Biblioteca Multimediale Marxista
La polveriera balcanica
Dall’aggressione NATO
contro la "mini-Jugoslavia"
all’incendio in Macedonia
Edizione a cura di
RIVOLUZIONE COMUNISTA
SEDI DI PARTITO
Milano: P.za Morselli 3 aperta tutti i giorni dalle ore 21
Gallarate: via Novara 4 aperta il lunedì martedì venerdì
dalle 21.
SITO INTERNET: digilander.libero.it/rivoluzionecom
e-mail: rivoluzionec@libero.it
INDICE
Presentazione
Parte prima: La Serbia sotto un diluvio di bombe
1. L'operazione "forza determinata" uguale "eco-genocidio"
2. Il vertice europeo di Berlino dà il benestare ai bombardamenti
3. Il ruolo dell'Italia nell'"operazione aggressiva"
4. Il diluvio di bombe che prosegue
5. L'"operazione Arcobaleno"
6. La cacciata della popolazione del Kosovo
7. L'intensificarsi dei bombardamenti
8. Il "filo-occidentalismo" e lo sciovinismo nazionale dell'UCK
9. L'estensione del teatro di guerra
10. La dottrina della "superiorità schiacciante"
11. La distruzione dei ponti sul Danubio
12. La distruzione delle infrastrutture produttive e civili
13. La parte giocata dall'Italia nei bombardamenti
14. L'accerchiamento terrestre
15. L'Adriatico pattumiera Nato
Parte seconda: Il proletariato e le cricche locali
16. Le condizioni del proletariato jugoslavo
17. La diaspora del popolo Kosovaro. La tattica dell'Uck
18. La frattura tra Serbia e Montenegro
19. Il gioco impotente delle diplomazie
20. L'occupazione del Kosovo. Bilancio dell'aggressione
Parte terza: Globalismo e Stato etnico
21. Lo sviluppo della conflittualità interimperialistica
22. "Globalismo" e "Stato etnico"
23. La "filosofia" del nuovo militarismo
24. I compiti del proletariato
Parte quarta: Le prese di posizione e l'azione del nostro partito nel corso
degli avvenimenti
25. La NATO stringe i tempi per impiantarsi nel Kosovo
26. Proseguono i bombardamenti della NATO sulla Serbia
27. Crescono le manifestazioni contro l'aggressione
28. Solo la mobilitazione dei lavoratori può fermare la distruzione totale
della Serbia e l'invasione dei Balcani
29. La NATO, più intensifica i bombardamenti, più amplia le pretese
di dominio sulla Serbia
30. La giornata di sciopero contro l'aggressione Nato
31. Appello alla mobilitazione contro i raid aerei e l'occupazione della Serbia
32. I primi contingenti della Nato occupano il Kosovo
33. In Serbia le masse del popolo sono alla fame
34. La caduta di Milosevic merito di operai e studenti
Parte quinta: L'incendio in Macedonia
35. La Macedonia nel vortice della guerra intestina. Monta la tensione nei Balcani
del Sud
Parte sesta: Le risoluzioni degli ultimi tre Congressi di Rivoluzione Comunita
I. Risoluzione 28º Congresso
II. Risoluzione 29º Congresso
III. Risoluzione 30º Congresso
Presentazione
(INDICE)
L’aggressione dei briganti della NATO contro la Federazione Jugoslava,
scattata il 24 marzo 1999 e conclusa con la spartizione del Kosovo, non è
un capitolo chiuso, né dell’espansionismo armato degli Stati Uniti
e delle potenze europee (Germania, Italia, Francia, Inghilterra) nell’area
balcanica e verso il centro-asiatico, né della vicenda balcanica. È
una tappa di sviluppo di questo espansionismo e di questa vicenda. Quanto sta
avvenendo attualmente in Macedonia, ci riferiamo agli scontri armati tra guerriglieri
dell’UCK e esercito macedone, è una conseguenza di quell’aggressione
e dei conflitti interbalcanici; ed indica che si è aperta una nuova tappa
di sviluppo di questi due processi. Quindi è di grande importanza per
comprendere il significato e la direzione di marcia degli avvenimenti conoscere
le ragioni e gli scopi di questa aggressione e le cause di questa vicenda.
Col presente testo intendiamo dare il nostro contributo a questa comprensione
e alla comprensione, sia da parte dei lavoratori italiani che di quelli balcanici,
dei problemi del che fare e dei compiti pratici da svolgere. Era nostra intenzione
pubblicare, come introduzione al testo, soprattutto per i giovani uno schizzo
storico-politico degli avvenimenti jugoslavi più cruciali e dell’espansionismo
italiano dalla prima guerra mondiale in poi. Purtroppo la elaborazione di questo
schizzo ha preso tempi troppo lunghi e non è più giustificato
ritardare il varo di questo testo, anche perché i materiali in esso contenuti,
essendo apparsi a puntate sulla nostra stampa agitatoria non esistono nella
loro interezza e singolarmente non sono facilmente reperibili. Quindi diamo
il via a questo testo riservando l’introduzione a una prossima edizione.
Il volumetto fa seguito al corposo opuscolo "L’Italia nei Balcani",
apparso il 7/4/1999, contenente le nostre analisi e posizioni fino alla vigilia
dell’aggressione. Esso comprende le esposizioni più approfondite
e più aggiornate sulla realtà balcanica e sull’espansionismo
imperialistico. Contiene inoltre l’esame aggiornato e la valutazione degli
avvenimenti in corso in Macedonia. Ed è il compendio più esauriente
delle nostre posizioni e indicazioni pratiche. È quindi uno strumento
di lotta politica e rivoluzionaria.
E ora a chiusura un’avvertenza tecnica. Il volumetto si compone di sei
parti. La prima è dedicata all’esame delle ragioni dell’aggressione
e alla descrizione e valutazione degli avvenimenti nel loro concreto processo
di sviluppo, visti nell’ottica specifica dell’intervento e del ruolo
giuocato dal nostro imperialismo. La seconda considera la situazione del proletariato
jugoslavo; i contrasti nazionali tra Serbia e Montenegro; il giuoco delle diplomazie
sullo scacchiere balcanico. E tira il bilancio provvisorio dell’aggressione
imperialistica. La terza approfondisce l’analisi sulla conflittualità
interimperialistica. Risponde alla falsa problematica accademica "globalizzazione
- Stato etnico". E a conclusione definisce i caratteri del nuovo militarismo
e precisa i compiti del proletariato. La quarta parte contiene le prese di posizione,
l’azione e le indicazioni praticate dalla nostra organizzazione nel corso
degli avvenimenti. La quinta si occupa dell’incendio macedone. L’ultima
riporta le risoluzioni finali degli ultimi nostri tre congressi, che aiutano
a vedere gli avvenimenti balcanici nel più vasto quadro euro-asiatico
e mondiale.
Milano 5 luglio 2001
L’Esecutivo Centrale
di Rivoluzione Comunista
Parte prima
LA SERBIA SOTTO UN DILUVIO DI BOMBE
1. L’operazione "forza determinata" uguale "eco-genocidio"
Sono preliminari all’analisi degli avvenimenti almeno tre questioni: a)
la tipologia dei conflitti balcanici; b) la natura attuale della NATO; c) il
carattere politico-militare dell’operazione armata contro la Federazione
jugoslava. Le esaminiamo sinteticamente nell’ordine.
A) Nei Balcani, ed in particolare in Serbia e nel Kosovo provincia serba, si
intrecciano e/o si precipitano quattro tipi di conflitto: a) la prepotenza di
dominio mondiale degli USA e la concorrenza-rivalità, in particolar modo,
di Italia e Germania per l’egemonia sul Kosovo e nell’area balcanica;
b) il riassetto interstatale tra tutti gli Stati e semi-Stati balcanici; c)
la lotta di liberazione del popolo Kosovaro dalla Serbia (questione nazionale);
d) la lotta di classe dei lavoratori contro le cricche borghesi dominanti (questione
socialista). Quindi se si vogliono capire gli avvenimenti della zona bisogna
avere chiaro questo intreccio.
B) Il patto atlantico nacque nel 1949 come corollario della divisione dell’Europa
in due blocchi (divisione prodotta dalla seconda guerra imperialistica): il
blocco occidentale e il blocco orientale. E fu uno strumento nelle mani degli
Stati Uniti per garantirsi nei confronti della Russia e paesi satelliti il controllo
dell’Europa occidentale e l’ordine uscito da Yalta. L’alleanza
mirava a mantenere questo ordine e ogni qualvolta si è verificata un’incrinatura
essa è scattata minacciosamente e terribilmente. La Nato ha avuto quindi
fino agli anni ottanta il ruolo di controllo dell’area europea occidentale
contro ogni possibile minaccia orientale e ha svolto questo ruolo sia in modo
difensivo che offensivo com’è proprio di ogni alleanza militare.
Scrivere, come si fa oggi retrospettivamente, che il patto atlantico aveva la
funzione di proteggere i rapporti capitalistici non ha alcun senso perché
questi rapporti non erano messi in discussione da nessun blocco e anzi la spartizione
dell’Europa in due si basava sullo sviluppo di questi rapporti.
Dopo il 1989, col crollo del blocco orientale e la riunificazione tedesca, il
patto atlantico non aveva più ragione di esistere. E la Nato, dapprima
è sopravvissuta a se stessa; poi a partire dal 1991, segnatamente con
la crociata distruttiva contro l’Iraq, si è progressivamente trasformata
in un apparato di terrore e annientamento contro i popoli e gli Stati indipendenti
che non stanno agli ordini della nuova gerarchia imperialistica. Quindi la Nato
d’oggi non è, come scrive qualche inveterato apologista atlantico,
"un’organizzazione per la sicurezza collettiva e per la gestione
delle crisi"; è un organismo brigantesco che utilizza la sua strapotenza
(la sua potenza di fuoco) contro ogni popolo e contro ogni Stato che non si
subordini ai suoi fini di dominio e di rapina. Questa è la Nato attuale.
Con la particolarità che gli Stati Uniti d’oggi, se mantengono
ancora la superiorità militare, non hanno più sul piano economico-finanziario
la forza del 1949; e che la conflittualità interimperialistica è
ormai entrata in fase esplosiva.
C) Che tipo di guerra è quella scatenata dalla Nato contro la Serbia?
L’operazione armata scatenata dalla Nato non è, né una guerra
imperialistica in quanto non sono schierate l’una contro l’altra
potenze imperialistiche; né una guerra tra Stati in quanto - a prescindere
dalla circostanza formale che la Serbia non ha dichiarato alcuna guerra contro
i paesi della Nato - non c’è in ballo alcun contrasto confinario
tra Stati e/o di espansione reciproca; né tantomeno può considerarsi
una guerra nazionale in quanto la Nato non é oppressa da nessuno Stato.
Essa esce dai canoni convenzionali della guerra. E va quindi definita per quello
che essa effettivamente è: un’aggressione banditesca dei potenti
del mondo contro un piccolo Stato indipendente basata sulla strapotenza militare
a fini di controllo del territorio e di dominio. Fatta questa premessa entriamo
in argomento.
2. Il vertice europeo di Berlino dà il benestare ai bombardamenti. Scatta
l’operazione "forza determinata".
Il comando Nato aveva preparato da tempo il piano di aggressione contro la Serbia
chiamato forza determinata. Il piano scatta alle ore 19 di mercoledì
24 marzo 1999. E scatta dopo il benestare delle potenze europee. I quindici
capi di governo dell’UE, riuniti da giorni a Berlino, si pronunciano per
l’inizio dell’operazione. Blair Jospin D’Alema Schroëder,
pur con toni differenti, sono tutti per l’inizio dell’operazione.
E questa scatta quasi simultaneamente.
Dalle basi aeree di Aviano, Gioia Del Colle, Amendola, S. Damiano, decollano
i cacciabombardieri. Dalla VI flotta USA dislocata in Adriatico (quattro navi
da guerra e due sommergibili), dalla portaerei francese Foch, dalle sei navi
da guerra e sommergibili di Germania Gran Bretagna Italia Olanda Spagna Turchia,
entrano in azione le batterie missilistiche. Alle 19.25 si sentono i primi boati
a Pristina. Subito dopo a Belgrado e dintorni. Salta l’elettricità
e si levano le prime fiamme tra gli urli laceranti delle sirene. Un diluvio
di bombe e missili si abbatte sul territorio della mini-Jugoslavia (Serbia e
Montenegro). A ondate successive i B-52, gli F-116, i Tornado, le batterie missilistiche
dell’armata Nato, lanciano il loro carico di distruzione e di morte sulle
basi militari e logistiche serbe, sulle postazioni contraeree, sui sistemi radar
e di trasmissione. La reazione serba nulla può di fronte a questa potenza
di fuoco e deve subire pressoché impotente i bombardamenti.
Da Aviano sono decollati circa 80 cacciabombardieri (statunitensi, canadesi,
inglesi, spagnoli, portoghesi) carichi di missili cruise contenenti 450 Kg di
esplosivo l’uno. La Germania è intervenuta coi tornado. Hanno aperto
l’apocalittico martellamento missilistico i B-52, vere e proprie macchine
di distruzione. Sono stati impiegati per la prima volta i supersofisticati B-2,
bombardieri dotati di 16 missili da 900 kg, dal costo sbalorditivo di 4.000
miliardi circa per esemplare. Per questa prima lezione alla Serbia è
stata quindi messa in campo una armata navale e aerea di proporzioni gigantesche.
3. Il ruolo dell’Italia nell’"operazione aggressiva".
Il governo proclama lo "stato di emergenza".
Fino al 12 marzo 1999 la Nato era composta da 16 membri: Stati Uniti, Canada,
Gran Bretagna, Norvegia, Danimarca, Paesi Bassi, Belgio, Francia, Germania,
Italia, Spagna, Portogallo, Turchia, Austria, Grecia, Islanda. Il 12 si sono
aggiunti Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, che portano così il numero
dei membri a 19. All’operazione in corso partecipano 13 dei primi 16 membri,
restandone fuori Austria, Grecia e Islanda.
In questa operazione l’Italia svolge un ruolo di primo piano e di supporto
fondamentale. Essa vi partecipa coi suoi mezzi aerei navali e di terra. Dalle
nostre basi aeree partono le missioni di distruzione e di morte. Dall’Adriatico
scalpitano le batterie missilistiche. Vengono chiuse le rotte aeree adriatiche
e aboliti i voli. Lungo le coste che vanno da Foggia a Otranto vengono installate
postazioni missilistiche anti-aeree. Tutta la costa centro-meridionale viene
militarizzata a fini bellici. Quindi tutto il territorio orientale, dal Nord
al Sud, è base di guerra, supporto di azioni militari ad alta intensità
tecnologica.
Il 25 e il 26 i bombardamenti aerei e navali si intensificano su tutta la Serbia
e in particolare in Kosovo. Il governo di Belgrado resiste e sfrutta i bombardamenti
per mettere la museruola agli oppositori in nome della patria in pericolo e
per scatenare la pulizia etnica in Kosovo. La popolazione kosovara viene improvvisamente
ma prevedibilmente a trovarsi tra due fuochi: tra il fuoco delle bombe Nato
e il fuoco delle milizie serbe. L’Uck non riesce a tener testa all’azione
serba di espulsione della popolazione dai centri urbani. E la gente abbandona
le case e scappa senza mezzi e senza viveri verso il confine macedone albanese
e montenegrino alla ricerca della salvezza.
Il 26 marzo il Consiglio dei Ministri, consapevole che il primo effetto dei
bombardamenti sarebbe stato quello della fuga dai bombardamenti, proclama lo
"stato di emergenza" sul territorio nazionale fino al 30 giugno successivo
"per fronteggiare un eventuale eccezionale esodo delle popolazioni provenienti
dalle zone di guerra dell’area balcanica" (il decreto del presidente
del consiglio è pubblicato sulla G.U. n. 73 del 29 marzo). Il governo
si prepara così, introducendo cioè all’interno la disciplina
marziale del teatro di guerra, ad affrontare la bomba profughi che è
la conseguenza diretta dei bombardamenti da esso decisi.
4. Il diluvio di bombe che prosegue. Il passaggio alla "fase due".
L’aggressione contro la Serbia è articolata in tre fasi. Nella
prima vengono eliminate le strutture militari contra-aeree radaristiche missilistiche
logistiche. Nella seconda vengono colpiti i reparti operativi l’apparato
industriale e le reti di collegamento. Nella terza c’è l’ingresso
delle truppe Nato in Kosovo attraverso la Macedonia. Tra sabato 27 e domenica
28, dopo quattro giorni di bombardamenti crescenti e sempre più devastanti,
scatta la fase due.
Il segretario della Nato Solana dichiara di avere avuto via libera per la fase
due dai 19 membri dell’alleanza e alle ore 20 prendono il volo le nuove
missioni che ora possono estendere i bombardamenti su attrezzature e militari
in azione. Il Kosovo subisce le maggiori distruzioni da questi nuovi bombardamenti.
L’Uck non potendo arginare la fuga della popolazione, reclama l’intervento
delle truppe di terra. Ma il comando Nato vuole la disintegrazione della Serbia
e prosegue con crescenti bombardamenti.
Il 30 giunge a Belgrado il premier russo Primakov per un tentativo di mediazione.
Milosevic lancia la proposta di un ritiro parziale delle milizie stanziate in
Kosovo in cambio della cessazione dell’aggressione Nato. La missione russa
fallisce. Dopo la dichiarazione del presidente serbo che non verrà permesso
a truppe straniere di mettere piedi in Jugoslavia gli Usa rendono pubblico il
progetto che il Kosovo verrà proclamato zona autonoma sotto la protezione
della Nato con la cessazione di ogni rapporto di dipendenza con la Serbia. Il
comando Nato, da parte sua, alza il tiro e punta a colpire il cuore di Belgrado,
indicando tra gli obbiettivi: il ministero della difesa e quello dell’interno.
L’aggressione Nato si fa sempre più terrificante.
5. L’"operazione Arcobaleno": prima si spinge in mare la gente
poi gli si allunga il salvagente
Il 29 parte dalla Puglia l’operazione arcobaleno, un ponte aereo-navale,
che ha un duplice obbiettivo: a) apprestare un soccorso ai profughi; b) evitare
che l’eccessivo afflusso di profughi in Albania si travasi in Italia.
Il 30, mentre il nostro ministro per gli interni che porta la sua parte di responsabilità
nella catastrofe umana del Kosovo non riesce a trattenere le lacrime di fronte
alla folla di profughi accalcati a Kukes, il responsabile della protezione civile
Barberi visita Durazzo per scegliere i siti dove impiantare i centri di accoglienza
ed impedire che i profughi si riversino sulle coste adriatiche. Quindi Roma
non si smentisce nel suo consumato doppiogiuochismo: da un lato coopera coi
massacratori; dall’altro stende la mano ai massacrati, cercando poi di
tenerli buoni con una assistenza di facciata.
Dopo sette giorni di bombardamenti possiamo abbozzare un primo bilancio provvisorio
delle conseguenze:
a) il Kosovo è una terra distrutta e abbandonata; 300-400 mila profughi,
ridotti a straccioni, si addensano sul confine macedone albanese montenegrino;
b) la Serbia è semi-distrutta e vive sotto l’incubo dei bombardamenti
devastanti e delle misure di emergenza (tasse, razionamenti, mancanza di generi
di prima necessità);
c) le vittime dei bombardamenti, morti e feriti, si contano a decine di migliaia
(in merito Nato e Serbia tendono a stringere) e ancor di più saranno
le vittime indirette quelle cioè provocate dallo sconvolgimento delle
basi di vita;
d) sono state effettuate solo dagli aerei circa 2.500 missioni di bombardamento;
e) secondo Belgrado sarebbero stati abbattuti 7 aerei Nato compreso l’F-117
Stealth il cui pilota è stato tratto in salvo da tre elicotteri.
6. La cacciata della popolazione del Kosovo. La catastrofe senza fine del popolo
Kosovaro. I profughi come "arma di guerra".
Senza i bombardamenti ad oltranza della Nato la Serbia non avrebbe potuto svuotare
il Kosovo. E, tra l’altro, in così poco tempo. La fuga-cacciata
della popolazione albanese dalla provincia irredenta è impressionante
per la rapidità e catastrofica sul piano umano. La gente, terrorizzata
dai bombardamenti cerca la fuga come ancora di salvezza. Le milizie serbe fanno
il resto. Appiccano il fuoco ai villaggi; distruggono beni e documenti; liquidano
i presunti appartenenti all’UCK o gli uomini semplicemente validi, per
costringere la gente a fuggire. A Pristina e a Pec le squadre paramilitari ammassano
i civili nelle piazze e li spingono a scappare sotto la minaccia delle armi.
Per accelerare la fuga-cacciata in massa della popolazione, migliaia di Kosovari
vengono spediti al confine in treni piombati. In pochi giorni, tra la fine di
marzo e l’inizio di aprile, fiumi interminabili di donne anziani e bambini,
che hanno perso tutto e hanno ben poco con sé, si riversano al confine
albanese macedone montenegrino. Le decine, centinaia di migliaia di fuggiaschi,
restano ammucchiati per diversi giorni nel fango e nei rifiuti all’addiaccio
sotto il freddo e la pioggia. È uno scenario apocalittico, uno scenario
che le TV irradiano per giustificare i bombardamenti, che non si potrà
cancellare dalla memoria per almeno cinquant’anni.
I capi di governo della Nato per mascherare i loro disegni di installare truppe
nel Kosovo avevano inventato la teoria della "ingerenza umanitaria",
cioè il diritto a violare la sovranità nazionale, in questo caso
della Federazione Jugoslava, per portare un asserito aiuto alla popolazione
albanese del Kosovo. Questa teoria non ha nulla da vedere coi bisogni della
gente in genere e dei Kosovari in particolare. È un artificio ipocrita
cui ricorre chi vuole imporre la propria forza. Gli avvenimenti lo dimostrano
terribilmente e inappellabilmente. A parte il fatto che questi primi ministri
ostentano una impermeabile impassibilità di fronte allo sterminio del
popolo Kurdo operato da un membro dell’alleanza qual è la Turchia
e dimostrano quindi di nutrire un’idea di tutto comodo di questa teoria,
a parte questo fatto alto come il Monte Bianco, non si vede come sia possibile
aiutare una popolazione a suon di bombe. Non si vede cioè come le vittime
possano essere aiutate dai loro massacratori. Quindi i teorizzatori o sostenitori
dell’ingerenza umanitaria non solo sono criminali aggressori ma sono anche
perfidi mistificatori.
Per gli strateghi della Nato i Kosovari sono carne da macello e merce di scambio.
I fuggiaschi, i profughi, sono poi arma di guerra in particolar modo nella realtà
balcanica. Servono alla Nato per giustificare e accelerare l’invasione
da terra. Servono a Belgrado per premere sui suoi vicini (Montenegro, Albania,
Macedonia, Bosnia) e condurre il gioco interbalcanico. Così la fiumana
di fuggiaschi, che si accalca ai confini e che dà un’immagine scioccante
dell’orrore moderno, oltre che prodotto specifico di guerra diventa arma
di guerra: bomba esplosiva, utilizzabile in senso difensivo e in senso offensivo.
Quindi tutto ciò che riguarda i profughi, fuggiaschi o rifugiati, rientra
nei calcoli strategici; e ogni mossa (assistenza, localizzazione, cacciata,
spostamento da una parte all’altra del territorio, ecc.) fa parte della
tattica militare.
Tracciamo un quadro della consistenza di questa fiumana e delle direzioni che
prende. Al 1° aprile la massa dei fuggiaschi e dei cacciati raggiunge le
600.000 unità. Entro il 3, secondo la Commissione delle Nazioni Unite
per i rifugiati, di questa massa 315.000 varcano i confini del Kosovo riversandosi
170.000 in Albania, 115.000 in Macedonia, 32.000 in Montenegro. La situazione
più critica è quella della Macedonia. Il presidente Gligorov dichiara
che la Nato deve assumersi la responsabilità dei profughi perché
è stata l’alleanza a provocare questo cataclisma, aggiungendo che
"da soli non ce la facciamo, così come non ce la fanno l’Albania
e il Montenegro, paesi ancor più poveri di noi". Per arginare il
flusso la Macedonia il 4 chiude il confine. Il comando Nato fa eco all’appello
di Gligorov e decide di inviare truppe in Albania per salvare i profughi. Il
5 il Consiglio Atlantico incarica il generale Clark di allestire un piano per
l’aiuto ai profughi e questi decide una struttura di comando di 400 unità
di stanza a Tirana e un contingente di 8.000 militari sotto comando italiano.
Lo Stato maggiore della Difesa mobilita i soldati di leva, partendo dai volontari.
L’8 il portavoce della Nato, generale Shea, annuncia di voler "dispiegare
al più presto le forze di terra per garantire il ritorno dei rifugiati".
L’operazione viene chiamata rifugio alleato. Intanto aumenta a valanga
la nassa dei fuggiaschi. L’8 il numero dei rifugiati dopo i raid, passa
in Albania a 286.000 unità, in Macedonia a 122.000, in Montenegro a 50.000.
Ci sono 260.000 sfollati che vagano all’interno del Kosovo. Quanto ai
30.000 profughi scomparsi nella notte questi sono stati ricacciati all’indietro
dai militari serbi. E la TV di Belgrado annunzia che "le forze di sicurezza
federali hanno terminato le operazioni antiterroriste e la pace è stata
riportata in Kosovo". Nei giorni successivi, con la riapertura da parte
della Serbia dei confini con Albania e Macedonia riprende incessante l’afflusso
di profughi verso i due paesi. La situazione è fuori controllo. Di tutta
l’assistenza finora ostentata dagli aggressori a favore dei profughi l’unica
cosa funzionante è la tendopoli approntata in Albania per ragioni di
controllo militare dalla protezione civile italiana. Per il resto è il
caos. E al 15 aprile la massa di profughi ha forse raggiunto e superato il milione
e duecentomila (secondo il Pentagono gli sfollati sarebbero 1.400.000).
7. L’intensificarsi dei bombardamenti e la distruzione progressiva delle
strutture industriali e civili per mettere in ginocchio la Serbia
Da quando è iniziata la fase due i cacciabombardieri e le batterie missilistiche
continuano a colpire e distruggere, oltre agli obbiettivi militari, le strutture
industriali e civili e le vie di comunicazione. Tra il 31 marzo e il 10 aprile
viene distrutto a Novi Sad capitale della Vojvodina il Ponte Vecchio. Il 3 viene
fatto saltare il secondo ponte sul Danubio. Tutto il traffico fluviale sul grande
fiume viene sconvolto e paralizzato. I paesi rivieraschi (Austria, Ungheria,
Bulgaria, Romania) si ritrovano col traffico bloccato chissà per quanto
tempo. Viene poi bombardato il centro di Belgrado con un’operazione terrorizzante
battezzata disgustosamente operazione Dresda a ricordo del maramaldesco bombardamento
alleato che rase al suolo nel 1945 la città tedesca. Il 5 notte viene
devastato l’aeroporto internazionale di Surcin. Nelle prime ore del mattino
viene fatto saltare il comando dell’aviazione e della contraerea e colpita
la centrale termoelettrica di Novi Beograd che dà il riscaldamento alla
città. Intervistato, dopo questi bombardamenti, il capo di Stato maggiore
della Difesa, generale Arpino, dice: "Tutti i centri di comando e di controllo
sono già stati messi fuori uso. Bloccate le vie d’accesso, distrutte
le fonti di energia, gas, elettricità, ferrovie, le fabbriche cancellate,
interrotti i passaggi in Montenegro dove Milosevic voleva inviare truppe. Si
va verso la paralisi totale. Alla fine non resterà che l’uomo e
basta" (Corriere della Sera del 6/4).
Il 6 Milosevic chiede di sospendere per un giorno, in occasione della Pasqua
ortodossa, i bombardamenti in cambio di un ritiro parziale di militari dal Kosovo.
Il comando Nato giudica insufficiente l’offerta e ordina bombardamenti
a oltranza. I leader dei paesi europei fanno fronte comune gettando nuove risorse
nei bombardamenti terrificanti. Nella notte del giorno 8 viene colpito un deposito
di carburante, che provoca un disastro ecologico. I consiglieri dei comandi
commentano che Forza Determinata ha trovato il punto debole della resistenza
serba: il taglio di rifornimenti all’esercito. E suggeriscono di prosciugare
il petrolio per impedire ai carri armati di muoversi. Il 9 viene distrutta a
Kragujevac la Zastava (la Fiat serba) e vengono feriti i 124 operai schierati
a scudo umano. Pristina è un cumulo di macerie e tutta la Serbia si avvia
a diventarlo. La tracotanza degli aggressori non ha limiti: il comando Nato
esige da Belgrado sei ore al giorno di trasmissioni televisive minacciando di
distruggere tutto.
Il 10 il generale Clark dichiara che i bombardamenti verranno intensificati
e che proseguiranno ancora per 14 giorni. Dal 10 tutto è obbiettivo militare:
le cose e la popolazione. I bombardieri inquadrano nel mirino ponti, ferrovie,
scuole, ospedali, treni carichi di passeggeri, file di profughi. Così
da cinque giorni si assiste alle cose più rivoltanti: dalla distruzione
delle residue fabbriche al bombardamento radioattivo degli sfollati, con conseguenze
distruttive (letali e inquinanti), ormai micidiali, per Serbia area balcanica
e Adriatico.
8. Il "filo-occidentalismo" e lo sciovinismo nazionale dell’UCK
La tattica dei bombardamenti ad oltranza, benché all’evidenza inutilmente
distruttiva, non può essere considerata frutto di cieco furore, scatenato
per schiacciare l’orgoglio di un popolo che non si piega alla coalizione
armata più strapotente del mondo. Nel prolungamento intensificato dei
bombardamenti, che riflettono e coprono il rinvio dell’occupazione di
terra, ci sono ragioni politico-militari indipendenti dalla residua capacità
offensiva dell’esercito serbo o dalla valutazione che se ne dà.
Una di queste ragioni è la riorganizzazione dell’Esercito di liberazione
del Kosovo (UCK), franato dopo i raid aerei e travolto dallo svuotamento del
Kosovo, e ora in fase di accelerata ricostruzione. Ma prima di considerare questo
argomento è bene vedere cos’è l’UCK.
L’Esercito di liberazione del Kosovo si è presentato sulla scena
nel 1997 in alcune azioni a fuoco contro le milizie serbe. Come ogni movimento
nazionale esso è un’organizzazione composita costituita da più
tendenze che esprimono gli interessi dei differenti gruppi sociali in cui si
è articolata la popolazione Kosovara. L’obbiettivo comune è
l’indipendenza del Kosovo; ma sul come gestire e assicurare l’indipendenza
le posizioni sono varie e contrastanti. Un’ala pensa a un Kosovo indipendente
protetto dall’occidente. Un’altra alla Grande Albania ossia all’unificazione
di tutti i territori abitati dagli albanesi compresi quelli della Serbia Macedonia
Montenegro. La posizione che manca e che sarebbe legittima sul piano democratico-borghese
è quella della Federazione con la Serbia. Una federazione con la Serbia
o con gli altri Stati della zona potrebbe assicurare a un Kosovo indipendente
un minimo di sicurezza statuale. Un Kosovo sotto protettorato internazionale
sarebbe invece un fattore di conflitto con la Serbia; mentre l’ipotesi
della Grande Albania travolgerebbe ogni assetto. Le due ale si muovono comunque
unite in funzione anti-serba e in subalternità all’occidente. E
sono quindi una pedina indispensabile nel gioco della Nato.
Riprendiamo l’argomento lasciato. Non abbiamo dati certi sulla consistenza
organizzativa dell’UCK. Il movimento armato contava due-tremila militanti
a parte gli appoggi e i simpatizzanti. Ma la sua forza non stava nel numero
bensì nei suoi legami con la popolazione e l’ambiente. Prima del
24 marzo, data di inizio dei bombardamenti, l’UCK era in ritirata sotto
l’offensiva delle milizie speciali. Dopo il 24 si spezza la rete dei legami
con la popolazione che scappa o viene cacciata dalle case. Quindi fino a fine
marzo esso vive un momento di disarticolazione organizzativa: isolato nella
Drenica a Produjevo e al confine con l’Albania. È con aprile che
l’UCK può avviare, con l’appoggio degli albanesi, una campagna
di reclutamento-rastrellamento degli uomini validi tra i profughi e avviarli
sulle montagne ove istruttori americani provvedono all’addestramento.
Nel frattempo vanno arrivando nuovi volontari dall’estero. E stanno arrivando
pure gli approvvigionamenti in armi. Solo adesso l’UCK sta contando nella
fase preparatoria per l’impiego diretto in compiti operativi di vasto
raggio. Quindi una delle ragioni del rinvio del passaggio alla fase tre è
rappresentata, a parte i contrasti interimperialistici e i problemi logistici
relativi, dalla bassa capacità operativa, che gli esperti USA stanno
cercando di puntellare.
9. L’estensione del teatro di guerra
Diceva nel 1994 il leader democratico Rugova, fautore dell’autonomia,
che se scoppia un conflitto nel Kosovo è "un massacro; una catastrofe
per tutti", avvertendo che il Kosovo può essere distrutto dall’esterno
dalla Serbia, che l’Albania vi verrebbe coinvolta, che la Grecia si sarebbe
posta in allarme e dietro di lei Bulgaria e Turchia. Ma anche la soluzione transitoria
da lui proposta per evitare il conflitto, cioè quella di un protettorato
internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite, non avrebbe potuto evitarlo
perché avrebbe creato una realtà statale artificiale, anti-serba
e anti-balcanica; un modello Bosnia, basato sulle truppe di occupazione e tributario
di queste truppe. Quindi senza una soluzione federativa con la Serbia era impossibile,
sul piano democratico-borghese, evitare il conflitto.
L’aggressione della Nato contro la Federazione jugoslava è causa,
ad effetti indefiniti, di un allargamento inarrestabile del teatro di guerra.
Limitando perora l’analisi all’aspetto balcanico va detto partitamente.
L’aggressione ha prodotto come primo effetto lo spezzamento del Kosovo.
La distruzione, cioè, dell’anello nevralgico della catena balcanica.
La conseguenza immediata è la fine del Kosovo e la disarticolazione dell’area
balcanica. Il Kosovo sprofonda e scompare tanto che venga spartito tra Serbia
e Albania quanto che venga trasformato in un protettorato della Nato. La questione
nazionale Kosovara, affidata alle bombe della Nato, non poteva avere che questo
effetto deflagrante.
L’aggressione e i bombardamenti terrificanti hanno poi rafforzato nei
confronti della Serbia tutti gli Stati dell’area. In particolare si è
rafforzata la Croazia che aspira ad ingrandirsi ai danni della Serbia e che
sta scalpitando per aggregarsi in qualche modo alle operazioni d’attacco.
Il generale croato K. Gorinsek ha dichiarato che la Nato se vuole "può
muovere su Belgrado partendo dalla Croazia". Lo stesso ufficiale non vede
l’ora di entrare in azione avvertendo che la Serbia non permetterà
mai l’indipendenza del Kosovo e che si potrebbe arrivare a una spartizione
(parte della Drenica e della Metohija all’Albania, Piana del Kosovo alla
Serbia).
L’attacco ha sospinto in terzo luogo la Bosnia Erzegovina nel teatro di
operazioni belliche. Il 3 aprile le truppe Nato dello Sfor di stanza in Bosnia
hanno minato un tratto della linea ferroviaria che unisce la Serbia al Montenegro
per sbarrare la via di accesso alle forze militari di Belgrado nella zona. Il
pilota dell’aereo invisibile F-117 A, abbattuto in Serbia, è stato
soccorso attraverso la Bosnia e fatto sostare nella base Sfor di Tuzla prima
di essere trasferito ad Aviano. La Bosnia può quindi essere trascinata
da un momento all’altro in operazioni più vaste.
