Biblioteca Multimediale Marxista


Capitolo 3


 

 


 


Già da un paio d’anni Delmo, lavorava alle cave,: ormai lo conoscevano. Tutti, era uno di loro e anche i più anziani e diffidenti avevano imparato ad apprezzarlo.. Quanto lavorava, lavorava sodo. I primi tempi arrivava alla sera distrutto che quasi non si teneva in piedi e sognava solo il letto; ma molto presto i suoi muscoli si erano irrobustiti, aveva imparato tutti i trucchi del mestiere ed ora si sentiva capace di fare qualunque lavoro, anche i più difficili. Tranne guidare giù per la montagna il camion carico ti blocchi enormi, quello no, per quello ci voleva un’arte tutta particolare, questione di centimetri spesso, e ci si giocava la vita in quella strada a zig-zag bianca di schegge di marmo, un tratto in avanti, uno a marcia indietro col cuore sospeso al cambio e il respiro trattenuto tra i dischi del freno.
Quello che più gli piaceva del lavoro era quanto riusciva a dimenticarsi di tutto, del padrone che gli dava i tempi e del capetto sempre alle costole, dei compagni licenziati perché poco produttivi e di suo padre malato di silicosi e cirrosi; delle trattenute che limavano le cifre sulla busta paga e della casa dove abitavano i suoi, i muri chiazzati di umido, le tavole di legno del ‘parkè’, come lo chiamava sua madre da quando andava a servizio dalla ‘Signora’, che gemevano ad ogni passo. E, anche quando riusciva a dimenticarsi delle immagini che trovava sulle ri­viste, foto di ville dove tanto bello e caldo appariva quel marmo su cui era gocciolato il suo sudore, foto di una giovane donna bionda e seminuda che sorrideva invitante allungata come una gatta su un pavimento bianco e luminoso dove lui riconosceva, addomesticato, quello stesso marmo che chiamava giù verso l’inferno Primo il camionista e che già si era trascinato con sé Fernando quel giorno che aveva piovuto e la ruota per un millimetro aveva girato a vuoto. Quanto riusciva a dimenticarsi di tutto, solo allora si sentiva padrone del suo lavoro, sentiva che dalle sue mani e da quelle dei suoi compagni, dalla sua conoscenza e dalla loro, nasceva la trasformazione prima della natura, sentiva che insieme sapevano, potevano dominare la montagna, piegarla e costringerla a cedere la sua carne, così a pezzi, senza un grido né un lamento.
Sentiva ... ma non avrebbe saputo dare un ordine né un nome a questa sensazione. Ci provava a volte, non sempre con successo.
«Oh Giusè -la bocca piena di un buon terzo del panino con la frittata- ma a che servono i padroni?, non abbiamo mica bisogno di loro per lavorare, che ci stanno a fare?».
Giuseppe, attaccato al collo della bottiglia si interruppe bruscamente e cominciò a tossire, sputando e bestemmiando con i lacrimoni agli occhi.
Delmo scoppiò a ridere` «Ti ho fatto paura?’, e dimmelo anche te che sono anarchico, io mica ci ho vergogna ... però dimmi anche a che servono i padroni, se lo sai!», esclamò disinvolto e presuntuoso con tono di sfida..
Sputò ancora, Giuseppe, si passò il rovescio della mano sulla bocca grattando la barba grigia di due giorni e poi guardandolo di sbieco con occhi vivaci, piccoli e neri, disse calcando sul dialetto:
«Puzzi ancora di latte e parli dell’anarchia, non sai neanche cos’è e parli ... ti credi di avere scoperto il mondo? Arrivi ora e ti sei già messo il distintivo: a cosa servono i padroni ... magari ti credi di essere il primo che se lo domanda, eh?! ... tu che sei ‘anarchico’ -il. Tono montava e ora gli stava proprio facendo il verso- lo sai chi sono i comunisti? No, non lo sai, non sai niente e parli, ti credi di essere a scuola?, è questa la scuola -con un largo gesto indicò le cime severe, gli intagli luccicanti come ghiacciai, la potente scavatrice, i martelli pneumatici- domandalo a loro a cosa servono i padroni non a me! -bestemmiò, si alzò e si allontanò stirandosi e sbadigliando, brontolando tra i denti- è arrivato quello che ha capito tutto, ‘sti ragazzini sono come le zanzare e ... figlio di suo padre!, al primo botto se la fanno sotto ... solo la lingua .... buona ....»
Mortificato, Delmo addentò di nuovo il panino, con gli occhi bassi si ripeteva, ma che gli ho detto di male ... che gli prende, mò ....
«Giuseppe ha ragione».
Si voltò di scatto e vide Marcello, in piedi, che si stava facendo una sigaretta: «Tu non lo conosci, non puoi sapere ....», lo sguardo si perse lontano per un attimo, un lungo attimo carico di anni e anni di vite smerciate, agonizzanti: illusioni e tradimenti, speranze e disillusioni, lotte e sconfitte, momenti di esaltazione ed anni di umiliazione, l’usura che lima il cervello e macina chi non è abbastanza forte o abbastanza fiero ... Accese la sigaretta e si sedette a fianco a Delmo, gli avambracci sulle ginocchia.
«Ha ragione quando dice che non sai niente, ma quello che hai detto
dei padroni è giusto».
