Biblioteca Multimediale Marxista
il bolscevico
Organo del Partito Marxista-Leninista Italiano
Fondato il 15 dicembre 1969
SU GARIBALDI
(il titolo è redazionale)
Pubblicato sul n. 23 del 1982 e ripubblicato in occasione del bicentenario della nascita l’11 luglio 2007.
Cento anni fa, il 2 giugno 1882, dopo una vita eroicamente
spesa al servizio della causa dell'indipendenza nazionale e dell'internazionalismo,
nella sua Caprera si spegneva Giuseppe Garibaldi, la figura più fulgida
del nostro Risorgimento, il patriota conseguente, il combattente senza il quale
la nascita dello Stato italiano non avrebbe dato luogo in quei tempi all'unificazione
dell'intera nazione.
Quantunque piegato e tormentato dall'artrite deformante contratta nelle mille
battaglie combattute in nome della libertà, appena qualche mese prima
aveva ostinatamente deciso di presenziare a Palermo alle celebrazioni del sesto
centenario dei Vespri siciliani che per la prima volta si tenevano dacché
il popolo siciliano con le armi in pugno dette lezione all'intera Europa, allora
soffocata dall'assolutismo feudale, di come si può combattere e vincere
l'invasore e l'oppressore e conquistare libertà municipali e rudimenti
di un governo costituzionale altrove e altrimenti sconosciuti.
In tal modo Garibaldi aveva significativamente voluto suggellare la continuità
tra quella rivolta e l'eroica impresa dei Mille che avevano visto il popolo
siciliano protagonista di meravigliose avventure capaci di segnare gli eventi
storici successivi. E, senza saperlo, aveva affidato al mondo un testamento
politico non di parole ma di azioni, di quelle sue gesta che suscitano tanta
ammirazione nel popolo italiano perché egli fu l'unico a credere nel
Risorgimento come a un grande moto di popolo, nell'unificazione del Paese come
a una guerra di liberazione condotta anzitutto dalle masse popolari che languivano
sotto il tallone di ferro della dominazione straniera e delle tirannie degli
Stati che smembravano la penisola.
Fu appunto questa sua concezione del Risorgimento come movimento di massa che
incarnasse il ventaglio di alleanze tra la borghesia nazionale rivoluzionaria,
la piccola borghesia democratica e le masse popolari con al centro il movimento
contadino, a porlo in perenne conflitto con i settori liberalmoderati capeggiati
da Cavour ma anche con quelli nazional-rivoluzionari di Mazzini.
Dal primo lo divideva tutto, l'idea stessa di unità d'Italia: Cavour
coltivava, neppure tanto in segreto, la speranza di un'unità d'Italia
mutilata, quale estensione dello Stato piemontese alla sola Italia settentrionale
perché considerava il Meridione una palla al piede; frutto di un'astuta,
paziente, prudente fino alla codardia, interminabile operazione diplomatica
benedetta e incoraggiata dal monarca francese Napoleone III che amava pavoneggiarsi
a liberatore d'Italia ma che in realtà ambiva a soffocarla sotto il suo
protettorato, a considerarla una merce di scambio per ingiustificate annessioni
di regioni come Savoia e Nizza, quest'ultima decisamente italiana, e a favorirne
l'unificazione di quel tanto che bastava a contrapporla all'Austria e alla Germania
così da stornare la loro pressione militare dai confini con la Francia
verso il fianco meridionale.
Da Mazzini, animato come lui dall'aspirazione a una repubblica democratica italiana,
lo dividevano molte cose e anzitutto l'aristocratica e dottrinaria concezione
mazziniana del Risorgimento fondata sul protagonismo di pochi individui e non
del popolo - non a caso lo aveva chiamato: "Uomo di grandi teorie, non
di pratica. Parla sempre di popolo, e non lo conosce" - che vedeva la guerra
di liberazione nazionale come una successione di complotti e di moti che coinvolgevano
ristretti gruppi di patrioti.
Ipotecato, mutilato, condizionato dall'ala liberal-moderata, il Risorgimento
nazionale è segnato dalla debolezza, dalla viltà, dal tradimento
della borghesia italiana. Una classe che rinuncia alla lotta conseguente contro
l'oppressore austriaco nel timore di suscitare un eccessivo e incontrollabile
moto rivoluzionario lungo la penisola. Essa teme di stringere l'alleanza con
le masse contadine perché sa che esse le imporrebbero la rivoluzione
borghese radicale per la rottura dell'antico sistema di sfruttamento feudale
nelle campagne e l'affrancamento dell'economia rurale dai ceppi che soffocano
lo sviluppo delle forze produttive. E invece imporrà una trasformazione
impercettibile e graduale attraverso forme combinate feudali, semifeudali, capitalistiche
dei rapporti di produzione che giustifica l'alleanza con i proprietari fondiari
non certo con i contadini.
"Il popolo italiano - scriveva Marx a proposito degli insuccessi incontrati
dalla lotta di liberazione in Italia - non ha indietreggiato dinnanzi a nessun
sacrificio.