L’aggressione della Nato in quarto luogo ha rotto la Federazione jugoslava
mettendo il Montenegro contro la Serbia. Dall’inizio dei bombardamenti
il presidente del Montenegro, Djukanovic, si comporta come nemico della Serbia
invocando la benevolenza della Nato. La Marina ha chiuso i porti alla Serbia.
E il 14 aprile il ministro dell’interno, Vukasin Maras, sfidando Belgrado,
ha affermato che se qualcuno attaccasse il Montenegro, fosse anche l’esercito
federale, dovrebbe sapere che "la polizia è pronta a difendere il
Montenegro". I rapporti tra i due membri della Federazione sono quindi
sull’orlo del conflitto armato.
L’aggressione in quinto luogo ha gettato l’Albania contro la Serbia
e viceversa. L’Albania è diventata una retrovia e una base operativa
per gli attacchi della Nato. Il 13 una pattuglia serba, forse inseguendo dei
guerriglieri o per dimostrare di poter raggiungere con facilità il confine,
sbaraglia il posto di frontiera di Kamenica. Si stanno accendendo tra i due
paesi scaramucce militari. E, soprattutto, ciò che rende la situazione
esplosiva è l’enorme afflusso di profughi in Albania.
L’aggressione in sesto luogo ha trasformato la Macedonia in una polveriera
nazionale (qui consideriamo solo questo aspetto non quello sociale). L’afflusso
oceanico dal Kosovo ha squilibrato completamente i delicati rapporti interni
tra albanesi e macedoni, nonché quelli statuali tra Albania e Macedonia.
E da un momento all’altro può avvenire di tutto.
In settimo luogo infine l’aggressione ha risucchiato nella zona centrale
dei balcani Ungheria Bulgaria Grecia Turchia, che da tempo premono e si attivano
per aumentare la loro forza di influenza in questa zona o per ostacolare la
penetrazione altrui (dei propri concorrenti o rivali).
Quindi è tutta l’area balcanica in fiamme. Illuminante al riguardo
la contorsione del filo-occidentale Djukanovic il quale solo il 15 ha criticato
per la prima volta la Nato, chiedendo la sospensione dei bombardamenti, per
"il rischio concreto che il Kosovo incendi non solo la Jugoslavia ma tutta
la regione".
10. La dottrina della "superiorità schiacciante" e i vani tentativi
di compromesso
La distruzione della Federazione jugoslava, che non c’è più;
e, specificatamente, la distruzione della Serbia è un evento che fa comodo
a tanti. E il primo obbiettivo dell’aggressione è realizzare questo
evento (la lezione a Milosevic). L’uscita dal Kosovo degli osservatori
Osce prima dell’avvio dei bombardamenti e l’esautoramento del gruppo
di contatto facevano chiaramente capire che l’aggressione mirava a questo
obbiettivo immediato e che essa aveva messo in conto sia la catastrofe umana
del Kosovo sia l’attrito con la Russia. I tentativi di compromesso si
rivelano quindi queruli giochi diplomatici.
Nondimeno è opportuno ripercorrere i momenti più importanti di
questi giochi diplomatici per la comprensione degli sviluppi futuri dell’aggressione.
Il 2 aprile il Vaticano si duole per la tregua da esso proposta e respinta e
sferza gli europei affinché cerchino una via di uscita con una "conferenza
europea sui balcani" strigliando Clinton Solana e Milosevic. Il 4 il nostro
ministro degli esteri, pur augurando il successo della strategia Nato, propone
un’alternativa ai bombardamenti indicandola in un blocco, in un isolamento
totale della Serbia tale da impedire il passaggio di mezzi e uomini escluso
gli alimenti e le medicine (strategia del cordone sanitario). L’8 i 15
ministri dell’UE lanciano un "piano Marshall per i balcani":
500 miliardi per le vittime del Kosovo (300 ai rifugiati; 200 ad Albania Macedonia
e Montenegro); ed approvano la proposta tedesca di un patto di stabilità
per i balcani consistente nella pacificazione della regione e nel suo graduale
ingresso in Europa. I tentativi fatti dal premier russo, Primakov, si spuntano.
Il 9 Cossutta dialoga con Milosevic per quasi due ore e quest’ultimo fa
scrivere, nel comunicato finale, che "le relazioni di buon vicinato tra
l’Italia e la Jugoslavia devono essere per il governo di Roma più
importanti degli obblighi verso la Nato". Il governo tedesco, stuzzicando
Belgrado a ritirarsi dal Kosovo in cambio della sospensione dei raid per 24
ore, lancia un piano di pace articolato in questi 6 punti: "1 - I ministri
degli Esteri del G-8 stabiliscono le date del ritiro delle forze serbe dal Kosovo;
contestuale cessazione delle attività dell’Uck e creazione di una
forza di pace. 2 - L’Onu adotta questi punti. 3 - Se le forze serbe avviano
il ritiro, gli attacchi vengono sospesi per 24 ore. A ritiro completo entro
una data specifica, stop definitivo. Disarmo dell’Uck. 4 - La Nato stabilisce
un controllo militare sul Kosovo. 5 - Le organizzazioni umanitarie cominciano
a operare. 6 - Rientro dei profughi in Kosovo" (Corriere della Sera del
15/4/99). Il 14 i 15 capi di Stato dell’UE riuniti a Bruxelles bocciano
il piano tedesco e si schierano per l’intensificazione dei bombardamenti.
Il segretario della Nato, Solana, ribadisce le condizioni poste dall’alleanza
per mettere fine ai bombardamenti: 1 - Sospensione degli attacchi contro la
popolazione civile del Kosovo. 2 - Ritiro delle forze militari e paramilitari
dal Kosovo. 3 - Accesso a una forza militare internazionale. 4 - Ritorno in
Kosovo di tutti i rifugiati. 5 - Accordo di Rambouillet.
Quindi, per il momento, la dottrina della superiorità schiacciante, ossia
della distruzione della Serbia non sente ragioni diplomatiche.
11. La distruzione dei ponti sul Danubio
I bombardamenti, a prescindere dalla sofisticatezza ed efficienza tecnologica
dei mezzi impiegati, rispondono sempre ad una logica militare, dietro cui stanno
poi precisi calcoli politici. E il primo calcolo politico del comando Nato è
stato quello, dopo la prima settimana di bombardamenti che non hanno incrinato
la tenuta di Belgrado, di piegare la Serbia con la distruzione graduale dei
ponti sul Danubio (qui parliamo solo di questi in quanto tutti gli altri ponti
sono bersaglio quotidiano) infrastrutture strategiche sotto il profilo economico
militare statuale.
I primi ponti ad essere distrutti sono quelli di Novi Sad la città situata
a Nord-Est capitale della provincia autonoma della Vojvodina confinante con
l’Ungheria oggetto di rivendicazioni territoriali ungheresi. L’abbattimento
dei ponti (il terzo e ultimo è abbattuto il 20 aprile) ha avuto l’effetto
di isolare la Serbia a Est, non solo economicamente mediante il blocco del traffico
fluviale e quindi dei rifornimenti e commerci (i disastri provocati sull’economia
danubiana e sui paesi rivieraschi sono enormi e converrà farne argomento
di trattazione, circostanze permettendo), ma anche e soprattutto amministrativamente
e militarmente. Infatti la conseguenza immediata della distruzione dei ponti
è stata quella di dividere in due Serbia e Vojvodina e di impedire a
Belgrado l’invio di rinforzi in caso di sollevamento della provincia.
Per capire meglio l’importanza dei ponti di Novi Sad bisogna chiarire
che la Vojvodina è la regione a più alto sviluppo economico della
Serbia; che qui sono concentrati molti investimenti della famiglia Milosevic.
Ed inoltre che in questa regione esiste un movimento autonomista anti-serbo
a sfondo economico-amministrativo che può esplodere da un momento all’altro.
Se questo movimento non è ancora esploso ciò è dovuto in
gran parte al fatto che nella regione si sono riversati ben 600.000 rifugiati
scappati dalle Krajine annesse dalla Croazia e il baricentro della composizione
nazionale si è spostato a favore dei serbi.
Quindi la distruzione dei ponti sul Danubio risponde a una logica politico-militare
a vasto raggio; che ha mostrato già i suoi nefasti effetti sulla Serbia,
ma che è carica di ben più gravi effetti per la vita e il futuro
di tutta l’area danubiana e oltre.
12. La distruzione delle infrastrutture produttive e civili. Radioattività
e inquinamento.
Il concetto di eco-genocidio che abbiamo impiegato all’inizio dell’esposizione
appare ora nella sua piena luce sotto il micidiale martellamento aereo. Gettiamo
uno sguardo, in rapida sintesi, a questo disastro crescente.
Il 15 aprile alle 22.30 vengono colpiti gli impianti di fertilizzanti di Pancevo
mentre sono in attività. Vengono distrutti i reparti del monocloruro
di vinile e dell’etilene. Le esplosioni danneggiano le altre linee di
lavorazione. Il fuoco, che si sprigiona, divora una grande quantità di
materiali tossici, di clorina. Molto materiale tossico si disperde nell’aria.
La notte si trasforma in un giorno spettrale. L’altro finisce nel Danubio
e da qui nel Marnero. Il direttore dello stabilimento dichiara che la distruzione
del petrolchimico "rivela le intenzioni di genocidio dell’aggressore";
mentre i tecnici dell’impianto rilevano che l’Occidente "ci
vuole prendere per fame".
Il 21 alle 3 di notte 4 missili Tomahawk sventrano il grattacielo di 24 piani
sede del partito di governo. Il 23 viene distrutta la TV a Belgrado. A Washington
in occasione del 50° anniversario della Nato Clinton dichiara ai 19 capi
di Stato e di governo presenti: "avanti fino alla vittoria". E, all’unanimità,
viene deciso il blocco petrolifero. Da Belgrado Kuk Draskovic lamenta che la
Nato sta attuando "l’assassinio collettivo di un popolo". Ma
le bombe continuano a cadere su tutto: fabbriche, case, ospedali, civili, profughi,
cimiteri, macerie.
La disastrosità dei bombardamenti va vista sia sotto l’aspetto
delle distruzioni immediate fisiche sia sotto quello degli effetti permanenti,
della micidialità. Non siamo in grado per il momento di fornire una stima
aggiornata delle distruzioni fisiche operate. L’apparato produttivo è
semidistrutto; continua ad andare il settore alimentare; le infrastrutture viabilistiche
sono tutte danneggiate. I danni materiali ammontano a più di 200 miliardi
di dollari (350 mila miliardi di lire circa). Solo per ricostruire i ponti distrutti
o danneggiati ci vorranno 20 miliardi di dollari. Almeno un milione dei due
milioni di dipendenti ha perso il lavoro. La popolazione di notte vive nei rifugi
(e a Belgrado si divide secondo la condizione sociale: i benestanti vanno nei
rifugi anti-atomici e/o convenzionali; la massa si riversa nelle metropolitane
o nelle cantine; i Rom sotto i ponti). Le distruzioni materiali stanno rendendo,
giorno dopo giorno, la vita impossibile.
Sotto l’incalzare dei bombardamenti il Kosovo si è svuotato. Le
città sono morte. Su 1.800.000 abitanti 1.600.000 circa sono ridotti
allo stato di sfollati, rifugiati, profughi, scomparsi. Secondo le più
recenti cifre fornite dallo speciale organismo dell’ONU la situazione
della popolazione Kosovara sarebbe questa: 374.400 si troverebbero in Albania;
160.700 in Macedonia; 60.400 in Montenegro; 35.000 in Bosnia-Erzegovina; 50.000
in Serbia; 124.847 in Europa; 800.000 sfollati e scomparsi in Kosovo. C’è
quindi qui un lato del disastro che supera ogni fosca immaginazione.
A metà mese è stato scritto che dalle bombe gettate sulla Serbia
c’è il pericolo di una nuova Chernobyl. Stando alla massa di missili
e di bombe impiegati questa soglia di pericolo forse è stata superata.
Le armi usate, in particolare le bombe, sono confezionate con uranio impoverito
per forare le corazze dei carri armati e delle autoblindo. Queste bombe sono
radioattive e ove vengono lanciate, come in Kosovo, fanno terra bruciata. E
c’è ora il rischio che chi entra in Kosovo si avveleni. Belgrado
ha denunciato all’ONU che questi bombardamenti hanno causato una catastrofe
ecologica. Valutando complessivamente gli effetti radioattivi delle bombe a
uranio impoverito e gli effetti inquinanti delle distruzioni operate sugli impianti
chimici si ha un’idea chiara e terribile della micidialità distruttiva
dell’aggressione Nato. E, dunque, del concetto di "eco-genocidio"
con cui noi l’abbiamo qualificato.
13. La parte giocata dall’Italia nei bombardamenti
Abbiamo detto in principio che il militarismo italiano gioca un ruolo di primo
piano nell’aggressione in corso. E lo gioca su tutti i terreni: navali
aerei terrestri. Roma ha messo a disposizione dell’alleanza tutte le basi
aeree e partecipa ai raid aerei. Dapprima ha cercato di nascondere questa partecipazione
poi ha dovuto ufficializzarla.
Il 30 marzo D’Alema legge ai giornalisti una nota con la quale spiega
così la parte che sta giocando l’Italia nei bombardamenti: "Il
contributo dei velivoli italiani alle operazioni Nato, finalizzato a compiti
di difesa aerea, è costituito dall’attività di pattugliamento
e di controllo sull’Adriatico e sulle aree (come in Bosnia e in Macedonia)
dove sono dislocate truppe italiane nell’ambito dei contigenti Nato in
missione di pace, oltre che in attività di protezione delle forze aree
Nato impegnate nelle operazioni. I velivoli italiani hanno il compito di neutralizzare
la minaccia di missili superficie-aria nel momento in cui questi vengano attivati.
Così come sono pronti a intervenire in caso di minaccia contro contingenti
terrestri nell’area balcanica, sia in Bosnia, dove operano 2.400 soldati
italiani, sia nella repubblica di Macedonia, dove sono dislocati mille nostri
militari. Altrettanto vale per il sistema a terra di aerei pronti a decollare
e di missili superficie-aria idoneo a garantire la sicurezza del paese. Si tratta,
dunque, di un’attività altrettanto essenziale ai fini del successo
dell’operazione Nato volta a fermare la brutale aggressione nel Kosovo
e costituire una soluzione pacifica basata sul rispetto dei diritti umani e
civili di quelle popolazioni". Dapprima il governo cerca, quindi, di mascherare
l’impiego diretto nei raid dei nostri aerei.
Ma al vertice di Bruxelles dei 15 capi di Stato dell’UE che si tiene a
metà aprile, Roma non può più mascherare la partecipazione
ai raid e ufficializza l’impiego dei Tornado e degli AMX (utilizzati per
missioni ravvicinate anticarro). Quindi la parte dell’Italia è
quella di primo attore. E questa parte cresce con l’indurimento della
strategia aerea.
Il 17 aprile il comando Nato decide di attuare una modificazione nella strategia
dei bombardamenti. Dagli obbiettivi programmati passa agli obbiettivi di circostanza
cioè al bombardamento di tutto: obbiettivi fissi, mobili, fuggevoli (secondo
la tattica USA del colpo per colpo detta "bit to bit"). Dai 400 aerei
impiegati nelle prime tre settimane si passa a 550 aerei, di cui 250 addetti
ai bombardamenti effettivi, sui 120 della fase precedente. Questa nuova forma
intensificata ha per scopo dichiarato quello di impedire ogni movimento avversario
a terra come in cielo e di soffocarlo. Ai partecipanti è chiesto un maggiore
contributo aereo. L’Italia aumenta la sua dotazione aerea. E dalla seconda
metà di aprile almeno quaranta aerei tricolori sfrecciano sui cieli serbi.
I serbi marcano subito questo accresciuto impegno bombardiere dell’Italia
con lancio di oggetti sulla nostra ambasciata di Belgrado. In contromossa il
17 Roma richiama l’ambasciatore Sessa affinché riferisca sugli
sviluppi della situazione. Il 18 scatta la tattica aerea annichilitiva, chiamata
delle scatole della morte (kill boy). La particolarità di questa tattica
è che il cielo del Kosovo viene suddiviso in tante strisce pattugliate
da aerei pronti a colpire ogni cosa. La nostra aviazione partecipa all’indurimento
tattico adeguandosi alla nuova tattica.
Nello stesso giorno, a simboleggiare la micidialità della nuova tattica,
viene bombardata la fabbrica di fertilizzanti e ammoniaca Hip Azotera. Un fumo
nero avvolge una parte di Belgrado. E la città non finisce soffocata
per un vento favorevole che spinge la nube tossica verso l’esterno. L’ispettore
all’ecologia della città dichiara a un quotidiano italiano (v.
Corriere della Sera del 19/4): "Con l’inquinamento dell’aria,
dell’acqua e del suolo causato dai bombardamenti, posso anticipare fin
d’ora che in una larga parte d’Europa l’impatto ecologico
sarà catastrofico". Precisando: "Dato che i nostri stabilimenti
chimici si trovano sulle rive del Danubio, la regione danubiana, la Romania
e il Mar Nero saranno contaminate ancor più gravemente della Jugoslavia".
La nostra macchina militare, il nostro governo, il nostro blocco di potere,
portano quindi la corresponsabilità diretta di questa "catastrofe
ecologica".
Il 24 il vertice dei ministri della Nato dà carta bianca ai militari
nella scelta dei bersagli da colpire. Clark, l’oltranzista dei raid aerei,
acquista pieni poteri nella fissazione degli obbiettivi. Il portavoce Shea cerca
di nascondere che si tratta di carta bianca dicendo che con questa decisione,
cui ha dato pieno assenso il rappresentante italiano, si è voluto realizzare
soltanto una flessibilità operativa. Ma gli effetti di questa decisione
unanime si vedono subito. La Serbia viene respinta indietro di un secolo: senza
acqua, senza benzina ed elettricità, senza treni, senza ponti e senza
Tv. Si bombarda di giorno e di notte. E le bombe tornano a cadere anche sulle
macerie. Al predetto vertice peraltro, mentre Dini secondo un gioco delle parti
lamenta l’arbitrarietà dell’attacco alla Tv serba, D’Alema
chiudendo il falso dibattito sull’errore di calcolo tra attacco e risultati,
afferma senza mezzi termini "che non si può discutere di ogni singolo
obbiettivo". Il ministro degli esteri commenta: "io parlo col cuore",
il presidente con la ragione. Quindi la linea della mano libera ai generali,
che possono scegliere gli obbiettivi senza consultarsi coi politici, bombardare
ad oltranza con una potenza di fuoco crescente su un numero di bersagli sempre
più esteso, ha il primo avallo italiano.
Roma incassa il premio di fermezza con la nomina anticipata del generale Guido
Venturoni alla presidenza del Consiglio militare della Nato al posto del tedesco
Naumann. Vota all’unanimità l’embargo petrolifero contro
il paese aggredito. Apprezza che l’Ungheria mette a disposizione tre basi
per i raid aerei. Incrementa le forze aeree e di terra impegnate nell’operazione.
Alla fine di aprile voci interessate del complesso industriale-militare americano
fanno trapelare la notizia che sono finiti i missili cruise e i sistemi Jdam
di guida a bersaglio e che la bisogna di missili renda necessaria la riconversione
di quelli a testata nucleare in testata convenzionale. È il segnale per
l’impiego di tutti i tipi di bombe e per il rinnovo degli arsenali. La
nostra aeronautica e la nostra marina non si tirano indietro nell’impiego
delle proprie batterie missilistiche e accelerano anche nel rinnovo degli armamenti,
un’esigenza quest’ultima acutizzata e resa esplosiva dall’andamento
stesso dell’operazione. Dunque il nostro militarismo ha svolto e sta svolgendo
in tutta l’operazione, in ogni fase o momento e su ogni terreno, un ruolo
di primo piano.
14. L’accerchiamento terrestre
Via via i bombardamenti sono cresciuti in intensità si sono pure intensificate
le manovre di accerchiamento via terra. Le truppe Nato stringono progressivamente
il cerchio attorno alla Federazione Jugoslava per stritolarla in una morsa irresistibile
ancor prima dell’invasione. Esemplifichiamo questo concetto con alcuni
momenti delle operazioni via terra.
Già sin dall’inizio dei raid aerei la Nato dispone di circa 40.000
uomini armati dislocati tra Bosnia-Erzegovina Macedonia Albania e coste adriatiche
(squadre navali). Questo notevole dispositivo entra subito nelle operazioni
di attacco sia come supporto logistico che come articolazione operativa. Tutto
il territorio serbo-montenegrino, ad eccezione dei confini con Croazia e Bulgaria,
è di fatto circondato dalle truppe Nato, che lavorano quotidianamente
all’occupazione del Kosovo e della Serbia. Quindi dietro i bombardamenti
aerei e navali ci sono i carri armati.
A metà aprile il generale Clark vola a Tirana per stabilire le condizioni
logistiche dell’attacco di terra. La strettoia di Kukes diventa il punto
obbligato per l’attacco di terra in Kosovo. A Roma viene ingiunto di sgomberare
in tempi rapidi il campo profughi per lasciar posto alle truppe Nato. Il colonnello
a stelle e strisce Applegate e un alto ufficiale inglese, assistiti da ufficiali
albanesi, perlustrano le località di confine (Kukes, Kruma, Bajram Curri)
e impiantano a Papaj un dispositivo mobile col compito di sminare la zona e
scrutare le mosse dell’esercito serbo. In Albania giungono migliaia di
soldati specializzati statunitensi che piazzano rampe anti-missili. Il 18 Belgrado
rompe i rapporti diplomatici con Tirana dando forte risalto alla rottura, anche
se già prima di Pasqua erano state chiuse le rispettive rappresentanze
diplomatiche, in segno di reazione verso l’Albania trasformatasi in un
trampolino di lancio dell’invasione del Kosovo. Nel corso della notte
i bombardieri rompono il sistema di difesa integrata della Serbia. L’Observer
di Londra scrive che se Belgrado non capitola prima l’invasione scatterà
alla fine di maggio, in quanto gli alleati avrebbero posto ai raid aerei e missilistici
un limite di tre mesi; aggiungendo che per l’invasione verrebbero impiegati
80.000 soldati. Quindi sotto il rombo dei cacciabombardieri fervono i preparativi
per l’occupazione militare del territorio, indispensabile al controllo
e al dominio dell’area da parte degli aggressori imperialistici.
Il 22 Milosevic dichiara di accettare una forza internazionale in Kosovo sotto
egida ONU e attraverso il mediatore russo Cernomyrdin si impegna a ridurre la
presenza in Kosovo delle forze militari e di polizia, a riconoscere l’autonomia,
a favorire il ritorno di profughi e sfollati e a cooperare per la ricostruzione
dell’economia jugoslava. Il 23 il comando Nato, concedendo che i bombardamenti
cesseranno appena avverrà il ritiro serbo dal Kosovo, ribadisce le proprie
condizioni: 1) cessazione immediata delle azioni serbe in Kosovo; 2) ritiro
delle forze militari e paramilitari; 3) rientro dei profughi; 4) schieramento
in Kosovo di una forza internazionale con presenza Nato; 5) sostanziale autonomia
per il Kosovo. La Nato vuole la capitolazione totale di Belgrado e senza resa
incondizionata di Belgrado non ci può essere alcuna tregua nei bombardamenti.
La cosa è così chiara e evidente che il 30 aprile, quando il presidente
della Federazione Jugoslava Milosevic formula un piano di pace basato sull’integrità
territoriale e sovranità della Federazione nonché sulla parità
dei contraenti, il piano non viene preso neanche in considerazione. Quindi nella
disparità abissale dei rapporti di forza militari non c’è
e non può esserci altra soluzione, intesa, tregua, pace, ecc. che non
sia la resa di Belgrado e l’ingresso delle truppe Nato in Kosovo.
Il 24 aprile giunge in Macedonia una colonna corazzata USA a sedicente protezione
dei 12.000 soldati americani dislocati sul confine col Kosovo. La colonna dispone
di 20 carri armati Leopard, di cingolati da combattimento, di semoventi M 109.
Ed è appoggiata da diverse dozzine di elicotteri Apache. Inoltre sono
in movimento con destinazione Albania 2000 marines dotati di Tank Abrams, blindati
Bradley, batterie di razzi Mlrs. Nell’uno e nell’altro caso si tratta
di dotazioni di armi d’attacco per le truppe di terra. Per cui è
inequivoco lo scopo della mobilitazione e impiego di queste truppe. Belgrado
protesta contro Tirana ammonendo "è dal 9 aprile che le forze regolari
albanesi partecipano all’aggressione Nato". Ma all’ammonizione
non può seguire alcuna reazione armata tranne le sparatorie di confine
che si intensificano soprattutto per arginare le incursioni dell’UCK.
Quindi Belgrado nulla può, sul terreno militare, per fermare l’attacco
di terra.
Staffan De Mistura, plenipotenziario ONU per i rifugiati, intervistato a Tirana
da un quotidiano italiano (il Manifesto 24/4) non nasconde i motivi per i quali
deve essere evacuato l’accampamento di Kukes. Egli spiega che la tendopoli
deve essere rimossa in quanto nel corridoio di Kukes deve operare l’esercito
e i profughi correrebbero seri pericoli se non venissero allontanati. Egli aggiunge
anche che al momento ci sono in Albania 300.000 profughi alloggiati nelle famiglie
e 65.000 nelle tendopoli, precisando che "è chi lascia la propria
terra contro la propria volontà per fuggire da un imminente pericolo",
mentre "il deportato è il profugo forzato a uscire dal proprio paese
in maniera organizzata". Perciò le ragioni e i motivi dell’ammassamento
di truppe di terra al confine tra l’Albania e il Kosovo sono abbastanza
manifesti e circolanti in contrasto e a dispetto della linea ufficiale, propagandata
da tutte le diplomazie, che la Nato non avrebbe deciso alcun intervento di terra.
Il blocco navale per soffocare Belgrado, deciso al vertice Nato di Washington,
è anch’esso un’operazione militare di terra, una manovra
di accerchiamento e asfissia. Tutti i capi di Stato e di governo danno il loro
assenso al blocco navale davanti ai porti del Montenegro. Unica eccezione la
Grecia; la quale, nel proprio interesse, contesta la legalità di questa
decisione. L’U.E. si era già espressa per l’embargo petrolifero
da parte dei paesi membri. E il nostro ministro degli esteri, Dini, accreditando
questa decisione, ci rende edotti che "il carburante è equiparato
al materiale bellico in quanto essenziale per poter condurre le operazioni militari".
La volontà della coalizione imperialistica di strangolare la Serbia è
così risoluta che non ci sono mediazioni che tengono e quindi che non
può realizzarsi appieno senza occupazione militare del territorio.
Dunque mano mano vengono intensificati i bombardamenti crescono i preparativi
per l’invasione del Kosovo in quanto, sia che Belgrado ceda prima o non
ceda affatto facendosi seppellire dalle bombe, l’obbiettivo di forza determinata
è quello di impiantare truppe Nato in Kosovo per gli sviluppi ulteriori
nell’area delle strategie imperialistiche tra cui quella del nostro militarismo.
15. L’Adriatico pattumiera Nato
Il 50° giorno dei bombardamenti scocca il 12 maggio. Dalle nostre basi aeree
e navali decollano circa 800 aerei: 550 statunitensi, 250 degli altri aggressori.
Il complesso degli aerei impiegati nei bombardamenti raggiunge le 1.200 unità.
L’apporto italiano si porta a 54 aerei operativi. Il che significa che
il numero effettivo degli aerei utilizzati, sia per la sostituzione nei turni
di impiego sia per le azioni di appoggio o di supporto, è tre volte tanto.
Quello francese è di 57 aerei. Quello inglese di 45. Nell’Adriatico
stazionano 35 navi da guerra. Nella data indicata entrano in azione, accanto
ai Tornado e agli AMX, i jet a decollo verticale posizionati sulla portaerei
Garibaldi, i quali contribuiscono alla intensificazione delle distruzioni in
Kosovo. Seicento aerei si levano in volo per compiere 350 raid. Più di
mille bombe vengono sganciate in una sola uscita. Il portavoce Nato, contando
i raid compiuti nei primi 50 giorni, dice che questi ammontano a 20.000 e che
sono state gettate sul territorio serbo più di 13.000 tonnellate di esplosivo.
Quindi dall’inizio delle operazioni l’Adriatico è stato ed
è l’area di scarico di tutte le operazioni di bombardamento aeree
e navali.
Il 10 maggio, dopo i precedenti ritrovamenti sull’Altopiano di Asiago
e lo scarico di bombe nel Garda, un peschereccio di Chioggia tira con le reti
una bomba a grappolo. Tre uomini dell’equipaggio rimangono feriti. In
seguito a questa pesca esplosiva scoppia la protesta dei pescatori lagunari
sulle bombe scaricate dagli aerei Nato nella Laguna. La protesta si allarga
agli altri centri di pesca dell’Adriatico. I pescatori vogliono anche
sapere dove vengono scaricate le bombe. Pressato dagli stessi colleghi di governo
il ministro della difesa fa sapere che sono sei le zone di rilascio delle bombe
tra Venezia e Brindisi. La prima è di fronte a Chioggia; la seconda a
30 miglia dalla Marina di Ravenna; la terza a 50 miglia da Pesaro; la quarta
a 70 miglia da Bari; la quinta a 40 miglia da Brindisi; la sesta a 30 miglia
da Santa Maria di Leuca. I chiarimenti del ministro non sedano la protesta in
quanto i pescatori continuano a pescare ordigni non molto lontano dalla costa.
Il 16 un peschereccio al largo di Cervia tira nelle reti un ordigno che poi
rilascia subito in mare. Il 20 a Marano Ligure, a due miglia dalla costa, una
barca pesca un altro ordigno che viene abbandonato con le reti. Da queste pesche
fortuite si vede che il mare è disseminato di bombe non solo al largo
ma molto vicino alle coste. I pescatori di altura si fermano e reclamano un
risarcimento di danni. L’Adriatico comincia quindi a scottare.
Per circoscrivere l’allarme il comando Nato invia al governo, che si era
dichiarato all’oscuro, un rapporto sulle bombe sganciate in Adriatico.
Il rapporto parla di 143 bombe sganciate dai piloti in 35 situazioni di emergenza.
Si tratterebbe, secondo l’informativa militare, di 7 bombe a grappolo
e di 30 bombe di altro tipo sganciate nel Golfo di Venezia; e di 106 bombe sganciate
tra Bari e Santa Maria di Leuca. Le bombe a grappolo, come noto, sono ordigni
che contengono 200 piccole bombe. Se si rompe il contenitore, cosa facile in
seguito all’impatto con l’acqua, il fondale si riempie di tante
piccole bombe. Nessuno di noi è in grado di verificare quante bombe vengono
scaricate nell’Adriatico. Certo è che, senza l’impigliamento
degli ordigni nelle reti dei pescatori, né il ministro della difesa né
il comando Nato avrebbero parlato di zone di rilascio e di bombe sganciate.
Quindi, colto in fallo dai pescatori, il governo per mettere a tacere questi
produttori ed impedire discussioni sull’inquinamento o sulla pericolosità
dell’Adriatico, ha decretato un fermo bellico a loro favore di 60 miliardi.
Il 27 mattina Brindisi trema. Due enormi boati, generati da bombe sganciate
nelle vicinanze della costa, provocano il fuggi fuggi della gente. A poca distanza
erano state rilasciate dai Tornado due bombe a guida laser di mezza tonnellata
ciascuna che in questi giorni vengono gettate in Kosovo in preparazione dell’attacco
di terra. Come si vede da questi episodi non occultabili lo sganciamento di
bombe in Adriatico è continuo. Ed è tanto maggiore quanto più
numerosi sono i raid aerei. E il 27 i raid raggiungono il record di 741. Quindi
quanto più intenso diventa lo sforzo bellico italiano e Nato tanto più
intenso si fa l’assoggettamento del mare e della terra alle attività
distruttive.
Pertanto l’Adriatico, in particolare, è diventato la discarica
naturale e fondamentale dell’operazione aggressiva. E il suo inquinamento
e lo sconvolgimento dei suoi eco-equilibri uno dei costi da pagare, da parte
dei lavoratori del mare dalle popolazioni rivierasche da tutti i lavoratori,
alla sporca e non dichiarata guerra della Nato alla Federazione Jugoslava.
Parte seconda
IL PROLETARIATO E LE CRICCHE LOCALI
16. Le condizioni del proletariato jugoslavo
Le conseguenze più gravi di questa guerra non dichiarata si sono via
via scaricate e si vanno via via cumulando sui lavoratori jugoslavi. Braccianti
operai commessi Kosovari sono stati privati di tutto. In Montenegro, ove le
distruzioni sono state minori, la disorganizzazione economica ha disarticolato
la produzione e il commercio creando disoccupazione e carovita. In Serbia il
proletariato è stato ricacciato in condizioni sottoumane.
Già prima dei bombardamenti la condizione sociale dei proletari serbi
era abbastanza gravosa per via dei bassi salari e delle difficoltà occupazionali.
Nelle città si accalcano poi 800.000 profughi giunti dalla Bosnia e dalla
Croazia e 50.000 Rom provenienti dal Kosovo che rendono la vita più problematica.
Con l’inizio e l’intensificazione dei bombardamenti gli operai hanno
cominciato a perdere tutto: dal posto di lavoro alle basi di vita. Sono state
distrutte tante fabbriche che la Serbia è ridotta a un cimitero industriale.
Al 30 aprile, secondo il presidente della Confederazione Sindacale di Serbia
Tomislav Banovic, c’è un milione di disoccupati nuovi che va ad
aggiungersi al milione precedente. Così il 40% della forza-lavoro è
bloccata senza poter far niente. I salari oscillano dalle 120.000 alle 200.000
lire mensili. Le pensioni raggiungono appena le 100.000 lire mensili ma non
vengono pagate alla scadenza. E agli operai addetti alle fabbriche distrutte
viene corrisposto un sussidio di 20.000 lire al mese. I prezzi vanno su. Davanti
ai negozi si fa la fila per lo zucchero e per l’olio. Le statistiche dicono
che per vivere ci vogliono 250.000 lire mensili. Non si sa quindi attraverso
quali marchingegni i lavoratori serbi abbiano potuto sopravvivere dopo il primo
mese di bombardamenti.
All’inizio della terza decade di maggio, quando i raid aerei si accaniscono
per tre giorni contro il sistema energetico (le centrali elettriche, i depositi
di carburante e le raffinerie) e la Serbia resta al buio e senza acqua, la condizione
dei lavoratori e del popolino diventa impossibile. Il 24 spuntano le prime code
a Belgrado per il pane che non si trova per la mancanza di corrente elettrica.
Ed esplodono le tensioni sociali. In diversi centri ci sono proteste per il
pane. Si svolgono manifestazioni per la pace cui si uniscono i soldati di leva.
Le reclute che prima disertavano ora cominciano a rivoltarsi. A Krusevac il
24 maggio 2.000 persone, tra cui reclute e familiari, manifestano contro l’ordine
di ritornare a combattere in Kosovo. Ad Aleksandrovac 500 persone manifestano
per lo stesso motivo. Quindi le difficoltà di sopravvivere, che nei primi
due mesi di bombardamenti si erano tradotte in crescente sopportazione e sacrificio,
si trasformano ora sul finire di maggio in protesta sociale e in episodi di
rivolta popolare. È il segno di una profonda situazione di frattura sociale.
