Biblioteca Multimediale Marxista
Mio caro Dina
In questa lettera comincerò a ragionare dei mali che affliggono la Sicilia.
La cosa è molto ardua per me, che conosco assai poco il paese. Ed è
più ardua in se stessa, perché le opinioni su questo argomento,
anche tra coloro che nacquero e vissero nell’Isola, sono disparatissime.
Io andrò quindi assai cauto. Metterò sotto gli occhi del lettore
i fatti che potei raccogliere, esporrò le conclusioni a cui sono venuto,
e il modo, il processo logico con cui v’arrivai. Il lettore potrà
da se fare le sue osservazioni, e giudicare le mie. Prima di tutto, voglio notare
che ogni anno a me accade di ricevere lettere di giovani professori, i quali,
invitati dal Governo ad andare in qualche liceo o ginnasio della Sicilia, mi
chiedono ansiosamente, in nome loro e delle famiglie, notizia dei paesi cui
sono destinati. lo mi rivolgo allora a qualche Siciliano amico, e domando. Sono
stato molte volte maravigliato nel ricevere una risposta, che sembra esprimere
come un giudizio popolare. Se io chiedevo di paesi delle province di Catania
o di Siracusa, quasi sempre la risposta era: – Paesi buonissimi, si sta
come in Toscana, si può andare coll’oro in mano. – Se invece
chiedevo di paesi della Sicilia occidentale, specialmente delle province di
Girgenti e di Caltanissetta, la risposta era spesso: – Eh! paesi di solfare,
bisogna stare attenti –. Egli è noto che la Sicilia vien travagliata
da quelle piaghe sociali, di cui tanto si parla adesso, principalmente nella
sua parte occidentale. Qui appunto, non occupandoci per ora di Palermo che dà
luogo ad altre considerazioni, è il centro delle solfare, che, dopo l’agricoltura,
sono la più grande e ricca industria di quell’isola, industria
che occupa molte migliaia di lavoranti d’ogni sesso ed età. Ed
è noto che il lavoro delle solfare è fatto in un modo che molto
spesso si può dire iniquo. Non solamente non si pigliano in esse tutti
i necessarii provvedimenti a salvare la vita degli operai, che qualche volta
restano soffocati dai gas che n’emanano, ed anche si accendono; sepolti
sotto le volte che cadono, perché male costruite, o perché l’intraprenditore
ha fatto assottigliare i pilastri, per cavarne altro minerale: ma segue di peggio
ancora. La creatura umana è sottoposta ad un lavoro che, descritto ogni
giorno, sembra ogni giorno più crudele e quasi impossibile. Centinaia
e centinaia di fanciulli e fanciulle scendono per ripide scarpe e disagevoli
scale, cavate in un suolo franoso e spesso bagnato. Arrivati nel fondo della
miniera, sono caricati del minerale, che debbono riportare su, a schiena, col
pericolo, sdrucciolando su quel terreno ripido e mal fido, di andar giù
e perder la vita. Quelli di maggiore età vengono su, mandando grida strazianti;
i fanciulli arrivano piangendo. È noto a tutti, è stato mille
volte ripetuto, che questo lavoro fa strage indescrivibile fra quella gente.
Molti ne muoiono; moltissimi ne restano storpiati, deformi o malati per tutta
la vita. Le statistiche lo provarono ad esuberanza, la leva militare ha dato
un numero spaventoso di riformati, l’inchiesta industriale ha raccolto
tutte le notizie che si possono desiderare. È cosa che mette terrore.
Il Congresso di Milano, l’onorevole Di Cesarò, l’onorevole
Luzzatti ed altri levarono un grido generoso di protesta e di dolore contro
queste enormità, le quali sono tanto più gravi, quanto più
colla salute si distrugge la moralità di quelle popolazioni. Gli organismi
deboli rimangono distrutti, i forti sopravvivono per comandare, tiranneggiare,
opprimere fanciulli e fanciulle accatastati in quegli oscuri androni, dove ogni
cosa può succedere. L’uomo si abbruti sce, si demoralizza e diviene
facilmente un nemico della società, che lo tratta così spietatamente.
