Biblioteca Multimediale Marxista
il bolscevico
Organo del Partito Marxista-Leninista Italiano
Fondato il 15 dicembre 1969
La legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo
Questo articolo è stato pubblicato sul n. 5, 1953 della rivista teorica
mensile dell'Istituto di Filosofia dell'Accademia delle Scienze dell'Urss "Voprosy
filosofii". I titolini sono nostri.
La legge economica fondamentale del capitalismo nel suo insieme,
che agisce già nell'epoca del capitalismo premonopolistico, è
stata scoperta dal fondatore del comunismo scientifico Karl Marx. E' la legge
del plusvalore, che, come disse Engels, offre la chiave per comprendere l'intera
produzione capitalistica.
La legge del plusvalore rivela quella che è l'essenza dello sfruttamento
capitalistico e, con ciò stesso, rappresenta il fondamento economico
dell'antagonismo di classe tra il proletariato e la borghesia insuperabile -
entro i limiti del capitalismo, - e sempre più acuto. Questa legge spiega
l'origine e la natura di tutte le forme di reddito delle classi e dei gruppi
sfruttatori della società borghese: il profitto industriale e commerciale,
l'interesse di prestito e la rendita fondiaria. Tutte queste forme di reddito,
come Marx ha dimostrato nel terzo volume del "Capitale", altro non
sono che forme trasformate del plusvalore stesso. Rilevando il valore determinante
della produzione del plusvalore in tutt'intera l'economia capitalistica, Marx
ha indicato che la creazione del plusvalore è "l'anima motrice della
produzione capitalistica".
Tuttavia, la legge del plusvalore - essendo una legge generale del capitalismo
che agisce in tutti gli stadi di sviluppo del modo di produzione capitalistico,
- di per sé ancora non caratterizza la specificità del moderno
capitalismo monopolistico.
Capitalismo premonopolistico e capitalismo monopolistico
La legge del plusvalore, nei diversi stadi di sviluppo del capitalismo, si realizza
in forme concrete differenti. Nelle condizioni del capitalismo premonopolistico
essa si attua innanzitutto nella forma di garantire un saggio medio di profitto.
Nell'epoca del capitalismo monopolistico invece, come ha dimostrato Stalin,
il motore della produzione capitalistica è non già un profitto
medio e nemmeno un sovraprofitto, - che è, di regola, soltanto un certo
superamento di quello medio, - ma il massimo profitto.
Concretizzando e sviluppando la legge del plusvalore relativamente alle condizioni
del capitalismo monopolistico, Stalin ha scoperto la legge economica fondamentale
del capitalismo contemporaneo.
"I tratti principali e le esigenze della legge economica fondamentale del
capitalismo contemporaneo - scrive Stalin, - potrebbero formularsi all'incirca
in questo modo: realizzazione del massimo profitto capitalistico mediante lo
sfruttamento, la rovina e l'impoverimento della maggioranza della popolazione
di un determinato paese, mediante l'asservimento e la spoliazione sistematica
dei popoli degli altri paesi, particolarmente dei paesi arretrati, e infine,
mediante le guerre e la militarizzazione dell'economia nazionale, utilizzate
per realizzare i profitti massimi" ("Problemi economici del socialismo
nell'URSS"). Questa classica definizione, che è la generalizzazione
teorica della moderna realtà capitalistica, svela sia lo scopo della
produzione capitalistica nelle condizioni del capitalismo monopolistico, sia
i mezzi utilizzati dai monopoli per conseguire questo fine.
Il massimo profitto rappresenta una particolare categoria economica che si distingue
in modo sostanziale dal profitto medio. Essi si distinguono: 1) per i destinatari,
2) per entità, 3) per le fonti.
Nell'epoca del capitalismo premonopolistico il profitto medio lo riceveva ogni
capitalista individuale nella cui impresa ci fossero condizioni di produzione
socialmente normali. Per ciò che riguarda il massimo profitto - tipico
dell'epoca del capitalismo monopolistico, - esso invece non è affatto
intascato da tutti i capitalisti, ma soltanto dalle unioni monopolistiche dei
capitalisti: le piccole e medie imprese capitalistiche non monopolizzate non
ricevono alcun massimo profitto. Per di più, siccome i monopoli accrescono
i loro profitti a spese di un travasamento, con vari mezzi, di una parte del
valore aggiunto delle imprese non monopolizzate, la ricezione del massimo profitto
da parte dei monopoli porta a una diretta diminuzione del profitto delle imprese
non monopolizzate.