Il comando militare vieta le manifestazioni durante l’allarme aereo e
lancia un ultimatum ai soldati di leva e ai riservisti, renitenti alla chiamata
alle armi, minacciando il processo in base alla legge marziale. Ma le reclute
non si presentano e aumentano le diserzioni. Si sta quindi determinando un fatto
sconvolgente, la sollevazione contro il regime, un fatto nuovo politico-sociale
che può spingere la cricca di Belgrado, più di ogni altra pressione,
a capitolare per organizzare la propria salvezza.
17. La diaspora del popolo Kosovaro. La tattica dell’Uck.
La catastrofe umana del popolo Kosovaro non si esaurisce negli accampamenti
e nei rifugi di fortuna in Albania Macedonia Montenegro. Ha preso altre vie:
quelle dell’emigrazione e della diaspora. Decine di migliaia di Kosovari
hanno preso la via dell’estero emigrando in Germania, Italia e altrove.
Roma ha messo a disposizione dei profughi 5.000 posti nell’aeroporto di
Magliocco a Comiso, impegnandosi a sistemare in opportuni alloggiamenti quanti
sbarcano sulle nostre coste. Finché durano i bombardamenti si aggraverà
questa catastrofe perché nessuno può rientrare in Kosovo e quelli
che ci sono continuano a vagare in cerca di rifugio. Quindi la diaspora si allargherà.
Ma i Kosovari sono legati alla loro terra e nella tradizione popolare contadina
vige il detto di non sparpagliarsi nel mondo come la pula sull’aia. Il
problema del rientro per la massa di profughi e fuggiaschi è quello che
il Kosovo è distrutto inquinato e cosparso di mine. Ancora una volta
il problema maggiore è quello creato dai bombardamenti. Quindi solo quando
i bombardamenti cesseranno potrà riprendere, nelle centomila difficoltà
esistenti, il cammino a ritroso delle centinaia di migliaia di profughi accampati
ai confini (in Albania, Macedonia, Montenegro) o fuggiti sulle montagne.
Senza concedere all’Uck la patente di movimento unitario di liberazione,
che ancora non è, in quanto rimane suddiviso in tanti gruppi locali e
stenta a darsi un comando unificato, va detto a questo punto che la linea seguita
dalla guerriglia anti-serba non poteva contrastare la catastrofe Kosovara e
ne restava e ne resta un elemento interno. Infatti il governo provvisorio di
Hashin Thaci, istituito dall’Uck a Tirana, si muove in piena subalternità
agli appoggi albanesi e ai disegni della Nato. Esso non ha alcuna visione autonoma
della questione Kosovara ed è strumento del gioco espansivo degli Stati
locali e di quello più grosso imperialistico. Da quando è stato
emarginato Adem Demaci, cioè prima della conferenza di Rambouillet, che
portava avanti il progetto di confederazione balcanica con tre Stati aventi
pari diritto (Serbia, Kosovo, Montenegro), l’Uck si è messo nelle
mani di chi vede nel Kosovo come ingrandirsi (Grande Albania) o come impiantarsi
militarmente (Nato). Quindi nel corso catastrofico degli avvenimenti in Kosovo
l’Uck c’è dentro fino al midollo.
L’Uck sa molto bene, anzi i dirigenti di stanza a Tirana lo davano per
scontato sin dall’inizio dei bombardamenti (intervista a Xhavit Haliti
in Manifesto 25/4/99), che la Nato doveva entrare in Kosovo con l’invasione
di terra e che la provincia potrà stare in piedi solo sotto il protettorato
Nato. Esso ha giocato e gioca a un gioco in cui la posta è nelle mani
degli altri. E non potrà non pagare a caro prezzo questa subalternità.
Qui non entriamo nell’esame della tattica militare dell’Uck (dell’addestramento
ricevuto dagli ufficiali albanesi sugli schemi dei mille fuochi di guerriglia
o sulle azioni da svolgere secondo la catena unica del comando Nato e di questioni
simili). Chiudiamo osservando che è un’illusione quella che nutrono
attualmente i guerriglieri più combattivi che non abbandoneranno le armi
anche se lo dovessero chiedere i sedici paesi più influenti del mondo
e che non sarà la Nato a dirci quando smettere e che smetteremo quando
avremo ottenuto il nostro obbiettivo, il Kosovo albanese. La Nato va a impiantarsi
in Kosovo per dare ordini. E, quindi, l’Uck dovrà stare in riga.
18. La frattura tra Serbia e Montenegro e la succube opposizione al potere di
Milosevic
I rapporti statuali tra Serbia e Montenegro, già minati dalle spinte
separatiste esercitate dalla presidenza montenegrina, con l’aggressione
della Nato si fanno sempre più tesi e contrapposti. Podgorica non accetta
di essere coinvolta nelle operazioni Nato. Rifiuta di riconoscere lo stato di
guerra dichiarato da Belgrado e accusa Milosevic di coinvolgere la Russia per
"far scoppiare la 3ª guerra mondiale". A metà aprile la
situazione in Montenegro è confusa e la tensione altissima. Si parla
di un colpo di forza di Belgrado diretto a destituire la presidenza neo-eletta.
Il 18 il comando della seconda armata federale di stanza in Montenegro ordina
alla polizia di tradurre avanti al Tribunale Militare il vicepresidente della
repubblica, Novak Kilibarda, per rispondere di istigazione alla diserzione avendo
spinto i giovani montenegrini a non rispondere alla chiamata federale. Djukanovic,
perseguito anche lui, invoca l’immunità parlamentare e schiera
la polizia montenegrina (12.000 uomini armati) contro le truppe federali (25.000
militari). Il 20 l’esercito jugoslavo circonda la polizia montenegrina,
addetta al confine con la Croazia; e, dopo avere emesso un decreto che sottopone
le forze di polizia locale al comando dell’armata, chiude il posto di
confine aperto quattro mesi prima dal Montenegro. Belgrado cerca di ricondurre
sotto controllo il Montenegro ma non può mettere in atto alcun colpo
di forza per non dare alla Nato il pretesto di intervenire in Montenegro e rompere
la Federazione. Il 25 Djukanovic lancia ai paesi della Nato un vibrante appello
scongiurandoli a non attuare il blocco petrolifero nei confronti del suo paese;
assicura che neanche una goccia di petrolio andrà alla Serbia ed avverte
che in caso di blocco il paese, che ospita 70.000 profughi, potrebbe esplodere.
Il 29 è un giorno di attacchi aerei sul Montenegro. Vengono martellati
l’aeroporto e le zone adiacenti ove si sospetta che ci siano truppe serbe.
Djukanovic fa trapelare la notizia che il Montenegro vuole staccarsi dalla Federazione.
Egli si comporta più da interlocutore della Nato che come membro della
Federazione.
Il 20 maggio l’esercito federale occupa tutti i posti di frontiera tra
il Montenegro la Croazia e la Bosnia ed impone il divieto a tutti gli uomini
in età di arruolamento a non lasciare il paese. Podgorica accusa Belgrado
di preparare un colpo di Stato per "installare l’esercito jugoslavo
come un potere dittatoriale" in Montenegro. E si prepara a resistere. Dall’inizio
di maggio in diversi campi si addestrano i volontari del corpo speciale di autodifesa.
Ma Milosevic sa che un atto di forza gli si ritorcerebbe contro per cui si limita
ad atti di minaccia e di gendarmeria. L’ultimo atto di ostilità
è quello del 31 maggio avvenuto al campo di Ivanova Korita a 20 km da
Cetinje dove 500 riservisti dell’esercito federale hanno circondato il
campo e, dopo qualche scaramuccia, hanno catturato i capi della milizia ribelle.
Tra Belgrado e Podgorica la spaccatura diventa così sempre più
profonda e incolmabile. Eppertanto si può scrivere che, di fatto, è
finita con maggio prima ancora dell’invasione del Kosovo la mini-Jugoslavia:
la federazione tra Serbia e Montenegro.
Per completezza del quadro politico serbo è opportuno a questo punto
gettare uno sguardo sull’opposizione interna. L’opposizione democratica
al regime di Milosevic si è sempre caratterizzata per la sua eterogeneità,
il filo occidentalismo, il conservatorismo anti-proletario. Era inevitabile
che lo scatenamento dei bombardamenti la relegasse all’angolo e che Milosevic
avesse buon gioco nel bacchettarla. Tuttavia essa non ha fatto nulla né
per contrastare Milosevic né per rifiutare l’aggressivismo della
Nato. Il leader del partito democratico Djindjic si è rifugiato in Montenegro
sotto la protezione di Djukanovic. La Pesic, leader del partito socialdemocratico,
si è coperta all’estero. Solo le frange esterne ai partiti dell’opposizione
hanno cercato di dire qualcosa. Infatti a metà aprile una dozzina di
associazioni pacifiste ha lanciato un appello chiedendo la cessazione dei bombardamenti,
il ritorno dei profughi in Kosovo, il sostegno al Montenegro per preservarne
la stabilità e l’avvio di trattative di pace. L’opposizione
vive quindi nell’ambiguità, è succube al potere e all’occidente
e può essere utilizzata come soluzione di ricambio alla cricca di Milosevic
dopo l’occupazione del Kosovo.
19. Il gioco impotente delle diplomazie
Nel caitolo 9 abbiamo fatto un accenno ai vari tentativi di compromesso svolti
senza alcun risultato dalla diplomazia europea. Ora trattiamo l’argomento
in modo esauriente.
Era ed è impossibile a qualunque mediazione (italiana, vaticana, russa,
ecc.) realizzare un accordo tra Nato e Serbia che non riconoscesse e che non
riconosca l’obbiettivo dei caporioni dell’alleanza atlantica, dell’asse
USA-Gran Bretagna, di occupare militarmente il Kosovo. Il problema diplomatico
può essere solo quello di stabilire se l’occupazione deve avvenire
come invasione o come ingresso consentito. Ma quale delle due ipotesi si verificherà,
in entrambi i casi è presupposta la capitolazione di Belgrado. Questo
spiega perché la pazientissima mediazione russa non ha potuto venire
a capo di niente.
Le clausole del diktat Nato vengono fissate definitivamente, per bloccare l’intrecciarsi
di proposte nazionali, dal vertice G-8 il 6 maggio. I ministri degli esteri
del G-8 (USA, Russia, Giappone, Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia, Canada),
riuniti a Bonn approvano un comunicato che detta queste clausole. Le riassumiamo
in questi punti:
1°) fine immediata di ogni violenza in Kosovo;
2°) ritiro delle forze militari e paramilitari serbe dal Kosovo;
3°) ritorno a casa dei profughi;
4°) creazione di un’Amministrazione Provvisoria per il Kosovo sotto
il comando N.U.;
5°) dispiegamento di "efficaci presenze internazionali civili e di
sicurezza" appoggiate dall’ONU.
Milosevic, facendosi intervistare dall’agenzia di stampa americana UPI,
contropone il seguente piano:
1°) cessazione dei raid Nato;
2°) ritiro delle truppe Nato dai confini jugoslavi in cambio di una riduzione
delle forze di sicurezza in Kosovo da 100.000 uomini a 10-12 mila soldati;
3°) rimpatrio di tutti i rifugiati;
4°) trattative dirette tra Belgrado e Rugova per l’autonomia all’interno
della Federazione jugoslava;
5°) libertà di accesso a Croce Rossa e dell’Alto Commissariato
ONU per i profughi;
6°) piano di ricostruzione per Kosovo e Jugoslavia.
La Nato non lo prende neanche in considerazione ed intensifica i bombardamenti.
A metà maggio Palazzo Chigi, che dalla intensificazione dei bombardamenti
non ha nulla da guadagnare, tenta una sortita diplomatica promuovendo il vertice
italo-tedesco di Bari con una sua proposta di soluzione del massacro. D’Alema,
più di Schröder pressato dalle manifestazioni di piazza, cerca un
alleggerimento. Sull’Unità del 16 maggio rivolto ai pacifisti egli
afferma: "Voi mi chiedete il coraggio del rifiuto della prosecuzione dei
bombardamenti. Sospendere quanto prima i bombardamenti è un obiettivo
che condivido e che condivide l’intero Governo italiano. Ma questo obiettivo
non può che essere parte di una soluzione politica fondata sui principi
già definiti più volte dal segretario generale delle Nazioni Unite
e dal vertice del G-8, principi che Milosevic non ha però ora dimostrato
di voler accettare". Al vertice, che si svolge il 17-18, egli propone che
le condizioni poste dal G-8 vengano trasfuse in una Risoluzione del Consiglio
di Sicurezza dell’ONU, con l’appoggio di Russia e Cina, e che se
Belgrado accetta queste condizioni cessano i bombardamenti, altrimenti si darà
il via all’intervento di terra. Il vertice è un fallimento in quanto
Schröder non è disponibile né a lasciare a Milosevic la scelta
dei tempi né a rivelare che ci sarà l’intervento di terra
e non firma il documento congiunto. Ma tanto basta al presidente del consiglio
per conseguire l’appoggio della Camera che il 19 approva la seguente mozione:
"La Camera, ascoltate le dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei
ministri: approva e sostiene le proposte e l’azione che il Governo sta
svolgendo per una soluzione politica del conflitto; impegna il Governo a sviluppare
con la massima rapidità, presso gli alleati della Nato e nelle sedi internazionali,
un’iniziativa volta all’approvazione da parte del Consiglio di sicurezza
dell’Onu di una risoluzione sul Kosovo, contenente i punti indicati dalla
riunione del G8, per favorire la quale deve essere promossa una sospensione
dei bombardamenti. Tale sospensione è volta a consentire la convocazione
del Consiglio di sicurezza, sulla base di una risoluzione concordata, e a verificare
quindi la disponibilità del governo jugoslavo ad applicarla". E
tanto basta anche a Belgrado per riaffermare, attraverso il ministro degli esteri
e il presidente della repubblica Milan Milutinovic, che Milosevic è pronto
a una soluzione diplomatica. Ma la soluzione diplomatica non esiste, come abbiamo
premesso, se non come resa incondizionata. Perciò il 21, quando Belgrado
conferma che da giorni è in atto il ritiro parziale dal Kosovo dell’esercito
e della polizia speciale e pone "la fine degli attacchi aerei e l’allontanamento
delle truppe Nato dai confini della Repubblica federale jugoslava, in Albania
e Macedonia" come "precondizione per l’avvio di colloqui per
un accordo politico", aumentano le bombe sulla Federazione. In sostanza,
se dopo 55 giorni di bombardamenti l’UE cerca una via d’uscita e
si appella all’ONU affinché autorizzi una forza internazionale
con la partecipazione russa a sedicente protezione del rientro dei profughi,
USA e Gran Bretagna non intendono mollare i bombardamenti e parlano anzi apertamente
di invadere il Kosovo appena si scorge la rotta dell’esercito serbo.
Il 25 si riunisce a Bruxelles il Consiglio Atlantico, a livello degli ambasciatori
dei 19 paesi, ed esamina il piano Clark di dispiegare urgentemente 50.000 soldati
sul confine del Kosovo per consentire alla fine dei bombardamenti il rientro
degli 850.000 profughi e il ritorno dei 600.000 Kosovari sparsi nella regione.
Il Consiglio, sedando tutte le divergenze interne, non solo ratifica il piano
Clark, progetta anche l’impiego per l’intervento di terra di un
corpo di invasione di un numero di 150.000 unità. Il destino della Serbia
è segnato senza possibilità di sfuggita.
A eliminare qualsiasi spiraglio di soluzione negoziale il 27 maggio arriva l’incriminazione
ufficiale di Milosevic e dei suoi stretti collaboratori. Il Tribunale penale
internazionale per i crimini di guerra dell’Aja, maschera giudiziaria
degli aggressori, emette un mandato di arresto, a firma del procuratore canadese
Louise Arbour, contro Milosevic, Milutinovic, il vice primo ministro Sainovic,
il ministro dell’interno serbo Stojiljkovic, il capo di stato maggiore
Ojdanovic con l’accusa di "crimini contro l’umanità
e violazione delle leggi di guerra" commessi in Kosovo dal 1999. Il Tribunale
ha ordinato anche il congelamento delle proprietà all’estero degli
accusati. La Cia ha già scovato le riserve finanziarie e i capitali del
vertice serbo, che spazierebbero tra Cipro Grecia e Russia. Non è quindi
da escludere che con l’incriminazione formale i caporioni della Nato mirino
non solo a defenestrare il clan dal potere ma anche a mettere le mani sul malloppo.
Il 31 maggio l’agenzia Taniug dirama un comunicato ufficiale con cui annuncia
che il governo serbo accetta le condizioni del G-8 ritenendo che "una risoluzione
del Consiglio di Sicurezza potrebbe consentire di trasferire la crisi dal piano
militare a quello politico". È la capitolazione, anche se ammantata
dalla possibilità di una trattativa, che è esclusa dalla realtà
dei rapporti di forza. Gli europei mandano a Belgrado il presidente finlandese
Martti Ahtisaari per accertare le reali intenzioni di Milosevic e per sentire
Cernomyrdin. Dini avvisa che è opportuno che il ritiro dal Kosovo inizi
subito prima del voto della risoluzione dell’ONU in quanto questo "aprirebbe
la strada alla sospensione dei bombardamenti". E sulla prossima occupazione
del Kosovo non cedono di un millimetro; ribadendo che gli eserciti resteranno
sotto il comando Nato senza escludere la partecipazione russa come in Bosnia
e che essi si stabiliranno in tutta la provincia non sulle frontiere senza che
Belgrado possa interferire in nulla. Siamo quindi vicini all’impadronimento
del Kosovo da parte degli aggressori e al primo atto di smembramento della Serbia.
20. L’occupazione del Kosovo. Bilancio dell’aggressione.
Il comando Nato, aspettando la capitolazione piena di Belgrado, rifiuta qualsiasi
ipotesi di tregua concordata. Il 29 maggio Clark, per disperdere ogni illusione
negoziale, urla ai quattro venti: "sono sconfitti, attendiamo la resa".
E ottiene altri 68 aerei, che portano il totale USA a 769, per intensificare
i bombardamenti. Il 3 giugno il parlamento jugoslavo sotto un diluvio di bombe
accetta con 136 voti a favore e 74 contrari il piano di capitolazione imposto
dalla Nato nei termini esposti dai portavoce Ahtisaari e Cernomyrdin. Il piano,
cioè il diktat Nato nella versione G-8, prescrive: a) il ritiro di tutte
le forze serbe dal Kosovo, militari e paramilitari, in una settimana; con possibile
ritorno di una simbolica delegazione ai confini esterni e nei luoghi sacri;
b) l’ingresso e l’impianto delle truppe Nato nel Kosovo; c) l’amministrazione
provvisoria del Kosovo sotto l’egida dell’ONU; d) la smilitarizzazione
dell’Uck senza data fissa. Esso impone quindi a Belgrado la perdita immediata
del Kosovo e l’occupazione militare della provincia da parte degli aggressori.
Il 4 giugno una rappresentanza militare Nato, capeggiata dal generale inglese
Michael Jackson si dirige in una località tra Macedonia e Kosovo per
incontrarsi coi militari serbi allo scopo di definire i dettagli tecnici dell’evacuazione
serba dal Kosovo e del parallelo ingresso delle truppe Nato. Frattanto i bombardamenti
continuano, anche se limitati ad obbiettivi militari; e vengono messe in stato
di allerta le truppe Nato concentrate in Macedonia. Roma allerta la brigata
Garibaldi. L’incontro delle delegazioni militari si protrae per diversi
giorni. La rappresentanza serba prende tempo lamentando che il ritiro non può
avvenire in sette giorni, che la fascia di sicurezza venga posta a 25 Km e che
le truppe serbe non vengano sostituite da truppe ONU. Il 6 il generale Jeckson
ammonisce battendo i pugni sul tavolo nel capannone di Kumanovo: "Qui dovete
solo eseguire le nostre direttive tecniche. Altrimenti su Belgrado questa notte
i B52 tornano a scaricare bombe". Nello stesso tempo il ministro della
difesa statunitense, Cohen, precisando i compiti delle truppe di occupazione
mai precisati prima, dichiara che gli USA mirano alla "trasformazione del
Kosovo in una provincia autogovernata sotto l’egida della Nato e delle
Nazioni Unite"; aggiungendo intimidatoriamente all’indirizzo di Belgrado
l’avvertimento che "abbiamo piani pronti nel caso venisse minacciata
la libertà di Podgorica". Ma non occorreva questo sfoggio di spavalderia
per spingere i generali serbi alla firma. In effetti la rappresentanza serba
cercava di prendere tempo per mascherare in qualche modo l’abbandono del
Kosovo con una specie di passaggio di consegne e, soprattutto, per evitare che
con l’immediato ritiro l’Uck potesse entrare per primo nei villaggi
e scatenare le vendette. Il 9 giugno i generali serbi firmano l’accordo
tecnico, impegnandosi a lasciare completamente il Kosovo entro il 20. Il leader
dell’Uck Thaci fa sapere che non attaccherà i serbi in ritirata
avvisando però che "nessuno può pretendere di controllare
l’intera popolazione, perché si tratta di una popolazione massacrata
e deportata". Inizia così l’abbandono forzato del Kosovo da
parte delle forze serbe.
Parallelamente scatta l’operazione inversa: l’occupazione del Kosovo
imposta dai massacratori, chiamata Joint Guardian. I reparti già pronti
del contingente Nato di occupazione, 15.500 soldati circa, si preparano a prendere
il controllo del territorio per non lasciare alcun vuoto di potere mano mano
le truppe serbe si ritirano. Vengono formate all’uopo sei colonne corazzate.
Due britanniche; una italiana con i Centauro della Garibaldi; una tedesca; una
francese; una statunitense. A regime completo il contingente dovrà raggiungere
i 50.000 militari: 13.000 inglesi; 6.000 italiani; 8.500 tedeschi; 7.000 francesi
e statunitensi; il resto di altri paesi. Il Kosovo viene suddiviso in cinque
settori e ripartito tra i principali aggressori. Il settore centrale di Pristina
viene assegnato agli inglesi. Quello di Gnjliane, confinante con la Serbia,
agli americani. Quello di Prizren, confinante con la Macedonia e l’Albania,
ai tedeschi. Quello di Mitrovica, confinante col Montenegro, ai francesi. Quello
di Pec, confinante con Albania e Montenegro focolaio della guerriglia, agli
italiani. È prevista la presenza russa e ci sono trattative in corso
tra americani e russi per stabilire dove collocare queste presenza. Il 10 giugno,
col ritiro delle truppe serbe, vengono sospesi i bombardamenti. Per decisione
americana, probabilmente motivata dalla vanagloria di innalzare prima degli
altri a Pristina il vessillo a strisce salvo più complesse ragioni, l’ingresso
nel Kosovo del contingente di occupazione viene ritardato di qualche giorno.
Nella notte tra venerdì-sabato, 11-12, una modesta colonna di carristi
russa (200) verso le 2 si attesta all’aeroporto di Pristina prima ancora
che le truppe Nato entrino in Kosovo. I carri armati russi, provenienti dalla
Bosnia, sostituiscono la S di SFOR con una K per indicare così con la
nuova sigla KFOR (Kosovo peace implementation force) che si trattava della forza
di pace in Kosovo. L’anticipo russo, che il nostro ministro della difesa
definisce una goliardata, manda in bestia il comando Nato. Tuttavia questo non
può esigere che i carristi russi lascino l’aeroporto in quanto
nel testo del piano di capitolazione non è previsto né la subordinazione
di Mosca all’operazione Joint Guardian né la sua dipendenza dal
comando unificato. Tutto è da definire nella trattativa in corso. Per
cui i russi restano dove sono arrivati. Le truppe anglo-americane arrivano a
Pristina nel pomeriggio del giorno 12. Gli inglesi prendono posizione all’aeroporto
lasciando ai russi una fetta dello scalo. I bersaglieri entrano a Pec il 14,
dopo avere attraversato Djakova e Decani le montagne skipetare ai confini dell’Albania,
battendo cioè lo stesso percorso della seconda guerra mondiale quando
in nome di una Grande Albania il fascismo aveva annesso a Tirana una parte di
questa zona. Con l’attuazione dell’operazione Joint Guardian il
Kosovo cessa d’essere una provincia serba e si trasforma quindi in un
protettorato Nato.
Il 18 giugno, nel corso della riunione del G-8 che si svolge a Colonia, Clinton
ed Eltsin firmano l’accordo sulla presenza russa in Kosovo. L’intesa
viene raggiunta dai rispettivi ministri della difesa e degli esteri (Cohen-Albright
e Sergeev-Ivanov) e stabilisce che la Russia invierà cinque battaglioni
per 2850 soldati, da collocare metà nel settore americano e un quarto
ciascuno nei settori francese e tedesco; e porterà a 750 unità
la compagnia che presidia l’aeroporto con compiti di solo controllo di
terra. I battaglioni dipenderanno da un generale russo che entrerà nel
comando alleato. La direzione politica spetterà al Consiglio Atlantico
che si consulterà con quello russo-alleato formato a Bruxelles nel 1997.
L’intesa tiene ferma l’unità del comando Nato e riconosce
ai russi quel tanto di autonomia che dia la sensazione che questi ultimi possono
costituire una garanzia per i serbi. Essa riproduce quindi la forte sproporzione
esistente nei reciproci rapporti di forza militari.
L’esercito serbo si era impegnato a sgomberare il Kosovo entro la mezzanotte
di domenica 20 giugno. Di fatto, già a partire da venerdì 18 esso
aveva quasi totalmente evacuato il Kosovo. Col ritiro delle milizie serbe inizia
il contro-esodo di profughi e rifugiati e ritornano i primi sfollati nei loro
villaggi e nelle loro case. I guerriglieri dell’Uck, che non erano riusciti
a cogliere alcun successo militare nei confronti delle milizie serbe, scendono
in pianura dietro le truppe di occupazione e vanno, prima di tutto, a stabilire
il loro controllo di polizia sulla popolazione presente e su quella che arriva;
in secondo luogo a scatenare la contro-pulizia etnica nei confronti della minoranza
serba. Con la seconda parte di giugno si apre in Kosovo uno scenario non meno
orrendo del primo. I serbi residenti in Kosovo sono bersaglio della vendetta
Kosovara. Quelli che possono abbandonano il Kosovo con qualsiasi mezzo di fortuna
trascinandosi dietro le poche cose trasportabili. Almeno 80.000 serbi lasciano
in pochi giorni la loro terra. Quelli che restano sono oggetto quotidiano delle
rappresaglie kosovare non potendo le truppe di occupazione esercitare in questa
fase alcuna valida opera di interposizione. Così la conseguenza immediata
dell’occupazione alleata del Kosovo è quella di trasformare i serbi
di questa regione in una nuova massa di profughi e in una minoranza candidata
ai pogrom.
Il 20 giugno alle ore 13 Jackson informa Clark che il ritiro serbo dal Kosovo
è definitivo. Il comando Nato dichiara chiuse le ostilità e decide
la fine ufficiale dei raid aerei. Al contempo il comitato militare della Nato
stabilisce che l’Uck consegni entro un mese alla Kfor le armi pesanti
tenendo fucili da caccia e pistole. Pronunciandosi sulla smilitarizzazione il
portavoce del governo provvisorio di Thaci, Jakup Krasniqi, aveva detto qualche
giorno prima a Pristina: "procediamo verso la demilitarizzazione del nostro
movimento armato. Il nostro piano è quello di trasformarci in un corpo
di polizia che controlli tutto il Kosovo. Una parte di noi potrebbe però
anche trasformarsi in una guardia della repubblica. Con il tempo speriamo poi
di poter diventare l’esercito regolare del Kosovo". Egli precisa
che la Nato non ha alcuna intenzione di disarmare l’Uck e che il disarmo
non è stato previsto da alcun accordo. L’ordine all’Uck di
consegnare le armi pesanti non significa certamente disarmo ma semplicemente
smilitarizzazione, perdita cioè da parte dell’Uck della veste di
esercito di liberazione. Tuttavia gli esponenti dell’Uck continuano ad
illudersi sulla natura dell’intervento Nato sognando ruoli autonomi o
una repubblica indipendente del Kosovo che sono esclusi dalla realtà
degli avvenimenti. Il Kosovo è preda Nato e così pure i Kosovari.
Quindi se i nazionalisti Kosovari non spareranno contro la Kfor saranno costretti
a svolgere compiti sempre più servili e umilianti.
In giugno riaffluiscono in Kosovo più di 500.000 profughi. Per ricostruire
le abitazioni distrutte e le infrastrutture ci vogliono almeno 6.000 miliardi.
Ma, a parte il nuovo piano Marshall per i Balcani su cui si chiacchiera a ruota
libera e che comunque interessa finanza e imprese, non ci sono soldi. L’Acnur
stessa è costretta a polemizzare coi governi Nato perché non le
fanno avere neanche i fondi minimi indispensabili per gli interventi di emergenza
stimati in 740 miliardi. Il 13 luglio si riuniscono a Bruxelles i ministri finanziari
del G-8 unitamente a esponenti dell’UE della Banca Mondiale e del FMI
per discutere il futuro economico dei Balcani. Gli specialisti finanziari dei
massacratori suddividono l’area in tre regioni: a) Kosovo; b) Federazione
Jugoslava; c) paesi confinanti danneggiati dall’aggressione (Albania,
Macedonia, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Bulgaria, Romania). E parlano di aiuti
per 700 miliardi al Kosovo, per 1500 miliardi ai sei paesi confinanti e per
zero lire alla Federazione Jugoslava tranne quelli strettamente umanitari. Quanto
ai soggetti che dovranno fornire questi aiuti essi propugnano che l’UE
stanzi immediatamente 1.000 miliardi e che la Banca Mondiale ne eroghi altri
120. Gli aiuti governativi sono ancora tutti da definire e di tempo ce ne vorrà
tanto. Si avvicina quindi per i Kosovari che tornano nelle proprie case un autunno
e un inverno da disastrati.
Il 3 luglio viene definita la nuova amministrazione del Kosovo a gestione ONU.
Viene nominato governatore del Kosovo il francese Bernard Kouchner; vice-governatore
l’americano James Covey. Le quattro direzioni di settore vengono assegnate
ai seguenti paesi: a) la gestione civile al francese Dominique Vian; b) i diritti
umani al neozelandese Dennis McNamara; c) le riforme istituzionali all’olandese
Dean Everts; d) la ricostruzione economica all’inglese Jolly Dixon. Coordinatore
del Patto di stabilità dei Balcani, discusso il 27 maggio a Petersborg
(Bonn) alla riunione dei ministri degli esteri dell’UE della Russia e
di altri 12 paesi dell’area e approvato alla riunione di Colonia del 10
giugno, è stato designato il tedesco Bodo Hombuch. L’Italia viene
esclusa da ogni carica. L’esclusione anche dalle cariche minori gela i
nostri politici e diplomatici. Il presidente della commissione difesa strilla
che è uno smacco grave; mentre l’ambasciatore all’ONU, Fulci,
parla addirittura di Caporetto diplomatica. L’esclusione dell’Italia
da ogni carica nella nuova amministrazione del Kosovo è una bacchettata
secca sulle mani. L’Albright, che ha sempre giudicato Roma troppo morbida
con la Serbia, non aspettava che il momento di vendicarsi. A livello internazionale
non è tanto la furbizia che non paga è che contano i rapporti
di forza. E l’Italia si becca quindi questa bacchettata americana.
Con questi due ultimi episodi terminiamo l’esame degli avvenimenti e traiamo
un bilancio sommario degli aspetti e delle conseguenze più diretti dell’aggressione.
I bombardamenti si sono protratti per 78 giorni, dal 24 marzo al 10 giugno,
ininterrottamente. Sono stati effettuati 33.000 attacchi aerei e sganciate 40.000
tonnellate di esplosivo (bombe e missili). Dalle navi sono stati lanciati 10.000
cruise. I nostri piloti, secondo i dati forniti dal capo di stato maggiore della
difesa, generale Arpino, hanno compiuto 1.378 missioni impiegando 54 aerei,
sganciando 115 missili Harm del valore di 900 milioni l’uno e centinaia
di bombe. A questi dati, sicuramente truccati, vanno quantomeno aggiunti un
migliaio circa di missili aria-terra e a guida laser e un notevole quantitativo
di bombe intelligenti di fabbricazione israeliana. A parte il numero di soldati
uccisi, su cui permane la massima segretezza, le bombe hanno incenerito 2.500
civili e fatto 10.000 feriti gravi. Gli attacchi aerei e missilistici hanno
distrutto e/o danneggiato in gran parte la dotazione militare jugoslava: i 9
aeroporti militari serbi sono tutti fuori uso o quasi; sono stati distrutti
100 aerei, 120 carri armati e 500 automezzi. Le conseguenze materiali più
gravi dei bombardamenti sono a carico delle strutture industriali e civili e
dell’ambiente. Sono state distrutte circa 200 unità produttive
tra fabbriche raffinerie e centri agricoli. Sono stati abbattuti 50 ponti. È
stata dissaldata tutta la rete stradaria, ferroviaria ed elettrica. Sono stati
distrutti 50 ospedali e case di cura; migliaia di uffici pubblici e di edifici;
14 aeroporti civili; antenne radio-tv e musei. Ed è stato inquinato dalla
radiattività l’ambiente, urbano agrario ed extra. Secondo una stima
serba i danni emergenti si aggirano sui 200.000 miliardi. Se non ci saranno
aiuti esterni la Serbia avrà bisogno di 50 anni per riportarsi al livello
di prima. Il bilancio materiale è dunque catastrofico.
Esaurito l’esame degli avvenimenti si pongono alcune questioni che meritano
di essere trattate specificatamente. La prima questione è dove porta
questa aggressione.
Parte terza
GLOBALISMO E STATO ETNICO
21. Lo sviluppo della conflittualità interimperialistica
Per rispondere a questa questione (dove porta l’aggressione) bisogna fare
una premessa. La disgregazione della Jugoslavia e il susseguente riassetto nazionale
Balcanico si svolgono dopo e concatenatamente alla disgregazione dell’URSS
e al disfacimento del blocco orientale; processi che si compiono a cavallo degli
anni ottanta-novanta. Alla fine degli anni ottanta l’area balcanica è
l’area del marco. Ma si può cambiare in lire a Belgrado Sofia Bucarest
in quanto anche il sistema Italia ha realizzato la sua espansione economico-finanziaria
nell’area. Agli inizi degli anni novanta la penetrazione tedesca e la
penetrazione italiana nei Balcani sono così estese ed influenti da costituire
un fattore determinante sul piano delle relazioni internazionali e su quello
più specifico del riassetto nazionale balcanico. Da parte loro la finanza
francese e quella inglese estendono anch’esse i loro tentacoli nell’area.
In questo quadro di rapporti interstatali la frammentazione della Jugoslavia
e la formazione dei nuovi Stati indipendenti non potevano seguire come linea
di sviluppo quella dei rapporti di forza locali bensì quella combinata
dei rapporti imperialistici e interimperialistici. E non potranno proseguire
che in questo modo. Non solo. Le rivalità egemoniche tra gli imperialismi
europei nell’area balcanica sono poi diventate così forti che essi
non hanno potuto tenervi fuori il brigante più grosso. Così gli
USA si sono impiantati nei Balcani e col protettorato imposto alla Bosnia-Erzegovina
sono ritornati la potenza numero uno dopo il crollo dei blocchi. Quindi la ripartizione
imperialistica dell’area balcanica non si limita agli imperialismi europei
riguarda l’intera catena imperialistica occidentale. Gli Stati Uniti proseguono
nell’area la loro politica di potenza e il perseguimento prepotente dei
propri interessi. Essi hanno ispirato gli accordi di Rambouillet e hanno strumentalizzato
gli stessi osservatori europei (OSCE) in funzione dell’intervento armato.
Pertanto l’aggressione della Nato contro la Federazione Jugoslava si inserisce
in una fase di forte conflittualità interimperialistica e ne costituisce
un momento di accentuazione.
