze
sociali del paese e alla formazione di due campi distinti: quello antimperialista,
che riunisce in sé tutti gli elementi rivoluzionari con alla testa la
classe operaia, e quello imperialista e reazionario della grande borghesia e
dei feudali indiani. Il gandhismo non può ormai più contenere
il crescente movimento rivoluzionario delle masse, e l'emancipazione dei lavoratori
indiani dall'influsso dell'ideologia gandhiana è ora il passo necessario
e non più rinviabile sulla via verso la vittoria della rivoluzione indiana.