Inoltre, per entità il massimo profitto supera di gran lunga il profitto
medio. Certo, la statistica borghese non offre dati degni di fiducia né
sul saggio medio di profitto, né sul massimo profitto intascato dai monopoli
capitalistici. Tuttavia, perfino quelle poche informazioni che si hanno a tale
proposito testimoniano di quanto il tasso di profitto dei monopoli capitalistici
superi il saggio medio di profitto. Così, per esempio, nel 1929 il tasso
di profitto di tutte le corporazioni degli USA, detratte le contribuzioni, consisteva
del 6,7 %, mentre il tasso di profitto di 615 grandi compagnie del 13,4 %. Probabilmente
queste cifre sono fortemente ribassate, dato che le compagnie capitalistiche,
falsificando i propri bilanci, celano notevoli profitti sotto forma di esagerate
detrazioni di ammortamento e di varie riserve più o meno nascoste. Nel
suddetto caso, tuttavia, per noi sono importanti non tanto le cifre assolute,
quanto la loro correlazione e il fatto che il tasso di profitto di 615 grandi
compagnie si sia rivelato due volte maggiore di quella di tutte le corporazioni.
Questo superamento, poi, sarà assai più notevole se si prendono
non tutte le grandi corporazioni, ma soltanto le maggiori associazioni monopolistiche.
Per esempio, nel 1951 il tasso di profitto in tutta l'industria di lavorazione
degli USA era del 27,9 %, ma, oltre a ciò, nel suo capitale la compagnia
"Dupont de Nemours" ricevette il 43,3 % dei profitti, la "General
Electric Company" il 52,8 %, e la "General Motors Company" il
61,6 %; e questo mentre, dall'altro lato, nelle piccole e medie compagnie con
attivi fino a 250mila dollari il tasso di profitto equivaleva soltanto al 17,2
%.
Il profitto massimo si distingue da quello medio non soltanto sotto l'aspetto
quantitativo, ma anche qualitativo. Mentre il profitto medio, nell'epoca del
capitalismo premonopolistico, aveva quale sua fonte il plusvalore prodotto dal
lavoro degli operai salariati, il massimo profitto - caratteristico dell'epoca
del capitalismo monopolistico, - si ricava non soltanto a spese dello sfruttamento
degli operai salariati, ma anche con lo sfruttamento dei piccoli produttori
di merci sia negli stessi paesi capitalistici che in quelli coloniali e dipendenti.
In tal modo, se la categoria "profitto medio" esprimeva i rapporti
di produzione tra la classe degli operai salariati e la classe dei capitalisti,
la categoria "massimo profitto" esprime i rapporti, in primo luogo,
tra la borghesia monopolistica e la classe operaia; in secondo luogo tra la
borghesia monopolistica e i piccoli produttori di merci all'interno dei paesi
capitalistici e, in terzo luogo, tra il capitale monopolistico delle metropoli
e le masse lavoratrici sfruttate dei paesi coloniali e dipendenti.
Il massimo profitto si distingue da quello medio anche per i metodi della sua
appropriazione. Per il capitalismo monopolistico è innanzitutto caratteristica
la vendita delle proprie merci, da parte dei monopoli, al di sopra del loro
valore e l'acquisto da parte loro della forza-lavoro al di sotto del suo valore.
Tratto caratteristico del massimo profitto è altresì il fatto
che esso esprime altri rapporti all'interno della classe dei capitalisti che
non il profitto medio. Mentre la legge del plusvalore significa equiparazione
del tasso di profitto per i capitalisti di tutti i settori della produzione,
la legge del massimo profitto, al contrario, pone in una posizione diseguale
i vari capitalisti in quanto essa presuppone una ridistribuzione del valore
aggiunto all'interno della loro classe a tutto vantaggio dei monopolisti e a
danno delle imprese non monopolizzate.
Sarebbe però sbagliato ritenere che col sorgere della legge del massimo
profitto la legge del plusvalore cessasse la propria azione. Lenin ha indicato
che il capitalismo monopolistico rappresenta una sovrastruttura sul vecchio
capitalismo della libera concorrenza. Le leggi che sono proprie del capitalismo
in generale non cessano di agire neanche nell'epoca del capitalismo monopolistico.
Ma la questione di come propriamente agisce la legge del profitto medio nelle
condizioni del capitalismo monopolistico esige una specifica elaborazione ed
esula dai limiti del presente articolo.
Distinguendosi in modo sostanziale dal profitto medio, il massimo profitto si
distingue anche dal comune sovraprofitto che si ricavava ancora nell'epoca del
capitalismo premonopolistico.