Ciò premesso va detto in primo luogo che l’unanimità sull’aggressione
espressa dal vertice di Berlino non è il risultato della volontà
di una comune politica europea da parte dei paesi dell’UE bensì
il risultato delle loro divergenze e dei loro bassi calcoli. Le potenze europee
si sono unite all’aggressione, ponendosi sotto l’ombrello statunitense
e approvando lo scatenamento e la continuazione dei bombardamenti perché,
nel quadro delle rivalità reciproche e nel perseguimento dei propri interessi
ognuna ha cercato di trarre i maggiori vantaggi. Non per miopia o per atteggiamento
suicida bensì per calcolo e convenienza individuali gli imperialismi
europei si sono gettati in una delle più prepotenti e vili aggressioni
della storia. Il fatto che Germania e Italia abbiano approvato i bombardamenti
attesta che nella fase attuale i due imperialismi, sono lanciati nella ricerca
della maggiore penetrazione e nel contenimento reciproco. La Germania si è
buttata a capofitto dietro la Nato per lucrare i maggiori vantaggi possibili
dall’aggressione. L’Italia è intervenuta in grandi forze,
partecipando alla distruzione degli stessi stabilimenti Fiat (Zastava), per
contenere la penetrazione dei rivali ed estendere la propria. La condotta del
nostro governo e della nostra diplomazia, col piede premuto tra l’accentuazione
dell’impegno militare e la ricerca della via negoziale, è tipica
della posizione e degli interessi propri del nostro sistema. L’imperialismo
italiano non può permettere a nessun altro imperialismo di spadroneggiare
nelle adiacenze di casa propria, ossia di dissaldare l’area balcanica
e adriatica ai suoi danni. Naturalmente questo non significa che l’Italia
possa reggere lo scontro con i propri concorrenti o che possa uscirne vittoriosa;
ma che questi sono i suoi interessi. Sotto questo profilo è sciocco il
rimprovero a Palazzo Chigi e alla Farnesina che di fronte all’oltranza
anglo-americana avrebbero dovuto decidere il blocco militare dei bombardamenti
per salvare le proprie istituzioni e la propria cultura. L’errore, peraltro
calcolato dal governo, è stato quello di puntare sulla sponda russa,
che era una sponda franata e che non poteva nulla altrimenti non sarebbe stata
praticabile l’aggressione Nato. Per il resto, dopo il fallimento del vertice
italo-tedesco di Bari, non restava altra alternativa al nostro imperialismo
per non uscire ridimensionato dalla distruzione della Federazione Jugoslava.
Quindi l’aggressione Nato trae origine dalle rivalità infraeuropee
prima che dalla baldanza e superiorità militare degli anglo-americani.
E queste rivalità permangono e si allargano dopo l’intervento.
Pertanto il vertice di Berlino può passare alla storia non solo come
il summit dei calcoli egoistici e degli appetiti bestiali ma come l’inizio
dello scannamento intereuropeo.
Va detto in secondo luogo che, come all’origine dell’intervento
Nato ci sono le rivalità intereuropee - rivalità determinate dalle
mire espansive di ogni imperialismo e di tutti messi insieme -, così
dopo l’occupazione del Kosovo e la temporanea spartizione del suo territorio
tra gli aggressori queste rivalità non si sono ricomposte ma si sono
acuite. Senza entrare in una analisi dettagliata di questo aspetto va osservato
a grandi linee che i contrasti tra Roma Berlino Parigi Londra, e viceversa,
si sono inaspriti in quanto la suddivisione interimperialistica delle zone di
controllo ha tenuto Roma fuori dal controllo diretto su Pristina e su Belgrado,
circoscrivendone il ruolo a quello tradizionale di tenere a caldo il progetto
di una Grande Albania peraltro non più tanto grande stando alla fettuccia
di territorio ottenuto. Inoltre Stati Uniti e Gran Bretagna, minacciando costantemente
Belgrado a non interferire nella situazione interna del Montenegro, tengono
così indirettamente a freno Roma, che non vede l’ora di rioccupare
il piccolo paese dirimpettaio. Ancora la distruzione della Serbia modifica gli
equilibri intereuropei spianando la strada all’espansionismo balcanico
meridionale della finanza tedesca ai danni di quella italiana e favorendo la
penetrazione di quella francese e inglese. All’Italia tocca fare il cuscinetto
alle pulizie etniche e alla fuga di serbi e Rom dal Kosovo e dall’area.
Infine c’è la questione strategica del controllo delle vie energetiche.
Il dissaldamento della mini-Jugoslavia incrina la via Nord-Sud, cui è
strettamente interessata la Russia e in parte la Germania; e rilancia la via
Ovest-Est (Albania - Macedonia - Bulgaria - Mar Nero) attraverso lo snodo di
Skopje, cui è interessata l’Italia e con essa un certo numero di
paesi occidentali. Questo controllo non può essere deciso dalla sola
potenza degli investimenti, dipende dal giuoco di convenienza dei numerosi Stati
interessati nonché dal giuoco militare. Pertanto, per tutte queste ragioni,
le rivalità intereuropee ed interimperialistiche si inaspriscono e sono
destinate a inasprirsi.
Va detto in terzo luogo e in critica alle interpretazioni sovraimperialistiche
che le rivalità tra le potenze europee sono iscritte nei rispettivi sistemi
economici e non sono indotte dalla superpotenza americana. È stato scritto
che la guerra dell’Adriatico è una guerra degli Stati Uniti "contro
l’unità europea e contro la Russia" e che "forza determinata"
è un’operazione voluta dagli USA "per dare una sterzata neo-liberista
alla UE". Si tratta di idee senza fondamento. È sufficiente rilevare
che ciò che manca in queste interpretazioni è il presupposto:
l’unità europea. Sono gli stessi osservatori accademici a notare:
a) che non esiste alcun modello di Stato europeo; b) che l’euro è
una forzatura in quanto si basa sulla riduzione del deficit di bilancio che
toglie fiato all’economia senza rispondere alla modernizzazione; c) che
la banca centrale veglia sulla stabilità anziché sullo sviluppo
e questo aggrava i divari tra le varie economie. Per cui l’unità
europea è solo un paravento dietro cui ogni potenza del vecchio continente
persegue la propria espansione ed egemonia. Le rivalità tra le potenze
europee non derivano quindi affatto dall’esterno ma dai rispettivi sistemi
economici. Possiamo brevemente illustrare questo concetto, senza uscire dal
tema d’esame, gettando un colpo d’occhio a quanto avviene in campo
militare. Da decenni gli uomini di governo dell’UE parlano di costruire
un sistema di sicurezza europeo. Ma quello che continua a passare sotto i nostri
occhi non è la progressiva costituzione di un esercito europeo o di un
armamento europeo bensì il potenziamento degli eserciti nazionali e lo
sviluppo dell’industria bellica nazionale. In campo militare e aerospaziale
domina, nell’intero sistema imperialistico, la logica nazionale. Il 19
gennaio 1999 si è costituita in Gran Bretagna la British Aerospazio,
risultato della fusione di British Aerospaziale e Marconi Electronic. Il nuovo
colosso può tenere testa al gigante americano Boeing - Mc Donnall Douglas
formatosi nel 1997. In Germania la Dasa (Daimler Chrysler Aerospace) raccoglie
il fior fiore dell’industria bellica. In Francia si fondano Aerospatiale
e Matra e Alcatel con Thomson. In Italia il riordino della Finmeccanica, con
la riunificazione di Elettronica Agusta Alenia, è ormai compiuto. È
vero che questi colossi hanno creato tra di loro una fitta rete di cooperazioni
(consorzi e joint venture) in vari settori (avionico, missilistico, aerospaziale,
satellitare) e per diverse armi (Tornado, Eurofighter, aereo militare da trasporto,
elicotteri, missili, ecc.). Ma si tratta non dell’embrione di una industria
militare comunitaria bensì delle normali combinazioni che avvengono in
tutti gli altri settori come sviluppo della logica di potenza. Quindi il cammino
dell’industria militare in ogni paese indica che ognuno di questi paesi
sta potenziando al massimo la propria capacità offensiva e che ognuno
è risoluto a imporre con la forza i propri interessi. Pertanto, siccome
la competizione tra i sistemi economici europei si è fatta asprissima,
questi sistemi, non solo non conosceranno alcuna stabilità, ma vanno
anche verso il cozzo reciproco.
Va detto in quarto e ultimo luogo che i motivi dell’aggressione si ritrovano
tutti nella fase post-aggressione e che la ricostruzione riproduce e allarga
le rivalità precedenti. Nel fallito vertice di Bari D’Alema era
riuscito a strappare a Schröder l’impegno che si tenesse a Bari la
conferenza internazionale del dopoguerra per il varo del mini-piano Marshall.
La conferenza si è poi tenuta a Colonia il 10 giugno presenti 28 ministri
degli esteri (UE, G-8, paesi balcanici esclusa la Jugoslavia), che hanno varato
il Patto di Stabilità per il Sud Europa al fine di avviare la ricostruzione
democratica ed economica dell’area. I bombardamenti e l’occupazione
del Kosovo erano finalizzati al controllo delle vie di comunicazione ed energetiche
dell’area balcanica e l’instaurazione di questo controllo sull’area
balcanica all’estensione del dominio sull’Asia Centrale immenso
bacino di petrolio e gas naturale. Bodo Hombach, aprendo il 29 luglio la riunione
di Sarajevo precisa che i principii del Patto di Stabilità sono tre:
a) democrazia e diritti umani; b) sviluppo; c) rispetto della legge e della
sicurezza. In altri termini supremazia indiscutibile e predominio degli aggressori.
Per cui quella che viene chiamata ricostruzione non è che la terza fase
dell’operazione forza determinata, cioè la fase in cui ogni aggressore
cerca di radicarsi sul territorio, di accaparrarsi il controllo delle risorse,
di togliere spazio ai propri compari di cordata, di espandersi nelle aree circostanti.
Anche la determinazione e l’acquisizione delle commesse segue la stessa
logica competitiva e aggressiva. Roma, come sottolineato dal ministro Fassino,
ha preparato una task force sotto la direzione di Bernabei per assicurarsi le
commesse senza intoppi burocratici. Quindi la ricostruzione democratica dei
Balcani, che ha per perno il ricatto e l’ulteriore smembramento della
Serbia, è una zuffa tra aggressori per la suddivisione del bottino e
per la cattura di nuove prede. Le nuove prede sono il Caucaso e l’Asia
Centrale (Azerbajan, Kazakhistan, Turkmenistan). La Germania sta tessendo una
serie di accordi con Turchia e Israele per mettere le mani sul petrolio e il
gas di queste aree. Ma anche gli altri imperialismi sono su questa strada. Pertanto
la fase di ricostruzione non potrà che vedere accresciute le rivalità
intereuropee ed interimperialistiche e, alla base di queste, le discordie e
i conflitti locali.
Dove porta, dunque, questa aggressione? Porta all’espansione imperialistica
nell’area balcanica; a nuovi smembramenti territoriali e a conflitti locali;
all’estensione dell’espansione imperialistica verso l’area
caucasica e centro-asiatica; verso nuovi conflitti armati e allo scontro bellico
interimperialistico.
Una seconda questione è la pseudo-teoria che nei Balcani si assista a
una etnicizzazione della politica e che la crisi dello Stato nazionale porti
allo Stato etnico.
22. "Globalismo" e "Stato etnico"
Qualche commentatore ha scritto (il Manifesto 13/4) che nel territorio balcanico
è in atto un processo di etnicizzazione della politica, concretizzantesi
in un primato dell’identità etnica &emdash; intesa come insieme
primordiale di posizioni caratteristiche di una comunità &emdash;,
che porta a tracciare i confini in base all’omogeneità etnica.
L’ex piccista Giacomo Marramao (cit. Manifesto) ha dichiarato che la frantumazione
dei Balcani attesta la dissoluzione sia del modello europeo di Stato-nazione
in vigore dalla pace di Westfalia (1648) sia di quello federale americano; che
la stessa logica identitaria si sta diffondendo in Europa; e che per spezzare
il cortocircuito tra globale e locale bisogna sperimentare una politica universalistica
della differenza. Il nostro ministro del commercio ha teso ad affermare (il
Manifesto 24/4) che i paesi balcanici sono contrassegnati da una tara che non
si è riusciti ad estirpare e che questa tara risiede nell’idea
che il "fondamento dello Stato sia l’omogeneità etnica".
Il filosofo francese Serge Latouche (Monde Diplomatique maggio 1999) sostiene
che la globalizzazione, liquidando le culture, innesca la ripresa dell’etnicismo
al posto della coesistenza e del dialogo e che, per uscire dalla morsa dell’universalismo
cannibale e dell’etnocentrismo (che egli chiama anche terrorismo identitario),
bisogna difendere la tolleranza e il rispetto dell’altro. In questi commenti
giudizi e proposte c’è, in primo luogo, il travisamento storico
degli avvenimenti balcanici; in secondo luogo la mistificazione della relazione
tra internazionalizzazione dei rapporti capitalistici e forma-Stato; in terzo
luogo l’esaltazione universalistica dell’aclassismo; portanti al
tiranneggiamento dei popoli oppressi, alla genuflessione lacrimevole nei confronti
degli imperialismi predominanti, al passivismo pratico verso gli oppressori.
Consideriamo, sia pure rapidamente, i tre aspetti.
A. Significato degli avvenimenti balcanici
Nei Balcani, ed in particolare nell’attuale Federazione jugoslava, a parte
la lotta di classe tra proletariato e borghesia, sono in atto tre tipi di conflitto:
a) l’aggressione imperialistica dei briganti Nato tesa al dominio dell’area;
b) il riassetto tra gli Stati e semi-Stati dell’area; c) la lotta di liberazione
del popolo Kosovaro dalla dominazione serba. Nessuno di questi conflitti ha
base etnica o tende all’etnocentrismo o all’etnicizzazione della
politica. La stessa popolazione Kosovara è un miscuglio di albanesi serbi
rom zingari. E la lotta di questa popolazione per affrancarsi da Belgrado era,
prima di essere fagocitata dall’intervento Nato, una tipica lotta nazionale.
Non un conflitto tra etnie per l’affermazione di una tribù sulle
altre; bensì un conflitto di liberazione dallo Stato dominante. La lotta
di una popolazione, legata da vincoli linguistici e culturali, contro lo Stato
centrale oppressore, è una tipica lotta nazionale, che non ha nulla da
spartire con il conflitto etnico e con la fissazione identitaria. L’etnocentrismo
non è una tara dei Balcani; è una creatura dell’imperialismo.
Dall’inizio del secolo, per non andare più indietro, i popoli balcanici
si sono distinti per pluralismo etnico e per internazionalismo proletario. È
con l’intervento imperialistico nei Balcani che negli anni novanta si
scatenano le pulizie etniche. Le più estese pulizie etniche, quelle avvenute
in Bosnia-Erzegovina tra serbi-croati-musulmani e viceversa, sono la conseguenza
delle manovre intrusive di Stati Uniti Inghilterra Francia Germania Italia nonché
dei due maggiori Stati della zona, Croazia e Serbia, che miravano e mirano a
spartirsi la regione anche se ormai quest’ultima è fuori giuoco.
L’identità etnica è stata tirata in ballo dalle diplomazie
imperialistiche e assimilata da Zagabria e Belgrado per trarre i maggiori vantaggi
sulle spalle dei vicini. Essa risponde alla logica di Dayton che, come quella
romana del divide et impera, tiene in posizione di rivalità le tre comunità
impedendo qualsiasi cooperazione e sviluppo reciproco. La stessa logica si sta
applicando al Kosovo, ove gli albanesi perseguono l’espulsione dei serbi;
e si erigono fili spinati tra le due popolazioni senza che trovi soluzione la
questione nazionale Kosovara. Quindi attribuire ai popoli balcanici la tara
di ossessione identitaria equivale ad accollare agli oppressi i vizi degli oppressori.
C’è da aggiungere poi che ai nostri fautori dell’universalismo
pacifico e tollerante sfugge la realtà del riassetto Balcanico e di riflesso
la natura e il ruolo dello Stato nazionale. Nei Balcani è in corso un
processo di riassetto dei rapporti e degli equilibri tra le unità statali
dell’area che è la faccia visibile della disintegrazione della
Jugoslavia, aspetto del più vasto processo di disintegrazione dell’URSS
e del blocco orientale nonché del sistema imperialistico mondiale. Il
fattore di questo riassetto è lo Stato nazionale. Questo, nella dissolta
federazione jugoslava che è un crogiolo di popolazioni e nazionalità,
ha preso il posto delle singole entità federate. E si è costituito
dappertutto su base territoriale non etnica, all’infuori della Bosnia-Erzegovina
ove opera il protettorato imperialistico. Poi esso ha proceduto, com’è
nella natura peculiare dello Stato nazionale dal quale ogni elemento deve trarre
legittimazione, a omogeneizzare la nazione attraverso le varie vie possibili
(epurazione etnica, assimilazione forzata delle minoranze, integrazione amministrativa,
ecc.). Quindi nel territorio della ex Jugoslavia e nella più vasta area
balcanica si svolge, sotto la penetrazione imperialistica, in combutta o in
attrito con questa, un conflitto aperto e/o sotterraneo tra gli Stati nazionali
locali, di recente o antica formazione, teso all’instaurazione di nuovi
rapporti e equilibri interstatali. Veniamo al secondo aspetto.
B. Globalizzazione e forma Stato
La nazione e lo Stato nazionale sono formazioni dell’epoca del capitalismo.
Col passaggio del capitalismo dalla libera concorrenza ai monopoli, ossia alla
fase imperialistica, lo Stato nazionale si trasforma da involucro di sviluppo
in barriera. La prima guerra mondiale (1914-1918) è la prova storica
che il processo di sviluppo del capitalismo non può essere più
contenuto nell’ambito degli Stati nazionali. La borghesia monopolistica
combina un intreccio di politiche, pacifiche e armate, per espandersi sul piano
continentale e intercontinentale e si modella una forma-Stato, superburocratizzata
e militaristica, a protezione di questa espansione. Questa nuova forma statuale
è lo Stato imperialistico che, con le sue varianti e particolarità,
diviene la forma predominante del 20° secolo. Formalmente questo sembra
il secolo della nazione, che entra come fondamento legittimo dello Stato e viene
riproposta, dopo ogni macello bellico, come elemento costitutivo del sistema
mondiale degli Stati (Società delle Nazioni nel 1919; ONU nel 1945).
Ma se si esclude l’attacco portato al nazionalismo dall’internazionalismo
proletario con le rivoluzioni del 1917-23 e le successive lotte di liberazione
nazionale dal colonialismo che si è basata sulla nazionalità,
questo è il secolo del massacro delle nazioni. La globalizzazione mondializza
questo massacro in quanto essa è effetto, non dell’azione unificatrice
di una unione di nazioni o di quella di un super-Stato, bensì del predominio
dell’alta finanza che mira a strangolare e a dissanguare ogni paese più
debole. Il mondo non rischia il cortocircuito tra globale e locale, che sono
poli immaginari. Il mondo rischia la pressione rapinatrice e le rivalità
acute della gerarchia di Stati imperialistici, cui si accodano e cedono gli
Stati nazionali e anche i pochi in via di formazione. La secessione regionale,
tipo indipendenza della Padania, è stata una bolla di sapone. Quindi
chi detta legge è ancora lo Stato imperialistico.
Le nazioni e lo Stato-nazionale hanno fatto il loro tempo. Ma questo non vuol
dire che essi scompaiono e che al loro posto subentrano nuove forme di unioni
tra nazioni, nuove forme di unioni sovranazionali, o forme di super-Stati diverse
dagli Stati imperialistici. Questo significa che il capitalismo marcisce in
un accumulo di contraddizioni statuali crescenti. Chi pensa che il politico
sia in ritardo sull’economico sogna ad occhi aperti. La mondializzazione
del capitale e della finanza non è un processo tecnico; è un processo
di riproduzione di classi e di Stati. Ogni macchina statale asseconda e garantisce
questo processo. La realtà della globalizzazione non è il libero
movimento dell’economia è il predominio mondiale delle superpotenze
e delle loro micidiali macchine militari. Quindi lo Stato nazionale, tanto quello
che si è evoluto in Stato imperialistico quanto quello che è rimasto
tale, non è destinato a crepare per vetustà. Soltanto e solamente
la rivoluzione proletaria potrà assestargli il colpo definitivo. Passiamo
al terzo e ultimo aspetto.
C. Universalismo aclassista e difesa dei popoli oppressi
La globalizzazione del capitale non rimuove le barriere nazionali che come processo
di subordinazione dei paesi più deboli nei confronti dei paesi più
forti. La riduzione del controllo statale sulle risorse, sulla produzione, sugli
scambi e sulla ripartizione della ricchezza nazionali procede a scapito dei
primi e a vantaggio dei secondi, cioè a senso unico. La globalizzazione
è l’espressione massima della centralizzazione e della violenza
del capitale parassitario. Il mondo risulta così sempre più diviso
tra un pugno di Stati imperialistici sopraffattori e una massa di Stati-nazionali
indeboliti e sottomessi. In questo mondo di universalistico c’è
solo lo sfruttamento e l’oppressione. Quindi chi richiede o propone la
politica universalistica delle differenze come via d’uscita dalle disuguaglianze
e dagli orrori porta acqua al mulino di questo pugno di Stati dominatori contro
la massa di Stati sottomessi.
La divisione del mondo tra Stati oppressori e Stati oppressi ha raggiunto una
profondità mai vista. Questo sprofondamento è il risultato della
logica dissanguatrice della finanza speculativa. Per colmare questa voragine,
portare aiuto ai popoli oppressi, riunificare il pianeta, ci vuole altro che
la tolleranza o il dialogo. Ci vuole una decisa guerra di classe contro i paesi
oppressori. La tara da estirpare non è l’identità etnica.
È il dominio imperialistico. Quindi lavoratori e popoli oppressi hanno
da scatenare la guerra di classe contro finanza, Stati e nazioni per liberarsi
da questo dominio e costruire una società senza frontiere di liberi e
eguali.
Concludendo, la frantumazione balcanica è opera della penetrazione imperialistica
e l’ossessione identitaria, o l’etnocentrismo, la prigione imposta
dai conquistatori.
Una terza e conclusiva questione è la filosofia del nuovo militarismo.
23. La "filosofia" del nuovo militarismo
Il generale Jean, commentando la richiesta inglese di schierare truppe di terra,
ha dichiarato (Il Sole 24 Ore 19/5/1999) che Blair è "l’erede
della potenza imperiale britannica che sa come impiegare la forza". Dallo
sviluppo degli avvenimenti emerge che sono in tanti a sapere come si impiega
la forza. Consideriamo perciò, prima di chiudere queste osservazioni
conclusive, qual è il nocciolo di questa scienza, ossia qual è
la filosofia del nuovo militarismo.
Il diritto è sempre l’ordine del più forte. Nei rapporti
internazionali questo ordine si adegua sugli interessi delle superpotenze. Di
fronte a questi interessi non c’è trattato o principio politico-giuridico
che tenga. Essi si impongono con la forza anche se hanno bisogno di legittimarsi
e di darsi una veste giuridica. L’aggressione della Nato si muove in questa
scia. È un atto di forza che ha bisogno di legittimarsi. Gli alleati
hanno agito sul piano giuridico banditescamente, violando in pieno il principio
da essi stessi accettato del "non ricorso alla guerra come soluzione di
contrasti internazionali" salvo nel caso di autorizzazione da parte del
Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ma da tempo le diplomazie sono al lavoro
per trovare una giustificazione a questo banditismo. E la giustificazione è
stata trovata. È la categoria della guerra morale col suo corollario
operativo: intervenire dovere morale.
Vediamo di che si tratta.
Prima però di esaminare la categoria di "guerra morale" è
opportuno premettere l’articolazione dell’intero tema nei suoi elementi
costitutivi. Il tema del nuovo militarismo si articola in questi tre argomenti
specifici: A) intervenire dovere morale; B) il ricatto armato fulminante; C)
il predominio tecnologico. Consideriamoli nell’ordine partendo dalla categoria
summenzionata.
A. Intervenire dovere morale
Per la diplomazia non è un problema il fatto che gli Stati Uniti siano
il gendarme del mondo. Per essa il problema è quello di trovare una teoria
che copra e giustifichi questa funzione di gendarme. Per coprire questa funzione
di gendarme e i suoi sporchi atti di sopraffazione la diplomazia ha approntato
la teoria dell’"ingerenza umanitaria". Questa teoria poggia
su tre assiomi: a) i "diritti umani" sono una prerogativa assoluta;
b) essi non possono essere calpestati dietro lo schermo della sovranità
nazionale; c) è legittimo l’intervento armato contro lo Stato che
calpesta i diritti umani. E nutre la pretesa di segnare la fine della cittadinanza
nazionale e l’inizio della cittadinanza internazionale. Tutti questi assiomi
e pretese si trovano mescolati insieme nella dottrina Clinton secondo la quale
è legittimo l’uso della forza per impedire "la pulizia etnica
e il massacro di persone innocenti". Quindi il precetto, o insegna, del
nuovo militarismo è l’uso della forza come imperativo morale e
l’intervento armato come guerra etica.
Non ci vuole molto a capire che la categoria dei diritti umani e quella corrispondente
della cittadinanza internazionale sono pure astrazioni in quanto in un mondo
di ricchi e poveri e di Stati contrastanti è impossibile un diritto universale,
il diritto promana dal monopolio di violenza degli Stati e la costruzione dell’impero
del diritto è la costruzione del dominio delle superpotenze. Né
ci vuole molto a capire che la Nato fa strame della sovranità nazionale,
non perché abbia abolito lo Stato nazionale o agisca in nome di uno Stato
plurinazionale, ma perché si tratta della sovranità di paesi deboli
e oppressi. Nell’imperialismo il diritto di ingerenza è il potere
di chi può imporre la propria forza come legge. Esempio: il consiglio
di sicurezza dell’ONU ha ridotto la sovranità degli Stati più
deboli in un comodo bersaglio degli Stati più forti ed ha trasformato
la sovranità delle superpotenze in una entità assoluta. Non ci
vuole molto a capire quindi che la giustificazione dell’intervento armato
come imperativo umanitario non codifica un nuovo principio o una nuova regola
giuridica, che ponga i diritti umanitari al di sopra di quelli nazionali, ma
è solo un paravento delle più prepotenti aggressioni. Nessun popolo
oppresso (ad esempio i Kurdi) e nessuna minoranza nazionale oppressa può
appellarsi alla dottrina Clinton a meno che non diventi pedina degli USA o di
una coalizione di Stati diretta dagli USA. Pertanto il nuovo filosofema di superpotenze
e medie potenze nel campo della scienza militare e del sapere come impiegare
la forza è la giustificazione dell’"intervento armato come
imperativo morale".
B. Il ricatto armato fulminante
Gli Stati Uniti fanno affidamento sulle loro forze armate per imporre nel mondo
i propri interessi. Altrettanto fanno le altre superpotenze e potenze, come
fa l’imperialismo italiano nell’area balcanica mediterranea medio
orientale nel Corno d’Africa e in altre aree più lontane. Nel febbraio
1999 il dipartimento della Difesa americana ha sintetizzato la propria dottrina
militare affermando che gli USA occupano una posizione unica in quanto a capacità
di intervento in ogni teatro di operazioni e che essi debbono mantenere questa
supremazia. Il 26, parlando a S. Francisco, Clinton ha così popolarizzato
la dottrina: "La questione che ci dobbiamo porre è quella di conoscere
le conseguenze che l’aggravarsi dei conflitti e il loro diffondersi può
avere sulla nostra sicurezza. Non possiamo e non dobbiamo accollarci ogni responsabilità
o essere ovunque. Ma quando i nostri valori e i nostri interessi sono in gioco
e quando possiamo agire, allora dobbiamo essere pronti". Essere pronti
a colpire e a colpire micidialmente: è questa la strategia del gendarme
del mondo. E del nuovo militarismo. Quindi ovunque sono in gioco interessi americani,
o interessi italiani o di qualsiasi altra potenza, lì la Casa Bianca
Palazzo Chigi o qualsiasi altro governo di qualsiasi altra potenza possono decidere
di intervenire e di colpire duro.
I finanzieri americani sanno molto bene che non si può dettare legge
al mercato o finanziare i deficit senza disporre del predominio militare. Essi
aspirano a un dispositivo onnipresente e onnipotente in grado di intervenire
e di colpire fulmineamente in ogni angolo della terra. La stessa aspirazione
nutrono, in proporzioni e dimensioni differenti, i finanzieri inglesi francesi
italiani tedeschi giapponesi ecc. Potere intervenire e colpire con rapidità
e in modo terrificante nelle aree dei propri interessi geopolitici ed in particolare
nei punti di crisi di queste aree: è questo l’impegno, lo sforzo
assillante degli stati maggiori e delle macchine militari di superpotenze e
potenze. Quindi non solo gli Stati Uniti ma tutti gli altri altolocati della
gerarchia imperialistica, compreso l’imperialismo italiano, hanno a perno
della loro scienza militare e dell’impiego sapiente della forza il ricatto
armato fulminante; e perfezionano incessantemente i mezzi tecnici per rendere
questo ricatto sempre più fulminante.
C. Il predominio tecnologico
Più si eleva il livello tecnico della produzione e degli armamenti e
più aumenta l’ossessione al primato tecnologico militare e la corsa
alle armi più sofisticate e distruttive. Nei bombardamenti sulla mini-Jugoslavia
sono stati impiegati tutti i prototipi di cacciabombardieri, dai B-52 agli aerei
invisibili. E sono state usate le bombe con più effetto distruttivo come
quelle a uranio impoverito (già esperimentate nell’aggressione
all’Iraq) che, esplodendo, liberano particelle radio-attive e polveri
tossico-chimiche generatrici di tumori e malformazioni. I raid aerei e missilistici
sono stati uno sfoggio di alta tecnologia militare in campo avionico-missilistico
nei sistemi di controllo in quelli di rifornimento e in altri campi. La lezione
che ne hanno tratta i responsabili della difesa, come il nostro ministro, è
il livello straordinario della tecnologia, l’inadeguatezza delle capacità
militari europee rispetto agli USA che hanno fornito il 70% delle forze aeree,
la necessità che l’Europa si attrezzi per poter fare operazioni
del genere anche senza la partecipazione statunitense (dichiarazione di Scognamiglio
al Corriere della Sera 13/6/1999). Quindi ciò che si approfondisce e
aumenta è la spinta di ogni imperialismo ad accelerare l’ammodernamento
militare, a recuperare i divari o a distanziare i concorrenti per mantenere
o imporre il proprio predominio.
Sul piano specificamente tecnico l’aggressione Nato ha messo in luce:
a) il divario tecnologico tra la macchina bellica americana e quella delle potenze
europee, divario che si sapeva; ma, al contempo, l’alto livello tecnico
raggiunto dalle forze armate delle potenze europee ed in particolare la rapidità
di riarmo delle macchine belliche tedesca ed italiana, che non erano altrettanto
note e/o visibili; b) l’impressionante impiego di mezzi e di bombe che
travalica ogni obbiettivo e attesta il carattere distruttivo dell’impiego
attuale della forza; c) l’enorme supporto di mezzi di trasporto rifornimento
e comunicazioni (comandi integrati), indispensabile all’impiego delle
armi più sofisticate, ma che rende tanto più vulnerabile e fragile
la macchina bellica quanto più è altamente tecnologica. Quindi
la contesa per la supremazia tecnologica in materia di armamenti diventerà
sempre più forte; prosciugherà crescenti risorse; ed essa stessa,
come aspetto caratteristico del nuovo militarismo, sarà fonte diretta
di conflitti.
Concludendo su questo tema possiamo dire che l’arte militare di fine secolo
ha per suoi fondamenti specifici: a) l’etica come bandiera della pirateria
finanziaria; b) la tecnologia terrificante finalizzata al predominio annientatore;
c) la satellizzazione dell’intervento armato alla superiorità militare;
d) la professionalizzazione e la tecnicizzazione progressive dei reparti operativi
e di supporto delle forze armate.
Veniamo, infine, al nostro che fare pratico.
24. I compiti del proletariato
Nel corso dei terrificanti bombardamenti noi siamo stati permanentemente mobilitati
contro l’aggressione Nato, il nostro militarismo, il nostro blocco dominante
finanziario, il suo strumento di potere &emdash; il governo D’Alema
&emdash; a salvaguardia degli interessi dei lavoratori, per l’unione
internazionale di tutti i proletari l’indipendenza e l’autodecisione
dei popoli e per l’armamento proletario. E lo siamo ancor di più
oggi dopo che la Nato ha occupato militarmente il Kosovo ed ha stabilito su
questa regione il proprio protettorato. Infatti oggi in Serbia, come in Bosnia,
non basta più la parola d’ordine la "Nato fuori dai Balcani",
ci vuole la lotta contro gli eserciti di occupazione. Per il proletariato serbo
e balcanico, come per quello di ogni altro paese, questa lotta è inseparabile
da quella per il potere. E per noi qui in Italia dal rovesciamento del nostro
blocco dominante, che è un obbiettivo non immediato ma di prospettiva.
Condizione tattico-strategica per accelerare questa prospettiva è l’armamento
del proletariato, cioè l’attrezzamento da parte delle forze attive
della classe degli strumenti e dell’organizzazione necessari a condurre
la lotta e a reggere lo scontro con l’apparato statale (giusto orientamento,
mezzi idonei a difendersi e a colpire, organizzazione autonoma, partito).
Quindi il primo compito, il compito fondamentale, assolti i doveri immediati
della solidarietà internazionale, è in questo momento quello dell’armamento
proletario.
La difesa dei popoli oppressi esige il rifiuto pieno del nazionalismo borghese.
Conseguentemente i lavoratori balcanici, serbi e kosovari, debbono insorgere
contro le truppe di occupazione e battersi non in nome della nazione ma dell’unione
dei lavoratori per costituire una federazione socialista aperta a tutte le masse
popolari dell’area. Ogni altra alternativa porta al vicolo cieco della
guerra fratricida. I proletari extrabalcanici, e noi, debbono e dobbiamo appoggiare
questa lotta nel quadro della progressiva unificazione di queste masse e dell’indebolimento
del sistema imperialistico. E questo è il secondo compito.
La lotta al militarismo imperialista esige il più conseguente spirito
classista e internazionalista. Per cui prima di tutto va cancellata la falsa
teoria del sovraimperialismo americano. Come che si rappresenti la loro fase
espansiva attuale (euro-asiatica rispetto alle precedenti atlantica e caraibica)
gli Stati Uniti sono soltanto il capofila del sistema imperialistico, non un
sovrano globale; e, per giunta, in declino storico rispetto alle potenze distrutte
nella seconda guerra mondiale (Germania &emdash; Giappone &emdash; Italia).
Quindi essi vanno attaccati e combattuti come vertice gerarchico di questo sistema,
partendo da casa propria, senza infognarsi in misere coalizioni democratiche.
In secondo luogo va eliminato il concetto che la democrazia, non potendosi più
fondare sulla sovranità popolare, sia da rifondare sui diritti umani.
Questo concetto è una sofisticheria, che porta all’universalismo
aclassista e al mantenimento dello status quo. La lotta all’imperialismo
USA e a tutto il sistema imperialistico va fatta perciò non come piccolo-borghese
e socialimperialista "resistenza democratica", ma come guerra di classe.
Sono questi i compiti ulteriori da svolgere.
Infine l’internazionalismo proletario esige, oltre ad un’azione
specifica contro le basi Nato &emdash; minaccia permanente contro i popoli
balcanici e dell’est in generale &emdash;, un assiduo lavoro di contatto
e di collegamento tra le avanguardie del vecchio continente per promuovere una
battaglia comune contro le macchine militari dei rispettivi paesi e sabotare
i loro preparativi di un nuovo macello bellico tra europei.