«E allora che gli ha preso, neanche fosse un padrone pure. Lui!».
Marcello scosse impercettibilmente la testa, sospirò e riprese:
«Non puoi parlare così, Giuseppe ha lottato fino all’ultima goccia del suo sangue. Ora è vuoto, non ha pia nulla da dare. Sono secoli che gli operai lottano contro i padroni, contro lo Stato, per la rivoluzione, perché i padroni, come dici tu, non servono. Lui è sempre stato comunista prima, durante e dopo la guerra, il Partito gli ha dato la botta finale, adesso non è più niente, gli è rimasta solo la rabbia che lo rode perché, dice, non è cambiato niente ... e tu arrivi fresco fresco con quei discorsi».
«Io non lo sapevo ... »
Con un gesto Marcello lo interruppe: “Anche questo non c’entra niente, certo che non lo sapevi ma non devi mica sapere la vita ii tutti prima di parlare, devi solo sapere che le cose non sono mai tutte bianche o tutte nere, che quello che oggi ti appare in un certo modo ... -si guardò intorno, poi indicò un albero polveroso in mezzo al pietrame- quell’albero, per esempio, prima di essere così c’è stato un tempo in cui era un minuscolo stelo, poi un giovane alberello verde e flessuoso, poi .... C’è uno sviluppo , una storia in tutte le cose, non dico che prima di pensare o prima di parlare devi conoscere tutto, e come potresti?, ma devi sapere che c’è questo sviluppo, e lo devi cercare senza credere che come le cose le scopri tu, con i tuoi occhi, in quel momento cominciano ad esistere ...»
La sirena urlò. Delmo accese la sigaretta che stava rigirando tra le dita e si alzò in piedi contemporaneamente a Marcello.
«Tu però non sei come Giuseppe».
«No, ma anche lui, magari domani o fra un anno, non è più come Giuseppe ...»
Delmo lo guardò con un mezzo sorriso pensando ai uno scherzo, ma Marcello era molto serio e, mentre si avviavano verso la cava, riprese:
«E anche loro -con la testa indicò i cavatori che ridendo e stirandosi si avviavano a gruppetti- Ci sono passi avanti, passi indietro, momenti in cui sembra che nulla si muova, come nei pomeriggi afosi d’estate ... ma le tensioni covano sotto, maturano e quando scoppiano sembra che vengono dal nulla, ma non è così».
Erano quelle parole, quelle frasi che gli rigiravano per la testa la mattina dopo. Si sorprese con lo sguardo perso nel vuoto e la tazzina di caffè in mano, immobile da cinque minuti ad inseguire il senso concreto di quelle parole, mescolando la realtà con spicchi fumosi dei sogni di quella notte. Aveva sognato suo padre, giovane come nella foto del matrimonio, quella sulla credenza della sala buona, dove non ci mangiava mai nessuno; stava correndo inseguito dai nazisti che sparavano e gridavano “Achtung! Alt!”, poi lo vide cadere e fiotti di sangue scendere vorticando dal cuore e poi questo sangue si trasformava in acqua ad era il mare dove delle barche, piccole prima, lontane, poi sempre più vicine, erano cariche di uomini e di donne che gridavano coi pugni e i fucili al­zati e poi, come un’onda spumeggiante di collera e fierezza, migliaia di volti, alcuni noti, c’era anche Marcello, ma trasfigurati dagli occhi che brillavano la forza ed il coraggio, avanzavano uniti su per la spiaggia e altri ancora si univano, adesso era un mare umano.
«Delmo!, sei ancora qui?! Ma lo sai che ore sono?».- In vestaglia,, spettinata, le occhiaie nere come buchi, sua madre trascinava le ciabatte sulle piastrelle della cucina.
Gli occhi corsero all’orologio inchiodato al muro; nero di fumo: «Merda! Mò perdo pure l’autobus, ciao mà!», e corse giù per le scale facendo i gradini tre alla volta`.
Come sbucò, affannato, in piazza Farini vide giusto il terzo posteriore della corriera scomparire dietro l’angolo; si guardò intorno sconsolato e subito notò un po' più in la Fermin che cercava con tenacia testarda di mettere in moto la “1100” scalcinata, girando e rigirando a vuoto la chiavetta. A forza di spinte e di accidenti. Delmo riuscì alla fine a farlo andare quel maledetto motore il sorriso felice di Fermin che accarezzava il volante come le spalle di una donna e ascoltava rapito i l’ansimare rugginoso dei pistoni come una sinfonia, gli mise allegria e cancellò dalla sua mente ogni traccia dei sogni di quella notte agitata.
Mentre salivano i fianchi della montagna, Delmo si lasciò trasportare sorridendo dentro al mondo chiassoso di Fermin, dove solo le macchine e la Carrarese avevano cittadinanza. Suo figlio lavorava in un garage e lui lo diceva sempre a tutti con orgoglio paterno, neanche fosse ingegnere o chirurgo: la sua più grande aspirazione, una volta in pensione, ancora due anni e contava i giorni come i carcerati, era di aiutare il figlio nel garage, cosa che d’altronde faceva appena aveva un’ora libera. «Sai com’è -stava dicendo a Delmo strizzandogli l’occhio- le scarpe del calzolaio ... »
Arrivando a Colonnata, Delmo si aspettava di vedere e sentire ciò che da due anni vedeva e sentiva a quell’ora di mattina.