Un tipico modo di ricavare il sovraprofitto è il perfezionamento della
tecnica nelle singole imprese capitalistiche, il quale porta a una crescita
del grado di sfruttamento nelle date imprese. A seguito dell'introduzione di
perfezionamenti tecnici il valore delle merci, in queste imprese, si abbassa
rispetto al valore sociale di queste stesse merci, mentre la differenza tra
il valore sociale e quello individuale i singoli capitalisti la intascano nella
forma di eccedente valore aggiunto o di sovraprofitto. Inoltre essi ricavano
il sovraprofitto soltanto temporaneamente, fino a quando cioè le loro
imprese superano le altre del dato settore industriale per attrezzamento tecnico
e, di conseguenza, per il livello di produttività del lavoro.
A differenza del sovraprofitto il profitto massimo rappresenta un fenomeno non
di breve durata, ma a lungo termine. Probabilmente anche il massimo profitto
non è una grandezza costante, dato che esso è soggetto a oscillazioni
spontanee, in particolare a seguito dell'alternarsi di riprese, crisi e depressioni
industriali. Ciò nonostante, rispetto al profitto delle imprese non monopolizzate
esso sta pur sempre ad un livello notevolmente più elevato.
La realizzazione del massimo profitto capitalistico
Il concetto di massimo profitto quale motore della produzione capitalistica
contemporanea ha un suo determinato contenuto. Il massimo profitto non è
semplicemente un maggior profitto. Ogni capitalista cerca sempre di ricavare
un maggior profitto. Marx, nel suo lavoro "Teorie del plusvalore",
ha sottolineato che scopo della produzione capitalistica è sempre la
creazione del massimo di valore aggiunto col minimo di capitale anticipato.
Ed è proprio nella loro corsa per un maggior profitto che i capitalisti
distolgono i capitali dai settori con una bassa norma di profitto e li investono
nei settori con una norma di profitto più elevata. Questo travaso di
capitale, tuttavia, e indipendentemente dalla volontà e dai desideri
dei singoli capitalisti, porta alla creazione di una norma media di profitto.
Accanto alla concorrenza intersettoriale, che si esprime nel travaso di capitali
da alcuni settori di produzione ad altri, si ha anche una concorrenza intrasettoriale.
I capitalisti individuali, nella loro corsa per il maggior profitto, introducono
nelle loro imprese dei perfezionamenti tecnici, elevano la composizione organica
del proprio capitale. Ma, dato che tutti i capitalisti agiscono nella stessa
direzione, risultato oggettivo di ciò è un aumento della composizione
organica del capitale sociale complessivo, il che, a sua volta, genera la tendenza
a una riduzione del tasso medio di profitto.
Il capitalismo monopolistico si distingue da quello premonopolistico per il
fatto che il ricavo del massimo profitto, quale profitto che supera non soltanto
quello medio ma anche il sovraprofitto, diventa per esso una necessità
economica. La questione non sta tanto nel fatto che gli affaristi del capitalismo
monopolistico contemporaneo tendano al massimo profitto, ma nella circostanza
che l'appropriazione del massimo profitto è per loro una necessità
obiettiva, una condizione obbligatoria della riproduzione allargata.
Perché per realizzare una riproduzione più o meno allargata, nelle
condizioni del capitalismo monopolistico, è necessario il massimo profitto,
allorché nell'epoca del capitalismo premonopolistico per tale scopo era
sufficiente il profitto medio?
Tratto caratteristico del capitalismo monopolistico è la concentrazione
della produzione in grandi e gigantesche imprese capitalistiche. Stante l'enorme
entità di tutto il capitale investito nelle grandi imprese, in esse assai
elevato è il peso specifico del capitale fisso investito nelle macchine
e nell'attrezzatura, negli edifici di fabbrica e officina e negli impianti.
Stante una più rapida crescita del capitale costante rispetto a quello
variabile, a più rapidi ritmi cresce quella parte del capitale costante
che è investita nel capitale fisso. Così, per esempio, nell'industria
americana, nel periodo 1899-1929, il valore delle materie prime consumate è
cresciuto di 5,9 volte, allorché il valore dell'usura delle macchine
è salito di 10,4 volte. Ma quanto maggiore è l'intero capitale
che opera nelle imprese, e quanto maggiore, in particolare, è il capitale
fisso, tanto maggiore sarà il capitale aggiunto che si richiede per la
riproduzione allargata. Come Marx ha indicato, "le proporzioni in cui può
allargarsi il processo della produzione si determinano non secondo arbitrio,
ma sono imposte dalla tecnica". Stante un elevato livello della tecnica
nelle grandi imprese capitalistiche, per la riproduzione allargata si richiede
un notevole capitale aggiunto, e quindi non ogni profitto è sufficiente
per la riproduzione allargata.