Parte quarta
LE PRESE DI POSIZIONE E L’AZIONE DEL NOSTRO PARTITO NEL CORSO DEGLI AVVENIMENTI
(Tratte dal Supplemento al giornale La Rivoluzione Comunista)
25. L’autonomia non basta al Kosovo come l’indipendenza non va alla
Serbia. La NATO stringe i tempi per impiantarsi nel Kosovo. La via d’uscita
dal "groviglio balcanico" è l’unione di tutti i lavoratori
contro le cricche locali per formare una "federazione socialista"
di tutte le nazionalità dell’area.*
Oggi 15 marzo ricomincia a Parigi la seconda tornata di negoziati tra l’Uck
e la delegazione serba per trovare uno sbocco alla lotta armata nella provincia
serba. A tirare le fila del negoziato c’è ora anche una delegazione
NATO determinata ad imporre ai due contendenti i propri contingenti militari
e a smobilitare entro breve tempo.
Nel negoziato fiume di Ramboullet (in gennaio-febbraio) Uck e delegazione serba
hanno raggiunto l’accordo solo su un punto: l’autonomia del Kosovo
per tre anni. Ma, su questo stesso punto, mentre l’Uck chiede che allo
scadere del triennio si faccia un referendum per l’indipendenza; Belgrado
è contraria a questa richiesta e non accetta neanche che la provincia
venga amministrata da 120 eletti e che ci siano un governo una Corte Costituzionale
una Corte suprema e i Tribunali locali. Sugli altri punti fondamentali non c’è
nessun accordo. Belgrado è contraria all’art. 7 che prevede che
la NATO dispieghi una forza chiamata Kfor composta da unità terrestri
aeree e marittime. L’Uck è contrario a smobilitare entro quattro
mesi e così pure Belgrado a ritirare le proprie truppe nello stesso tempo.
Alla vigilia della ripresa dei negoziati, mentre l’Uck ha dichiarato che
firmerà l’accordo di Ramboullet, Milosevic ha invece respinto l’ipotesi
di stanziamento di truppe e corpi di polizia stranieri nel territorio kosovaro,
acconsentendo soltanto alla presenza degli osservatori Osce. Quindi i contendenti
sono lontani da qualsiasi seria e duratura intesa.
D’altra parte cresce il contrasto tra Serbia e superpotenze in quanto
USA Francia Germania Gran Bretagna Italia considerano l’occupazione del
Kosovo come indispensabile al piano di pace. La Camera statunitense ha autorizzato
Clinton all’invio di un contingente militare; mentre il nostro ministro
della difesa ha dichiarato che se Belgrado non firma ci saranno raid aerei e
pioggia di missili, assicurando ai raid le basi aeree e navali. Quindi dietro
i negoziati c’è la minaccia arrogante di annientamento da parte
dei comandi NATO.
È già pronto per l’impiego un dispositivo di 28.000 soldati
così articolato: 1) 6.000 inglesi; 2) 4.500 francesi; 3) 4.000 statunitensi;
4) 3.300 tedeschi; 5) 2.500 italiani, di cui 300 già attivi in Macedonia;
6) il rimanente di altri paesi. Dunque ciò che preme agli USA e agli
imperialisti europei non è la pace ma l'intervento armato in Kosovo.
Lotta ferma contro il nostro militarismo e il suo espansionismo nei Balcani
- Contro l’uso delle "basi" militari da parte della NATO - Fuori
la NATO e i contingenti imperialistici dai Balcani - Per lo svuotamento degli
arsenali - Per il collegamento e la cooperazione tra avanguardie rivoluzionarie
nel solco del marxismo-leninismo e dell’internazionalismo proletario.
(*tratto dal Supplemento del 16/3/1999)
26. Proseguono i bombardamenti terrorizzanti della NATO sulla Serbia. La popolazione
kosovara ridotta a una massa di straccioni fuggiaschi. La vendetta dei popoli
non mancherà di raggiungere i massacratori. Cresca la mobilitazione della
gioventù e dei lavoratori contro il nostro governo i nostri comandi i
seminatori di distruzione e morte. Guerra sociale al militarismo sanguinario.
Per l’armamento del proletariato.*
Via via si accumulano i giorni dei terrificanti bombardamenti aerei e missilistici
della Nato contro la Federazione jugoslava, con oggi siamo arrivati al settimo
giorno, appaiono sempre più chiare le ragioni di dominio e di polizia
che animano le potenze europee e gli USA. Questo scellerato e rivalistico consorzio
di massacratori distrugge e terrorizza la Serbia ai soli scopi: a) di disarmare
e controllare i movimenti locali (UCK compreso) e assicurare l’ordine
imperialistico nell’area balcanica; b) di ripartirsi l’egemonia
sull’area e ampliarla verso il Caucaso e l’Asia centrale; c) di
garantirsi il flusso del petrolio e le posizioni geo-strategiche. Questi sono
gli scopi, esclusivi o principali, che animano spingono determinano questo sodalizio
di prepotenti e criminali a gettare bombe su Belgrado e Pristina. Quindi solo
e unicamente scopi luridi e sanguinari stanno alla base dei terrificanti bombardamenti
in corso.
Com’è nell’etica dei dominatori questi luridi scopi vengono
travestiti da ragioni umanitarie. È una bugia smisurata, una mistificazione
del peggior dominio, quella che la Nato abbia promosso l’aggressione contro
la Federazione jugoslava per soccorrere la popolazione del Kosovo. La Nato terrifica
la Serbia non perché pensi o voglia che in questo modo Belgrado allenti
la repressione ai danni del movimento di indipendenza kosovaro. No, non per
questo; anzi essa è pronta a negoziare con la cricca nazionalista di
Milosevic la spartizione del Kosovo. La Nato martella la Serbia perché
vuole stanziare le proprie truppe nel Kosovo. Questo è l’obbiettivo
immediato dell’operazione "forza determinata". Quindi non c’è
neanche l’ombra delle ostentate ragioni umanitarie. Il teorema della ingerenza
umanitaria, eretto dai dominatori a categoria giuridica internazionale sulla
testa dei popoli, è una copertura ipocrita e ridicola della sopraffazione
armata. Solo le rivoluzioni e oggi solo il proletariato ha il diritto di ingerenza
umanitaria perché solo esse e solo esso possono soccorrere veramente
chi ha bisogno.
La nuda realtà dei fatti è che, appena sono iniziati i raid missilistici,
Belgrado ha intensificato l’attacco al Kosovo, mettendo a ferro e fuoco
i centri di pianura; e il popolo kosovaro si è trovato così di
colpo sotto due fuochi: di quello serbo e di quello Nato. E di colpo, per scampare
al pericolo di morte, si è trovato di fronte a una sola scelta: scappare,
abbandonare case e terre. In queste ore terribili trecento-quattrocentomila
donne anziani bambini si accalcano, senza viveri senza vestiario senza niente
come una "massa di straccioni", ai confini con la Macedonia l’Albania
il Montenegro con la speranza di un rifugio che i paesi confinanti non sono
in grado di dare. È questo il risultato congiunto di due tipi di oppressione
distinti ma convergenti: dell’oppressione statale serba e del predominio
sanguinario imperialistico. Quindi la drammatica lezione è che il popolo
kosovaro non può sfuggire allo strangolamento poliziesco e controrivoluzionario
dei due specifici dominatori senza attaccarli entrambi.
Noi abbiamo assunto ed invitiamo ad assumere, su tutti i conflitti balcanici,
una ferma e chiara posizione classista e internazionalista. Per dare appoggio
e solidarietà al popolo kosovaro e ai lavoratori balcanici bisogna attaccare
dall’interno le macchine statali &endash; politico-militari &endash;
imperialistiche coinvolte o meno nell’operazione massacro. Ogni reparto
proletario avanzato, ogni formazione rivoluzionaria, deve elevare la propria
azione e mobilitarsi contro il proprio blocco di potere. Attaccare il governo,
attaccare i comandi, sabotare chi porta distruzione e morte in casa altrui:
questo e tutto ciò che si ricollega a questo è il compito, il
dovere, internazionalista di solidarietà internazionale in questo momento.
Solo questa mobilitazione, questo attacco, può alleviare la situazione
delle popolazioni oppresse, come quella kosovara, ed evitare l’eco-genocidio,
lo sterminio, le atrocità senza fine.
Salutiamo pertanto, fraternamente e con vivo interesse, il crescente movimento
di opposizione e di protesta contro l’aggressione Nato e il militarismo
italiano ed esortiamo le forze più genuine ad abbandonare qualsiasi forma
di pacifismo aclassista e a spostarsi conseguentemente sul terreno della guerra
sociale. E, a conclusione e richiamando le indicazioni espresse il 25 marzo
dall’Esecutivo Centrale, sottolineamo: denunziare l’"ingerenza
umanitaria" dei massacratori, l’italo-imperialismo, il nazionalismo
oppressore; bloccare la "basi"; opporsi all’impiego dei soldati
di leva in compiti di gendarmeria; respingere il controllo territoriale; svuotare
gli arsenali e armare il proletariato.
(*tratto dal Supplemento del 1/4/1999)
27. Crescono le manifestazioni contro l’aggressione della NATO. Ma la
protesta non basta a fermare le guerre. Scatenare la lotta di classe contro
le macchine belliche. Guerra sociale contro guerra statale. Abbasso l’oppressione
serba sul Kosovo! No allo sciovinismo "Grande Albanese" dell’UCK!
Per l’unione dei proletariati balcanici!*
Sta crescendo il movimento di denuncia, di protesta e di lotta, contro i terrificanti
bombardamenti della Nato sulla Serbia. Sta salendo di tono la condanna popolare
contro il nostro governo aggressore. Dopo tre settimane di terrore e sangue
si va delineando un movimento di opposizione e di protesta sempre più
determinato contro la prepotente aggressione imperialistica. Le proteste e le
manifestazioni di piazza, o davanti le basi aeree, contro la guerra e per il
cessate il fuoco si susseguono a ondate crescenti dal Sud al Nord e spesso si
svolgono contemporaneamente in più luoghi con decine di migliaia di manifestanti.
È quindi opportuno fare il punto su questo movimento mentre assistiamo
all’escalation dei raid micidiali della fase due.
Va notato prima di tutto che a scendere sulle piazze per manifestare contro
i bombardamenti e contro la Nato sono state le realtà politiche e sociali
organizzate: le formazioni di sinistra parlamentare, le associazioni pacifiste,
i centri sociali, i cobas, i raggruppamenti rivoluzionari. Alle manifestazioni
si sono uniti via via gli studenti. Ciò che caratterizza socialmente
il movimento è la massiccia partecipazione di giovani e di lavoratori.
Va rilevato in secondo luogo che le prime manifestazioni vedono la prevalenza
di posizioni pacifiste: per la pace contro la guerra. Ne trae beneficio il governo
che le sfrutta a sostegno della sua politica ambigua di portatore di guerra
mascherata da ricercatore di pace, ossia di lupo travestito di agnello. Ma dopo
una settimana di incessanti bombardamenti la generica contrarietà alle
bombe evapora, solidificando le identità politiche delle formazioni manifestanti.
Le associazioni pacifiste, di estrazione piccolo e medio borghese, si accucciano
mettendosi a rimorchio del governo e della Chiesa alla ipocrita ricerca della
pace. Il sindacalismo di base, una parte dei centri sociali e le altre realtà
affini, intensificano l’agitazione spingendo la loro contrarietà
alla guerra all’opposizione contro le macchine belliche imperialistiche
e il governo. Si ha così uno spostamento del baricentro politico dalle
manifestazioni del pacifismo conservatore all’opposizione attiva.
Va detto in terzo luogo che questo spostamento è un passo avanti; ma
che rischia di finire in confusione se il movimento opposizionale non si porta
su posizioni classiste e internazionaliste.
Ve detto infine di passaggio, con riferimento alle tendenze basiste e anti-partito,
che le parole d’ordine di sciopero generale, di guerra alla guerra, e
simili, restano punti esclamativi se non si traducono in forme organizzate e
in azione anti-statale.
Pertanto articoliamo le seguenti indicazioni operative per andare avanti nel
senso giusto.
1°) Nessuno deve tenersi nell’animo la collera e l’amarezza
per lo scempio prodotto dai bombardamenti Nato. Ogni giovane, ogni lavoratore,
deve scendere in piazza, mobilitarsi, per esprimere in tutti i modi possibili
la propria indignazione contro questo scempio, contro l’eco-genocidio
delle popolazioni nostre vicine di casa. Egli deve unirsi al movimento di lotta
sociale contro i responsabili dei massacri: i governi, i blocchi di potere,
gli apparati militari, le loro alleanze.
2°) Non si può fermare la guerra con gli appelli alla pace o con
le sole manifestazioni. Né tantomeno si può ritornare come prima.
L’aggressione imperialistica contro la Serbia viene da lontano e non si
ferma a Belgrado. Essa trae origine dall’espansione nei Balcani delle
potenze europee (in particolare Germania e Italia), iniziata ancora prima della
disintegrazione della Jugoslavia; e dall’espansionismo militare statunitense
in quest’area. Essa investe tutti i Balcani: Serbia-Kosovo Montenegro
Macedonia Albania Grecia Bulgaria oltre che Croazia Slovenia Bosnia Ungheria
Romania e Turchia. E coinvolge l’Europa orientale fino all’Asia
centrale. Questa aggressione alberga la ripartizione armata, da tempo in atto,
dell’area balcanica da parte delle potenze imperialistiche occidentali
e pone le premesse per il confronto armato intereuropeo e interimperialistico.
Bisogna quindi fare la guerra sociale contro la guerra statale: abbattere le
macchine di guerra, abbattere lo Stato, rovesciare la borghesia. Non ci sono
alternative.
3°) Il proletariato non ha frontiere. La sua bandiera è la bandiera
rossa. I nostri lavoratori debbono unirsi ai lavoratori jugoslavi di qualsiasi
nazionalità per respingere l’aggressione imperialistica alla Federazione
Jugoslava. Essi debbono inoltre respingere la repressione della popolazione
Kosovara da parte della cricca borghese di Milosevic ed esigere che questa rientri
nella propria terra; difendendone il diritto all’autodecisione in un quadro
federativo socialista fuori dal nazionalismo grande-albanese portato avanti
dall’UCK.
4°) Non dare tregua al governo significa attaccarlo da tutti i lati. L’attuale
governo, ma anche i precedenti, è lo strumento di una oligarchia finanziaria
parassitaria arcimilitaristica. Il potere in Italia ha raggiunto un grado così
elevato di autoritarismo e militarizzazione da concretizzare un vero e proprio
modello di militarismo sanguinario. Quindi il governo va attaccato, sistematicamente
e permanentemente, su questo terreno.
5°) Il lato più conseguente delle manifestazioni e della lotta contro
l’aggressione imperialistica e il militarismo sanguinario è e deve
essere l’armamento del proletariato.
(*tratto dal Supplemento del 16/4/1999)
28. Solo la mobilitazione dei lavoratori può fermare la distruzione totale
della Serbia e l’invasione dei Balcani da parte della Nato. I piloti dei
cacciabombardieri "uomini-macchina" pagati per spargere distruzione
e morte. Niente dovrà sfuggire alla "giustizia proletaria".
I compiti dei soldati di leva.*
In tutte le aggressioni imperialistiche, come questa della Nato contro la Federazione
jugoslava, i bombardamenti sono serviti, sempre e immancabilmente, e servono
a preparare l’attacco di terra. Sono incursioni strumentali all’occupazione
del territorio.
L’attacco di terra sta ritardando non per le rivalità esistenti
tra gli aggressori (che sono certamente una ragione importante del ritardo e
della folle continuazione dei bombardamenti) o per le difficoltà delle
operazioni militari (che sono ragioni altrettanto importanti) o per l’inquinamento
radioattivo e chimico del terreno prodotto dalle bombe (che non va sottovalutato).
Esso sta ritardando non tanto per queste ragioni, che sono tutte presenti, quanto
in particolare per l’inadeguatezza operativa dell’Esercito di Liberazione
del Kosovo (ved. capitolo 8). Prima dell’aggressione imperialistica l’UCK
era una piccola formazione guerrigliera che poteva sostenere solo scontri isolati
con le milizie serbe. Non era in grado di ingaggiare operazioni di vasto raggio
o battaglie vere e proprie. È dall’inizio della primavera che,
grazie al forte sostegno occidentale, esso ha cominciato a darsi una struttura
militare operativa e che può ora iniziare a svolgere compiti di fanteria
sotto le ali degli Apache e Mangusta o sotto la copertura dei mezzi corazzati.
Quindi l’attacco di terra si può considerare ormai imminente.
L’invasione, da qualunque lato avvenga (dalle strettoie di Kukes al confine
albanese, dalla scalpitante Croazia o titubante Ungheria o da più lati
contemporaneamente), richiede in ogni caso grande quantità di soldati.
Nessun aggressore può sottrarsi all’invio di adeguati contingenti.
Roma per prima; i cui appetiti espansionistici peraltro sono più vasti
delle proprie forze. Quindi ogni macchina militare deve attingere all’esercito
di leva: alle reclute volontarie e a quelle che non lo sono. Scatta così
il momento dell’impiego operativo in quantità crescenti di soldati
di leva. E, di conseguenza, il problema dei compiti immediati dei giovani di
leva. Ed è su questo che dobbiamo dire ora alcune cose.
1°) Solo dei mercenari, degli individui venduti al soldo, possono giocare
al tiro al bersaglio come stanno facendo da 35 giorni ininterrottamente i piloti
dei bombardieri americani e dei nostri Tornado. Un soldato di leva non può
macchiarsi di tanti misfatti. Il dovere di ogni giovane, e di ogni soldato di
leva, è quello di opporsi al massacro di altri giovani e di altri soldati,
a casa loro e senza che essi si siano immischiati nei fatti di casa nostra.
2°) L’aggressione della Nato contro la Federazione jugoslava è
un atto di sopraffazione basato sulla prepotenza e sulla legge del più
forte. In ballo non ci sono diritti umani o la salvezza dei Kosovari, che vengono
inceneriti con le bombe all’uranio, bensì sporchi interessi di
predominio e di spartizione imperialistica dell’area. È dovere
di ogni soldato di leva di non farsi strumento del massacro e di rifiutare ogni
ruolo di gendarmeria.
3°) Le guerre di dichiarano; le aggressioni si fanno. Se l’Italia
avesse dichiarato guerra alla Federazione jugoslava avrebbe dovuto ottenere
l’autorizzazione del parlamento. Cosa che non è stata neanche richiesta.
Nessun soldato è tenuto ad eseguire ordini illegali. Quindi è
compito di ogni recluta non intrupparsi in questo sporco affare e di denunziare
i comandi.
4°) Chi, stando al governo, dice di amare la pace sostenendo che la Nato
sta usando la propria forza per ristabilire la pace, mente ed inganna il popolo
che è contro il terrore e il massacro; e sta in piedi non perché
ha il consenso del popolo ma solo perché è sostenuto dagli apparati
di violenza dello Stato. È compito dei giovani di leva smascherare il
governo bugiardo e non farsi trascinare nelle sue avventure.
In breve e in conclusione possiamo riassumere così i compiti immediati
dei giovani di leva:
rifiutarsi di portare morte in casa altrui; respingere ogni coinvolgimento nell’invasione
della Federazione jugoslava e dei Balcani; rifiutarsi di svolgere compiti di
polizia e di opprimere altri giovani e lavoratori; unirsi al fronte di lotta
contro il militarismo sanguinario; denunziare la prepotenza dei comandi fraternizzando
coi giovani e i lavoratori aggrediti; organizzarsi negli organismi di lotta
proletari e del partito; guerra sociale contro guerra statale; impugnare la
bandiera della rivoluzione, dell’internazionalismo, del comunismo.
(*tratto dal Supplemento del 28/4/1999)
29. La NATO, più intensifica i bombardamenti, più amplia le pretese
di dominio sulla Serbia. La pace degli aggressori peggiore dei missili. Solo
i lavoratori possono bloccare queste pretese. Avanti nelle mobilitazioni contro
il "militarismo sanguinario". Avanti nella preparazione dello sciopero
generale. Guerra sociale contro guerra statale.*
La Serbia è già distrutta; ma la Nato intensifica i bombardamenti.
Il 7 maggio, dopo 44 giorni di crescenti furiosi e terrificanti bombardamenti,
il segretario dell’alleanza, Javier Solana, ha dichiarato solennemente
che se Belgrado non si piega ai voleri della Nato verrà schiacciata totalmente.
La volontà di dominio degli attuali prepotenti della terra sta superando
la ferocia distruttiva di ogni precedente forma di dominazione della storia!
Per avere la Serbia ai loro piedi i comandi atlantici hanno aumentato le missioni
aeree a 700-800 o a 900 al giorno e hanno dato il via ai bombardamenti a tappeto
e all’impiego di bombe a grappolo (la cui particolarità è
quella di devastare zona dopo zona) e di bombe a frammentazione (che, esplodendo,
formano uno sciame di schegge). All’escalation, il comando italiano si
sta distinguendo per l’impiego degli AMX (bombardieri a vasto raggio di
azione) e l’intensificazione dei raid; ossia per l’infierimento
maramaldesco contro un paese e una popolazione martoriati. Tutti gli aggressori
stanno facendo a gara a chi bombarda di più per poter strappare, dopo
i bombardamenti al tavolo negoziale, una porzione più grossa di bottino.
È uno spettacolo ributtante, bestiale, che suscita indignazione e vendetta.
I lavoratori le avanguardie noi tutti dobbiamo intensificare la nostra azione
la nostra mobilitazione la nostra lotta contro gli aggressori la macchina militare
il governo il sistema di potere, non solo per bloccare i bombardamenti ma per
impedire lo sbranamento della Serbia e dei Balcani ad opera degli aggressori
imperialisti. Noi tutti dobbiamo intensificare la nostra mobilitazione contro
il militarismo sanguinario avendo come punti fermi gli interessi del salariato,
l’armamento del proletariato, il potere e l’internazionalismo proletari.
Deve essere, altresì, un punto fermo il concetto che la pace imposta
coi missili non può avere altro risvolto che la schiavizzazione dei lavoratori
e l’umiliazione dei popoli. E, quindi, che la nostra mobilitazione non
può limitarsi alla fine dei bombardamenti ma deve proseguire oltre, fino
allo smantellamento delle macchine di guerra, al debellamento della Nato e degli
arsenali, al rovesciamento del capitalismo.
Un momento importante delle mobilitazioni in corso e del vasto movimento di
protesta contro l’aggressione della Nato è la preparazione dello
sciopero generale promosso, pur con i suoi enormi limiti politici, dal sindacalismo
di base per la giornata del 13 maggio; e da noi appoggiato e sostenuto. Facciamo
appello alla gioventù operaia, a tutti gli occupati &endash; donne
e uomini &endash;, a tutti i lavoratori, di scendere in sciopero, di manifestare
nelle piazze, di assumere e praticare le indicazioni di lotta della nostra organizzazione.
(*tratto dal Supplemento del 10/5/1999)
30. La giornata di sciopero contro l’aggressione Nato un avvenimento di
grande importanza politica. Andare oltre la "solidarietà operaia",
avanzando verso l’"internazionalismo proletario". Attaccare
il "militarismo sanguinario". Procedere all’"armamento"
del proletariato. (La nostra valutazione sullo "sciopero generale"
del 13 maggio 1999)*
Tra gli operai che hanno manifestato per primi la loro contrarietà ai
bombardamenti della Nato contro la Federazione e i lavoratori jugoslavi ci sono
i nostri nuclei di fabbrica e di istituto. Alla Telecom, al Comune di Milano,
all’Itis di Gallarate appena sono incominciati i raid aerei e missilistici,
i nostri nuclei hanno messo in atto immediate azioni di sciopero per denunziare
il militarismo italiano e organizzare una risposta di classe. Lo sciopero generale
del 13 maggio è la manifestazione operaia perora più alta e più
importante contro l’aggressione imperialistica. Esso attesta che la classe
operaia condanna questa sporca aggressione; che essa condanna il governo D’Alema
e le Confederazioni sindacali. Esso attesta altresì che la classe operaia
è solidale col terribile dramma degli operai serbi. E, quindi, che sta
crescendo in statura politica.
Lo sciopero è stato indetto dal sindacalismo di base nelle sue varie
espressioni; e appoggiato e sostenuto dai nostri nuclei e dalle nostre sezioni.
Esso è stato effettuato a scala nazionale dalla parte più avanzata
dei lavoratori (operai e impiegati). Ma non si è trattato di una minoranza
di poco peso. Si è trattato di una parte significativa della classe operaia.
Un milione di lavoratori circa ha partecipato alla giornata di sciopero. Alle
manifestazioni che si sono svolte in numerose città (Taranto, Roma, Firenze,
Torino, Varese, Milano, Brescia, ecc.) hanno preso parte decine di migliaia
di lavoratori. In quella di Milano, cui ha partecipato la nostra sezione locale,
hanno sfilato otto-diecimila manifestanti. A quella di Varese, ove è
intervenuta la sezione di Busto Arsizio, hanno preso parte duemila manifestanti.
La giornata di sciopero generale, nonostante la difficoltà di effettuazione,
si è quindi tradotta in una giornata di mobilitazione operaia.
La mobilitazione operaia è un avvenimento che segna la scena nazionale
e europea. Essa segna la contrapposizione acuta tra lavoratori, da una parte,
e potere padronale governo e Sindacato di Stato, dall’altra. La parte
attiva della classe operaia, contrappone alla sopraffazione imperialistica la
difesa degli interessi operai, al dominio dei più forti la solidarietà
operaia. Non è ancora la manifestazione compiuta di una acquisita coscienza
di classe dei propri compiti internazionali. È solo un passo verso l’internazionalismo
proletario. Un passo verso la ricomposizione rivoluzionaria delle fasce più
attive del salariato. La mobilitazione operaia segna, quindi, un passo avanti,
un punto più alto nella maturazione classista delle forze attive della
classe operaia.
Ora bisogna andare oltre. Trasformare lo sciopero in mobilitazione stabile.
Costruire gli organismi superiori di lotta proletari (il sindacato di classe
e il partito). Consolidare ed estendere l’autonomia politica dei lavoratori.
Ingaggiare scontri sempre più ravvicinati con la macchina militare di
sfruttamento e di potere del padronato. Niente di buono può avvenire
per i lavoratori, sotto qualunque cielo, che non sia opera dei lavoratori stessi.
Avanti, dunque, nelle mobilitazioni contro il militarismo sanguinario per l’armamento
proletario.
(*tratto dal Supplemento del 21/5/1999)
31. Appello alla mobilitazione contro i raid aerei e l’occupazione della
Serbia. Contro il "militarismo sanguinario" per l’"armamento
proletario" - (Risoluzione del Comitato Centrale Allargato)*
Il Comitato Centrale di Rivoluzione Comunista, riunitosi il 30 maggio 1999 unitamente
agli Esecutivi di Sezione, analizza il momento politico e lancia il seguente
appello.
1. La svolta nell’aggressione imperialistica contro la "Federazione
Jugoslava"
Dopo 68 giorni di terrificanti bombardamenti e di asfissiante accerchiamento
terrestre i superpotenti briganti della Nato hanno ridotto la Serbia a un cumulo
tale di macerie che al gruppo dirigente locale non resta altra scelta, per salvare
la pelle ed evitare più ampie mutilazioni territoriali, che capitolare
completamente. Siamo ormai alla resa incondizionata della Serbia, che ha osato
resistere al ricatto della più vasta coalizione imperialistica finora
mai vista. E, di conseguenza, a un gradino più alto dell’intervento
imperialistico.
Le truppe Nato, in testa quelle italiane, sono pronte ad occupare il Kosovo
e a impiantarsi definitivamente nella zona senza nemmeno pagare alcun tributo
di sangue. Ora quindi il problema è più aspro e più spinoso
di com’era all’inizio dello scatenamento dei bombardamenti in quanto
ora si tratta di stabilire quanto e cosa deve pagare la Serbia e come il bottino
deve essere ripartito tra i briganti della banda imperialistica.
I due aspetti di questo problema richiedono un chiarimento in quanto questo
chiarimento è di fondamentale importanza ai fini dei compiti pratici
che incombono su ogni avanguardia rivoluzionaria.
2. Le pretese della Nato: la "pace" peggiore delle bombe
La coalizione imperialistica ha perseguito imperterritamente l’obbiettivo
della distruzione della Serbia. Ora che quest’obbiettivo è stato
raggiunto la Nato pretenderà il massimo bottino possibile. Le truppe
dell’alleanza si insedieranno nel Kosovo e minacceranno stabilmente quel
che resta della Serbia. Esse imporranno, a Kosovari e a Serbi, non solo il loro
ordine ma anche i costi di occupazione, riproducendo in forma aggravata il modello
imposto alla Bosnia. Tutti i lavoratori della Serbia, serbi e kosovari, che
hanno sopportato i costi umani della terribile aggressione, si troveranno così
costretti a pagare i costi del dominio imperialistico, ossia a lavorare per
più padroni e sotto la minaccia permanente del mitra puntato alle tempie.
Quindi la pace sarà peggiore delle bombe e l’UCK imparerà,
da parte sua, che la Nato c’è per dare ordini.
Questo il primo aspetto. Secondo aspetto.
3. Le rivalità interimperialistiche verso un punto esplosivo
L’aggressione è stata ed è tuttora retta dall’asse
Washington-Londra. Ne discende che la parte più grossa del bottino non
potrà spettare che a questi due briganti. Questa è la regola.
Ma gli altri briganti, tra cui Italia e Germania, non permetteranno ai primi
di rafforzarsi a loro spese. Quindi la divisione del bottino, ossia la spartizione
occidentale della Federazione Jugoslava, intensifica le rivalità tra
gli spartitori portandole a un punto esplosivo.
Va ricordato a quest’ultimo riguardo che l’aggressione della Nato
contro la Serbia è scattata sotto l’egida USA non tanto per la
strapotenza militare della Casa Bianca, che è certo un fattore decisivo
per il dominio americano in campo finanziario e geo-politico, quanto a causa
delle rivalità tra potenze europee, le quali, dalla fine degli anni ottanta,
hanno cercato di trarre dalla disgregazione e dal riassetto dell’area
balcanica i maggiori vantaggi individuali. Senza l’esistenza di rivalità
acute tra le potenze europee verso l’area balcanica gli USA non avrebbero
potuto promuovere l’operazione aggressiva in quest’area. La Germania
sta cercando di conseguire, dietro la Nato, i maggiori vantaggi economici e
geo-politici; e sta trescando con la Nato, facendone l’alfiere, per spartirsi
l’Asia Centrale. L’Italia si è aggregata all’alleanza
atlantica per partecipare alle nuove spartizioni e per non farsi scalzare dalle
posizioni acquisite nell’area balcanica. Si trova ora a contenere, in
quest’area vitale per i propri interessi, sia la penetrazione dei concorrenti
europei sia quella più mastina degli Stati Uniti. Ma è nei rapporti
con quest’ultimo imperialismo che il nostro, nonostante l’abilità
manovriera, è destinato a prendere le batoste più grosse. Intanto
comincia a pagare, in insicurezza, la distruzione della Serbia cui ha dato un
contributo di prim’ordine; in termini economici e ambientali, l’avvelenamento
dell’Adriatico. Più avanti pagherà lo scotto della ricerca
della sponda russa, capace solo sotto la direzione di Eltsin di vendere le ossa
dei propri difesi. Pertanto si apre una fase di accresciuta conflittualità
interimperialistica in cui è avviluppato il nostro paese e, con esso,
tutti i paesi europei.
4. Il governo D’Alema propulsore del "militarismo sanguinario"
Il Comitato Centrale, dopo aver analizzato gli ultimi sviluppi dell’intervento
Nato in Serbia, passa ad esaminare la politica del governo. Ed osserva. Subito
dopo l’aggressione Nato il Consiglio dei Ministri ha decretato lo stato
di emergenza su tutto il territorio nazionale ed ha subordinato ogni aspetto
della vita nazionale (economico, sociale, politico, ecc.) nonché il territorio
e lo spazio aereo alle esigenze di guerra. L’intervento armato ha così
agito da elemento catalizzatore dell’apparato economico, burocratico,
militare. E com’è nella tradizione della classe dominante, che
ha sempre scaricato sui lavoratori il fardello delle proprie imprese militari,
operai e pensionati sono stati chiamati a compiere nuovi sacrifici a sostegno
delle nuove imprese espansionistiche. Quindi l’intervento in Serbia attesta
l’unità operativa, che si fa sempre più stretta nella nostra
epoca, tra politica interna e politica estera, tra politica economica e sociale
e politica militare.
Sotto l’escalation dei bombardamenti il governo ha accelerato la politica
anti-operaia, anti-giovanile e di massima sicurezza. Mentre continua a crescere
la disoccupazione e il tormento dei senza salario meridionali, diminuiscono
i salari e crescono la flessibilità e la coazione al lavoro. Nelle città
più grandi si respira il clima di tolleranza zero. Contro i lavoratori
dei trasporti, e non solo dei trasporti, e contro le fasce attive della classe
operaia crescono i ricatti governativi delle misure e delle sanzioni anti-sciopero.
E si assiste alla criminalizzazione a tutto spiano di ogni azione autonoma dei
lavoratori. C’è, quindi, una maturazione controrivoluzionaria di
tutta la politica governativa.
Il Comitato Centrale denuncia il governo D’Alema come propulsore del militarismo
sanguinario, della metodologia di potere basata cioè sull’uso sistematico,
in modo eliminativo, della violenza statale applicata su tutti i terreni. Esso
denuncia altresì l’attuale esecutivo come punto di coagulo di tutte
le ricette controrivoluzionarie. E nota peraltro che questa metodologia di potere
non frena ma accelera la dissoluzione politica e parlamentare del sistema e
porta alla reazione aperta, a una forma compiuta di autoritarismo statale. Pertanto
la conclusione da trarre è quella di una lotta inflessibile e senza tregua
contro questo paladino del militarismo sanguinario.
5. Lo sciopero generale del 13 maggio
Il Comitato Centrale, a completamento dell’analisi sul momento politico,
considera poi il movimento di protesta anti-Nato e anti-governativo. Ed osserva.
Contro l’aggressione della Nato e contro la politica di razzia del lavoro
si è via via sviluppato un notevole movimento di protesta e di lotta
della gioventù e dei lavoratori. Un punto avanzato del movimento di protesta
è costituito dallo sciopero generale del 13 maggio promosso dal sindacalismo
di base e sostenuto dalla nostra organizzazione. Lo sciopero e i cortei che
sono sfilati in numerose città hanno smascherato il carattere brigantesco
dell’aggressione. Al contempo essi hanno riaffermato la solidarietà
operaia. La parte più avanzata della classe operaia italiana ha manifestato
il suo sostegno agli operai serbi che avevano visto sparire le loro fabbriche
sotto le bombe. Gli operai più avanzati e le avanguardie sanno molto
bene che senza mobilitazione dei lavoratori non può venire fuori nulla
di buono per le masse in un mondo dominato dall’imperialismo e dal nazionalismo.
Le avanguardie operaie in particolare sanno distinguere gli interessi dei lavoratori
serbi da quelli della cricca dominante di Belgrado che opprime i lavoratori
serbi e il popolo kosovaro. E sanno, altresì, molto bene che questo popolo
può realizzare la sua aspirazione all’indipendenza solo sparando
contro la Nato i generali e le milizie speciali serbe in nome dell’unione
fraterna tra lavoratori e di una federazione socialista tra tutti i popoli balcanici.