Quando si ritrovavano tutti pigiati nella baracca -qualcuno si cambiava, ma pochi, molti arrivavano con già addosso gli stracci polverosi e strappati, prendevano gli arnesi e lasciavano il sacchetto con il pranzo-si ricreava il solito clima di mugugno e ilarità, il mugugno che saliva dalle facce lunghe, segnate sotto gli occhi, sbadigli acidi e bestemmie fra i tenti, dicendo tutta la poca voglia di affrontare la fatica quotidiana; e le risa di scherno che accompagnavano le battutacce a chi venivano sottoposti i “messi in mezzo” di turno .. Spesso però, l’ironia pesan­te era indirizzata a chi veniva visto troppo vicino al padrone, allora le battute divenivano velenose, roventi e quando le risposte seguivano colleriche e violente, qualcuno si trovava a volte a dover dividere due che si affrontavano testa a testa come cervi maschi nella stagione degli amori ... Ma quasi sempre erano solo parole quelle che venivano lanciate per far male e risate fragorose sottolineavano le frecciate più efficaci, finché la sirena non li faceva sciamare frettolosi sul cantiere, pronti a riprendere la schermaglia e la presa in giro non appena una pausa avesse loro permesso di staccare occhi e mente da quei blocchi, che bastava poco per ritrovarsi in ospedale.
Ma quel giorno Delmo, affrettandosi verso la baracca, si accorse subito che c’era qualcosa di strano, così come in una mattina che sembra uguale a tante altre basta uno sguardo fuori della finestra, respirare a fondo l’aria fresca e ancora umida di notte, per sentire, per sapere che qualcosa i cambiato, qualcosa di grande e presto sarà primavera.
Gli uomini stavano già uscendo, parlavano tra loro animatamente ma senza ostilità, braccia asciutte e nervose gesticolavano, le spalle erano più dritte e gli occhi brillavano. Vide Romano che prendeva da parte Menico e, mentre gli parlava sottovoce tenendolo animatamente per un braccio, Manico accennava di si con la testa guardandolo serio, e anche i marmi lassù sapevano che quei due non si potevano soffrire per via di una ragazza troppo bella.
Delmo si avvicinò a un capannello dove Marcello stava parlando pacato e deciso: «... e infatti è per questo che bisogna aspettare, quando saremo sicuri vedrai che non la passeranno così liscia!».
«.Questa è davvero la goccia che fa traboccare il vaso!», disse duro’ il Moro. Si chiamava Cristiano, in verità, ma guai a ricordarglielo, cominciava a bestemmiare madre e padre senza ritegno.
«.E’ da tempo che sappiamo chi li paga, sono gli stessi padroni per cui ci spacchiamo la schiena tutti i giorni!».
«.Io della politica me ne frego, ma i fascisti, camice nere e olio di ricino, me li ricordo troppo bene », intervenì Pietrìn in carrarino stretto alternando una parola con una bestemmia.
«.Comunque Fosco non si vede e questa è già una prova”, il Moro impa­ziente si guardava intorno sempre più nervoso.
«.Si -riprese Marcello- ma a noi ci vogliono certezze. Lo conoscete tutti Poldo il giornalaio, vi pare affidabile quello che dice -gli sguardi e le smorfie che seguirono questa parole risposero da soli- E’ anche informatore degli sbirri a tempo perso ... se fosse una provocazione? Poi quando succede veramente, che se non è oggi sarà domani, non solo va a finire che non ci crede più nessuno e tutti vogliono sentire e vedere di persona, ma gli sbirri già sanno come ci muoviamo e si perde molto della capacità di risposta. Fra un’ora, massimo due, si saprà. Andiamo a lavorare adesso».
Già gli altri operai si stavano avviando verso la parete bianca e li-scia a cui lavoravano da mesi. Il capo era appena sceso dalla macchina e già urlava: «.Ancora non avete cominciato? Via, svelti che c’è da fare una consegna oggi alle due ... Ma che vi prende stamani, dormite in piedi? Falaschi, hai qualche problema?»; sospettoso e diffidente aveva fiutato qualcosa, da buon cane del padrone, e si rivolgeva al suo uomo di fiducia con una sfacciataggine pari solo alla sua arroganza.
Nessuno disse nulla né fu fatto un gesto fuori posto; solo qualche occhiata parlante bastò:
«.NO ... no, niente, eccoci, arriviamo», biascicò Falaschi accelerando il passo; gli altri fecero’ altrettanto e due di loro lo affiancarono con noncuranza.
«.Cucchiari ha trovato un tarpone nella baracca, gli abbiamo dato la caccia e l’abbiamo ammazzato!». Fece allegro Manico accompagnato da esclamazioni e risate.
Marcello sorrise impercettibilmente piegando l’angolo sinistro della bocca. Delmo lo guardava interrogativo, non aveva capito cos’era successo ma Marcello gli bloccò ogni domanda con un gesto che diceva aspetta! dopo, poi si rivolse al Moro e sottovoce:
«.Appena Libera ha avuto conferma viene su a dircelo, prima però passa da Lucio che oggi alla Dalmine entra la secondo turno, alle due; per il primo turno è tardi, ma al secondo tutta la zona industriale sarà informata, e anche al porto, penso: quando ci si mette Lucio è un vero centralino, altro che efficacia sindacale!».
«.Già ... e quelli del sindacato?».