La necessità di grandi investimenti aggiuntivi di capitale condiziona
altresì il fatto che, con un rapido sviluppo della tecnica, si ha un
rapido invecchiamento delle attrezzature, cosicché ai capitalisti non
di rado capita di dover rinnovare il proprio capitale fisso molto prima del
suo invecchiamento fisico, per cui questo rinnovamento si accompagna solitamente
con un aumento della somma generale del capitale operante. In verità,
nell'epoca del capitalismo monopolistico agisce anche la tendenza opposta: i
monopoli, investendo grandi capitali nei macchinari delle proprie imprese e
temendo la perdita di una parte di questi capitali nel caso di un rinnovamento
delle attrezzature prima della scadenza della loro utilità fisica, frenano
il rinnovamento del capitale fisso. E, ciò nondimeno, la lotta di concorrenza
impone necessariamente, di quando in quando, di rinnovare il capitale fisso
giunto ad invecchiamento.
Se perfino per allargare le imprese già operative con un elevato livello
tecnico si richiedono capitali assai notevoli, capitali ancor più cospicui
sono necessari per organizzare nuove imprese.
Nelle condizioni del capitalismo monopolistico per la riproduzione allargata
si richiede l'investimento di assai notevoli capitali aggiunti. Inoltre, via
via che cresce la composizione organica del capitale il tasso medio di profitto
diminuisce. Se la riproduzione allargata si fosse realizzata soltanto a spese
del profitto medio le possibilità di crescita della produzione si sarebbero
sempre più ridotte. Ancora Marx, rilevando che "con la riduzione
del tasso di profitto si riduce anche la norma di accumulazione", indicò:
"In quanto la norma di crescita del valore dell'intero capitale, il tasso
di profitto, serve da stimolo della produzione capitalistica (parimenti a che
la crescita del valore del capitale serve quale suo unico scopo), una riduzione
del tasso di profitto rallenta la formazione di nuovi capitali autonomi e, in
tal modo, rappresenta una minaccia per lo sviluppo del processo capitalistico
di produzione" (K. Marx, "Il Capitale", vol. III).
Un importante fattore di riduzione del tasso di accumulazione è il crescente
impiego improduttivo del reddito nazionale. Con la crescita del parassitismo
e della putrefazione del capitalismo una sempre maggiore quota del reddito nazionale
viene spesa sia per il consumo improduttivo degli stessi capitalisti, sia per
la copertura di varie spese improduttive quali il mantenimento di un parassitario
apparato statale borghese e di un sempre più pletorico apparato commerciale.
Infine, la norma di accumulazione si riduce anche a seguito del fatto che, nelle
condizioni del capitalismo monopolistico, sono sempre più frequenti,
si inaspriscono e rivestono un carattere di lunga durata le gravi crisi economiche
che attanagliano il capitalismo, durante le quali l'accumulazione del capitale
viene seguita da una drastica caduta della produzione.
Sicché, se da un lato la colossale concentrazione della produzione, l'elevato
livello tecnico e il grande peso specifico del capitale fisso soggetto a rapida
usura comportano che, per la riproduzione allargata, si richieda un investimento
di enormi capitali aggiunti, dall'altro lato, a seguito della crescita del parassitismo
e della putrefazione del capitalismo, aumenta l'impiego improduttivo del valore
aggiunto e dell'intero reddito nazionale. E' in forza di queste condizioni che,
per assicurare una più o meno regolare riproduzione allargata si rende
necessario, nell'epoca del capitalismo monopolistico, non già un profitto
medio, ma il massimo profitto.
Sarebbe certamente sbagliato presumere che i monopoli capitalistici tendano
a intascare i massimi profitti in nome della riproduzione allargata. Scopo dei
monopoli, infatti, non è tanto la crescita della produzione come tale,
ma proprio l'appropriazione del massimo profitto. Tuttavia, indipendentemente
da questi motivi che guidano i capitalisti nella loro attività, una più
o meno regolare attuazione della riproduzione allargata costituisce una necessità
oggettiva. La lotta di concorrenza impone ai capitalisti di allargare la produzione,
dato che ogni capitalista che non lo facesse inevitabilmente verrebbe eliminato
da concorrenti più potenti e sarebbe privato dell'intero capitale. Come
indica Marx, "lo sviluppo della produzione capitalistica rende la continua
crescita del capitale investito nell'impresa industriale una necessità,
mentre la concorrenza impone a ogni capitalista individuale le leggi immanenti
del modo di produzione capitalistico come leggi esterne coercitive. Essa gli
impone di allargare continuamente il proprio capitale al fine di conservarlo;
ma allargare il proprio capitale egli può soltanto mediante una progressiva
accumulazione" ("Il Capitale", vol. I).