Abbiamo qui dunque una prima sorgente del male. Si vede cogli occhi, si tocca
con mano in che modo la moralità di certe classi sociali venga distrutta.
Segue in Sicilia quello che era cominciato a seguire in tutti i paesi di miniere,
con qualche differenza però. Altrove si pensò subito a porvi rimedio
con leggi, che proteggono l’operaio e specialmente il fanciullo, il quale
non deve lavorare oltre un certo numero di ore, non deve essere sottoposto a
lavori che lo ammazzano o lo demoralizzano. La vita e la moralità dell’operaio
furono efficacemente protette; il male fu fermato nel suo cammino. Dal 1859
fino ad oggi, a noi è invece mancato il coraggio, la previdenza necessaria
a fare la legge che tanti avevano già fatta. Essa si discute ora negli
Ufficii, e, com’è naturale, tutti l’approvano. Ci sarà
però il tempo d’approvarla e discuterla anche in Parlamento, in
questa sessione? O sarà la Camera troppo occupata, troppo stanca, troppo
sopraffatta? E, approvata una volta questa legge, avrà il Governo la
ferma volontà di farla eseguire? Si leverà certo nelle miniere
un grido di protesta, e sarà invocato il sacro nome della libertà
violata. Gli operai picconieri grideranno che col proibire il lavoro dei fanciulli,
sarà diminuito il guadagno degli adulti. Le madri grideranno che s’impedisce
ai loro figli di guadagnarsi un pane, e che così essi morranno di fame.
I gabellotti o appaltatori strepiteranno che si mandano in rovina le loro industrie;
che è ingiustizia senza nome l’obbligarli a condurre i lavori,
scavare le volte, ecc. in un modo piuttosto che in un altro. E i sacri adoratori
delle armonie economiche grideranno che tutto è compenso: il male che
si voleva impedire da un lato, si produrrà in un altro, e intanto la
libertà, che sola poteva rimediare a tutto, è stata violata. Ma
quale libertà? Quella che dà al picconiere il diritto di ammazzare
o demoralizzare i fanciulli, per guadagnare qualche scudo di più? Sono
queste le armonie desiderate? Ma come, diranno forse allora gli uomini pratici,
volete voi governare con tutto il paese contro di voi? In verità mi pare
che se abbiamo saputo, quando è stato inevitabile, imporre la leva ed
il macinato colla forza, dovremmo saper fare e far rispettare le leggi certo
non meno sacre, che proteggono i deboli e la pubblica moralità. Altrimenti
è inutile domandare: perché seguono tanti delitti, perché
non c’è sicurezza pubblica? Anche questa è un’armonia
fra causa ed effetto. E se da un lato noi dobbiamo, per necessità inesorabile
delle nostre finanze, mantenere il lotto che corrompe il popolo, e da un altro
lasciare che chi vuole l’opprima e lo corrompa, cosa sarà mai di
esso e di noi? Il giorno in cui l’Italia si dichiarasse impotente a rispettare
ed a far rispettare le leggi più elementari della giustizia, essa avrebbe
pronunziata la propria condanna di morte; avrebbe in faccia all’umanità
confessato che non ha il diritto di esistere. Che importerebbe infatti all’umanità
un’Italia unita e libera piuttosto che divisa ed oppressa, se la nostra
libertà dichiarasse che, per esistere, deve permettere che i sacri diritti
dei deboli vengano ogni giorno violati? La quistione siciliana si presenta in
tutta la sua spaventosa gravità nella provincia di Palermo, dove uno
stato sociale, che ancora non si conosce abbastanza, produce non la camorra,
ma la mafia. Questa è stata studiata e descritta con molti particolari,