Marcello alzò le spalle: «.Quelli?!,- tanto arrivano sempre secondi, se si aspetta loro»
«.Ma tu pensi che sciopereranno tutti?, e si riuscirà a fare la manifestazione?».
Di nuovo un sorriso: «.Vedremo ...noi comunque ci fermiamo prima. -tacque, poi alzando la voce- Vieni, Delmo, andiamo a preparare l’imbracatura per quel blocco che abbiamo tagliato ieri pomeriggio».
«.Attento!, fai attenzione ... ecco così... passa adesso ! ».
Delmo esegui, poi lanciò un’occhiata al capetto che si stava allontanando con la testa nel boc-notes per segnare i tempi e, rivolto a Marcello: «.Allora, che succede?».
«.Succede che stamattina Polio, quando sono passato per comprare il giornale, mi ha detto: pare che c’è stata battaglia stanotte. Io lo conosco, so che non ci si può fidare, spesso parla a vanvera ed è pure mezzo scemo, ho fatto finta di niente e lui ha aggiunto: pare che i fascisti hanno spaccato la testa a Fosco, il figlio dei calzolaio ... Sai Fosco che ultimamente lavora sempre in squadra col Moro e Manico ...»
Delmo annui veloce, il cuore aveva preso a battere forte, il corpo di era bloccato in una curiosa posizione; vedeva, come fosse li, i baffi neri di Fosco sopra una fila di denti bianchissimi che sorridevano sempre.
«Oè, Delmo, stai attento! Ma che fai ... tieni, aggancia questo e occhio al rimbalzo ! -urlò Marcano, poi di nuovo mormorò- Impara a staccare le mani dalle orecchie, puoi ascoltare e lavorare, no?! ... Allora io sono tornato a casa ed ho svegliato mia nipote, è un po' come mia figlia .... Ecco, prendi ed ora aspetta che ti fanno segno dalla gru .... Insomma, non importa da un paio di giorni dorme da noi che Maria sta poco bene e così l’aiuta e le ho detto di correre a casa di Fosco, che abita a Marina per per sapere com’è; poi son venuto su per avvertire tutti», si interruppe, guardò in alto verso la gru, girò il braccio destro in senso orario, dando indicazione di issare, e si allontanò dal blocco di marmo che incominciava ad oscillare.
Delmo taceva, aveva paura di dire una sciocchezza, ma più forte era la voglia di capire e sussurrò: «Ma perché i fascisti ... », non seppe come terminare e quella f fase così sospesa gli sembrava la stupida lagna di un bambino.
«I fascisti i fascisti non sono niente, non contano niente, sono, la manovalanza nera dello Stato e dei padroni. Fosco è di Potere Operaio, lo sanno tutti a Carrara e già l’avevano minacciato ... Anche qui, ti ricordi?, due volte gli hanno detto che se non la smette di fare politica in cava lo mandano a casa. Il fatto è che Fosco lo rispettano e lo stimano tutti qui, anche come lavoratore, quando c’è bisogno, quando può dà una mano, è tra i migliori quassù anche se è giovane non c’è nessuno che lavora come lui non è facile per il padrone licenziarlo, sono sicuro che si ribellerebbero tutti ... e poi l’hai visto anche tu, prima: sono tutti d’accordo, se l’hanno toccato si molla tutto sui due piedi, il capo la sua consegna se la può mettere dove dico io e scendiamo a Carrara. E se non è oggi, domani di sicuro ci sarà la manifestazione!»..
Su queste parole si inserì, lontano, il tot-tat-ta-tot-ta di una vecchia motocicletta che lo fece girare di scatto. Un largo sorriso mostrò i pochi denti neri di fumo e le fitte rughe della fronte corsero a raggrupparsi ai lati degli occhi e della bocca: era la seconda o la terza volta che Delmo lo vedeva sorridere così.
«E’ Libera, mannaggia che ragazza è quella!, dove l’avrà, pescata quel-la moto ... è davvero come suo padre». Rapida come un animaletto selvatico impaurito, l’onda di orgoglio e tenerezza scomparve subito dietro una spessa tenda di pudore.
«Andiamo!», e a grandi passi, i larghi pantaloni della tuta ondeggianti attorno alle gambe magre, Marcello mosse incontro alla vecchia Guzzi Astore rossa che montava l’ultimo tornante. Delmo lo segui guardando incuriosito quella silouette coi riccioli biondi saltellanti nel vortice della corsa, figura all’apparenza così fragile sopra quella specie di residuato bellico. Si sentiva turbato da ciò che aveva intravisto, fuggevole, dietro gli occhi di Marcello: era talmente ovvio per lui che quell’uomo tutto di un pezzo fosse superiore ad ogni emozione terrena, che solo intuirvi il lampo della tenerezza lo metteva un po' a disagio.
Il tumulto che seguì nella sua testa spazzò via ogni altro pensiero ed a stento trattenne un’esclamazione quando, fattosi più vicino, riconobbe “la ragazza della molotov”, come ormai la chiamava nei suoi pensieri dal giorno degli scontri a Pisa.
«Allora?».