Le crisi capitalistiche
La necessità di un massimo profitto per attuare una più o meno
regolare riproduzione allargata non significa affatto che la riproduzione allargata,
nelle condizioni del capitalismo monopolistico, abbia sempre luogo. Nel capitalismo
in generale la riproduzione allargata non ha un carattere continuo, dato che
la produzione capitalistica si sviluppa in modo ciclico e che, oltre a ciò,
la crescita della produzione viene interrotta dalle crisi economiche. Nell'epoca
del capitalismo monopolistico questo carattere discontinuo dello sviluppo della
produzione capitalistica si rafforza ancor di più, mentre le crisi di
sovrapproduzione, che portano a una distruzione delle forze produttive della
società, sono più frequenti e si inaspriscono. Per una maggiore
lunghezza, profondità e asprezza si caratterizzano le crisi economiche
nel periodo della crisi generale del capitalismo, il che, in notevole misura,
concorre a un rallentamento dei ritmi medi della riproduzione allargata. Tuttavia,
una riduzione dei ritmi di crescita della produzione non significa che la riproduzione
allargata cessi di essere una necessità oggettiva o che cessi del tutto.
Perfino nella odierna fase della crisi generale del capitalismo, quando le forze
produttive segnano il passo e le possibilità di crescita della produzione
capitalistica si riducono fortemente a seguito del restringimento del mercato
mondiale e della riduzione della sfera di applicazione delle forze dei principali
paesi capitalistici alle risorse mondiali, "il carattere ciclico dello
sviluppo del capitalismo - la crescita e la riduzione della produzione, - deve
tuttavia mantenersi", benché nelle odierne condizioni "la crescita
della produzione, in questi paesi, avviene su base ristretta, poiché
il volume della produzione in questi paesi si ridurrà" (Stalin,
Problemi economici del socialismo nell'URSS).
I monopoli capitalistici ricavano i massimi profitti innanzitutto mediante lo
sfruttamento e l'immiserimento della più parte della popolazione di un
dato paese e in primo luogo del proletariato.
Nell'epoca del capitalismo monopolistico l'intensificazione dello sfruttamento
del proletariato si attua in vari modi, e in particolare mediante il meccanismo
dei prezzi di monopolio, per mezzo di una intensificazione del lavoro, dell'inflazione
e di una maggiore imposizione fiscale.
Accanto ai prezzi di monopolio un importante fattore della caduta del salario
reale è l'inflazione, che rappresenta un fenomeno cronico per quasi tutto
l'arco della crisi generale del capitalismo e in particolare per la sua fase
attuale.
La crescita dei prezzi sulle merci, che è oggi un effetto sia dei prezzi
di monopolio stabiliti dai cartelli e dai trust, sia per l'inflazione che si
inasprisce sempre di più, porta a una repentina caduta del salario reale,
dato che il salario nominale non aumenta in conformità con la crescita
dei prezzi sulle merci di largo consumo. Il divario tra il movimento del salario
monetario e il movimento dei prezzi sulle merci si allarga notevolmente in relazione
con la politica di "congelamento" dei salari perseguita dai governi
borghesi.
I monopoli rafforzano lo sfruttamento degli operai non soltanto con i prezzi
di monopolio, ma anche con una intensificazione del lavoro che nell'epoca del
capitalismo monopolistico raggiunge il suo massimo grado.
Le risorse carpite dagli Stati borghesi agli operai nella forma di imposte si
travasano nelle tasche dei monopolisti attraverso il meccanismo delle redditizie
ordinazioni statali. La crescita delle imposte, nelle condizioni dell'odierno
capitalismo, è indissolubilmente legata alla corsa agli armamenti e alla
militarizzazione dell'economia capitalistica, che serve quale importante strumento
di ricavo dei massimi profitti da parte dei monopoli.
All'interno dei propri paesi i monopoli capitalistici spremono il massimo profitto
non soltanto a costo di uno smisurato sfruttamento del proletariato, ma anche
a spese di un intensificato sfruttamento delle masse lavoratrici non proletarie,
e in particolare dei contadini. Lo sfruttamento di questi si attua principalmente
attraverso il meccanismo dei prezzi di monopolio. Dominando sul mercato, i monopoli
capitalistici stabiliscono elevati prezzi di monopolio sulle merci da essi vendute
e bassi prezzi di monopolio sui prodotti agricoli da essi acquistati. Nel periodo
dal 1931 al 1938 negli USA i prezzi sulle merci industriali acquistate dai contadini
costituivano in media il 120 % rispetto al livello dei prezzi che esisteva prima
della prima guerra mondiale, mentre i prezzi sui prodotti agricoli equivaleva
soltanto al 94%.