prima dal barone Turrisi-Colonna, poi dall’onorevole Tommasi-Crudeli e
da altri, in opuscoli nei quali sono esaminati anco i diversi elementi storici
che contribuirono a generare ed accrescere il male. Sarebbe inutile veire qui
a ripetere ciò che essi hanno già detto. E del resto, non è
il sapere quel che fa la mafia e come lo fa, e neppure il conoscere quali sono
gli elementi ad essa estranei, che la promuovono e le aumentano vigore, ciò
che a noi più importa. Son cose in gran parte già note. Questa
mafia non ha statuti scritti, non è una società segreta; si potrebbe
dire quasi che non è un’associazione; è una camorra d’un
genere particolare; s’è formata per generazione spontanea. A noi
importa sapere come e perché nasce e si mantiene così vigorosa,
più audace assai che la camorra. La mafia guadagna, si vendica, ammazza,
riesce persino a produrre sommosse popolari. Chi comanda e chi obbedisce, chi
sono gli oppressi e chi sono gli oppressori? È difficile farsi un’idea
degli ostacoli che si ritrovano, quando si vuol ricevere o dare una risposta
precisa a queste domande. Ognuno ha una opinione o un’idea diversa. Ho
letto un gran numero di libri e di opuscoli, ho interrogato molti Siciliani
e molti stranieri residenti nell’Isola da lungo tempo: la varietà
delle opinioni cresceva ogni giorno. Un Inglese da parecchi anni dimorante in
Palermo, mi scriveva più volte che, senza provvedimenti eccezionali,
era ridicolo pensare di poter ristabilire colà la pubblica sicurezza.
Interrogato però da me sopra varie questioni, egli, uomo dotto, intelligente,
molto pratico di affari, rispondeva schietto di non essere in grado di darmi
alcuna cognizione sicura. Inviò le mie domande ad un altro Inglese, già
da lungo tempo residente nell’interno dell’Isola, ivi mescolato
in molti affari, ed uomo accorto: he has a long head, he is your man, egli è
assai accorto, è il vostro uomo, diceva il mio amico. La risposta fu,
che era molto difficile il conoscere davvero l’origine prima ed il carattere
della mafia: i passati Governi, le rivoluzioni, la mancanza di strade e di opere
pubbliche, ecc ecc. Una sola cosa era certa, egli scriveva, e cioè che
i provvedimenti eccezionali, farebbero più male che bene. Il rimedio
stava nel tempo, nelle opere pubbliche, cui la Sicilia aveva diritto, e finalmente
nelle scuole, l’eterna panacea di tutti i mali. I due Inglesi si neutralizzavano,
ed io restavo come prima. Un giorno ero immerso nella lettura degli opuscoli
sulla Sicilia, quando m’arrivò la notizia che il prof. Caruso,
siciliano, non nato, ma educato a Palermo, e che ora insegna agronomia nell’Università
di Pisa, dalla cattedra e nella scuola illustrata dal Cuppari, aveva accennato
alla questione in un suo pubblico discorso, letto nella solenne apertura dell’anno
accademico 1873-74. Scrissi subito per avere il discorso, e vi trovai in pochi
periodi accennato, che nella Sicilia v’era una grossa quistione sociale,
derivante dalla grande coltura e dalla miseria del contadino. «La rivoluzione
di Palermo nel 1866, egli diceva, non fu politica, ma sociale, si perché
non aveva nessuna bandiera politica certa, si perché il contingente più
numeroso lo forniva la campagna, mandando in quella sventurata città
coorti di opranti affamati, desiderosi di arricchirsi». Unico rimedio
ai mali, continuava il Caruso, sarebbe l’introduzione di quel contratto
di mezzerìa, secondo il quale è coltivata la Toscana, e col quale