Lo sciopero e i cortei del 13 maggio sono quindi un passo positivo e importante
perché, nella varietà di tendenze e sfumature, hanno espresso
questa consapevolezza.
Bisogna ora spingere avanti la prospettiva della lotta internazionale e la prospettiva
della lotta interna, nazionale. Bisogna progredire dalla solidarietà
operaia all’internazionalismo proletario; dal riconoscimento degli interessi
comuni tra operai alla battaglia per il potere proletario. Le forze attive del
proletariato, i giovani più combattivi, le avanguardie marxiste-leniniste,
debbono quindi ingaggiare la guerra sociale contro padronato blocco di potere
apparati di coercizione e controllo sull’obbiettivo della rivoluzione
proletaria.
6. Contro il "militarismo sanguinario" per l’"armamento
proletario"
Per condurre con successo questa guerra di classe occorre combattere adeguatamente
il militarismo sanguinario. Per questo ci vuole l’armamento del proletariato.
Nell’attuale fase l’armamento non consiste nell’equipaggiamento
in armi del proletariato come condizione militare della rivoluzione, che non
è all’ordine del giorno; bensì nell’attrezzamento
della classe dei mezzi necessari alla lotta. Sono mezzi necessari alla lotta
in questa fase: l’organizzazione autonoma operaia, la crescita del partito,
gli strumenti di supporto e di sviluppo dell’organizzazione di lotta,
gli strumenti di attacco del potere e di autodifesa dal potere. È verso
queste esigenze e in queste esigenze che debbono convergere e confluire gli
sforzi di tutte le avanguardie proletarie e di tutti i rivoluzionari marxisti-leninisti.
7. Appello alla mobilitazione proletaria
A conclusione il Comitato Centrale di Rivoluzione Comunista, allargato agli
Esecutivi di Sezione, fa appello alla gioventù operaia e studentesca,
a tutte le forze attive del proletariato, alle avanguardie proletarie e rivoluzionarie,
a mobilitarsi a battersi e a unirsi contro il militarismo sanguinario a salvaguardia
degli interessi dei lavoratori in nome della rivoluzione del potere e dell’internazionalismo
proletari.
Il Comitato Centrale fa appello in particolare ai giovani, donne e uomini, invitando
gli elementi più decisi e combattivi ad assumersi le responsabilità
politiche e organizzative che la lotta proletaria comporta.
Esso fa poi appello ai lavoratori serbi e kosovari a respingere il ruolo ad
essi assegnato dalla borghesia serba di carne da macello e a insorgere contro
l’imperialismo e i propri oppressori creando uno Stato rivoluzionario
rispettoso della parità e dei diritti reciproci.
Infine esso fa appello ai soldati di leva affinché rifiutino di portare
morte in casa altrui, respingano ogni coinvolgimento nell’invasione della
Serbia, rifiutino di svolgere compiti di polizia contro altri giovani e lavoratori
e si uniscano al fronte di lotta contro il militarismo sanguinario.
Contro il militarismo, contro il capitalismo, per la dittatura del proletariato
e il comunismo.
(*tratto dal Supplemento del 1/6/1999)
32. I primi contingenti della Nato occupano il Kosovo. L’UCK scende in
pianura dietro i carri armati degli alleati e si abbandona alla vendetta. Inizia
il controesodo dei serbi dal Kosovo. Il Sinodo della Chiesa ortodossa chiede
le dimissioni di Milosevic. Non può esserci pace, né sviluppo,
per le martoriate popolazioni balcaniche senza lotta rivoluzionaria dei lavoratori
dell’area per il potere proletario. Mobilitiamoci contro il "militarismo
sanguinario" nel solco dell’internazionalismo proletario.*
I bombardamenti crescenti hanno piegato Belgrado e il 12 giugno è scattata
l’operazione "Joint Guardian", vale a dire l’occupazione
del Kosovo da parte delle truppe Nato. I primi ad entrare sono stati i militari
inglesi, cui hanno fatto seguito le truppe americane francesi e tedesche. La
Brigata Garibaldi si è mossa nella notte tra il 12 e il 13. Le truppe
appena entrate in Kosovo assommano a 15.000 unità circa e sono il primo
contingente della forza d’occupazione prevista inizialmente in 50.000
soldati, cifra sicuramente destinata ad aumentare. L’Italia, entrata in
Kosovo coi suoi 2.000 parà da tempo addestrati nei campi macedoni e albanesi,
porterà il suo corpo d’occupazione a 6.000 soldati. L’Inghilterra
a 13.000. La Francia e gli USA a 7.000. La Germania a 8.500. La Russia, giunta
per prima all’aeroporto di Pristina con una colonna simbolica di 200 soldati
in segno di protesta per la mancata assegnazione di uno spezzone di territorio,
lo porterà a 3.000 uomini. Il Kosovo è stato suddiviso in cinque
pezzi o settori. Il settore centrale di Pristina è stato assegnato agli
inglesi. Quello di Gnjilane confinante con la Serbia agli americani. Quello
di Prizren confinante con Macedonia e Albania ai tedeschi. Quello di Mitrovica
confinante col Montenegro ai Francesi. All’Italia è stato assegnato
quello di Pec ai confini dell’Albania e Montenegro focolaio della guerriglia.
Ai russi è stato perora riconosciuto il controllo dell’aeroporto
di Pristina e sono in corso intense trattative diplomatiche per estendere la
loro area di controllo. Il comando unificato delle truppe di occupazione è
attribuito al generale inglese Jackson. Quindi con l’inizio di questa
operazione il Kosovo non esiste più come provincia serba; è un
protettorato Nato.
I guerriglieri dell’Uck, che non sono riusciti a conseguire un successo
militare neppure durante il ritiro delle milizie serbe, sono scesi in pianura
dietro i carri armati delle truppe di occupazione per andare a stabilire il
controllo civile e di polizia sulla popolazione presente nei paesi e città
distrutti. Le prime azioni dell’Uck sono le vendette, la contropulizia
etnica nei confronti della minoranza serba. Ora sono infatti i serbi a pagare
il rovesciamento di posizione. E sono essi che ora fuggono dal Kosovo, con qualsiasi
mezzo di fortuna, trascinandosi dietro le poche cose trasportabili. Quindi la
conseguenza immediata dell’occupazione del Kosovo da parte delle truppe
Nato è quella di rendere impossibile qualsiasi convivenza tra albanesi
e serbi e di generare nuovi disastri e orrori.
Ma ora sul tappeto in Jugoslavia ci sono i problemi colossali della presenza
militare degli aggressori e delle distruzioni operate dai bombardamenti. Su
questi problemi tutte le forze di potere di opposizione e di regime sono in
movimento in Serbia alla ricerca di soluzioni che salvaguardino la propria sopravvivenza
e i propri interessi sulle spalle dei lavoratori. Punito dalla perdita del Kosovo
il Sinodo della chiesa ortodossa ha invitato oggi 15 giugno il presidente della
Federazione e il governo a rassegnare le dimissioni "nell’interesse
e per la salvezza del popolo". Esso chiede un governo di salvezza nazionale
con nuovi dirigenti "accettabili alla comunità interna e internazionale"
e implora la Nato a proteggere i monasteri di Pec, Decani e Gracanica. Si è
quindi ora scatenata la rissa interna di potere al si salvi chi può.
I lavoratori jugoslavi, serbi kosovari montenegrini e di ogni altra nazionalità,
che hanno pagato e stanno pagando in prima persona l’enorme peso dell’aggressione
imperialistica e del potere della cricca dominante locale, non debbono farsi
trascinare in questa rissa a sostegno di una fazione contro l’altra, debbono
attaccarle tutte in nome dei propri interessi e degli interessi di tutti i lavoratori.
Non si esce dal groviglio dei vecchi e dei nuovi problemi creati dall’aggressione
imperialistica senza una chiara risoluta lotta di classe per il potere proletario.
La realtà di fine secolo pone solo questa alternativa ai lavoratori balcanici
e del mondo intero. Avanti dunque su questa strada. Guai ai vinti!
(*tratto dal Supplemento del 16/6/1999)
33. In Serbia le masse del popolo sono alla fame e chiedono pane e lavoro. L’opposizione
alza la testa e tenta di incanalare la protesta sociale nell’alveo del
cambio di guardia al potere &emdash; Operai, giovani, profughi della Serbia,
non fatevi rimorchiare e non accodatevi a nessun carro borghese &emdash;
Mettere all’ordine del giorno il rovesciamento del sistema capitalistico
&emdash; Fuori gli eserciti NATO e Russo dal Kosovo! Spazzare via la cricca
di governo e l’opposizione! Promuovere la federazione di tutti i lavoratori
"jugoslavi" e "balcanici"! Il potere ai lavoratori!*
Da quando sono cessati i bombardamenti crescono le proteste operaie e popolari
nei centri industriali e nelle campagne della Serbia contro il regime di Milosevic.
Le masse popolari sono a mani nude di fronte al disastro provocato dalla NATO:
senza salario, a corto di mezzi di sussistenza, prive dei mezzi per ricostruire.
I manifestanti chiedono pane e lavoro; esprimendo per ora in modo elementare
la radicalità dei loro bisogni e delle loro spinte. A questa prima fase
di protesta hanno dato un certo impulso i riservisti dell’esercito, i
quali, ritornando nei loro paesi distrutti, hanno dato vita a decise manifestazioni
di piazza per esigere il pagamento del soldo per i tre mesi di impiego in prima
linea.
La protesta sociale investe tutta la Serbia. Via via la massa del popolo scopre
le proporzioni del disastro (materiale sociale e politico) e si rende conto
dell’opera di mistificazione compiuta dal governo per camuffarlo, si incollerisce
sempre di più nei confronti del regime. Un nuovo scenario si apre quindi
in Serbia.
Chi politicamente cerca di avvantaggiarsi della situazione è, per il
momento, l’opposizione democratica. I vari partiti dell’opposizione
si raccolgono nel cartello "Alleanza per il cambiamento". Il cartello
è ispirato dal leader del "Partito Democratico Serbo", Zoran
Djindjic, che con Vuk Draskovic (al governo dall’ottobre 1998 ad aprile
1999) capeggiò le manifestazioni anti-Milosevic dell’inverno 1996-97
(ved. suppl. 2/1/97) poi finite nel nulla per le concorrenze e le rivalità
interne alla coalizione. Il 29 giugno a Cacak, cittadina industriale della Serbia
centrale, "Alleanza" ha effettuato la prima manifestazione di piazza
chiedendo le dimissioni di Milosevic e l’indizione di nuove elezioni.
Per sbalzare Milosevic dal palazzo del potere "Alleanza" conta sul
suo servilismo filo-occidentale (Djindjjic chiede che le elezioni si svolgano
sotto il controllo Osce) e sulla condanna espressa dalla chiesa serbo-ortodossa
contro Milosevic per la perdita del Kosovo. Quindi dentro e dietro questo cartello
c’è tutto un miscuglio, demagogico e impotente, di politici affaristici
e di mercanti di schiavi.
È un’illusione che la Serbia possa ritornare un paese normale come
cianciano le varie correnti democratiche. Nel quadro dei rapporti imperialistici
e inter-statali, che si sono determinati nell’area balcanica dopo i bombardamenti
e con l’occupazione militare del Kosovo da parte delle truppe Nato e della
Russia questo è letteralmente impossibile. Né la cricca di Milosevic,
se resisterà al potere; né il cartello delle opposizioni, se avrà
l’appoggio sufficiente per sostituirsi alla cricca Milosevic; né
la combinazione di queste due ale; né qualunque altra ipotizzabile combinazione
borghese può fare ritornare la Serbia ad un paese normale. La Serbia
è stata distrutta, ridotta alla fame e mutilata territorialmente. Essa
si trova davanti a tutti i tremendi problemi di un paese devastato e dominato
militarmente. In queste condizioni di disastro e di sottomissione alle superpotenze
nemmeno fra cinquant’anni potrà ritornare un paese normale. Quindi,
come che vadano le cose sul piano internazionale, né la frazione borghese
al potere né la frazione del fronte delle opposizioni può riportare
la Serbia alla situazione esistente prima del 24 marzo 1999 e solo per ricostruirla
dovrà schiavizzare operai e contadini per la generazione presente e per
quella futura.
Come entità statale la Serbia ha subito un ridimensionamento storico
che ha le sue inevitabili conseguenze sul piano dei rapporti sociali. I lavoratori
si trovano ora sotto il dominio diretto di due padroni: a) degli eserciti di
occupazione; b) della borghesia serba. Per affrontare questa situazione ci vuole
una svolta nella posizione e nell’atteggiamento del proletariato serbo.
Lo scenario della protesta sociale, che si è aperto, deve evolvere verso
la guerra sociale e la lotta per il potere. Pertanto i lavoratori serbi debbono
evitare prima di tutto di mettersi alla coda dell’opposizione, che in
un modo o nell’altro verrà sempre a patti con Milosevic; e marciare
in piena autonomia; e in secondo luogo portare i propri attacchi crescenti al
regime avendo sempre presenti i propri interessi e l’obbiettivo del potere.
(*tratto dal Supplemento del 1/7/1999)
34. La caduta di Milosevic merito di operai e studenti. Il nuovo regime democratico
non può restare in piedi senza intensificare lo sfruttamento delle masse
lavoratrici. I compiti dei lavoratori serbi e nostri.*
Le masse popolari serbe si sono sollevate contro il regime di Milosevic. Il
neo-eletto rappresentante dell’opposizione, Kostunica, si è insediato
alla presidenza. La cricca Milosevic ha fatto un passo indietro ma senza abbandonare
i posti chiave dello Stato. Si è determinata una situazione ibrida, un
compromesso fluido: si ritira il vecchio regime ma il passaggio delle consegne
al nuovo gruppo dirigente avviene per vie tortuose. Diamo per prima un tracciato
degli avvenimenti; traiamo poi le lezioni che se ne possono ricavare.
1. I giorni decisivi
La sollevazione popolare scoppia come protesta di studenti intellettuali operai
contro la manipolazione governativa dei risultati elettorali del 24 settembre.
Tuttavia essa affonda le proprie radici nella drammatica situazione sociale
della Serbia, stremata da anni di embargo e devastata dai bombardamenti NATO.
I primi conati si hanno subito dopo le elezioni. I giorni decisivi sono quelli
che vanno dal 2 al 6 ottobre. Il moto popolare prende di mira la cricca Milosevic
perché questa impersona la responsabilità della miseria e delle
sofferenze della gente. Il moto non si limita a Belgrado. Investe l’intero
paese. E in ogni momento cruciale c’è l’intervento dirompente
della classe operaia. Questo il succedersi degli avvenimenti.
2. L’ingresso in scena degli operai e degli studenti
Il cartello dell’opposizione non era in grado di smuovere la cricca Milosevic
e senza l’intervento dei lavoratori e degli studenti esso avrebbe potuto
solo promuovere comizi. Gli studenti inscenano sin dalla fine di settembre manifestazioni
di piazza a Belgrado. Le manifestazioni sono tollerate dalla polizia e non hanno
grande incidenza. Il 2 ottobre incrociano le braccia i minatori di Kolubara
respingendo ogni mediazione del governo. Il ministro dell’interno invia
nelle miniere la polizia e per ricattare i minatori mobilita dei crumiri dal
Kosovo. I minatori non si lasciano intimidire. Ma dal vicino centro operaio
di Lazarevac accorrono migliaia di lavoratori in appoggio ai minatori. La polizia
viene sottoposta a un processo popolare di tipo psicologico. Il contingente
si disarticola. Una parte fraternizza coi dimostranti. Lo sciopero dei minatori
ha effetto contagiante. Scendono in sciopero altri lavoratori. Scioperano i
dipendenti pubblici di Nis la seconda città della Serbia per importanza.
Scioperano anche gli addetti alla sanità. I giornalisti iniziano un’agitazione
per il "rispetto della verità".
Il 3 ottobre cinquantamila studenti si rovesciano sulle strade col proposito
di attaccare la residenza di Milosevic. La polizia fronteggia i manifestanti
e questi retrocedono senza ingaggiare scontri con le forze di sicurezza. Intanto
esplodono scioperi in altre città e sale il moto di ribellione contro
la cricca governativa.
3. Il tramortimento del regime
Il 4 ottobre il regime è sfinito, senza capacità di reazione.
Non è in grado di arginare l’ondata montante di scioperi e manifestazioni.
Belgrado viene invasa dalle immondizie per lo sciopero dei netturbini e delle
manifestazioni da parte degli studenti. Le piazze sono riempite da soggetti
giovanissimi, ragazzi che vanno dai 15 ai 20 anni. La maggior parte di questi
ragazzi si muove sulle posizioni di Otpor (Resistenza), movimento degli studenti
e dei liceali, che appoggia l’opposizione. Qualcuno scrive in pieno centro
"Marx è qui, è vivo" (Marx je ovode).
La protesta popolare riceve una nuova spinta quando si apprende la notizia che
la Corte Federale ha annullato le elezioni. L’opposizione proclama una
manifestazione a Belgrado per il 5 ottobre per denunciare anche la decisione
della Corte. Lo sciopero dei minatori aveva acceso le polveri della sollevazione
generale e ora questa prende piede con la manifestazione del 5 ottobre. Nessuno
degli esponenti del cartello dell’opposizione aveva un obbiettivo specifico
per questa manifestazione. Solo Otpor, pare di concerto con Dijndijc, si propone
due azioni: raggiungere la televisione di Stato e Studio B (la TV del Comune
di Belgrado).
4. La memorabile giornata del 5 ottobre: la "spallata operaia"
Già fin dall’alba si mettono in movimento da tutta la Serbia, con
tutti i possibili mezzi, centinaia di migliaia di manifestanti in gran parte
operai. I manifestanti superano tutti i posti di blocco disseminati lungo il
loro percorso. La polizia non osa impedire il loro cammino. Un fiume umano si
riversa su Belgrado. All’una ci sono in piazza 300.000 manifestanti. Gli
operai di Cacak stazionano davanti al Parlamento. Alle 15.45 il Parlamento viene
preso d’assalto spontaneamente. Sono gli operai a farvi irruzione. La
polizia accenna una reazione con lacrimogeni. C’è qualche scontro,
ma subito dopo cede e lascia la piazza. I manifestanti diventano padroni del
Parlamento e della piazza. Danno alle fiamme le sale elettorali e trafugano
qualche oggetto.
Dopo il Parlamento viene invasa la televisione di Stato. Qui la polizia non
accenna neanche una resistenza e parteggia coi manifestanti che cominciano a
lanciare i loro messaggi. Subito dopo viene occupato Studio B. Piazze e strade
sono ora in mano ai manifestanti. Le forze armate osservano dalle caserme lo
sviluppo degli avvenimenti. La polizia si sfalda e una parte passa coi manifestanti.
In serata Kostunica proclama la "Serbia democratica". E, quando la
gente grida di attaccare la residenza di Milosevic, egli risponde che è
sbagliato; e con raffinata demagogia nazionalistica aggiunge: "È
lui il servo della NATO. È stato lui a permettere che il nostro paese
fosse circondato e invaso da truppe straniere. Che se ne vada per sempre. Noi
torneremo in Europa senza di lui".
5. I manifestanti urlano di gioia "è finito" (Gotov je)
Il 6 ottobre la gente balla e canta. A Belgrado c’è un milione
di manifestanti. Si mescolano i cori e i motivi più vari: politici, religiosi,
musicali. È un miscuglio di posizioni eterogenee. C’è chi
chiede la testa di Milosevic e critica i compromessi di Kostunica. C’è
chi spinge alla riconciliazione in nome della patria serba. C’è
chi avanza critiche al nuovo gruppo dirigente rilevando che lo scopo non era
quello di cambiare il regime ma il sistema politico. C’è chi indica
il rovesciamento del capitalismo. Non manca chi propone un ritorno alla monarchia.
Nella gioia generale i saluti vanno dai pugni chiusi alle tre dita (dio re patria).
È un’euforia ibrida in cui convivono istanze di democrazia, istanze
di socialismo, istanze di nazionalismo.
In giornata Milosevic riceve il ministro russo Antonov. Poi compare alla televisione
per congratularsi col vincitore e annunciare che si ritira per occuparsi della
famiglia e della riorganizzazione del suo partito. Da parte sua la Corte Costituzionale
assegna la vittoria delle elezioni a Kostunica; mentre il comando dell’esercito
ufficializza il proprio appoggio. Si ha così l’allineamento dei
vertici giurisdizionali e delle gerarchie militari alla posizione del vincitore.
Ci sono stati in tutto due morti e qualche centinaio di feriti. Questi gli avvenimenti
nelle loro linee principali. Passiamo ora a valutarli e a trarne gli insegnamenti
utili.
6. La celerità degli avvenimenti
La sollevazione popolare ha avuto un corso rapido e travolgente. Appena sono
scoppiati gli scioperi il quadro politico si è rapidamente modificato.
Le manifestazioni studentesche avevano lasciato solo il segno dei percorsi.
La scesa in piazza dei lavoratori ha sovvertito il quadro in quanto al loro
passaggio si è dissolto ogni sbarramento e controllo polizieschi. Le
squadre antisommossa, mobilitate per sbarrare il passo agli scioperanti che
si dirigevano a Belgrado, non hanno retto alla loro impetuosità e risolutezza
e si sono defilate. Quindi il regime si è visto battuto prima ancora
che i manifestanti giungessero a Belgrado e occupassero il Parlamento.
Nessuna diplomazia e nessun gruppo di osservatori esterni ha previsto gli avvenimenti.
E si trovano tutti spiazzati in quanto nessuno aveva messo in conto l’intervento
della classe operaia. Ora, a turno, russi americani europei brindano alla vittoria
di Kostunica, facendo il proverbiale buon viso a cattivo gioco, ma hanno tutti
il problema di come rapportarsi col nuovo regime. Da parte sua Kostunica, dichiarando
che la Serbia non ha bisogno né di Mosca né di Washington, ha
reso questo approccio più problematico colle maggiori diplomazie del
passato. È sempre così quando entra in gioco la classe operaia:
le carte politiche si rimescolano tutte.
7. Le cause della caduta del regime
La gente è esplosa di gioia all’annuncio di Milosevic di ritirarsi
dalla scena politica in quanto vedeva in lui la fonte di tutti i mali interni
e delle umiliazioni nazionali. Al di là di questa personalizzazione dei
mali, il fatto è che la gente in Serbia è ridotta alla fame; il
paese è semidistrutto e pieno di profughi che non può sfamare.
Per cui, considerando le cause della caduta di Milosevic, non si può
prescindere da questo quadro. Con questa premessa enunciamo le singole cause.
A) La prima causa è di ordine sociale. Le masse lavoratrici e gli studenti
non ne potevano più della cricca di Milosevic e aspiravano a un cambiamento
radicale. La spallata operaia è stata decisiva nell’allontanamento
di Milosevic dalla scena politica in quanto, senza questa spallata, la crisi
del regime si sarebbe prolungata a lungo, non avendo Milosevic alcuna intenzione
di lasciare volontariamente il potere ed essendo d’altra parte l’opposizione
troppo debole. Quindi la fine del regime sta nello scossone dato dalla classe
operaia.
B) La seconda causa è di ordine economico. I bombardamenti della NATO
hanno devastato l’economia serba, già esausta. La borghesia serba
non ha i mezzi né per ricostruire né per inserirsi nel flusso
degli affari europei in cui sono trascinati i propri vicini. Essa corre un grave
rischio di emarginazione e di soffocamento. Ed è costretta a bussare
alle porte degli europei per attingere capitali e risollevarsi. La cricca di
Milosevic, col suo sistema di relazioni finanziariamente impotenti e di copertura
(Russia, Cina), avrebbe invece prolungato l’agonia. Di qui la sostituzione
del regime con la coalizione capeggiata da Kostunica. Quindi il cambio di regime
sta in secondo luogo nella necessità di sopravvivenza economica di tutte
le cricche borghesi (da qui i compromessi tra vecchio e nuovo personale) e nella
ricerca di nuovi padroni.
C) La terza causa è di ordine nazionale. E questa causa risiede nella
perdita del Kosovo. Non è stata la mancata realizzazione della Grande
Serbia ma la perdita del Kosovo, terra cui i serbi sono legati visceralmente,
che ha scosso i sentimenti nazionali dei serbi e ha fatto venire meno alla cricca
di Milosevic uno dei pilastri su cui aveva costruito la sua fortuna politica.
Kostunica ha raccolto suffragi perché ha criticato Milosevic su questo
argomento e perché ha rivendicato al cospetto della NATO l’integrità
territoriale della repubblica. Quindi la caduta del regime è legata in
terzo luogo all’autogol nazionalistico.
D) La quarta causa è di ordine politico-statuale e risiede nell’abbandono
del regime da parte dell’esercito e delle forze di polizia. Il comando
dell’esercito e la polizia hanno scaricato Milosevic perché si
erano resi conto che questi non aveva più appoggi e che non potevano
rischiare la propria carriera con una repressione sanguinaria e perdente. Quindi
la quarta causa della caduta del regime sta nello spostamento calcolato di quegli
apparati di sicurezza che ne avevano costituito il fattore di stabilità.
Queste le cause principali della caduta del regime per noi che guardiamo gli
avvenimenti dall’esterno.
8. Che lezioni trarre
La prima lezione da trarre è che il proletariato serbo esce da un lungo
periodo di subordinazione statale ed entra in una fase di autonomizzazione sociale
e politica. La sollevazione popolare è stata l’effetto congiunto
di spinte sociali diverse. Ed ha espresso il proposito delle varie classi sociali
e frazioni di classe di migliorare la propria esistenza e contare di più.
Il proletariato ha posto il problema delle sue insostenibili condizioni di vita.
I vari gruppi borghesi quello di uscire dalla paralisi e trovare nuovi sbocchi.
Gli studenti quello della modernizzazione del paese. Quindi tutti i problemi
di vita e di sviluppo del popolo serbo, riferiti alla sua specifica configurazione
sociale, sono posti sul tappeto.
La seconda lezione da trarre è che la sollevazione popolare serba si
inserisce nella catena dei sommovimenti balcanici, cioè dei moti e insurrezioni
popolari sorrette dal proletariato che hanno infiammato negli anni novanta l’area
mediterranea balcanica centro-asiatica; e che hanno posto e pongono la questione
del potere proletario. La marcia di massa su Belgrado ha diversi tratti comuni
con l’insurrezione albanese della primavera 1997 anche se si è
conclusa pacificamente per il diverso atteggiamento dei reparti di sicurezza.
Quindi quest’area, teatro di feroci guerre tra Stati, può essere
trasformata in tempi non lunghi in area di guerra tra classi.
La terza lezione da trarre è che il proletariato serbo, con la sua mobilitazione
di massa e la ferma volontà di disfarsi della cricca Milosevic, ha assunto
un atteggiamento protagonistico che si porrà come livello iniziale nei
prossimi scontri sociali. Quindi c’è da aspettarsi azioni più
avanzate e più vicine con la prospettiva di potere.
9. Compiti
A conclusione sintetizziamo i compiti più specifici che si pongono nella
situazione che si è venuta a determinare.
A) Nei nuovi equilibri locali e internazionali in essere i lavoratori serbi
costituiscono la massa mobile di impresari interni ed esterni il cui obbiettivo
è quello di impiegarli a condizioni di supersfruttamento. L’imprenditoria
italo-tedesca vuole europeizzare i Balcani (cioè annetterseli) col "Patto
di stabilità", la ricostruzione dei ponti sul Danubio, la costruzione
dei nuovi assi di comunicazione. Per cui cercherà per prima cosa di sottomettere
la manodopera locale alle proprie imprese. Quindi il compito dei proletari serbi
e balcanici e per quanto ci compete il nostro è quello di agire contro
questi equilibri, attaccare la borghesia locale e la borghesia imperialistica,
salvaguardare l’autonomia di classe sul piano professionale e su quello
politico, sviluppare la guerra sociale.
B) Quella parte di giovanissimi studenti, che aspirava e aspira non al semplice
cambiamento del regime ma al cambiamento del sistema politico, deve fare i conti
con la struttura capitalistica della società, con la sua divisione in
classi, con la natura oppressiva del potere, col quadro dei rapporti statuali
locali e mondiali; e deve schierarsi senza alcuna riserva a favore dei lavoratori
e assumere come bussola il marxismo rivoluzionario.
C) Abbiamo, pur nel quadro della crescente militarizzazione imperialistica dei
Balcani, qualche carta in più per estendere i collegamenti internazionali
tra marxisti rivoluzionari e tra forze attive del proletariato. Operiamo quindi
con fiducia e lungimiranza a realizzare collegamenti stabili e rapporti di cooperazione
progressivi tra le avanguardie italiane e serbe esistenti e con quelle che si
formeranno.
(*tratto dai Supplementi del 16/10 e 1/11/2000)
Parte quinta
L’INCENDIO IN MACEDONIA
35. La Macedonia nel vortice della guerra intestina. Monta la tensione nei Balcani
del Sud. Roma e occidentali preparano il primo intervento. Contro l’italo-imperialismo,
NATO e U.E. Abbasso le chimere etniche. Attaccare le cricche locali. Per l’unità
di tutti i lavoratori di qualunque nazionalità e credo.
Abbiamo chiuso l’analisi dell’aggressione Nato alla mini-Jugoslavia
scrivendo che questa aggressione portava all’espansione delle potenze
occidentali nell’area balcanica caucasica e centro-asiatica, a nuovi smembramenti
e conflitti locali, all’acutizzazione dei contrasti imperialistici. Quanto
sta ora avvenendo in Macedonia è il primo capitolo di questo nuovo scenario
di sviluppo. Riassumiamo gli avvenimenti.
L’inizio delle operazioni militari e dei combattimenti tra Uck-Nla e truppe
governative
Dopo una fase preparatoria, dal 10 al 20 marzo 2001 l’esercito di liberazione
degli albanesi di Macedonia (Uck-Nla), di derivazione Kosovara, lancia una serie
di appelli alla popolazione albanese (circa 600.000 persone sui 2.000.000 della
Macedonia, concentrate tra il Kosovo e l’Albania), esortandola a disertare
le forze armate e la polizia e a mobilitarsi contro Skopje. Dalla montagna Shar
Planina, che domina Tetovo la città sede dell’unica università
albanese di Macedonia con 10.000 allievi, dove esso è asserragliato tiene
sotto bersaglio la zona fino alla periferia di Tetovo il cui stadio viene raggiunto
da una granata. Non si conosce la consistenza dell’Uck-Nla. Si stima che
esso possa mobilitare dai 1.000 ai 5.000 guerriglieri. Il 20 marzo scatta la
reazione armata del governo. Partono le prime cannonate verso i villaggi della
montagna. Un comunicato ministeriale annuncia: "È cominciata l’offensiva
contro gli estremisti terroristi albanesi, l’esercito con le sue artiglierie
si è unito alla polizia". L’offensiva si sviluppa alternando
a massicci bombardamenti azioni di rastrellamento. Dopo i bombardamenti su Kumanovo,
Selce, Lavce, Drenovac, Germo, iniziano i rastrellamenti della montagna. Il
23 da Pristina Rugova, Thaci e Haradinaj fanno appello ai guerriglieri a deporre
le armi e a ritornare a casa. Il presidente macedone Trajkosvki, avverte: "non
vogliamo trattare coi terroristi". Gli scontri a fuoco più intensi
si svolgono all’imbocco dei boschi nei pressi della fortezza di Qale piena
di nascondigli sotterranei. Il 25 le truppe impiegano alcuni elicotteri acquistati
in Ucraina. E il 26 riescono a prendere il controllo della situazione, anche
perché i guerriglieri non ingaggiano combattimenti frontali e si ritirano.
Le perdite non sono tante, dall’una e dall’altra parte. La conseguenza
più grave è l’esodo dai villaggi teatro delle operazioni.
Trentamila profughi lasciano le loro case scappando in Kosovo in Albania e in
altri luoghi.
Il governo di unità nazionale entrato subito in crisi
Prima della mobilitazione congiunta dell’esercito e della polizia contro
l’Uck-Nla si costituisce, sotto la pressione delle potenze occidentali,
un governo di unità nazionale con la partecipazione di tutte le rappresentanze
parlamentari albanesi allo scopo di impedire l’estendersi del conflitto
interetnico. Entrano così a far parte del nuovo gabinetto, accanto al
partito di destra (VMRO) e al partito democratico albanese (PDA) al governo
dal 1998, il partito socialista e il partito del progresso (PDP). Quest’ultimo,
però, nel giorno più intenso dei combattimenti, il 25, si ritira
dal governo, attestando l’asprezza dei contrasti nei rapporti tra le due
nazionalità. Gli intellettuali borghesi albanesi di Macedonia lamentano
di essere discriminati dal potere; accusano i partiti albanesi di stare al parlamento
per i loro interessi senza fare nulla per gli albanesi (il Pda si limita a chiedere
un potere di veto a favore delle minoranze e qualche forma di autonomia); e
rivendicano la federalizzazione dello Stato col pieno riconoscimento agli albanesi
dei diritti attribuiti ai macedoni. Quindi la crisi politica macedone sta giungendo
a un punto di non ritorno e il rischio, come paventa lo scrittore Tomovski,
è una carneficina superiore allo scannamento bosniaco perché nella
zona nord-occidentale convivono albanesi slavi rom macedoni musulmani valacchi
romeni turchi greci serbi bulgari.
L’Uck-Nla estende il teatro delle operazioni militari
Dopo la ritirata di fine marzo con l’inizio di aprile l’Uck riprende
la guerriglia su larga scala. Il 2 riacquista le posizioni sulle colline intorno
a Tetovo e ingaggia scontri a fuoco contro le truppe governative. Il 28 nel
villaggio di Vojce attacca i lupi (le forze speciali macedoni) durante una perlustrazione
e fa otto morti e altrettanti feriti. Il fronte delle operazioni si estende
dalle colline di Tetovo a Kumanovo per 100 Km circa. Qui l’Uck occupa
ai primi di maggio tre grossi villaggi e colpisce militari e poliziotti. Il
4 scatta una nuova offensiva macedone. Il capo del governo Georgevski invita
la popolazione dei villaggi ad abbandonare le case e dà il via ai bombardamenti.
La tattica militare del comando è quella di procedere a massicci bombardamenti,
anche con l’impiego di elicotteri, e di passare poi ai rastrellamenti.
Le bombe mietono solo vittime tra i civili e creano solo cumuli di macerie.
Georgevski vuole proclamare lo stato di guerra su tutto il territorio nazionale.
Ma è bloccato dal presidente Trajkovski, cui i plenipotenziari Nato e
U.E., Robertson e Solana, proibiscono di allargare il conflitto. In un’apposita
riunione il 7 maggio i due predetti plenipotenziari impongono infatti al governo
macedone di proporzionare la risposta militare e di adottare qualche riforma
a favore degli albanesi. Il conflitto prosegue quindi a bassa intensità.
A metà maggio i villaggi investiti dagli scontri sono più di venti.
Il governo avvisa che ci sarà l’offensiva finale; lancia un nuovo
appello alla popolazione a lasciare le case e dà un ultimatum all’Uck
di consegnare le armi. Il 24 Ostreuni, comandante Uck, ironizza il governo affermando
che questo non ha "la forza né la capacità di batterci"
e che i guerriglieri sono preparati "per resistere a lungo". I bombardamenti
continuano a fare vittime civili; mentre i setacciamenti non portano a nulla.