I monopoli capitalistici, facendo incetta dei prodotti agricoli a prezzi che
non coprono il loro valore, vendono poi questi prodotti ai consumatori delle
città a prezzi che superano il loro reale valore, ottenendo in tal modo
il massimo profitto a spese dello sfruttamento delle masse lavoratrici sia delle
città che delle campagne.
I monopoli capitalistici sfruttano le masse lavoratrici delle campagne anche
attraverso il meccanismo del credito. Con lo sviluppo del capitalismo nell'agricoltura
cresce anche l'indebitamento dei contadini. E, insieme con l'indebitamento,
aumenta anche la somma di quelle risorse che il capitale monopolistico succhia
alle masse lavoratrici contadine nella forma di pagamenti percentuali.
Un altro mezzo per assicurare il massimo profitto capitalistico sono, come insegna
Stalin, l'asservimento e il sistematico saccheggio dei popoli degli altri paesi,
e in particolare di quelli arretrati. Principali metodi di saccheggio dei popoli
dei paesi coloniali e dipendenti da parte dei monopoli capitalistici sono lo
scambio ineguale e l'esportazione di capitale.
Lo scambio ineguale, che si esprime in una esportazione di merci industriali
dai paesi capitalistici in quelli coloniali e dipendenti ad elevati prezzi di
monopolio e nella contemporanea estrazione da essi di materie prime e derrate
alimentari a bassi prezzi di monopolio, dopo la seconda guerra mondiale si è
intensificato.
Predicando una politica di blocco economico nei riguardi dei paesi del campo
socialista, le potenze imperialistiche, con alla testa gli USA, ostacolano in
tutti i modi le relazioni dei paesi coloniali e dipendenti con l'URSS e i paesi
di democrazia popolare. Il che riduce artificiosamente le possibilità
di smercio per i paesi coloniali e dipendenti e concorre alla caduta dei prezzi
sulle loro merci.
Accanto allo scambio non equivalente un enorme ruolo nel saccheggio dei popoli
coloniali e dipendenti lo svolge l'esportazione di capitali nei paesi arretrati,
dove il profitto è solitamente elevato dato che i capitali sono pochi,
il prezzo della terra relativamente basso, il salario pure è basso, e
le materie prime a poco prezzo.
Dopo la seconda guerra mondiale gli USA hanno notevolmente aumentato l'esportazione
di capitale e hanno superato tutti gli altri paesi capitalistici presi insieme
per entità di capitale investito all'estero. La somma generale degli
investimenti di capitale USA all'estero è cresciuta dai 12,5 miliardi
di dollari del 1939 ai 36,1 miliardi del 1951, e di essi ben 20 miliardi spettano
agli investimenti privati, il cui 70-80 % sono investiti nei paesi coloniali
e dipendenti.
Il tasso di profitto sugli investimenti di capitale esteri supera notevolmente
il tasso di profitto sui capitali investiti all'interno del paese. Così,
se prendiamo 100 quale norma di profitto nell'industria di lavorazione degli
USA per il 1951, il tasso di profitto sul capitale investito nei paesi dell'America
Latina è di 166, nei paesi dell'Europa occidentale è di 145, e
negli altri paesi coloniali e dipendenti è di 214.
Un importante mezzo per garantire il massimo profitto ai monopoli è l'artificiosa
conservazione, da parte dell'imperialismo, dei residui feudali nei paesi coloniali
e dipendenti. L'oppressione delle sopravvivenze feudali, insieme con quella
coloniale imperialistica, frena lo sviluppo dell'industria in questi paesi,
il che concorre a una crescita dei prezzi delle merci sui mercati coloniali
e a un ricavo maggiore dei massimi profitti da parte dei monopoli stranieri.
Un terzo metodo per assicurare il massimo profitto per i monopoli sono le guerre
e la militarizzazione dell'economia nazionale.
Lenin e Stalin hanno più volte rilevato che le guerre servono quale strumento
per ricavare enormi profitti da parte dei monopoli capitalistici, e che colossali
profitti di guerra sono ricavati a spese di un immiserimento delle masse popolari
e di un estremo abbassamento del livello di vita dei lavoratori.