si fanno al contadino condizioni eccellenti. E subito, nell’Accademia
dei Georgofili, l’ex-deputato E. Rubieri annunziò con parole di
elogio questo discorso, ricordando come egli avea nel 1868, dopo un viaggio
in Sicilia, sostenuto la medesima idea nel suo libro: Sulle condizioni agrarie,
economiche e sociali della Sicilia e della Maremma Pisana. Lo lessi con avidità
anche questo lavoro, e da tutto ciò ricevei una profonda impressione,
perché mi ero già prima convinto che la questione del brigantaggio
nelle provincie napoletane, era una questione agraria e sociale. Ma quale non
fu la mia meraviglia, quando, raccolti gli appunti per quel che riguardava in
ispecie la provincia di Palermo, interrogando alcuni Siciliani che mi parevano
autorevoli vidi che si mettevano a ridere sgangheratamente. In tutto questo,
essi dicevano, non c’è una sola parola di vero. Come! noi oppressori
dei contadini? Ma se siamo noi oppressi dai contadini! È la mafia che
impedisce a noi d’andare a vedere i nostri fondi. Il tale, il tale altro
da 10 anni non ha potuto vedere le sue terre, che sono amministrate e guardate
dai mafiosi, dalle cui mani non può levarle senza pericolo di vita. A
questo s’aggiunse una notizia singolarissima, la cui verità ho
potuto in molti modi accertare. Il maggior numero di delitti si commette da
abitanti dei dintorni di Palermo, che per lo più non sono poveri, spesso
anzi contadini censuarii o proprietarii, che coltivano mirabilmente i loro giardini
d’aranci. Nella Conca d’Oro l’agricoltura prospera; la grande
proprietà non esiste; il contadino è agiato, mafioso, e commette
un gran numero di delitti. lo non volevo credere a questa notizia, che sembrava
sovvertire tutti quanti i principii dell’economia politica e della scienza
sociale; ma la riscontrai in mille modi, ed in mille modi mi fu riconfermata.
Ripigliai, rilessi da capo i miei opuscoli e i libri sulla Sicilia, per vedere
se era possibile raccapezzarsi. Negli Annali d’agricoltura siciliana trovai
ripetuto, che l’agricoltura e la prosperità materiale da lungo
tempo hanno fatto molti progressi nei dintorni di Palermo. Nell’opuscolo
del Turrisi Colonna sulla Sicurezza Pubblica in Sicilia, trovai confermato che
il centro principale, la vera sede della mafia è nei dintorni di Palermo;
di là essa stende le sue fila nella città. Qui il basso popolo
non è avvilito ed oppresso; ma piuttosto sanguinario, pronto al coltello;
aderisce alla mafia, e ne va orgoglioso. Il contadino agiato ed il borghese,
come dicono colà, di Monreale, di Partinico, ecc.; i gabellotti o affittuarii,
e le guardie rurali di quei medesimi luoghi sono quelli che costituiscono il
nucleo principale della mafia. Questa dunque stende le sue più profonde
radici nella campagna, mentre la camorra le stende nella città. Dentro
Palermo voi potete di giorno e di notte passeggiare impunemente; se v’allontanate
un miglio dalle porte, anche oggi, mi dicono, voi non siete sicuro d’arrivare
a Monreale. A tali notizie bisogna aggiungerne un’altra, che è
pure di massima importanza per conoscere le condizioni dell’Isola. Questa
va divisa in più zone, che sono fra loro assai diverse. Nell’interno
v’è la grande coltura. Ivi sono feudi o latifondi, ivi sono i miseri
proletarii, ivi l’agricoltura è in uno stato primitivo; mancano
le acque, l’aria è cattiva, il fertile suolo della Sicilia pare
spesso una maremma, e v’è poco più che la coltura dei cereali.