L’Uck avverte che, se non cesseranno i bombardamenti sui villaggi, verrà
attaccata la capitale. Il 5 giugno, in un’altra imboscata vicino Tetovo,
vengono uccisi cinque perlustratori. Il 7 l’Uck, che controlla la diga
sul lago Lipkovo, per ritorsione al blocco di un convoglio umanitario di 26
autocarri carichi di viveri fermo da 40 giorni, taglia l’acqua alla cittadina
di Kumanovo (100.000 abitanti con forte presenza di albanesi). E nei giorni
successivi si impossessa di Aracinovo villaggio a 9 Km da Skopje. L’assetamento
di Kumanovo e l’allargamento della guerriglia spingono il governo a cercare
un compromesso e ad aprire trattative politiche. Il 14 l’acqua ritorna
nei rubinetti. E si apre quindi un momento di tregua anche se la polizia tiene
bloccato il convoglio che avrebbe dovuto liberare in cambio.
Scontri e tregue
La ripresa delle operazioni di guerriglia da parte dell’Uck, dopo la ritirata
di marzo, è dipesa dal naufragio delle trattative avviate tra movimenti
albanesi e forze politiche macedoni sulla riorganizzazione dello Stato. Perciò
momenti di scontro e momenti di tregua si susseguono e si intrecciano come espressioni
particolari del medesimo conflitto. Il 14 giugno l’Uck presenta il seguente
elenco di richieste firmato da Alì Ahmeti: 1º) cessazione delle
ostilità da parte dell’esercito; 2º) riforme costituzionali
a tutela delle popolazioni albanesi; 3º) amnistia generale ai miliziani;
4º) accordo di smilitarizzazione; 5º) intervento Nato sul territorio
macedone a garanzia di una pace duratura. I guerriglieri chiedono anche posti
nella polizia e nell’esercito. Il governo macedone, dal canto suo, è
disposto solo a concedere un’amnistia parziale in cambio di una resa immediata
e incondizionata. Nei negoziati esso rifiuta di garantire agli albanesi lo status
di lingua ufficiale (bilinguismo) e quello di popolazione costitutiva della
Macedonia anziché di semplice minoranza etnica. E boccia la proposta
del partito democratico degli albanesi il quale chiede che si istituisca una
vice-presidenza esecutiva con diritto di veto affidata a un albanese. Trajkovski
lamenta che Pdp e Dpa chiedono "in pratica la creazione di una Federazione
che faccia della Macedonia uno Stato binazionale. Posso solo concludere che
non intendono lealmente proseguire con il processo di pace". Quindi tra
le due posizioni i contrasti sono inconciliabili e la parola ritorna alle armi
che, peraltro, non sono state del tutto silenti.
Le cause del conflitto in corso
I rapporti tra albanesi e macedoni si sono plasmati, come è tipico dell’area
balcanica e non solo di questa, sulla base del predominio della nazionalità
dominante. La Costituzione macedone dice nel preambolo che la "Macedonia
è lo Stato dei macedoni". Gli albanesi di Macedonia figurano come
minoranza etnica. Restano in posizione subalterna nell’ambito statuale
e sono notevolmente discriminati sul piano amministrativo. Esistono quindi tra
le due popolazioni attriti e conflitti di nazionalità.
Dopo la formazione della repubblica ex iugoslava di Macedonia (17/9/1991) la
convivenza tra albanesi e macedoni è stata possibile in quanto tra i
clan borghesi delle due nazionalità si è determinato un compromesso
sociale sorretto dai traffici illeciti (contrabbando con la Serbia-Montenegro,
narco-traffico, ecc.) e dagli aiuti umanitari di USA e U.E. Il tessuto tessile-agricolo
dell’economia locale, benché in continua decadenza, frena la crescita
della disoccupazione. Con la seconda metà del 1999 cambia il quadro della
situazione. Vengono tagliati gli aiuti. Viene introdotta l’IVA, che asfissia
il piccolo commercio, le imprese produttive e i consumatori. Con la caduta di
Milosevic cessa l’embargo e la Serbia ricade sotto l’influenza occidentale.
Questi fatti fanno venir meno i rapporti di convivenza economica tra i due clan.
Sul piano politico l’UCK Kosovaro si rende conto che l’indipendenza
non è alla portata di mano e che per conservare il controllo dei valichi
e dei traffici deve allargare la sua influenza territoriale. Esso soffia sull’irredentismo
albanese in nome della grande Albania. Così ai confini tra Serbia e Kosovo
entra in azione l’esercito di liberazione di Presevo Medvedja Bujanovac
(Ucpmb), le tre municipalità a sud della Serbia di popolazione albanese.
Mentre nella Macedonia del Nord appare l’Uck-Nla con la sua ubbia "dove
c’è un solo albanese, là è Albania". Quindi
tra i due clan finisce la convivenza ed esplode il conflitto nazionale.
Le pressioni Nato e U.E. su Skopje
Le potenze occidentali, che si sono militarmente inserite nell’area facendo
leva sui conflitti locali, favoriscono l’armamento dell’Uck e le
sue incursioni e fanno pressioni sul governo di Skopje affinché accetti
alcune rivendicazioni della minoranza albanese. Il 23 e il 24 maggio il portavoce
politico dell’Uck, Ahmeti, si incontra coi presidenti dei partiti macedoni
e albanesi sotto la mediazione dell’ex diplomatico statunitense Robert
Frowick. Al termine dell’incontro viene firmato un documento col quale
si riconosce che una volta esaudite le richieste della comunità albanese
le unità combattenti si scioglieranno. L’accordo viene sconfessato
da Nato e UE. E ripartono gli scontri armati.
Il governo di unità nazionale, canzonato dalla gente come governo di
obbligo internazionale, cessa di esistere come tale il 18 giugno, allorquando
Skopje chiede ufficialmente alla Nato una forza di interposizione contro i guerriglieri,
considerando questa forza non solo desiderabile ma necessaria. L’Uck non
è contrario, condivide l’intervento Nato come forza protettrice
in quanto questo intervento verrebbe a suggellare il loro controllo territoriale
lungo il confine kosovaro-macedone. Hoxha dichiara di essere pronto a firmare
un accordo come in Kosovo. Il Consiglio Atlantico predispone l’intervento.
Roma dichiara la sua disponibilità e si impegna a fornire un quarto circa
della forza di intervento, programmata in 3.000 militari. Londra è molto
esplicita sulla spartizione territoriale. Il Financial Times istruisce: "dove
gli albanesi avessero già diviso delle aree dal resto del Paese la forza
internazionale dovrebbe controllare che i confini vengano rispettati".
Il 22, dopo 10 giorni di tregua e trattative, l’esercito macedone comincia
a martellare all’alba Aracinovo nell’intento di ricacciare indietro
l’Uck e indurre gli albanesi a mitigare le proprie richieste. I partiti
albanesi rifiutano di tornare al tavolo delle trattative finché durano
gli attacchi. Aracinovo diviene il teatro della prima vera e propria battaglia
aperta tra Uck ed esercito macedone. Per tre giorni consecutivi il villaggio
viene cannoneggiato da armi pesanti senza che l’esercito macedone riesca
tuttavia a espugnarlo. Solana, che trascorre il 24 in continui colloqui coi
dirigenti locali, lasciando Skopje sbotta: "credo che il governo macedone
si sia reso conto che è stato un errore agire militarmente, che non può
ottenere niente sul piano militare e che l’unica soluzione è un
cessate il fuoco esteso a tutto il paese". Nello stesso giorno si svolgono
trattative per il cessate il fuoco. I dirigenti macedoni respingono qualsiasi
modifica costituzionale in senso federale e non vanno oltre alcune modifiche
riguardanti lingua e scuola. L’U.E. impone a Skopje la cessazione dei
bombardamenti minacciando di bloccare ogni aiuto. Il 25 pomeriggio i guerriglieri
(un centinaio circa) lasciano Aracinovo scortati dai blindati della Kfor e si
ritirano verso Lipkovo.
L’assalto al parlamento da parte dei riservisti e dei nazionalisti macedoni
In serata la folla assalta il parlamento in segno di protesta per l’evacuazione
concordata dei guerriglieri da Aracinovo. I primi a giungere in piazza sono
i profughi del villaggio, saccheggiato e in rovina, pieni di collera per l’esito
dello scontro. L’assalto viene capeggiato dai riservisti della polizia
e dai nazionalisti più fanatici, sostenuti dal ministero dell’interno
che aveva distribuito armi ai civili da un paio di settimane. Non ci sono forze
dell’ordine ad affrontare il tumulto. Trajkoski fugge. I manifestanti
attaccano Solana e la Kfor e rimangono padroni della piazza. Il tumulto segna
la profonda spaccatura tra le due nazionalità e la voglia isterica di
repulisti.
Robertson da Bruxelles elogia l’evacuazione dicendo che l’operazione
è stata concordata con Skopje e che essa è stata portata a termine
con professionalità scampando il pericolo per l’aeroporto e per
altre infrastrutture vitali. Da parte sua l’Uck ha intimato un ultimatum
al governo macedone: "o fermate gli attacchi o colpiremo nella capitale".
Il conflitto ha raggiunto un punto di non ritorno e va verso uno sviluppo bosniaco
elevato al quadrato. Esso ha fatto finora 100.000 sfollati, mentre altre decine
di migliaia di persone si trovano costrette sulle colline in condizioni disastrose.
Ci sono stati centinaia di morti e migliaia di feriti anche se non circolano
dati ufficiali al riguardo. A Tetovo e a Skopje si vive ormai al chi va là.
Aggredire e difendersi diventa la prima ragione fisica senza discernimento di
obbiettivi e prospettive. I servizi segreti stanno conducendo una sporca guerra
al sud ove sono scomparsi decine di esponenti albanesi. Da quanto sta avvenendo
si vedono quindi chiari i segni di un nuovo sanguinoso capitolo della vicenda
balcanica.
Il 29 giugno la Nato ha disposto l’invio della forza di intervento col
compito ufficializzato di "raccogliere e distruggere le armi dei separatisti".
Per poter raccogliere armi occorre che queste vengano consegnate spontaneamente.
Ma chi le consegna spontaneamente lo fa solo per una contropartita. E poi anche
se le armi tacciono chi può ricostituire il clima di convivenza a Skopje,
Tetovo, Kumanovo, in tutta la Macedonia? Tutte le cause che hanno determinato
l’incendio sono in sviluppo. Quindi la forza di intervento non può
avere altro effetto che quello di accelerare questo sviluppo.
Qui terminiamo cronologicamente l’esame degli avvenimenti e passiamo alle
considerazioni conclusive e operative.
Contro l’imperialismo lo sciovinismo nazionale le ossessioni etniche per
l’unità di tutti i lavoratori
Tre mesi addietro, prima di essere consegnato per un pugno di dollari e di euro
al Tribunale dell’Aja (la giuria dei prepotenti del mondo) il macellaio
dei Balcani, Milosevic, in un’intervista a un nostro quotidiano ha detto:
"è in corso un’enorme manovra di destabilizzazione. I terroristi
dell’Uck vengono utilizzati dagli USA in funzione antieuropea e antibalcanica
per mantenere in permanente subbuglio l’intera area e per assicurare ampi
territori al controllo dei narcotraffici diretti dall’Uck" (Corriere
della Sera 1/4/2001). Questa visuale corrisponde alla posizione statale della
Serbia. E tutto sommato è sostanzialmente corretta dal punto di vista
degli interessi nazionali di questo paese distrutto dalle bombe Nato. Ma essa
è angusta monca e deviante per quanto concerne il proletariato, per il
quale la realtà balcanica non è solo una questione di nazionalità
di rapporti tra Stati nazionali o di rapporti tra Stati nazionali e Stati imperialistici,
ma è prima di tutto una questione di classe, di rapporti tra sfruttati
e sfruttatori. Da questo punto di vista, che è il nostro, la realtà
balcanica e la realtà macedone, di cui ci stiamo qui occupando, presenta
questi connotati e scenari.
1º) In primo luogo ciò che si è aggravata, e in modo generale,
è la condizione di esistenza di tutti i lavoratori di Macedonia, albanesi,
slavi, ecc., in quanto continua a crescere la disoccupazione (si tratta di tassi
del 40%), aumenta il caro-vita, e si sviluppa solo il mercato nero. Quindi chi
ha pagato e sta pagando lo sconquasso balcanico e l’incendio macedone
è la massa di operai contadini e studenti. La responsabilità di
questa situazione ricade prima di tutto sulla borghesia e sui gruppi di potere
locali. E poi via via sugli affaristi e sui dominatori dell’U.E. e della
Nato. Il separatismo dell’Uck, piccolo o grande albanese che si voglia,
anche se può contare sui proventi di certi traffici, non può minimamente
risolvere questa situazione. Esso agisce sulla divisione e sulla contrapposizione
nazionale tra lavoratori e facendosi scudo di loro. Per cui rispetto ai lavoratori
esso è solo fonte di massacro. L’identità etnica è
stata messa in circolazione dalle diplomazie imperialistiche per meglio spadroneggiare
in un’area ridotta a un mosaico di staterelli su base etnica in perenne
rissa tra di loro. Per secoli i popoli balcanici hanno convissuto insieme in
piena armonia. Quindi da questa situazione possono tirarsi fuori solo i lavoratori
e possono farlo solo respingendo ogni ossessione etnica e marciando uniti contro
tutti i padroni e oppressori, interni ed esterni.
2º) In secondo luogo va detto che l’incendio in Macedonia costituisce
nel riassetto nazionale balcanico la nuova trama per l’intervento militare
degli Stati confinanti. Bulgaria, Grecia, Turchia, sono tutte col fucile al
piede pronte a intervenire, direttamente o indirettamente, per spartirsi gli
avanzi delle spoglie della Macedonia. Quindi il mito della grande Albania è
il nuovo fantasma che agita tutta l’area meridionale dei Balcani e che
trascina quest’area in piena conflittualità armata.
3º) C’è da dire ancora per quanto riguarda il riassetto nazionale
balcanico che da quando la Serbia è rientrata nel patto di stabilità
si è relativizzata la posizione della Macedonia nello scacchiere balcanico.
E che questa perdita di centralità temporanea favorisce le varie forze
che spingono alla destabilizzazione e disgregazione di questo piccolo paese.
4º) Per quanto riguarda infine le potenze occidentali, europee ed atlantiche,
va detto che ognuna mira a scalzare l’altra nella spartizione dell’area
e ad acquisire la posizione migliore per la propria espansione nel Caucaso e
nell’Asia Centrale. Salve più approfondite analisi che fuoriescono
da queste considerazioni va precisato che USA e Gran Bretagna hanno appoggiato
e stanno appoggiando l’Uck nell’ottica della divisione e smembramento
della Macedonia. Più cruciale, nel senso di vitale, e più intricata
è la posizione di Italia e Germania. Roma ha in questa zona, cioè
in Macedonia, propri interessi strategici ed economici. Essa regge i fili del
costruendo oleodotto Durazzo-Burghas (il condotto 8, asse est-ovest) che passa
da Skopje e Tetovo. Berlino, da parte sua, regge i fili dell’asse di comunicazione
Centro-Europa-Salonicco che passa per lo snodo di Skopje (il condotto 10, asse
nord-sud). Entrambe sono interessate per motivi opposti e concorrenti alla sicurezza-sabotaggio
di questo snodo. Ognuna cercherà di giuocare su questo settore dello
scacchiere balcanico tutte le carte a propria disposizione: ora appoggiando
l’Uck o i macedoni; ora mettendo gli uni contro gli altri; ora gestendoli
insieme con false promesse e illusioni; e sempre nel quadro del ruolo permanente
di gendarmi. Quindi la divisione della Macedonia accentua le rivalità
imperialistiche e il loro confronto armato, indiretto e diretto.
Pertanto, e a conclusione, va sottolineato e ribadito che l’unica prospettiva
di pacificazione e di sviluppo economico-sociale dell’area balcanica è
e resta la lotta unitaria di tutti i reparti d’avanguardia del proletariato
balcanico per i propri interessi. L’unica identità dei lavoratori,
che abbia oggi un senso, è quella di appartenere alla stessa classe e
che l’obbiettivo che si pone per questa classe in ogni angolo del mondo
è il potere proletario.
Parte sesta
Le risoluzioni degli ultimi tre Congressi di Rivoluzione Comunista
I. Spazzare via il capitalismo in disintegrazione planetaria con la lotta per
il potere proletario
Il 28° Congresso di Rivoluzione Comunista, svoltosi il 3-4 ottobre 1998
a Milano, al termine del dibattito politico ha approvato la seguente risoluzione.
1°. La crisi di sovrapproduzione in "fase conflagrativa"
Il 28° Congresso, analizzando gli avvenimenti e i fenomeni di ordine finanziario
produttivo sociale politico ideologico che hanno contrassegnato il 1998 e sulla
scorta delle precedenti analisi, considera e giudica che la crisi generale di
sovrapproduzione è entrata in fase conflagrativa.
Per chiarezza esso precisa che va considerata conflagrativa la situazione storica
in cui esplodono (o vengono a maturazione) in tutta la loro intensità
le contraddizioni e i contrasti economico-sociali-politici da lungo tempo accumulati;
e fase conflagrativa il periodo di tempo in cui le esplosioni cominciano a verificarsi
susseguirsi e dispiegarsi in tutta la loro portata fino al realizzarsi di un
nuovo equilibrio, di un nuovo assetto o di una nuova situazione.
Su questa premessa il Congresso trae la conclusione teorica che un nuovo ritmo,
un ritmo sconvolgente, si inserisce e permea la logica di sviluppo di ogni contraddizione
e contrasto e che tutti gli aspetti &emdash; economico sociali politici
ideologici &emdash; di queste contraddizioni e contrasti sono presenti in
questa fase e che vi interagiscono al massimo grado.
2°. Il franamento del sistema finanziario mondiale
Il 28° Congresso, approfondendo la precedente analisi sullo sconvolgimento
finanziario, osserva che, un crollo dopo l’altro, è ora il sistema
finanziario imperialistico che incomincia a franare. In settembre le oscillazioni
di borsa toccano il massimo negativo dell’anno: P.za Affari perde il 40%
della capitalizzazione; Wall Street il 20%. E affondano le maggiori istituzioni
finanziarie e bancarie: il 23 sprofonda a New York nella perdita di 150.000
miliardi di lire la Ltcm, la regina dei fondi speculativi (corteggiata dal nostro
Ufficio Cambi scottatosi, pare, per 450 miliardi); il 28 il colosso bancario
giapponese Bclt. Quindi sono ora le giunture del sistema finanziario e bancario
a cedere.
Valutando, poi, le reazioni metropolitane al franamento finanziario e la natura
di queste reazioni, il Congresso osserva. Finché il terremoto finanziario
ha sconvolto l’est asiatico inghiottito la Russia e lambito l’America
Latina (Brasile), i governatori del mondo si sono limitati ad oleare il ricettario
del FMI: concessione di prestiti in cambio di piani di risanamento-austerità
subalterni alle metropoli. Appena lo spettro del collasso ha investito le city
sono scattate le misure estreme: la banca federale ha messo su un consorzio
di banche per tenere in piedi la Ltcm, il governo giapponese ha approntato un
piano di salvataggio del sistema bancario decotto per 750.000 miliardi. Così
i centri del sistema stanno cominciando a reagire al collasso con interventi
eccezionali. Tuttavia, se si considera la natura di questi interventi, si vede
che essi tendono all’accrescimento del debito (estensione e dilazione).
Si fondano, non sull’esistenza di liquidità o sulla creazione di
nuova liquidità, bensì sulla creazione di nuovi strumenti creditizi:
cioè su vincoli imperativi tra istituzioni e banche tesi a sorreggere
un’impalcatura mentre le sue fondamenta si assottigliano sempre di più.
Essi assomigliano così alla rischiosa fisionomia del Tesoro USA: se dovesse
arrestarsi l’afflusso di capitali verso questo paese il deficit, cui esso
è esposto, ne determinerebbe l’immediata bancarotta. Pertanto si
può affermare che è iniziato il franamento del sistema finanziario
mondiale e che ogni tentativo di salvataggio è destinato a tradursi in
un ampliamento ulteriore.
3°. Le tendenze della "crisi generale": recessione, deflazione,
depressione
Passando a considerare le tendenze di sviluppo della crisi generale il Congresso
osserva che il collasso finanziario non può limitare i propri effetti
disastrosi alle sole sfere, monetaria e creditizia; ma che esso ha un impatto
inevitabile catastrofico con la sfera produttiva. In Asia la crisi finanziaria
si è già trasformata in recessione generalizzata. E questa è,
in tendenza, la prospettiva verso cui scivolano anche UE, USA, e resto del mondo.
E non solo questa.
Ciò che, in questo quadro, comprime attualmente l’economia mondiale
è la deflazione: la riduzione dei prezzi delle materie prime e dei prodotti
manifatturieri. Conseguenza diretta dell’eccesso di capacità produttiva
accumulata e della competitività interimperialistica scatenatasi negli
anni novanta, la deflazione segna la crescente asfissia della produzione e degli
scambi. Quindi l’impatto del franamento finanziario con la deflazione
spinge l’economia mondiale non solo nel ciclo recessivo ma nello sconvolgimento
produttivo e di mercato.
E questo non è tutto. Dietro la deflazione c’è la depressione:
lo sprofondamento dell’economia reale nelle sabbie mobili della mancanza
di prospettive di ripresa (insensibilità agli stimoli e alle manovre
di rilancio). È questa, in tendenza, la direzione di sviluppo della crisi
generale. Il mondo sta andando quindi verso una disintegrazione globale. E,
in definitiva, è il franamento finanziario che fa da innesco a questo
cataclisma.
4°. Il "terremoto sociale" aspetto centrale della situazione mondiale
Passando dall’analisi delle contraddizioni economiche a quella dei contrasti
sociali il 28° Congresso sottolinea che il fenomeno fondamentale, che contrassegna
specificamente il 1998, è il terremoto sociale. Questo terremoto si concretizza
ed esprime nel sommovimento e spostamento di centinaia e centinaia di milioni
di lavoratori di senza salario di oppressi, che si scatena e si svolge in ogni
area del pianeta e dalle periferie alle metropoli. Conseguenza dello spaventoso
impoverimento delle periferie e della precarietà strutturale delle metropoli,
prodotti dalla centralizzazione finanziarizzazione parassitarismo del capitale,
il sommovimento - sociale e spaziale - delle masse rappresenta il fattore nevralgico
della situazione e il motore del suo ritmo sconvolgente. Finora sono state le
masse popolari indonesiane a rappresentarne il principale epicentro: ma è
tutto il mondo in sommovimento.
Il Congresso tiene poi a precisare, a scanso di ogni equivoco, che porre al
centro della situazione il terremoto sociale non vuol dire porre in risalto
la volontà e la maturità rivoluzionarie delle masse proletarie,
che pure crescono nel mondo rispetto all’ultimo decennio; bensì
mettere in primo piano la spinta incontenibile alla ricerca di un modo qualsiasi
di sopravvivenza, che anima la maggioranza del genere umano e che la determina
ad affrontare ostacoli e difficoltà di ogni genere. Un miliardo di disoccupati
preme sui centri industriali dei rispettivi paesi e sulle metropoli alla ricerca
di un posto di lavoro che non c’è e che se c’è si
fa sempre più difficile e precario. È una pressione che non aveva
ancora potuto raggiungere l’esplosività attuale e che l’aggravarsi
della crisi generale tenderà a radicalizzare e a mondializzare. È
questa spinta l’aspetto centrale della situazione. Pertanto il terremoto
sociale, e tutte le forme concrete in cui esso potrà manifestarsi (sollevamenti,
rivolte, proteste, scioperi, esodi, ecc.), costituisce e costituiscono la nuova
condizione di operatività per ogni movimento rivoluzionario.
5°. Il quadro mondiale sempre più retto dalla logica di potenza e
dall’intervento armato
Dando uno sguardo al quadro internazionale il 28° Congresso osserva che
l’evoluzione dei rapporti tra gli Stati si impernia sempre di più
sullo sviluppo delle contrapposizioni reciproche e sul regolamento dei contrasti
mediante l’uso della forza. La logica di potenza, che gli USA applicano
al mondo intero, viene impiegata nelle proprie aree di influenza, a piè
sospinto, da Inghilterra Francia Italia Germania (per limitarci alle potenze
del nostro continente). Nell’anno della libera convertibilità delle
monete europee (euro) la competizione tra colossi industriali e bancari, che
nel processo di fusioni-assorbimenti trova un’altra espressione, ha accelerato
le rivalità intereuropee in ogni campo: economico (politiche di sviluppo),
strategico (alleanze), militare (Balcani e Medioriente), comunitario (finanziamento
delle casse UE). E, quindi, gli undici si ritrovano unanimi solo nelle politiche
controrivoluzionarie: aggressive, antiproletarie, razzistiche, anti-immigrati.
Lo sviluppo della conflittualità armata, nell’area balcanica e
mediorientale, vede le nostre forze armate sempre più impegnate in operazioni
militari e la nostra diplomazia sempre più impelagata in doppi e tripli
giuochi segreti per accrescere l’influenza italiana nella zona. Dopo il
fallito colpo di Stato di settembre a Tirana da parte di Berisha Roma ha preteso
e imposto al governo legittimo di non sottoporre nemmeno a processo il golpista
e i suoi più diretti spalleggiatori. Come si vede a occhio nudo il nostro
imperialismo lavora ad accentuare l’instabilità dei gruppi di potere
locale, sfruttando i contrasti tra questi gruppi per meglio spadroneggiare in
Albania. Esso ostacola qualsiasi soluzione autonoma e democratica, trattando
i rappresentanti eletti dal popolo come birilli e impiegando i propri reparti
speciali di polizia per ogni incombenza controrivoluzionaria (pattugliamento
di Valona da parte della polizia italiana per impedire l’imbarco di emigranti
verso la penisola). Pertanto la crescente contrapposizione interimperialistica
spinge ogni sistema a ricercare i propri sbocchi con tutti i mezzi possibili;
e il nostro ad accelerare la propria espansione verso Sud ed Est e ad assumere
ruoli di gendarmeria sempre più squallidi sia all’esterno che all’interno.
6°. Il collasso del sistema politico e la "militarizzazione sanguinaria"
come metodologia di potere
Venendo all’esame della situazione interna il 28° Congresso, approfondendo
l’analisi sul carattere dissolutivo della crisi politica, rileva e considera.
Innanzitutto che, con la dilacerazione dell’Ulivo, collassa definitivamente
il sistema maggioritario. E che, con questo collasso, l’intero sistema
politico, costituzional-parlamentare, si disarticola in risse affaristiche e
personalistiche. In secondo luogo che, dietro il sipario delle nuove coalizioni
di governo sempre più raccogliticce, si consolida ed estende il militarismo
sanguinario.
A quest’ultimo riguardo il Congresso chiarifica che l’impiego da
parte dello Stato degli apparati di controllo e coercizione è diventato
un fatto sistematico in ogni campo e in ogni situazione: contro i popoli più
deboli, contro gli immigrati, contro i lavoratori, contro gli studenti. E che,
di conseguenza, il militarismo sanguinario è diventato la nuova effettiva
metodologia di potere.
Pertanto va preso atto e scontato senza incertezze che, qualunque sia la composizione
della coalizione governativa, la metodologia di potere rimane invariabilmente
una sola: l’uso sistematico della violenza armata controrivoluzionaria
da parte delle autorità statali a favore del blocco dominante. E che
di conseguenza va ingaggiata una lotta senza quartiere contro questo blocco,
il suo personale politico-burocratico e i suoi apparati di forza, e con tutti
i mezzi possibili.
7°. La linea mobilitativa e il ruolo della gioventù
Passando infine all’esame dell’attività e alla verifica della
linea del partito il Congresso, innanzitutto, riconosce l’impegno quotidiano
profuso dall’organizzazione, dal quadro militante e dai simpatizzanti
attivi, nella costruzione dell’organizzazione di massa e di quella politica
delle forze attive del proletariato, all’unione delle forze attive giovanili,
nelle campagne contro la razzia del lavoro e per il salario minimo garantito
di £ 1.500.000 mensili intassabili, in quelle contro la gratuitificazione
della donna a difesa della dignità e dell’esistenza dei lavoratori
disoccupati e immigrati compresi. In secondo luogo riscontra che la linea mobilitativa,
adottata e praticata nelle condizioni possibili dall’organizzazione, risponde
alla situazione nella sua dinamica di sviluppo, internazionale ed interna. In
particolare riscontra che la linea mobilitativa corrisponde tanto al quadro
evolutivo generale, quanto al precipitare della crisi di sovrapproduzione e
al terremoto sociale. E quindi ne conferma la validità e ne raccomanda
una crescente applicazione e sviluppo.
Il Congresso analizza poi il comportamento giovanile alla luce dell’attività
pratica compiuta dall’organizzazione e conferma il proprio giudizio sulla
crescente partecipazione della gioventù alla lotta pratica. Conseguentemente
esso pone e lancia le forze attive della gioventù come sbarramento nei
confronti dei collassi catastrofici del sistema; fiducioso che esse sapranno
tenere testa ai disastri del capitalismo di putrefazione.
8°. Indicazioni e prospettive
A conclusione delle analisi sui fenomeni della fase conflagrativa della crisi
generale sull’attività e sulla linea del partito il Congresso prende
le seguenti decisioni.
A) Adotta la parola d’ordine modificata nel corso del dibattito "Il
capitalismo in collasso planetario. Spazzarlo via con la rivoluzione e il potere
proletario"; sottolineando che senza rivoluzione non c’è scampo
alle catastrofi permanenti e crescenti del prolungarsi del modo di produzione
capitalistico.
B) Impegna l’organizzazione ad applicare, in modo più vasto e continuativo,
e a sviluppare, a seconda delle possibilità concrete, la linea mobilitativa;
calandola nei fronti centrali di lotta: femminile, giovanile, proletario, immigrati.
C) In particolare impegna l’organizzazione a battersi: a) contro la razzia
del lavoro in tutte le forme in cui questa viene praticata; b) contro la gratuitificazione
della donna; c) contro il militarismo sanguinario a difesa della dignità
dell’esistenza dell’autonomia dei lavoratori e dell’iniziativa
operaia; d) per il salario minimo garantito di £ 1.500.000 mensili intassabili
a favore di disoccupati sottopagati precari cassintegrati LSU lavoratori in
mobilità ecc. e contro il reddito di cittadinanza.
D) Approva e fa proprie le analisi, le conclusioni e le indicazioni dell’11ª
Conferenza Femminile svoltasi il 14 dicembre 1997. E raccomanda al comparto
femminile di promuovere una campagna contro l’irregimentazione-militarizzazione
del sesso per un rapporto paritario e un’autentica pratica amorosa tra
i sessi.
E) Impegna l’organizzazione ad accrescere i propri sforzi per stabilire
concreti collegamenti internazionali con i vari movimenti di lotta proletari
e le avanguardie rivoluzionarie che operano nel solco dell’internazionalismo.
F) Infine incarica il nuovo Comitato Centrale a elaborare una piattaforma politica
a difesa della gioventù e di mobilitazione contro il blocco di potere.
Milano 4 ottobre 1998
Il 28° Congresso
di Rivoluzione Comunista
II. Contro il militarismo sanguinario per l’armamento proletario
Nei giorni 2-3 ottobre 1999 si è svolto a Milano il 29º Congresso
di Rivoluzione Comunista, il quale ha adottato la seguente parola d’ordine:
"Contro il militarismo sanguinario per l’armamento proletario".
E, al termine del dibattito politico sulla situazione internazionale interna
e sull’attività del partito, ha approvato la seguente risoluzione
finale.
1º. Le tendenze economico-finanziarie della "crisi generale"
Il Congresso inizia l’esame della situazione partendo dall’andamento
dell’economia mondiale ed osserva.
L’ascesa nel corso del 1999 della borsa americana (l’indice Dow
Jones ha toccato in agosto la punta di 11.326 punti) e, con questa, quella delle
borse europee e giapponese non significa che il terremoto finanziario, che ha
fatto tremare il sistema dal luglio 1997 a tutto il 1998, sia alle spalle e
che l’economia volga al bello. Al contrario. L’andamento dell’economia
non sta invertendo direzione di marcia. Essa si muove tutta e si riproduce nel
quadro della crisi generale.
Dopo i collassi delle economie asiatiche e dell’economia russa, è
precipitata l’economia e la finanza di tutta l’America Latina (Argentina,
Brasile, Venezuela, Colombia, Equador). Solo l’economia messicana si sta
reggendo in piedi ma grazie alla falcidia dei salari. Il Giappone, nonostante
i pacchetti pubblici di stimolo all’economia (750.000 miliardi al sistema
bancario; 600.000 miliardi di crediti al consumo) ha visto solo risalire di
qualche punto il PIL. L’economia ristagna, il debito pubblico si gonfia,
la disoccupazione aumenta. L’Italia, che ha esperimentato per prima i
sostegni moderni all’economia (rottamazione), vive le stesse vicissitudini
economiche. La produzione industriale registra ritmi recessivi e, nonostante
il governo parli a ruota libera di formidabile ripresa, i dati sulla produzione
denotano toni bassi. L’economia degli Stati Uniti, che sembra strabiliare
il mondo coi suoi nove anni continui di incremento produttivo, si muove tutta
nella crisi generale di sovrapproduzione e nella fase conflagrativa di questa
crisi generale. Questa economia di carta poggia su una voragine di debiti. Essa
trae stimoli dall’indebitamento e dalla spesa interna per consumi, finanziati
in gran parte dal Giappone e, in forza dei ricatti economici e militari, dagli
stessi paesi arretrati e superindustrializzati. Nel terzo trimestre di quest’anno
il deficit corrente (l’indebitamento privato non statale) ha toccato la
cifra di 80 miliardi di dollari, pari al 3,68% del PIL. Il che significa che
il deficit di un trimestre azzera l’aumento del PIL dell’intero
1999. Siccome a nessuna potenza o superpotenza è consentito vivere a
lungo al di sopra dei propri mezzi si può dire già fin d’ora
che il prossimo mistero svelato dal miracolo economico sarà quello di
un big-bang finanziario.
Quindi l’andamento economico mondiale procede, a parte alcuni sviluppi
congiunturali, su linee di tendenza deflattiva e depressiva.
2º. L’euforia cicalesca di Wall Street e delle borse europee e giapponese
e il mito della "nuova economia"
L’ascesa dei titoli azionari, in particolare dei titoli cosiddetti tecnologici
simboli del capitale elettronico-informatico, ha infiammato nel corso del 1999
e sta infiammando in tutto il mondo le borse imperialistiche. Quasi metà
delle famiglie americane e anche una fetta di classe operaia si sono lanciate
nell’acquisto di azioni, anche ricorrendo a prestiti, attratte dall’attesa
di guadagni immediati. Nelle borse si è così determinato un clima
di follia e di scommessa mai viste finora. Va detto subito che questo clima
non indica affatto che col 1999 si sia superata la crisi finanziaria. Esso segna
invece un ulteriore approfondimento di questa crisi. L’ascesa dei corsi
azionari esprime l’aumento fittizio e speculativo dei titoli di borsa,
aumento legato alla dilatazione dell’indebitamento privato e al disinvestimento
di capitali nell’economia reale. I capitali liquidi disponibili, le somme
prese a prestito e gli altri mezzi creditizi del commercio di titoli, si riversano
sulle borse spinti dall’aspettativa di guadagni elevati, che in borsa
non dipendono dalla resa effettiva ma dall’attesa del realizzo immediato.
E questo porta le borse alle stelle finché il crollo dei titoli non travolge
la massa di piccoli e medi risparmiatori con un effetto espropriante mille volte
superiore a quello truffa delle piramidi albanesi.
La frenesia borsistica ha toccato un livello tale di infatuazione e di follia
che gli economisti clintoniani non solo si sono messi a pronosticare la triplicazione
dell’indice (Dow Jones e Nasdaq) entro un quinquennio; ma si sono messi
anche a teorizzare che l’economia è uscita dai cicli e dalle crisi,
che è iniziato un secolo di splendore e che viviamo in una nuova economia.