A prezzo del suo sangue e dei suoi averi esso era pronto a condurre a termine
l'opera iniziata e a conquistare con la lotta la sua indipendenza nazionale.
Ma al suo coraggio, al suo entusiasmo, al suo spirito di sacrificio, in nessun
luogo hanno risposto coloro che detenevano il potere. Apertamente o segretamente,
essi hanno fatto di tutto, non per mettere in opera i mezzi ad essi affidati
per la liberazione dalla brutale tirannia austriaca, ma per paralizzare la forza
popolare e per ripristinare in sostanza, il più presto possibile, l'antico
ordine".
Ecco dove sta la debolezza del Risorgimento italiano. Quella tragica frattura
tra il disegno politico e il presupposto economico dell'unità impedirà
la partecipazione ininterrotta generale e decisiva delle grandi masse popolari.
Per poter contare su un autentico sostegno popolare il Risorgimento doveva essere
liberazione del Paese e nel contempo compimento della rivoluzione borghese attraverso
la piena trasformazione degli antichi rapporti di produzione in rapporti di
produzione capitalistici nelle città come nelle campagne, al nord come
al sud. Invece non fu così, fu soprattutto, nella sua ideazione come
nell'elaborazione e nella direzione, prerogativa esclusiva del vertice piemontese
della nobiltà e della borghesia liberal-moderata.
Il solo a distaccarsene, più nell'azione che nel pensiero, fu Giuseppe
Garibaldi. Tanto Cavour quanto Mazzini temevano le masse popolari, temevano
il loro protagonismo, osteggiavano la loro partecipazione, agivano sulle loro
teste eppure pretendevano di rappresentarle, dirigerle, governarle. Gli anni
successivi avrebbero dimostrato quale profonda frattura si era aperta tra il
governo centrale e le masse popolari in conseguenza di questo modo di agire
prima dell'Unità e della feroce politica antipopolare seguita dal nuovo
Stato all'indomani. Non è un caso se le truculente guerre del brigantaggio,
condotte per ridurre alla ragione i recalcitranti nuovi sudditi, e un sistema
di esose tassazioni ai danni degli strati più poveri del popolo avrebbero
mostrato ai più il volto reazionario del nuovo Stato italiano non dissimile
da quelli vecchi.
L'arretrato compromesso tra la borghesia moderata settentrionale e i grandi
proprietari terrieri del meridione lasciò intatta la situazione presistente
e permise ai grandi latifondisti del centro-sud, ai baroni feudali della Sicilia
e delle isole di conservare intatti le loro posizioni di potere e i loro privilegi
nel nuovo stato unificato. Per di più la mancanza di un partito proletario
- del resto prematuro se si pensa all'arretratezza dell'industrializzazione
e all'accentuato frastagliamento statale - rese impossibile l'egemonia del proletariato
come avvenne in altre rivoluzioni borghesi del Novecento, si pensi alla Russia
e alla Cina.
Pur non avendo la lucida consapevolezza della correlazione tra questione economico-sociale
e questione politica, Garibaldi, legato alle aspirazioni e ai sentimenti popolari,
si batté per la mobilitazione e la partecipazione delle masse, le antepose
sempre all'azione diplomatica e militare dello Stato piemontese anche quando
fu costretto al compromesso o a interrompere il suo disegno che vedeva l'unificazione
dell'Italia sotto la spinta di una generalizzata sollevazione popolare dalla
Sicilia a Venezia e grazie all'irresistibile strumento della guerra popolare.
Avendo fiducia nel popolo e contando sulla guerra popolare conseguì risultati
politici altrimenti irraggiungibili e smentì clamorosamente i falsi amici
della causa nazionale.
La "meravigliosa marcia di Garibaldi da Marsala a Palermo" è
"una delle più stupefacenti imprese militari del nostro secolo",
dimostrò che "un'audace offensiva è il solo sistema di tattica
che una rivoluzione si può permettere" (Engels); e insieme alle
sue imprese successive per la liberazione dell'intera penisola dimostra la superiorità
della guerra popolare nella lotta di liberazione nazionale.
A chi oggi prova orrore davanti a ogni tipo di violenza, la storia del nostro
Risorgimento sta lì a ricordargli che nessun passo in avanti nella direzione
dell'unificazione del Paese sarebbe stato possibile senza l'uso della violenza
rivoluzionaria. Senza la violenza rivoluzionaria i conflitti antagonistici tra
oppressori e oppressi, sfruttatori e sfruttati non potrebbero schiudere l'epoca
nuova e garantire il sopravvento della causa giusta sulla reazione.
Sullo sviluppo degli avvenimenti pesò l'assenza, dovuta al ritardato
e insufficiente sviluppo del capitalismo, di un proletariato omogeneo, organizzato
come movimento politico indipendente e forte di rivendicazioni economiche, sociali,
politiche sue proprie, cosicché il Risorgimento si risolse in un movimento
di carattere esclusivamente borghese. Si pensi che già in Francia il
'48 aveva invece visto il socialismo come forza politica organizzata delle masse
lavoratrici. Ma su di esso assai di più pesò il rapporto di forza
tra le diverse componenti della borghesia nazionale, i grandi latifondisti e
la piccola e media borghesia, un rapporto sfavorevole alle forze più
avanzate e progressiste e sbilanciato dalla parte della conservazione.