Vicino alle coste, specialmente presso le città, e massime nei dintorni
di Palermo, la scena muta affatto. Qui sono giardini, piccola coltura, agricoltura
progredita, spesso contadini censuarii o proprietarii, quasi tutti intelligenti,
eppure prontissimi ai delitti. A questi s’uniscono gabellotti e guardiani,
anch’essi agiati, anch’essi pronti al delitto. Ora in che relazione
si trovan fra loro i cittadini, questi borghesi, gabellotti, guardiani, ecc.,
ed il proletario dell’interno dell’Isola? Ecco il nuovo problema
che mi si affacciava. Dopo mille domande e lettere scritte per arrivare alla
soluzione del problema, la risposta che più mi parve avvicinarsi al vero
mi fu data da un patriotta siciliano, stato ufficiale prima di Garibaldi e poi
dell’esercito regolare, il quale fece un piccolo giro nei dintorni di
Palermo, per poi rispondere più esattamente alle mie domande. Il lettore
legga con attenzione la lettera di questo amico, e vi troverà qualche
notizia importante a risolvere l’arduo problema. Non dimentichi però
che scrittore parla de visu, per ciò che risguarda, una parte sola dei
dintorni di Palermo. «In Sicilia bisogna distinguere due classi di contadini,
uno che abita verso le coste, dove le terre sono più coltivate e meglio
divise, e dove il contadino assai spesso possiede la sua porzioncella coltivata
o a viti o ad olivi o ad agrumi o a sommacco. Così, per esempio, nella
Conca di Palermo i quattro decimi dei contadini sono piccoli censuarii o proprietarii,
e nel territorio che si dice della Sala di Partinico, o meglio quella parte
della costa che si bagna nel golfo di Castellamare, gli otto decimi dei contadini
sono quasi tutti in questa condizione. Tanto ciò è vero, che si
è calcolato, che se, per esempio, a Partinico i contadini non fossero
analfabeti, potrebbero tutti essere elettori amministrativi o politici, perché
tutti pagano la tassa richiesta dalle leggi. Ne vuole saper una? I Comuni di
Monreale e di Partinico sono quelli, in cui le basse classi o meglio il contadinume
si trova più che in tutti gli altri Comuni della provincia in uno stato
di agiatezza. Ora in questi due paesi appunto gli omicidii sono più spessi
e più efferati. La vera classe di contadini che, addetta alla seminagione
del frumento, il novanta per cento nulla possiede, e si trova a discrezione
di un burbero padrone, è quella che abita l’interno dell’Isola,
dove sono i latifondi, coltivati da uomini che vivono come schiavi. Per rispondere,
con notizie certe, ai quesiti propostimi da lei, io piglio ad esempio per tutti
Piana dei Greci. Gli abitanti si dividono in tre classi: – galantuomini
o boiardi; borgesi o contadini un po’ agiati, che fanno da affittuarii,
e villani o giornalieri. Circa quattro famiglie di boiardi e sei di borgesi
fanno negozio di grano, hanno preso in affitto gli ex-feudi dei signori di Palermo,
dando ogni anno a coltivare le terre, in piccole porzioni, ai poveri contadini.
Le forme di questi subaffitti sono varie, ma quasi tutte d’un anno od
a brevissima scadenza, e sempre il feudo viene diviso in piccole porzioni. A
mezzerìa si dice quando il contadino, coltivando il grano, dà
metà del prodotto al padrone, che piglia poi dalla metà del contadino
il prezzo per la guardia rurale, fissandolo egli stesso. Dicesi a terraggio,
quando il contadino s’obbliga a dar tante salme di grano per salma di
terreno. In questi casi, se si anticipa il grano per seminare, si ripiglia con
un interesse del 25%. Dicesi a maggese, quando si consegna al contadino il pezzo
di terra già arato. Egli lo semina, e dà poi tante salme di grano,
secondo il patto fissato nell’anno. Di quello che avanza, piglia solo
la metà, l’altra va al padrone. Anche in questo caso, il grano
per la semina è dato in prestito dal padrone al 25%. Quando questi patti
onerosi hanno rovinato il contadino, esso diventa giornaliero, e guadagna da
L. 1,70 a L. 2 al giorno; nel tempo della mietitura anche 3. Cessati i lavori
resta senza guadagno. Alcuni dei boiardi e dei borghesi si contentano vivere
delle loro rendite; ma gli altri pigliano in affitto i feudi, negoziano di grano,
ed esercitano un’usura spaventosa sui contadini. Lo stato dei contadini
nell’interno dell’Isola è deplorevolissimo. In massima parte
sono proletarii, che debbono ogni giorno camminar molte miglia, per arrivare
al luogo del lavoro. Altra relazione tra essi e i loro padroni non v’è,
che quella dell’usura e della spogliazione, di oppressi e di oppressori.