Con uno scatto la moto fu sul cavalletto, libera si passò una mano tra i capelli e, senza convenevoli, rispose diretta:
«E’ vero, ho parlato con suo fratello, la madre era all’ospedale. Sta-notte è andato con Claudio, quello che lavora alla Rumianca, a fare le scritte e si sono scontrati con un gruppetto di fascisti, sette, otto, di preciso non mi ha saputo dire: a Claudio gli hanno dato una sprangata in testa e a Fosco -un’involontaria smorfia di disgusto interruppe,, il lampo di un secondo, la sua voce cristallina- gli hanno tagliato i tendini ... dei piedi –e si toccò? Meccanicamente il tallone, appena sopra la scarpa- Anche tre fasci, però -aggiunse alzando la testa di scatto, le fiamme negli occhi- sono all’ospedale!».
Altri operai si erano avvicinati, nel silenzio che seguì Delmo ebbe l’impressione di sentire come un ruggito compatto uscire dalle viscere di quegli uomini feriti nelle loro stesse carni. La rabbia e l’indignazione montarono come un’onda travolgente di marea, un’onda inarrestabile. E non si arrestò.
Lo sciopero immediato fu deciso senza discutere, tanto era compatta la reazione, e tutto ciò che aveva almeno due ruote e un motore venne messo in moto verso Carrara. Così Delmo si ritrovò come travolto sul sellino alto dell’Astore in mezzo ad un corteo improvvisato di macchine, camion, moto e motorini, mentre reggeva un’altrettanto improvvisata ma efficace bandiera rossa, e gridavano tutti sovrastando l’urlo dei clacson spiegati, gridavano contro i fascisti e contro i padroni, gridavano che non erano sconfitti, non erano piegati ma vivi e fieri, pronti a difendere la loro dignità di classe calpestata ancora una volta.
Arrivati a Carrara, la voce che già scorreva di bocca in bocca facendo aggrumare gruppetti di uomini e donne, vecchi e ragazzi, si ampliò come gonfiano le nuvole nere prima della tempesta, corse dentro le aule delle scuole, saltò muri e cancelli della zona industriale, fece il giro di Marina spalancando cantieri e officine, attraversò Massa passando per la Foce e per l’Aurelia, travolgendo assurdi steccati campanilistici si spinse fino a Sarzana, ad Aulla e Pietrasanta, toccò tutti i paesi rannicchiati, sonnolenti sulle colline, Ortonovo, Forno, Codena„ Cervara ...
Il corteo si ingrossava e si allungava, da Carrara scese, lungo il viale per congiungersi con quello che montava dalle fabbriche della Zona, ma ancora non bastava, la mobilitazione prosegui nel pomeriggio e fino a sera, quando andarono a fuoco la sede dell’emmessei e della dicci e fu attaccato il palazzo della Corsi Marmi spa, e Carrara non aveva mai visto tanti celerini giunti in fretta e furia da tutta la provincia, da Pisa ed anche da La Spezia.
Questa volta Delmo stava sempre in prima fila, questa volta le molotov le aveva fabbricate anche lui, questa volta si era trovato con altri ad organizzare e dirigere, e dove gli mancava l’esperienza un’energia nuova e inaspettata gli faceva tradurre in atti tutto quanto aveva fino ad allora accumulato, accatastato da qualche parte nella sua mente.
Raramente aveva perso di vista Libera, sempre la prima ad andare avanti e l’ultima a tornare indietro, le riconosceva una maggiore esperienza ed imparava da lei, uno sguardo bastava, un gesto e la voglia di non farsi scavalcare, dando vita ad una concorrenza positiva che attizzava il fuoco di quella rivolta. L'ammirava, certo, ma ne era anche un pò innamorato nessuna tenerezza, però, no, troppo orgoglioso e poi non è il momento!, si diceva, cosa c'entra, siamo qui per far loro vedere che i piedi sul collo non ce li vogliamo più sentire, mica per fare gli occhi dolci alle ragazze ... però in quella giornata fece di tutto per esserle vicino ed a tarda sera, quando rientrò a casa spazzando via con un'alzata ai spalle i rimproveri di una madre preoccupata, andò a dormire covando negli occhi quel sorriso luminoso e i riflessi tiepidi dei suoi capelli biondi.

«Marcello?, eh, a Marcello c’è da starci attenti si, se si tratta di lottare stai sicuri che te lo trovi a fianco, o anche due metri avanti per questo non c’è problema ... eh, Marcè?! -ridacchiando e guardandola tra le palpebre socchiuse, Gino rifilò all’amico cavatore una gomitata nelle costole- Ma, attenzione!, se l’avessimo fatta la rivoluzione e avesse vinto lui ... mh, stavamo freschi!, ci facevano fare la fine dei contadini della Georgia ...»
Marcello grugnì, ma accettando lo scherzo rispose subito sullo stesso tono: «Ma che contadini!, quelli erano anarchici della serie ognuno per. sé ed ... io per tutti!!, affamatori di proletari erano, questo è nostro e voi vi arrangiate .. eh, troppo buono è stato, va, ma non ti preoccupare, la rivoluzione la faremo e allora ... addavenì baffone!!».
Libera, avviandosi sovrappensiero dalla stazione di Pisa San Rossore verso la facoltà di Lettere occupata, ripensava allo sconcerto che aveva provato quella domenica, era una bimbetta, aveva diedi, no forse nove anni, era tutta contenta e fiera di camminare a fianco di suo padre, il pacchetto delle paste in mano, giù per via Roma, quando in piazza Farini, mentre aspettavano la corriera:
«Oh Gino!, ma guarda chi si vede! Marcello hai visto chi c’è?», tre uomini erano venuti loro incontro, ridevano, scherzavano.