Durante la prima guerra mondiale i monopoli capitalistici guadagnarono enormi
profitti, ma profitti ancor più grandiosi essi ricavarono nel periodo
della seconda guerra mondiale. Particolarmente grandi furono i profitti dei
monopoli americani, che ricevettero colossali ordinazioni militari dal governo
a prezzi di favore. Dell'eccezionale arricchimento dei monopoli americani sul
sangue delle masse popolari è prova il fatto che nei sei anni della seconda
guerra mondiale (1940-1945) i profitti delle corporazioni americane hanno raggiunto
i 116,8 miliardi di dollari contro i 26,6 miliardi dei sei anni prebellici;
il che significa un aumento di 4,4 volte. Per ciò che riguarda i grandi
monopoli, poi, i loro profitti sono aumentati in misura ancora maggiore. Così,
per esempio, il profitto di 34 compagnie, nel 1942, superava il profitto medio
annuo degli anni 1936-1939 di quasi 10 volte, mentre il profitto delle cinque
maggiori compagnie di più di 100 volte.
La legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo determina tutti
i principali aspetti e tutti i principali processi di sviluppo della produzione
capitalistica nella sua fase monopolistica. Essa svolge un ruolo decisivo nell'economia
capitalistica, e determina un estremo inasprimento delle contraddizioni che
sono proprie all'imperialismo.
Questa legge spiega tutti i principali fenomeni presenti nell'economia e nella
politica dell'imperialismo. E innanzitutto, si deve rilevare che l'azione di
questa legge si rispecchia in tutti e cinque i contrassegni dell'imperialismo
rivelati da Lenin.
Fondamento economico dell'imperialismo è il monopolio. Le unioni monopolistiche
dei capitalisti, in tutta la loro attività, sono guidate dalla corsa
al massimo profitto. E proprio per ricavare il massimo profitto i grandi capitalisti
si uniscono in monopoli che stabiliscono prezzi elevati sulle merci e sottopongono
a sfruttamento e a saccheggio le masse popolari sia all'interno dei propri paesi
che all'estero. In nome del massimo profitto i monopoli conducono l'un l'altro
una esasperata lotta di concorrenza.
Il capitale finanziario
La corsa al massimo profitto penetra anche l'attività dei monopoli bancari.
Gli apologeti borghesi mascherano in tutti i modi il fatto che scopo effettivo
sia dei monopoli industriali che di quelli bancari è l'appropriazione
del massimo profitto; essi raffigurano falsamente i monopoli quali "organizzatori"
della vita economica che attuano una "regolazione cosciente" dell'economia
nell'interesse della società. Denunciando i lacché del sacco di
scudi, Lenin indicò invece che questa "regolazione cosciente"
attraverso le banche consiste nel derubare la gente da parte di un pugno di
monopolisti organizzati.
La fusione, o compenetrazione, del capitale bancario monopolistico con il capitale
industriale monopolistico - che porta alla formazione del capitale finanziario
e di una oligarchia finanziaria, - è altresì strettamente legata
alla legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo. La sempre maggiore
penetrazione delle grandi banche nell'industria mediante l'accaparramento di
azioni delle imprese industriali, l'emissione di carte valori e la partecipazione
alla costituzione di nuove società per azioni, tutto questo serve quale
strumento finalizzato al massimo profitto da parte dei monopoli bancari. "Il
capitale finanziario concentrato in poche mani e che gode del monopolio di fatto,
ricava un enorme e sempre crescente profitto dall'emissione di carte valori,
dai prestiti statali, ecc., rafforzando il dominio dell'oligarchia finanziaria
e obbligando l'intera società a pagare un tributo ai monopolisti"
(Lenin, Opere, vol. 22).
Uno degli aspetti più tipici del capitalismo monopolistico è l'esportazione
di capitale, anch'essa legata alla legge economica fondamentale del capitalismo
contemporaneo. Come si è già mostrato più sopra, l'esportazione
di capitale serve quale importante strumento finalizzato al massimo profitto
mediante il sistematico saccheggio dei popoli degli altri paesi, e in particolare
di quelli arretrati.
Nell'epoca dell'imperialismo si inasprisce drasticamente la contraddizione fondamentale
del capitalismo, quella cioè tra il carattere sociale della produzione
e la forma capitalistica di appropriazione dei risultati della produzione. Nella
corsa per il massimo profitto i monopoli concentrano nelle loro mani una sempre
maggior parte del capitale sociale complessivo e della produzione, consolidano
le proprie imprese, si impadroniscono delle fonti mondiali di materia prima,
delle vie e dei mezzi di comunicazione, ecc. A seguito di ciò si accresce
la socializzazione della produzione, in sorprendente contraddizione con la quale
si ha la forma capitalistica privata dell'appropriazione.