Se viene l’annata cattiva, il contadino torna dall’aia piangendo,
colla sola vanga sulle spalle. E quando l’annata è buona, gli usurai
suppliscono alla grandine, alle cavallette, alle tempeste, agli uragani. I contadini
sono un esercito di barbari nel cuore dell’Isola, ed insorgono non tanto
per odio contro il Governo presente, quanto per vendicarsi di tutte le soperchierie,
le usure e le ingiurie che soffrono, ed odiano ogni Governo, perché credono
che ogni Governo puntelli i loro oppressori». Noi abbiamo dunque tre classi
distinte. In Palermo sono i grandi possessori dei vasti latifondi o ex-feudi,
e nei dintorni abitano contadini agiati, dai quali sorge o accanto ai quali
si forma una classe di gabellotti, di guardiani e di negozianti di grano. I
primi sono spesso vittime della mafia, se con essa non s’intendono; fra
i secondi essa recluta i suoi soldati, i terzi ne sono capitani. Nell’interno
dell’Isola si trovano i feudi e i contadini più poveri o proletarii.
I borgesi arricchiti, i proprietarii negozianti pigliano a gabella gli ex-feudi,
che subaffittano ai contadini, dividendo le vaste tenute in porzioni, delle
quali serbano per se stessi la migliore, e fanno contratti di subaffitto, diversi,
ma sempre onerosissimi al contadino. E aggiungono poi l’usura, che ordinariamente
arriva al 25%, spesso sale ad un interesse assai maggiore. Inoltre negoziano
in grano. Messa da parte l’usura, i contratti sono tali, che i calcoli
degli agronomi siciliani dimostrano (prof. G. Caruso, Studii sull’industria
dei cereali in Sicilia: Palermo, 1870) che il contadino, nei casi ordinarii,
non può trovare i mezzi necessarii alla vita. Perciò egli deve
indebitarsi e cadere in mano dell’usuraio, di cui è fatto schiavo,
fino a che non si getta al brigantaggio, quando non diviene proletario, per
peggiorare anche il suo stato. Egli allora percorre la feconda terra siciliana,
senz’altro che una zappa sulla spalla, carico d’un cumulo di debiti.
Si pensi che la coltura dei cereali si estende a 77 per cento di tutta la superficie
dell’Isola, e si capirà a che cosa arrivi questo esercito d’infelici,
che sono come gli schiavi dell’usuraio e dell’affittuario. Fra i
tiranni dei contadini sono le guardie campestri, gente pronta alle armi ed ai
delitti, e sono ancora quei contadini più audaci, che hanno qualche vendetta
da fare, o sperano trovar coi delitti maggiore agiatezza: così la potenza
della mafia è costituita. Essa forma come un muro tra il contadino ed
il proprietario, e li tiene sempre divisi, perché il giorno in cui venissero
in diretta relazione fra loro, la sua potenza sarebbe distrutta. Spesso al proprietario
è imposta la guardia de’ suoi campi, e colui che deve prenderli
in affitto. Chiunque minaccia un tale stato di cose, corre pericolo di vita.