«Sono vecchi amici -le aveva detto Gino, e poi- Questo è Marcello», indicandole un uomo allampanato, lungo come una quaresima e magro, un vecchio le era sembrato ma con due occhietti vivi, che l’aveva guardata con simpatia e un mezzo sorriso che le era piaciuto subito. Quando però avevano cominciato quei discorsi ... ma che dicono?, pensava, cosa gli vogliono fare al mio babbo?, fu presa da una pesante inquietudine che non svanì neanche a vederli ridere e poi salutarsi con forti strette di mano e pacche sulle spalle.
Non sapendo cosa pensare: «Babbo -disse sottovoce come furono saliti sulla corriera e non riusciva a mascherare il suo turbamento- ma quel Marcello ce l’ha con te?, ti vuole male?».
Gino scoppiò in una risata potente e gli occhi di tutti i passeggeri. Lanciarono sguardi divertiti: «Ma cosa dici ... Marcello?!, ma no, non dare retta ai discorsi, si dice così per scherzare, è un brav’uomo Marcello ... peccato che è uno stalinista», e ricominciò a ridere.
«Un che?», fece Libera cominciando a spazientirsi.
«Ma niente, sono cose da grandi ma, no, guarda, di Marcello ti puoi fidare, ci si conosce da così tanti anni che mi pare siamo nati insieme!».
Tutte le volte che Libera pensava a Marcello ed a Gino le rivenivano in mente quelle parole, quella scena, e sorrideva e pensava, se sapesse il mio babbo che sono diventata stalinista come Marcello!, il che non era proprio così ma era vero che tanto aveva assorbito delle idee di Marcello e quando si trovavano a discutere, se non prendeva per oro colato tutto quello che lui diceva, ci mancava poco! Di suo padre, invece, le era rimasta la forza di carattere, la determinazione, il rifiuto dei compromessi, l’amore per la giustizia.

“Estremista!”, quante volte se l’era sentito dire, soprattutto da quando andava all’università a Pisa, “Estremista!”, e per lei, a cui Marcello aveva insegnato a prendere i ragionamenti e rovesciarli, come diceva lui, op! Per metterli dritti in piedi, per lei questo voleva dire che chi stava parlando nove volte su dieci aveva qualche litro di opportunismo nelle vene.
«Con te non si pub ragionare, sei proprio un’estremista!». Anche quel-la mattina Aldo aveva tagliato con queste parole il suo discorso all’attivo studentesco.
«Eh, certo, quando mancano gli argomenti tiri fuori l’etichetta .. », ma non aveva voglia di polemiche quel giorno e, contrariamente al., suo solito, l’aveva tagliata lì.
Già quella riunione non era molto affollata, un po' per’ la calura dell’estate che aveva spinto alcuni verso la più fresca Marina di Pisa, un po' che i fuori-sede se n’erano tornati ai loro paesi per le vacanze e un po' per l’ultima sessione di esami che si avvicinava, fatto sta che a discutere erano in pochi. E’ anche vero, stava pensando Libera guardandosi svogliata intorno, che non ci sono scadenze a breve termine, lanciò un’occhiata ad Aldo, e per venire qui a sentire il pompieraggio di ‘sti gruppettari con lo schemino bell’e fatto in testa, subito pronti a gettare anatemi contro gli estremisti scalmanati ....- “Provocatori”, ci ha detto una volta, “siete più pericolosi degli sbirri”, ma vammori! E sbuffo neanche troppo nascostamente.
«Non si pub ragionare così -stava intanto dicendo Aldo, per nulla smontato dall’aria ironica e annoiata di Libera, la voce seria a sottolineare il suo ruolo e la sua presunta autorità- bisogna saper inquadrare i singoli elementi del mercato capitalistico, bisogna saper inquadrare le reali differenze categoriali dei vari settori operai onde poter intervenire sul piano dovuto. Ad esempio nella cantieristica edile ....»
Libera già non l’ascoltava più, un pò conosceva quel discorso e sapeva dove andava a parare, un pò quel giorno non riusciva proprio a concentrarsi: da quando si era alzata più stanca, le pareva, di quando era andata a dormire, ricordi e pensieri che ruotavano tutti attorno all’immagine del padre, si succedevano a sbalzi dilagando senza ordine nel cervello, e inutilmente si sforzava di pensare a quello che avrebbe voluto dire alla riunione nell'auletta occupata della sua facoltà.
Ed ecco che alle parole “cantieristica edile” di nuovo la sua mente si allontano per ritrovarsi in quel sabato tragico del millenovecentosessantacinque quando all’uscita della scuola media aveva trovato Marcello ad attenderla.
Li per li era stata entusiasta all’idea di mostrare alle e amiche questa specie di zio a cui teneva tanto e gli era corsa incontro per abbracciarlo; ma la sua faccia seria, quasi dura, l’aveva raggelata. Lui aveva posato la sua grossa mano sulle sue spalle minute con fare un pò brusco di chi non è avvezzo a trattare con i bambini, né alle tenerezze; quindi, il sorriso forzato e uno sguardo triste che Libera non gli aveva mai visto, «Vieni -le aveva detto- ti devo dire qualcosa, ma non qui», e l'aveva fatta salire sulla vecchia "600". Libera aveva intuito che qualcosa di terribile doveva essere accaduto, l'odore dolciastro della gomma sotto il sole e delle Nazionali che impregnava l'auto sarebbe stato per sempre associato all'angoscia sottile con cui, silenziosa, aspettava che Marcello' parlasse.