La corsa dei monopoli al massimo profitto e lo sfruttamento, la rovina e l'immiserimento
delle masse popolari portano ad un aggravarsi della incompatibilità tra
la crescita delle possibilità produttive del capitalismo e la riduzione
della domanda solvibile; il che, inevitabilmente, condiziona la frequenza, l'approfondirsi
e l'acuirsi delle crisi economiche. Oltre a ciò i monopoli, cercando
così di garantirsi elevati profitti, si provano a mantenere prezzi elevati
sulle loro merci perfino durante le crisi, il che ostacola il riassorbimento
dell'eccesso di merci presente sul mercato e porta a un perdurare delle crisi.
Tuttavia, per quanto i monopoli cerchino di mantenere elevati i prezzi durante
le crisi, l'interruzione della realizzazione delle merci e la repentina caduta
dei loro prezzi portano inevitabilmente a che, negli anni di crisi, perfino
i profitti dei monopoli cadano visibilmente. La dialettica è tale che,
in nome del massimo profitto, i monopoli intensificano al massimo lo sfruttamento
e l'immiserimento delle masse lavoratrici; poi l'immiserimento delle masse,
stante una simultanea crescita della produzione capitalistica, porta alle crisi,
e queste crisi sono seguite da una caduta della massa e del tasso di profitto.
L'imperialismo è capitalismo morente, la vigilia della rivoluzione socialista,
perché nell'epoca dell'imperialismo raggiungono una asprezza estrema
le contraddizioni tra il lavoro e il capitale, tra le metropoli e le colonie,
e tra le stesse potenze imperialistiche.
Nell'epoca del capitalismo monopolistico la contraddizione tra il lavoro e il
capitale si inasprisce al massimo grado in virtù del fatto che lo sfruttamento,
la rovina e l'immiserimento delle masse lavoratrici a seguito dell'azione della
legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo raggiungono il loro
limite estremo.
Lo sfruttamento e il saccheggio dei popoli coloniali portano a una crescita
del malcontento di questi popoli, a una ripresa della lotta di liberazione nazionale
contro l'imperialismo, e questo concorre alla trasformazione dei paesi coloniali
e dipendenti da riserve dell'imperialismo in riserve della rivoluzione proletaria.
La legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo suscita un ulteriore
inasprimento delle contraddizioni anche all'interno dello stesso campo imperialista.
La lotta dei monopolisti dei singoli paesi per il massimo profitto li costringe
a cercare di ottenere il possesso di monopolio delle colonie e delle sfere d'influenza,
dato che proprio il dominio di monopolio sui mercati dei paesi coloniali e dipendenti
garantisce loro la possibilità di appropriarsi del massimo profitto.
Tuttavia, dato che il mondo è già diviso tra un pugno di "grandi
potenze" e che i vari paesi capitalistici si sviluppano in modo estremamente
ineguale, la lotta per il massimo profitto si trasforma inevitabilmente in una
lotta per la spartizione del mondo mediante le guerre imperialistiche. In tal
modo l'azione della legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo,
così come la legge - ad essa subordinata - dell'ineguale sviluppo del
capitalismo nell'epoca dell'imperialismo, condiziona l'inevitabilità
degli scontri, dei conflitti e delle guerre tra le potenze imperialistiche.
Stalin, rilevando che la tesi leniniana sulla inevitabilità delle guerre
tra paesi capitalistici rimane in vigore anche al tempo presente, osserva che
l'Inghilterra e la Francia non possono contenere all'infinito l'espansione coloniale
dell'imperialismo americano se non col risultato di minacciare una catastrofe
per gli elevati profitti dei capitalisti anglo-francesi.
Il valore decisivo della legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo
nel preparare le condizioni di una trasformazione rivoluzionaria del sistema
capitalistico è stato rilevato dal Rapporto al XIX Congresso del PC(b)
dell'URSS con le seguenti parole: "Questa legge svela e spiega le stridenti
contraddizioni del capitalismo, rivela le cause e le radici della aggressiva
politica di rapina degli Stati capitalistici. L'azione di questa legge conduce
ad un approfondirsi della crisi generale del capitalismo, ad un inevitabile
accrescimento e scoppio di tutte le contraddizioni della società capitalistica".
La conoscenza di questa legge offre ai lavoratori un chiaro orientamento negli
avvenimenti storici contemporanei, dischiude dinanzi a loro una chiara prospettiva
rivoluzionaria e li arma della ferma convinzione nella vittoria finale del comunismo
sul capitalismo.
13 ottobre 2004