I delitti sono continui in questa classe, che pure non è data per mestiere
al brigantaggio; ma lavora la terra, fa i suoi affari con intelligenza, mantiene
il suo predominio col terrore. Oggi, dietro una siepe, tirano una fucilata al
viandante od al vicino rivale; domani vangano tranquillamente i loro campi d’agrumi,
o attendono nella città ai propri commerci. La base, le radici più
profonde della loro potenza sono nell’interno dell’Isola, fra i
contadini che opprimono e su cui guadagnano; ma questa potenza si estende e
si esercita anche nella città, dove la mafia ha i suoi aderenti, perché
v’ha ancora i suoi interessi. A Palermo, infatti, sono i proprietari;
a Palermo si vende il grano e si trovano i capitali; a Palermo vive una plebe
pronta al coltello, che può, all’occorrenza, dare braccio. E così
la mafia è qualche volta divenuta come un Governo più forte del
Governo. Il mafioso dipende in apparenza dal proprietario; ma in conseguenza
dalla forza che gli viene dall’associazione, in cui il proprietario stesso
si trova qualche volta attirato, egli riesce di fatto ad esser il padrone. E
abbiamo visto perfino che la mafia promosse una rivoluzione, alla testa della
quale pose alcuni proprietarii, prima che avessero il tempo di pensare a trovar
modo di separarsene. Ammesso questo stato di cose, tutte le osservazioni fatte
dal barone Turrisi, dal Tommasi-Crudeli e da molti altri spiegano chiaramente
in che modo il male sia andato sempre crescendo. Gli abitanti dei dintorni di
Palermo discendono per lo più da famiglie d’antichi bravi dei baroni,
e quindi tra di essi la tradizione del sangue è antica. Chi è
d’accordo colla mafia è sicuro; chi la comanda è padrone
di una forza grandissima, e può mantenere l’ordine, o promuovere
una rivolta. Perciò i Borboni governarono colla mafia, ed anche la rivoluzione
ricorse ad essa, che poté subito armare contadini e popolo, porsi alla
loro testa e rovesciare il Governo stabilito. Le compagnie d’armi, istituite
in tutti i tempi a mantenere l’ordine, furono reclutate nella medesima
classe, e non spegnevano i delitti; ma quasi gli organizzavano fra certi limiti,
con certe norme, perché il nuovo guadagno che facevano come stipendiati
del Governo, e la nuova autorità acquistata, servissero a sempre meglio
consolidare il proprio potere. La pubblica sicurezza venne affidata alla mafia,
dandole così in mano la società, e questo sistema che pur troppo
fu lungamente seguito, rese sempre più forte l’associazione che
si voleva distruggere. È ben noto che i problemi sociali non sono problemi
di matematica; gli elementi che li costituiscono sono varii e moltiplici, s’intrecciano
e si confondono fra loro. La divisione di classi da noi osservata, neanche nella
Sicilia occidentale si trova sempre esattamente disegnata e distinta; le condizioni
qualche volta s’alterano e si modificano, ma pure assai spesso gli effetti
sembrano o sono identici. Basta che le radici del male siano fortemente e profondamente
costituite in una parte del paese, perché questo male sorga e si propaghi.