Sulla litoranea, in un punto tranquillo, Marcello si fermò, scesero entrambi e cominciarono a camminare lentamente incontro al mare. Libera guardava la sabbia, l’acqua, le nuvole bianche, i cespugli spinosi come se tutto ciò avesse cominciato ad esistere veramente in quell’istante, terribilmente concreto al punto di sembrare irreale.
«Vedi -la voce di Marcello, grave e arrochita, le aveva dato un’improvvisa stretta al cuore e ancora non sapeva perché- ad una giovane di tredici anni molti preferiscono parlare come si fa ai bambini, nascondendo, i problemi o indorando quello che è di piombo ma io penso che tu devi sapere la verità, così com’è, e anche tua madre è d’accordo, è lei che mi ha chiesto di venire a prenderti e di parlarti».
Fece una piccola pausa ma Libera non parlò, non chiese nulla, aspettava come si aspetta il tuono dopo il lampo; fissava una piccola barca lontana, e senza rendersene conto cominciò a tremare dentro, nello stomaco, e le prese una voglia fortissima di essere su quella barchetta rossa. Senti qualcosa, il vento, le grida dei gabbiani, che la spingeva ad urlare non voglio sapere!, non voglio sapere niente!, ma le sue labbra erano sigillate, la gola secca e attese, ancora che Marcello riprendesse a parlare.
«Si tratta di tuo padre, stamattina c’è stato un incidente nel cantiere, è crollato il ponteggio su cui stava lavorando insieme ad altri due operai: Gino e un altro sono morti sul colpo, il terzo è stato ricoverato in ospedale in gravi condizioni ...»
Mentre Marcello parlava le sembrava di sapere già quello che stava dicendo e al tempo stesso non le pareva vero, una cosa folle, senza senso Gino morto?, il babbo morto?, quella frase ribatteva sulle sue orecchie senza poter entrare. Poi, nell’attimo di silenzio che seguì si apri di botto uno squarcio nella sua mente, la diga saltò per aria come un fuscello e gli occhi bruciarono di lacrime infuocate.
«Il babbo ... mamma,. Povera mamma!, che disgrazia ....», mormorò a sé stessa sentendosi sola per, la prima volta nella sua vita. Macchinalmente, presa dalla vertigine del vuoto che le si apriva davanti, tese lai mano e trovò quella calda, rugosa di Marcello.
«No, Libera -disse il vecchio dolcemente stringendole piano la mano e cercando i suoi occhi da cui scendevano placide, una dopo l'altra le lacrime- non è stata una disgrazia, saperlo non ti ridarà tuo padre ma devi capire perché succede che un uomo come lui, e come tanti altri, se ne va prima del tempo ... non tutti sono innocenti quando accadono queste cose e lo devi sapere. perché la morte di tuo padre sia anche per te non solo dolore ma una spinta a vivere in un mondo dove non si muore di lavoro».
Cosa capiva Libera di quelle parole, forse più di quanto Marcello pensasse, o forse lei cercava solo di farsi cullare dalla sua voce per trovare la calma e la forza di ritornare nella sua casa che sentiva già troppo grande. Le lacrime non scendevano più, avevano lasciato due strisce luccicanti sulla pelle chiara e liscia del viso, e mentre Libera lo guardava seria, ogni frase si inchiodava nella sua memoria. La bambina prepotente e capricciosa diventava sempre più piccola, cresceva in lei la necessità imperiosa di capire com’era la vita, quella vera, quella in cui si era improvvisamente svegliata .
«I. ponteggi non cadono per caso -riprese Marcello- o per. iattura, i ponteggi cadono quando i padroni risparmiano sui materiali e sulle misure di sicurezza, tanto non sono poi loro a salirci sopra! Non è una disgrazia e non è la prima volta, Gino lo sapeva bene che stava rischiando la pelle ma aveva bisogno di questo straordinario e ci è andato .... Eh già, chi si compra il nostro sudore lo sa che anche quelli che sbraitano, come tuo padre e come me, gli arruffapopolo come li chiamano ... lo sai; no,. com’era tuo padre?».
Libera sorrise, il cuore gonfio e caldo rivide Gino mentre tirava fuori dall’armadio la bandiera rossa e nera canticchiando “Addio Lugano bella ...”. Anche Marcello sorrise, altre immagini scorrevano nei suoi occhi, ma era sempre lo stesso Gino, con la sua fiducia incrollabile nel futuro e nell’umanità: «Beh, sono anche quelli come noi -riprese- che alla fin fine per mangiare e far mangiare la famiglia, si piegano a lavorare alle loro condizioni -e, come parlando a sé stesso- si, è vero, durante la guerra avevamo cominciato a cantargliele chiare e alla liberazione ... quella che chiamano ‘La Liberazione’ nei libri di scuola, ci eravamo convinti o chissà, ci avevano convinto che si poteva ricostruire l’Italia insieme e che sarebbe stato diverso. Ma non era vero, non è vero, hanno continuato a fare i loro interessi come e più di prima.. Tuo padre anche lui lo sapeva, già quando nel ‘46 ha sentito il sindaco gridare a un comizio ‘noi che abbiamo fatto la Resistenza ..’, mi ricordo che mi guardò stupito ... sai come faceva lui, con quell’aria un po' comica, ‘Ma chi?, quello lì?!' mi disse, ‘oh Marcè, l’hai sentito?!’, e rideva, ‘e dov’era?, l’hai visto tu?!, un vero clandestino quello, da tanto bene che si era nascosto nessuno l’ha visto!!’, ci abbiamo riso su e abbiamo sbagliato, c’era poco da ridere .... Si è persa una battaglia, lì e ogni giorno se ne paga il conto, sarebbe ora di rimettere in prima linea i nostri interessi e smetterla di piangerci addosso ....»