La piccola e media borghesia e le componenti più radicali della borghesia
nazionale erano fragili e minate da profonde contraddizioni mentre in Cavour
e nella corona i liberal-moderati, i capitalisti agrari, mercantili e industriali
e i proprietari terrieri, trovarono la garanzia dell'unità e del sopravvento.
Garibaldi ebbe a soffrire di un tale rapporto di forze, i suoi compromessi,
le sue indecisioni, le sue scelte contraddittorie, le sue sconfitte sono lo
specchio della situazione politica arretrata e del compromesso raggiunto dalle
nuove classi dominanti. Più in là non poteva andare e quando vi
si spinse andò incontro al fallimento.
Garibaldi fu grande patriota e rivoluzionario borghese ma anche un internazionalista
che impugnò la spada per la causa della libertà e dell'indipendenza
degli altri popoli. Entusiastico il suo appoggio alla Comune di Parigi e con
altrettanto entusiasmo parlò del socialismo come "sole dell'avvenire".
Condannato alla pena di morte per aver partecipato a un complotto rivoluzionario
antiaustriaco, non rinunciò per un attimo ai suoi ideali, si sottrasse
al carcere cui lo aveva condannato quello stesso Stato piemontese che in seguito
avrebbe tratto tanti vantaggi dai suoi servigi ed emigrò nelle Americhe,
dove per quasi un quindicennio combatté con la convinta idea di favorire
l'indipendenza delle repubbliche sudamericane. Da allora fu soprannominato l'eroe
dei due mondi.
In seguito, ritornato in Italia, non sarebbe mai più venuto meno il suo
entusiastico sostegno alle lotte per l'indipendenza nazionale dei popoli europei
e degli altri continenti e si disse sempre pronto a combattervi di persona.
Ciò contribuì ad amplificare la fama delle sue gesta nel mondo
intero, lo rese celebre, certamente la figura più nota e invidiata del
nostro Risorgimento, a ragione il più amato in patria e all'estero. Il
rispetto e l'amore che lo circondano poggiano non sulla sabbia delle vuote parole
ma sul granito di una vita coerentemente dedicata a questi nobili ideali.
Nel passato hanno sempre fallito sia coloro che l'hanno voluto cingere con l'aureola
della santità per nasconderlo e renderlo inoffensivo sia coloro che se
ne appropriarono indebitamente e sfrontatamente per stravolgere il contributo
che seppe dare al nostro Risorgimento.
A quest'ultima sorta di briganti appartiene Craxi. Costui ha dato vita a una
nauseante campagna propagandistica per appropriarsene e mettere in bocca a Garibaldi
ciò che questi non si è mai sognato di sostenere magari scoprendolo
come il precursore del progetto socialfascista della seconda repubblica e del
craxiano "socialismo tricolore". È un'impresa disperata: tra
Garibaldi e Craxi c'è un abisso, tanto sincero patriota, politico appassionato
moralmente retto, votato alla causa del progresso, il primo, quanto politicamente
despota e prevaricatore, spregiudicato intrigante della causa della reazione,
il secondo. C'è l'abisso tra la rivoluzione e il fascismo; aveva provato
a colmarlo, fallendo, Mussolini, figurarsi se riuscirà oggi Craxi. Se
proprio l'aspirante duce d'Italia insiste nella ricerca di un illustre maestro
tra i personaggi del nostro Risorgimento allora si ispiri a Crispi non a Garibaldi.
E l'identificazione sarà coerente, l'analogia, calzante.
Il fatto è che oltre un secolo ci separa dai tempi dell'unificazione
nazionale. "L'Italia democratica e rivoluzionaria, cioè l'Italia
della rivoluzione borghese che si liberava dal giogo austriaco, l'Italia del
tempo di Garibaldi, si trasforma definitivamente - denuncia Lenin sin dalla
vigilia della Prima guerra mondiale - davanti ai nostri occhi nell'Italia che
opprime altri popoli e depreda la Turchia e l'Austria, l'Italia di una borghesia
brutale e sudicia, reazionaria in modo rivoltante, che all'idea di essere ammessa
alla spartizione del bottino, si sente venire l'acquolina in bocca". I
decenni trascorsi dacché Lenin pronunciò questa spietata radiografia
della borghesia italiana ben sappiamo che le sono stati fatali. Ed è
appunto di questa borghesia incarognita da settant'anni ancora di ininterrotto
conflitto con la classe proletaria e la grande maggioranza del popolo, che Craxi
è il rappresentante, è il leader che pare garantirle gli sbocchi
autoritari e fascisti di cui ha bisogno per dare stabilità a un regime
che sopravvive a se stesso.
Giuseppe Garibaldi rimane la bandiera dell'unità nazionale, appartiene
al popolo italiano e alle forze del progresso.