Ma dove le condizioni dell’Isola radicalmente si modificano, ivi esso
scomparisce o muta natura. La Sicilia occidentale adunque è travagliata
da due grandi calamità: lo stato delle sue ricche solfare, e la mafia
che nasce dalle condizioni speciali della sua agricoltura. Perché le
cose sono nella Sicilia orientale tanto diverse? Ivi mancano le solfare; ivi
le condizioni geografiche ed agronomiche sono d’altra natura. Il terreno
più montuoso e meno fertile ha dato luogo a molti contratti di colonìa
parziaria, che è sempre più mite della terraggerìa o della
mezzerìa di Palermo. A Catania, è vero, la coltura dei cereali
arriva sin quasi alle porte della città; ma questo appunto, cioè
la mancanza d’una zona intermedia di terreno più fecondo, ha impedito
che sorga una classe di contadini più agiati, da cui poi i gabellotti
e mercanti oppressori. Sono miseri proletarii, sottoposti ad una tirannia diversa,
simile a quella che troviamo nella Basilicata o in altre province del continente
meridionale; arrivano, lavorano la terra senza portare disordini. L’estrema
miseria gli spinge qualche volta al brigantaggio, ma non possono costituire
la mafia. S’aggiunga poi che a Palermo si trovano i più grandi
possessori di latifondi, il che più facilmente dà modo al gabellotto
di guadagnare col subaffitto dei vastissimi ex-feudi; e si capirà, io
credo, in che modo i dintorni della capitale dell’Isola abbiano il triste
privilegio d’essere il centro della mafia. Ed ora quale è il rimedio
contro questi mali? Qui si presenta un problema che spaventa, per l’estensione
che prende, come vedremo, non solo in Sicilia, ma in tutta l’Italia, specialmente
meridionale. È chiaro intanto che i rimedii son sempre di due sorta:
repressivi e preventivi. Bisogna, non v’ha dubbio, punire severamente
i delitti con pronta ed esemplare giustizia; ma anche qui la prigionia è
inutile, se non s’isola o non si manda lontano il condannato. A riuscire
però coi soli mezzi repressivi, bisognerebbe portare la repressione fino
allo sterminio. Allora, di certo, col terrore cesserebbero i delitti, salvo
sempre a vedere, se quelle condizioni che hanno prodotto il male, restando le
stesse, non lo riprodurrebbero in breve. Ma lo sterminio porta un consumo spaventevole
di forze, ed un Governo civile non può decidersi a ciò. Occorre
il dispotismo. Noi dobbiamo dunque assalire il nemico da due lati: punire e
reprimere prontamente, esemplarmente; ma nello stesso tempo prevenire. In che
modo? Bisogna curare la malattia nella sua sorgente prima. Il Governo deve avere
il coraggio di presentarsi come colui che vuol redimere gli oppressi dal terrore
e dalla tirannide che pesa su di essi. È vero o non è vero quello
che dicono gli agronomi siciliani, che cioè i contratti agrarii fatti
col terraggiere, col mezzadro ecc. sono iniqui? Se è vero, è necessario
cercare qualche rimedio a ciò, sia con mezzi legislativi, e con un’azione
energica del Governo in difesa della giustizia e dei deboli; sia con una pubblica
opinione più illuminata, o con altro mezzo qualunque. Se a questo non
si può riescire, non è sperabile di potere estirpare il male.
Quando i contratti agrarii assicurassero al contadino, con una maggiore indipendenza,
un’equa retribuzione, e lo ponessero in relazione amichevole col proprietario,
il guadagno della mafia e con esso la sua potenza e la sua ragione di essere
sarebbero distrutti. È possibile, è sperabile arrivare allo scopo?
Ecco l’arduo problema. La quistione si allarga ora immensamente, perché
nelle province napoletane, dove non troviamo la mafia, il contadino geme sotto
un’altra forma di miseria e di oppressione, che esiste pure nella Sicilia
orientale, e dalla quale derivano conseguenze diverse, ma pure gravissime. Invece
della mafia abbiamo il brigantaggio, che ci presenta la quistione agraria sotto
un altro aspetto. Ed anche qui l’unico rimedio possibile è sempre
lo stesso: la repressione esemplare e pronta dei colpevoli da un lato, la redenzione
degli oppressi dall’altro. E la difficoltà gravissima è
anche la stessa, cioè: può lo Stato far nuove leggi, per determinare
le forme e le condizioni dei contratti agrari? Facendole, conseguirebbe lo scopo?
O è sperabile invece che basti il naturale progresso della pubblica opinione
e dei costumi, ed è necessario affidarsi solo a ciò? Di questo
ti dirò qualche cosa, dopo aver parlato del brigantaggio.
Tuo affez. P. VILLARI