Si accorse, Marcello, che stava parlando per sé e quella bambina che lo guardava con grandi occhi di mare non poteva seguirlo. Parlava a Gino, forse; per l’ultima volta, dentro lo specchio limpido di quegli occhi; si riprese allora e stringendo forte la piccola mano di cui sentiva teneri gli ossicini come sotto le piume di un uccellino, aggiunse: «Ma riparleremo di tutto questo un’altra voltar ti racconterò quello che di tuo padre ancora non sai perché continui a vivere nei tuoi pensieri così com’era, tutto intero con la sua voglia di vivere e di cambiare, l’amore con cui metteva tutto sé stesso in quello che faceva ... anche per te. Ora dai!, andiamo a casa, tua madre ci sta aspettando. Poi vieni da noi, Maria ti ha già preparato il lettino, con tua madre resta tuo fratello, lui è già grande».
Non solo quella sera era rimasta a casa di Marcello ma lui, d’accordo con Maria e con sua madre, aveva voluto farsi carico delle spese dei suoi studi, altrimenti Libera sarebbe stata costretta a lavorare, forse anche l'anno successivo, suo fratello stava per sposarsi e avrebbe avuto la sua famiglia da mantenere. Anche per questo Libera studiava con impegno, per lei era, come un lavoro e non si concedeva mai delle svogliatezze; a due anni dalla laurea in lettere moderne era in perfetta regola con gli esami.
«... si, anch’io la penso così, ma mi sembra che questa riunione la possiamo pure aggiornare perché vedo che il dibattito è scarso e poi mancano troppi compagni». Era Piera a parlare, persa nei suoi ricordi Libera non aveva seguito due parole della discussione, ma non se ne preoccupava, sapeva che non era importante.
«Sono d’accordo -rispose subito- aggiorniamoci a martedì».
«A martedì», ripeterono in diversi alzandosi, era evidente che non vedevano l’ora che finisse e infatti iniziarono subito a parlare fra loro in un crescente allegro brusio mentre uscivano nell’aria calda e sonnolenta di quel mattino di giugno*
«Che fai ora?», la voce di Giuseppe sorprese Libera ancora sovrappensiero.
“Eeeh?;, che cosa?».
“Ti stavo chiedendo che fai ora», riprese quello con fare gentile. Giuseppe era un compagno che, Libera aveva sempre giudicato simpatico, era allegro, disinvolto e inoltre era uno dei pochi del collettivo che non le avesse fatto una corte serrata, il che aveva permesso di sviluppare la loro amicizia. In realtà, quanto a pensarci Giuseppe ci pensava ... solo la tattica era diversa, l’amicizia, si diceva, è; un ottimo punto di partenza, con Libera, anzi, l’unico. Poi basta avere pazienza, prima o poi l’occasione giusta capita sempre*
«Penso proprio che me ne andrò a casa, tanto qui in facoltà non ho? Niente da fare e, passando, ho visto che in piazza Garibaldi non c'è nessuno -rispose Libera- chi non aveva da lavorare sarà andato in spiaggia, mi sa che oggi di compagni per Pisa ‘un se ne vedono* Allora facciamo la strada insieme, tu abiti dalle parti della stazione, vero?».
Usciti dal portone li accolse un sole cocente ma Libera si senti d’improvviso penetrare da una folata gelida, un brivido scuro la percorse per tutta la spina dorsale e la strinse come una morsa alla nuca* La sensazione fu così forte che lei fece una smorfia quasi di dolore*
«Che hai, stai male?», le chiese Giuseppe che, malgrado le apparenze, non la lasciava con gli occhi..
«No, non è niente, un brivido», voleva sorridere ma non ci riuscì, quel freddo glaciale le aveva lasciato dentro una sensazione tragica, come di un dramma terribile che si stesse svolgendo li davanti a lei. Ma davanti a lei c’erano solo studenti accaldati che scherzavano. Forse mi sono suggestionata ricordando papà, pensò cercando di scacciare quella sensazione.
«Sarà. la fame -disse rivolta a Giuseppe- dai andiamo a farci una focaccina con la mundiola!».
«Una che?».
«Oh pisano!, non lo conosci l’Italiano?, una schiacciatina con la mortadella, se preferisci!».
Scherzando sui dialetti passarono al forno, ma per quanti sforzi facesse Libera per sembrare allegra, sentiva il cuore sempre più stretto, non riuscì a mangiare quasi nulla e neppure sul treno riuscì a distrarsi col libro di fantascienza appena comprato.
Rientrò a casa che quella fredda, vischiosa sensazione di tragedia la seguiva ancora.