Come si vede il dio denaro ha conquistato a tal punto la mente degli intellettuali
d’impresa da renderla insana. L’economia trainata dalla borsa non
solo non libera il capitalismo dai cicli e dalle crisi, ma ne sconvolge la riproduzione
semplice ed allargata. Sconvolge ogni forma di esistenza sociale. Genera e aggrava
l’abisso delle crisi e delle disuguaglianze.
Concludendo, l’economia statunitense è tutta dentro la fase conflagrativa
della crisi generale. E così, come essa ha contenuto, col suo indebitamento
commerciale, la caduta mondiale; altrettanto essa è portata a rovesciare
sul mondo intero le conseguenze recessive del suo prossimo aggiustamento.
3º. Concentrazioni e fusioni, conseguenza e reazione della e alla crisi
generale; e motivo di predominio mondiale
Gettando lo sguardo sull’ondata di concentrazioni e fusioni, che continua
a modificare l’assetto dei colossi mondiali e a completamento dell’analisi
economica, il Congresso osserva poi.
Concentrazioni fusioni assorbimenti incorporazioni, bancarie industriali finanziarie,
sono prima di tutto una conseguenza e al contempo una reazione della e alla
crisi generale, che spinge ogni centro di accumulazione a resistere e a riadattarsi
alle mutate condizioni di sopravvivenza sviluppo competizione. Per cui la formazione
di colossi e supercolossi, di dimensioni mondiali, ubbidisce prima di tutto
a questa logica. Ma accanto a questa, e mescolata a questa, opera una seconda
logica, la corsa al predominio mondiale. Per cui la formazione di colossi e
supercolossi mondiali ubbidisce in secondo luogo a questa seconda logica. Il
balzo dei titoli finanziari legati alle nuove tecnologie sta spingendo a rapidi
spostamenti di flussi di capitale in questo settore. A base di questi spostamenti
non c’è una spinta produttiva, ma la corsa alla supremazia nel
settore. Quindi il processo di centralizzazione del capitale è diretto
in questa fase al predominio.
Il sistema Italia partecipa a questa folle concentrazione con tutte le sue risorse,
sul piano interno e su quello mondiale, e con appetiti e mire egemoniche che
superano il suo rango di quinta-sesta potenza. Tra le ultime più recenti
concentrazioni spiccano i due colossi in via di costituzione: Banca Intesa-Comit
in campo bancario; Generali-Ina in campo assicurativo. Quindi esso partecipa
a tutti i vantaggi e a tutti i rischi della corsa al predominio.
Pertanto, non andando allo sviluppo industriale, la maggiore forza finanziaria
viene utilizzata per la ripartizione del potere finanziario tra gli attuali
detentori, all’eliminazione di concorrenti e di personale, alla caccia
di nuove rendite finanziarie, al contenimento del ribasso dei prezzi (i cartelli
petroliferi sono riusciti a spuntare aumenti del petrolio a consumo calante).
Dunque ad aggravare, in definitiva, le conseguenze economiche e sociali della
crisi generale.
4º. L’occupazione atlantica del Kosovo e l’esplosione dei conflitti
nel Caucaso e nell’Asia centrale
Passando a considerare gli avvenimenti balcanici e centro asiatici il 29º
Congresso prima di tutto condanna l’aggressione imperialistica contro
la Federazione Jugoslava messa in atto dai prepotenti del mondo (Usa, Inghilterra,
Germania, Francia, Italia). In particolare condanna i terrorizzanti e devastanti
bombardamenti, che per 78 giorni (dal 24 marzo al 9 giugno) hanno distrutto
la Serbia; e, ancor di più, la successiva occupazione e spartizione del
Kosovo da parte dei briganti assassini.
In secondo luogo, valutando da un punto di vista specifico il significato dell’aggressione,
esso giudica che l’intervento atlantico in Serbia indica e significa:
a) primo che si afferma, come regola dei rapporti tra Stati, il diritto dei
più forti ad occupare casa altrui; b) secondo che l’intervento
è il risultato combinato di due diversi ordini di aggressività
e mire espansive; da un lato dell’acuta rivalità tra le potenze
europee che non ha consentito a queste potenze di contenere la presenza degli
Stati Uniti nell’area balcanica; dall’altro dei calcoli miopi delle
potenze europee, in particolare della Germania, che ritengono più vantaggioso
stare dietro la Nato per perseguire i propri interessi nell’area balcanica
e centro-asiatica; c) terzo che le mire espansive verso l’area balcanica
di Inghilterra Germania Italia Francia, per non parlare della Russia, sono tali
da riproporre i balcani come rinnovato motivo di scontro tra europei; d) quarto
che la spartizione del Kosovo è solo l’inizio di una spartizione
più vasta, l’anticamera del prossimo futuro scannamento intereuropeo.
In terzo luogo, considerando poi i rapporti tra Stati e movimenti nazionali
e questi rapporti in connessione con le mire imperialistiche, esso rileva che
nell’area balcanica e centro-asiatica soffia il vento del nazionalismo,
esplodono i separatismi (Caucaso), e sono in frenetica attività diplomatico-militare
tutte le potenze locali dell’area (Turchia, Iran, Pakistan, Cina, Russia).
Quindi nell’area centro-asiatica e in particolare nell’area balcanica
si intrecciano conflitti statuali di ogni genere e tipo: nazionali, interstatali,
imperialistici.
Pertanto l’aggressione delle potenze atlantiche ai danni della Serbia
è proiettata al dominio sul Caucaso e sull’Asia Centrale, all’ulteriore
contenimento della Russia della Cina e dell’Iran, al ricatto petrolifero.
Essa è proiettata altresì alla repressione dei popoli dell’area,
alla cancellazione della questione nazionale, a una sanguinosa subordinazione
di questa area a quella imperialistica occidentale.
5º. La dissoluzione del sistema politico e lo sviluppo del militarismo
sanguinario
Il Congresso, occupandosi poi della situazione italiana e soffermandosi in primo
luogo sulla crisi politica e sulla metodologia di potenza, osserva.
Con la crisi della maggioranza di governo, che esplode ufficialmente in giugno
partendo dall’interno del partito più grosso della coalizione cioè
dai Ds, l’intero sistema politico formatosi sotto l’egida del maggioritario
è a pezzi. Sono in frantumi tutte le espressioni parlamentari di questo
sistema. Alleanza Nazionale è una congrega di conventicole; Forza Italia
un pallone gonfiato di consorterie affaristiche e di clientele raccogliticce;
il centro ex democristiano, già frazionatosi in tre spezzoni, vive la
dilacerazione finale del suo elemento centrale (il Ppi); i Ds rotolano nella
frantumazione; la Lega è in caotico spezzettamento; Rifondazione Comunista
scivola nella sua inarrestabile disarticolazione. Quindi tutto il nuovo sistema
politico degli anni novanta è ridotto a una poltiglia. E da questa poltiglia
non possono venir fuori altre politiche che non contengano ulteriori adeguamenti
alle esigenze del capitalismo parassitario putrescente, correntemente chiamato
capitalismo selvaggio, e ulteriori spinte a una forma compiuta di autoritarismo
statale.
Nel corso del 1999 la metodologia di potere del blocco dominante parassitario,
da noi condensata nell’espressione militarismo sanguinario, ha fatto vistosi
passi in avanti. Scattato l’intervento Nato in Serbia il consiglio dei
ministri ha subito decretato lo stato di emergenza in tutto il territorio ed
ha subordinato ogni momento della vita nazionale, lo spazio terrestre ed aereo,
alle esigenze di guerra; scaricando sui lavoratori i sacrifici e i costi dell’aggressione
militare. Sfruttando l’escalation dei bombardamenti il governo ha accelerato
la politica anti-operaia (misure e sanzioni anti-sciopero), la politica anti-giovanile
(controlli e nuovi meccanismi di razzia del lavoro), la politica forcaiola di
massima sicurezza. C’è stato quindi uno sviluppo, un’estensione
e un approfondimento, del militarismo sanguinario, che sta proseguendo senza
soste. Giustamente il nostro Comitato Centrale in carica, con l’appello
alla mobilitazione del 30 maggio, ha denunciato il governo D’Alema come
propulsore del militarismo sanguinario e punto di coagulo delle ricette controrivoluzionarie,
invitando la gioventù le forze attive operaie le avanguardie rivoluzionarie
ad accelerare l’armamento proletario, cioè l’attrezzamento
dei lavoratori dei mezzi occorrenti allo scontro (l’organizzazione autonoma
operaia, lo sviluppo del partito, gli strumenti di lotta, i mezzi per l’attacco
al potere e per l’autodifesa dal potere).
Pertanto più la crisi politica marcisce nel suo processo dissolutorio
più la metodologia di potere si affida ai carabinieri.
6º. Militarizzazione e criminalizzazione sono aspetti inseparabili della
metodologia di potere
Soffermandosi in secondo luogo sui livelli raggiunti dalle politiche di controllo
e di repressione statali il Congresso considera e denuncia.
L’azienda flessibile si è estesa e consolidata nel quadro della
crescente militarizzazione del lavoro. E dalla seconda parte degli anni novanta
le cose sono arrivate al punto tale che impresa e coercizione si sono saldate
in un binomio inscindibile, costituendo un presupposto d’ordine del ciclo
del capitale elettronico-informatico. Le precettazioni continue e rabbiose dei
lavoratori dei trasporti da parte dei prefetti nel corso del 1999 esemplificano
questa realtà, attestando che la regolarità del lavoro non è
più funzione dell’impresa ma della coercizione statale. Tutto questo
significa che il modello sociale si riproduce nel suo insieme come meccanismo
marcio di coazione e sanzione del lavoro. E, quindi, che l’azienda flessibile
richiede e sconta un crescente livello di controllo e coercizione statali.
Parallelo e connesso a questo crescente livello di controllo e coercizione statali
è l’attacco alla piccola criminalità promosso dal governo
col pungolo dell’opposizione. Negli ultimi due anni, prendendo a vessillo
la frottola della sicurezza dei cittadini, l’esecutivo ha elevato la politica
di sicurezza a priorità assoluta. Nel sedicente pacchetto contro la microcriminalità,
varato dal consiglio dei ministri il 28 marzo e da noi denunciato come una taglia
contro la miseria, sono contenute una serie di misure penali e processuali contro
ladruncoli e scippatori che rigettano una fascia della gioventù in una
spirale di violenza senza sbocco. Col pretesto della sicurezza contro la piccola
criminalità si sta svolgendo nei quartieri una speciale pulizia etnica
contro disoccupati precari piccoli delinquenti e scippatori, che, senza risolvere
il problema, riempie le carceri e sposta il problema dai centri alle periferie,
ove si aggiunge come motivo ulteriore di guerra tra poveri. Il delirio di sicurezza
non scaturisce dai bisogni popolari; è una strumentalizzazione da parte
delle giunte e degli amministratori locali, della situazione di invivibilità
determinata dall’attuale modello di società. Il potere sfrutta
l’insicurezza sociale, da esso prodotta, per schiacciare le sue vittime
e innalzare i controlli di polizia. Quindi la terapia sicuritaria segue e completa
la politica di innalzamento e capillarizzazione del controllo e della repressione
statali.
Pertanto la metodologia di potere si avvita in modo sempre più stretto
nel militarismo sanguinario.
7º. L’inasprimento dello scontro sociale e il movimento proletario
Soffermandosi in terzo luogo sui rapporti tra le classi e sulla dinamica proletaria
il Congresso valuta e puntualizza.
Primo. Il terremoto sociale, come manifestazione planetaria massima della contraddizione
capitalismo/lavoro salariato, non riguarda solo il proletariato tocca anche
le altre classi. Oggi, tranne l’oligarchia finanziaria, tutte le altre
classi - proletariato, piccola e media borghesia, fasce di grossa borghesia
e sottoproletariato - vivono nel terremoto sociale. Esso importa un innalzamento
oggettivo del livello di scontro sociale in quanto la contrapposizione degli
interessi tra le classi esplode nella sua estensione e profondità. Quindi
la situazione sociale in cui ci troviamo esige un innalzamento del livello di
lotta politica sul piano interno e su quello internazionale.
Secondo. Tutte le componenti del proletariato, dagli operai agli impiegati dai
disoccupati ai precari, e la massa degli studenti sono entrate e entrano in
conflitto crescente col blocco finanziario e i suoi apparati di potere. Nel
1999 è la classe operaia che è stata al centro dello scontro sociale.
Autoferrotanvieri, ferrovieri, aeroportuali, comunali (Milano), si sono battuti
contro la elasticizzazione e la militarizzazione del lavoro, contro la riduzione
del salario e l’aumento dell’orario, contro il dispotismo aziendale
in difesa della propria dignità. Altri reparti operai sono ora in movimento.
Si registra quindi una crescita della dinamica operaia sul piano della lotta
immediata.
Terzo. Sta anche cambiando l’atteggiamento politico della classe operaia
nei confronti del governo e del potere. Una parte significativa di classe operaia
ha effettuato lo sciopero nazionale del 13 maggio contro l’aggressione
della Nato in solidarietà con gli operai serbi colpiti dai raid aerei
ed ha partecipato alle manifestazioni indette in diverse città. Questo
sciopero si può considerare come la prima azione politica operaia, di
una certa consistenza, contro il militarismo sanguinario. Tra le forze attive
della classe operaia e del proletariato c’è maggiore sensibilità
sulla esigenza dell’organizzazione autonoma di classe, sulla esigenza
dell’organizzazione politica, sullo sviluppo dell’internazionalismo
proletario. Si nota quindi qualche segno di sviluppo politico del movimento
proletario.
Quarto. Un limite che ostacola in questa fase lo sviluppo del livello della
lotta politica in campo operaio è l’operaismo professionistico,
o per meglio dire l’operaismo senza prospettiva di potere. Questo tipo
di operaismo trova attualmente la sua espressione organizzata nel sindacalismo
di base. Per superare questo limite occorre quindi superare questa forma di
organizzazione; ma prima ancora occorre abbandonare l’ottica angusta della
difesa degli interessi operai e assumere la visuale classista della difesa degli
interessi di tutto il proletariato.
In conclusione, il crescente controllo e repressione poliziesca della gioventù
e delle masse e lo sviluppo della lotta sociale e politica delle forze attive
del proletariato richiedono l’elevamento dell’azione e dell’organizzazione
di lotta, richiedono un’organizzazione di combattimento autenticamente
comunista.
8º. Bilancio e verifica della "linea mobilitativa"
Dopo aver proceduto all’esame del quadro mondiale e della situazione italiana
il 29º Congresso passa infine alla verifica della linea del partito ed
osserva.
L’organizzazione procede da due anni sulla linea dell’impegno mobilitativo
permanente partendo dalle proprie forze e promuovendo sul terreno dell’azione
l’unione delle forze attive proletarie. Il bilancio che il Congresso ne
trae è positivo anche se l’unione delle forze attive proletarie
si è realizzata episodicamente e non ha dato vita a tangibili sviluppi
organizzativi. La linea va quindi confermata intensificata estesa.
In sede di verifica il Congresso riconosce poi che gli sforzi dell’organizzazione,
nell’applicazione della linea, si sono realizzati appieno per quanto concerne
i piani di impostazione agitazione prospettazione, mentre hanno sofferto le
ristrettezze organizzative per quanto riguarda il piano dell’azione effettiva.
Questo scarto ha reso poco visibile l’organizzazione all’esterno
e questa scarsa visibilità dall’esterno è uno dei motivi
che spiega perché l’appello alla mobilitazione del 30 maggio sia
rimasto senza seguito.
Sempre in sede di verifica il Congresso riconosce inoltre che un problema politico
rimasto aperto è il rapporto con la gioventù. Le nuove generazioni
sono spinte dalle logiche del sistema a girarsi e rigirarsi nella precarietà
esistenziale senza poter vedere il principio e il fine dell’azione. Quindi
per attrarre i giovani alla lotta rivoluzionaria occorre un lavorio paziente
di contatto e di raggruppamento, che aiuti i giovani a superare il contingente,
e leghi ragazze e ragazzi al progetto rivoluzionario.
Sul piano organizzativo il Congresso riconosce infine che la linea mobilitativa,
se genera tensioni interne legate alla disponibilità militante e forti
delimitazioni esterne scaturenti dalla mancanza di lotta effettiva, attua però
una selezione politica che non nuoce ma giova alla lotta e alla sua maturazione.
Dunque è positivo che essa svolga i suoi effetti.
9º. Conclusioni operative
Al termine dell’analisi della situazione e della verifica dell’azione
del partito il 29º Congresso trae le seguenti conclusioni operative.
A - Prima di tutto esso avverte che stiamo vivendo anni cruciali e che anche
la costruzione del partito vive nella fase conflagrativa della crisi generale
del sistema. E che, quindi, accanto alla possibilità di sviluppo c’è
il rischio di distruzione.
B - In secondo luogo esso approva la parola d’ordine proposta: "Contro
il militarismo sanguinario per l’armamento proletario". E sottolinea
che la contrapposizione, insita in essa, importa che l’organizzazione
le avanguardie le forze attive del proletariato accettino il livello di scontro
posto dal terremoto sociale e si preparino a reggerlo munendosi di tutta l’attrezzatura
necessaria.
C - In terzo luogo esso chiama l’organizzazione, e tutte le forze che
si rifanno al marxismo rivoluzionario e all’internazionalismo proletario,
ad attaccare il blocco di potere da ogni luogo e posizione; tenendo fermi in
ogni azione di lotta l’obbiettivo della rivoluzione e l’obbiettivo
del potere proletario.
D - In quarto luogo esso articola le seguenti indicazioni pratiche:
a) lotta permanente contro la fabbrica flessibile a difesa della gioventù,
occupata e disoccupata o in formazione, e impegno continuo per l’organizzazione
dei giovani, ragazze e ragazzi, più avanzati e combattivi;
b) lotta senza tregua contro i meccanismi di militarizzazione e di sanzionamento
del lavoro e impegno permanente per l’organizzazione autonoma dei lavoratori,
locali e immigrati;
c) promuovere l’autodifesa e il controllo proletario nei quartieri per
contrastare i controlli di polizia, il sicuritismo forcaiolo, le ronde, e ogni
altra combriccola controrivoluzionaria;
d) promuovere l’unione della gioventù, operaia e studentesca, per
respingere il nuovo modello di istruzione e l’oscurantismo tecnologico
e battersi per una scuola a servizio delle masse;
e) battersi contro la gratuitificazione della donna e la schiavizzazione delle
extracomunitarie; no al sesso surrogato e al sesso virtuale; per la libera attività
sessuale tra donne e uomini basata sul reciproco rispetto e sulla parità
effettiva, possibili nell’immediato solo nel quadro della lotta sociale
e del movimento rivoluzionario;
f) lavorare al collegamento delle avanguardie comunista europee come punto di
partenza per lo sviluppo mondiale del movimento rivoluzionario.
Milano 2-3 ottobre 1999
Il 29º Congresso
di Rivoluzione Comunista
III. Contro il blocco parassitario per il potere proletario. Avvicinare i giovani
al partito
Il 30º Congresso, svoltosi il 25-26 novembre 2000 a Milano, adotta la parola
d’ordine "Avvicinare i giovani al Partito". E, a conclusione
del dibattito politico, approva la seguente risoluzione.
Premessa. Sulla scia delle analisi fatte nei tre congressi precedenti il 30º
parte dalla considerazione di ordine generale che tutte le manifestazioni di
vita, più dirompenti, del sistema imperialistico - economiche, finanziarie,
sociali, politiche, ideologiche, urbano-ambientali, ecc. - si ricollegano sul
piano mondiale alla fase conflagrativa della crisi generale e ne rappresentano,
al di là di ogni apparenza, un momento del suo sviluppo. Ciò premesso
esso inizia l’esame degli avvenimenti incominciando dagli sviluppi economico-finanziari
successivi all’ottobre 1999.
1º. Il rallentamento dell’economia USA e la sconvolgente altalena
dei corsi azionari
Il 30º Congresso per prima cosa getta uno sguardo sulla congiuntura mondiale,
così come si presenta nel novembre 2000, ed osserva in grande sintesi
che questa registra il rallentamento della lunga espansione statunitense, la
stagnazione dell’economia giapponese mentre si riprendono le altre economie
asiatiche, l’esaurimento della ripresina europea, lo sprofondamento dell’Argentina
e della Turchia. Considerando in particolare la dinamica specifica delle singole
economie esso nota che il motore della congiuntura statunitense resta la forte
spesa dei soldi altrui (in settembre il disavanzo nei pagamenti ha toccato il
tetto di 34,26 miliardi di dollari spingendo verso il disavanzo annuo di 360
miliardi di dollari, cioè di 1.000 milioni di dollari al giorno); che
la ripresina europea è legata alla svalutazione dell’euro; che
la parziale ripresa dell’Asia e dell’America Latina è sostenuta
dall’indebitamento USA. Quindi la congiuntura mondiale, che in apparenza
sembra contraddire la nostra tesi sull’aggravamento della crisi generale,
rientra pienamente in questo processo di lunga durata e ne rappresenta una reazione
temporanea.
In secondo luogo esso considera lo sconvolgente altalenare dei corsi azionari
e il caotico spostamento degli investimenti finanziari da un settore all’altro
ed osserva che tutto questo prelude al collasso della finanza statunitense.
A questo riguardo il 30º Congresso, completando l’analisi iniziata
dal precedente congresso sul perché dopo le crisi asiatica latino-americana
russa brasiliana degli anni 1997-98-99 e il crollo della LTCM che ha fatto tremare
Wall Street non si sono verificati i crack borsistici e finanziari a catena,
precisa. Le ragioni del mancato verificarsi di questi crack si ritrovano principalmente
nell’indebitamento americano, determinato dall’iperconsumo delle
classi borghesi, che ha fatto da propellente all’economia mondiale. Una
mano alla borsa-mania (Internet-mania a cavallo del 1999-2000) è venuta
anche dalla Federal Reserve con le sue punture di liquidità nel mercato
finanziario. Tuttavia questo indebitamento non ha portato alcun riequilibrio
tra i settori della produzione e tra questi e il settore dei consumi. Ha solo
incrementato la sovraccumulazione che è causa ed espressione della crisi
generale di sovrapproduzione. Quindi sul piano strutturale questa crisi è
ancora più grave che nel 1999.
2º. Il tonfo della "New Economy". Gli USA epicentro dei crack
finanziari
In terzo luogo il Congresso si occupa della volatilità finanziaria ed
osserva. Nel corso di quest’anno sono andati in fumo, prima di tutto,
i miracolosi titoli tecnologici che hanno portato alla ricchezza dal nulla frotte
di scommettitori infatuati delle imprese a scommessa (New Economy). La caduta
del Nasdaq, il listino dei titoli tecnologici, all’inizio di novembre
ha azzerato in poche sedute tutti gli incrementi precedenti, abbattendo l’indice
da 5.600 punti circa a 2.900. Il tonfo di questi titoli indica che la crisi
americana esplode dai settori di punta che ne hanno contrassegnato il boom.
Ma attenzione a non confondere le cause del boom con le nuove tecnologie. Il
prolungato ciclo di crescita americano degli anni novanta deriva dall’indebitamento, dal
superconsumo o spreco, possibile agli USA per la loro posizione di egemonia
economica (globalizzazione) e finanziaria (finanziarizzazione). Le nuove tecnologie
hanno solo permesso alle imprese americane di ridurre i costi di circolazione
del capitale, da un lato consentendo forti economie nelle spese di commercializzazione
e immagazzinaggio delle merci, da un altro una maggiore velocità di rotazione
del capitale, di conseguenza maggiori profitti. Per cui il tonfo della New Economy
è solo e soltanto il segno della pletoricità di questo settore.
A oscillare verso il basso sono tutti i titoli azionari, industriali commerciali,
bancari. Alla data del 20 novembre l’indice Dow Jones era ripiegato a
10.462 punti, perdendo il 15% circa. Pertanto i forti ribassi dei corsi azionari
e il deflusso di capitali dagli investimenti a rischio annunciano che il gioco
è finito e che negli USA il collasso finanziario è alle porte.
Esso rileva infine che lo slittamento del crack finanziario ha generato nuove
ideologie sulla capacità della finanza di autogestire la propria instabilità.
Da un lato si sostiene che gli USA, trasformando la Borsa in un meccanismo di
creazione di redditi, hanno sollevato con le loro importazioni l’Asia
dalla depressione; dall’altro che le crisi finanziarie sarebbero circoscritte
pur essendo il sistema finanziario più integrato e instabile per cui
basterebbe l’abilità di un buon governatore per salvare dalla tempesta
l’economia globale. Queste pseudo-teorie sono campate in aria in quanto,
innanzitutto gli Stati Uniti non pagano affatto le importazioni, comprano a
debito, in questi scambi non c’è passaggio di valori reali e l’accumulazione
che ne scaturisce è fittizia e cresce solo per esplodere; in secondo
luogo le crisi finanziarie si sono mondializzate, quando esplodono è
difficile correre ai ripari e il FMI non ha i soldi per intervenire proficuamente.
Quindi gli spiriti animaleschi che cavalcano i flussi finanziari non possono
essere addomesticati da nessun deus ex machina. Pertanto, e concludendo su questi
argomenti, il Congresso afferma che il prossimo crack non potrà essere
scampato né dagli USA né dal direttorio imperialistico.
3º. Il falso dibattito sulla "deriva competitiva" dell’Italia.
La sovraccumulazione. La caccia alle rendite da parte dei nostri gruppi finanziari
Il Congresso, soffermandosi poi sulla congiuntura di casa nostra, osserva. La
ripresa italiana si distingue, nell’andamento mondiale, per il suo ritmo
modesto. Quest’anno il PIL, se non si farà sentire l’effetto
alluvione, crescerà del 2,5-2,6% circa. Dal basso profilo comparato del
ritmo nostrano è esploso, negli ambienti economico-finanziari, un falso
e allarmistico dibattito sulla presunta deriva competitiva dell’Italia.
Il governatore Fazio e con lui un codazzo di esperti confindustriali si sono
messi ad agitare lo spettro del declino competitivo dell’azienda Italia;
ma non per cercare di capire le difficoltà dell’espansione, bensì
per chiedere al governo misure di sgravio fiscale e contributivo a favore delle
imprese e ulteriori provvedimenti antisalariali e produttivistici contro i lavoratori.
Essi chiedono quindi di competere mediante il massacro della forza-lavoro.
Il 30º Congresso sottolinea che, come ha già denunciato la nostra
organizzazione nel 1994, la politica del massacro non basta a salvare il sistema
dalla bancarotta. Il capitalismo italiano è uno dei sistemi capitalistici
più sovraccumulati del pianeta e in mancanza di sbocchi, che non ci sono,
non può che ripiegare su se stesso e ristagnare. Peraltro non bisogna
sopravvalutare la posizione rispettiva degli altri capitalismi. Quello tedesco,
così pure quello francese, anche se il loro ritmo è stato quest’anno
un po’ superiore (2,8-3% circa) a quello italiano, si trovano davanti
alle stesse difficoltà. E appena l’euro salirà per effetto
della prossima discesa del dollaro i sistemi europei si troveranno tutti in
salita e dovranno sbrigarsela da soli. Quindi l’affanno competitivo non
riguarda solo il sistema Italia ma il sistema imperialistico nel suo insieme
ed è una manifestazione tipica dell’aggravarsi della crisi generale.
Sottolineato questo aspetto il Congresso denuncia poi a viva forza l’avidità
parassitaria dei nostri gruppi finanziari. I nostri oligarchi, vecchi e nuovi,
profondono i loro talenti per trasformare l’Italia in una riserva di caccia
per le loro rendite assicurate, come dimostrano le più recenti operazioni
finanziarie. Dall’incetta d’asta del gruppo Colaninno-De Benedetti
sui cellulari di 3ª generazione alla vendita delle fibre ottiche alla Cisco
da parte di Tronchetti Provera del gruppo Pirelli. Quindi dalle operazioni più
importanti dei nostri oligarchi, attive e passive, emergono i tratti sempre
più putridi scrocconi e parassiti del mondo nostrano delle imprese e
della finanza. E, dunque, l’allarme sulla perdita di competitività
è marcio e reazionario.
4º. Il trituramento della gioventù nella tramoggia dei materiali
usa e getta e nella discarica del commercio carnale
Il 30º Congresso passa poi a considerare le condizioni in cui il terremoto
sociale sta trascinando le masse giovanili e la stessa infanzia ed osserva.
Neppure agli esordi del sistema industriale, quando vennero spremuti donne e
fanciulli, le nuove generazioni hanno subito un processo di sfruttamento e di
manipolazione distruttiva come nella fase attuale. Le fasce giovanili e infantili
della popolazione salariata o povera sono diventate la risorsa lavorativa numero
uno, a basso costo o a costo zero, e il corpo merce adatto a tutti gli usi e
consumi. Secondo l’Ufficio Internazionale del Lavoro si contano nel mondo
ben 250 milioni di baby lavoratori; 350.000 in Italia. E stiamo assistendo ai
processi più squallidi di super-sfruttamento e schiavizzazione. Dallo
spremimento fisico-psichico fino all’esaurimento delle energie alla schiavitù
di immigrati ed immigrate. Dall’utilizzo dei bambini negli scantinati
al commercio dei loro corpi a fini sessuali o per il prelievo di organi. Le
masse giovanili si trovano quindi trascinate e risucchiate da un meccanismo
di schiacciamento, sia in termini di classe (dei padroni sui lavoratori, dei
ricchi sui poveri), sia in termini generazionali (delle vecchie sulle nuove
generazioni).
La pauperizzazione di massa (3 miliardi di individui sono costretti a sopravvivere
nel mondo con 5.000 lire al giorno) dilaga ormai senza argini nell’area
imperialistica e nei paesi superindustrializzati. Nell’Europa dei 15,
esclusa la Svezia, le statistiche registrano 62.000.000 di poveri. In Italia
l’Istat ne registra 7.500.000, di cui 5.200.000 concentrati al Sud. La
maggior parte di questi poveri è costituita da giovani, da ragazze e
ragazzi. Dopo anni e decenni di chiacchiere europee, istituzionali ed extra,
sui sussidi a favore della gioventù non c’è in atto che
qualche risibile progetto di sostegno. Nel nostro paese è in corso da
qualche anno l’esperimento del reddito minimo di inserimento, che si limita
a 39 Comuni e per il quale la Finanziaria 2001 ha stanziato la insignificante
somma di 250 miliardi! Quindi per una parte crescente di giovani aumenta lo
stato di povertà, mentre per la grande massa peggiorano le condizioni
di esistenza in quanto diminuiscono i redditi e aumentano precarietà
e incertezza di vita.
In correlazione all’aumento della povertà metropolitana, ovvero
all’estendersi dello schiavismo tecnologico, si intensificano le
politiche statali di militarizzazione e criminalizzazione della gioventù.
Ogni macchina di potere sta spingendo fino al parossismo le strategie e le tecniche
di prevenzione-repressione antigiovanili. La strategia della cosiddetta tolleranza
zero, vale a dire di controllo-annientamento di disoccupati precari immigrati
attraverso i controlli perforanti le intimidazioni gli arresti il carcere a
tutto spiano le espulsioni ecc., dagli USA ha avuto un rapido trapianto in Europa.
Nel nostro paese il 2000 è l’anno dell’irretimento poliziesco
della gioventù; l’anno del balzo della militarizzazione e criminalizzazione
tecnologiche. Il governo ha posto al centro della sua azione la politica di
sicurezza e di potenziamento tecnico-organizzativo di tutti i sistemi di controllo
e dei dispositivi armati. Ha impiegato i blindati nei quartieri caldi di Napoli;
ha proceduto alla rigerarchizzazione reazionaria delle forze di polizia con
la costituzione dell’arma dei carabinieri in quarta forza armata; ha avviato
la trasformazione dell’esercito in esercito professionale, cioè
in strumento aggressivo e controrivoluzionario. Quindi militarizzazione e criminalizzazione
esprimono in modo sempre più pieno e più feroce la politica del
potere nei confronti delle masse giovanili.
Sintetizzando le condizioni materiali della gioventù nel terremoto sociale
si può pertanto dire che la massa della gioventù esiste come risorsa
razziabile per tutti gli usi e consumi, plasmabile a questi fini dalla scuola-azienda,
costretta in questi alvei dalla mano militare.
5º. L’aggravamento delle crisi sociali e il sollevamento dei giovanissimi
Il terremoto sociale addensa polveriere in ogni angolo del mondo e lo schiacciamento
generazionale innesca la rivolta dei giovanissimi, dei quindicenni-diciottenni,
e dei baby operai.
Il 30º Congresso constata che le crisi sociali si aggravano dappertutto,
nelle aree metropolitane e in quelle periferiche, nei paesi forti e nei paesi
dominati. Esso nota che la polarizzazione e lo sprofondamento delle classi sociali
stanno accelerando, ovunque, le spaccature e le contrapposizioni. E che tutto
questo porta al cozzo le varie classi e i vari spezzoni di classe. Per cui i
modelli di società sanguinaria si vanno sempre più rivelando accumuli
di antagonismi sociali in esplosione.
Il Congresso constata altresì l’ingresso crescente sulla scena
sociale e politica dei giovanissimi. Nelle due sollevazioni più recenti,
quella degli operai e degli studenti serbi di ottobre contro la cricca Milosevic
e quella tuttora in corso in Cisgiordania degli affamati contro Israele e la
gendarmeria arafattiana, sollevazioni che hanno alla loro base l’intollerabilità
delle condizioni di vita, si è visto e si sta vedendo che i luoghi centrali
dello scontro sono occupati da giovani e da giovanissimi. Tutto questo indica
che la lotta delle classi si estende a tutti i livelli e che la radicalizzazione
dei giovani e dei giovanissimi investe in pieno lo schiacciamento generazionale.
Pertanto il Congresso, nel salutare quanti si stanno battendo contro i loro
oppressori, chiama le nuove generazioni a incamminarsi sulla strada della rivoluzione
e del comunismo.
6º. L’esplosione dei divari territoriali e dei "regionalismi
egemonici"
Dopo avere esaminato le condizioni delle masse giovanili e il particolare profilo
dinamico dei giovanissimi il 30º Congresso passa successivamente a considerare
la montata dei divari territoriali e dei conflitti regionali ed osserva. Nel
2000 sono esplosi gli squilibri e i conflitti territoriali. La competitività
intersistemi ha esasperato ogni tipo di contraddizione interna e ora il sistema
Italia è in preda a convulsioni disgreganti.
Innanzitutto collassa la situazione meridionale. Il riassetto societario, operato
all’inizio dell’anno dal governo con il lancio di sviluppo Italia,
ha dato un’ulteriore spinta al processo di dipendenza e di impoverimento
meridionale in quanto ha centralizzato gli strumenti di pilotaggio della politica
meridionale ossia del meridionalismo piratesco. La progressiva razzia delle
risorse, economico-finanziarie-umane, da parte delle banche e delle imprese
settentrionali accelera la decadenza del Sud senza via di scampo. È falsa
la lagnanza confindustriale che il Sud marcia verso il deserto perché
il governo avrebbe perso l’opportunità dello sviluppo non riducendo
l’IRPEG. Con o senza riduzioni fiscali lo sviluppo del Sud è sempre
verso l’ulteriore ancoramento della propria dipendenza nei confronti del
meccanismo unico di accumulazione. Quindi l’esplosione degli squilibri
territoriali innesca l’esplosione della questione meridionale nelle sue
contraddizioni economico-sociali.
In secondo luogo cresce la pressione espansiva delle regioni più forti,
Lombardia Veneto Piemonte, nei confronti del potere centrale per avere più
risorse e più poteri locali. Si vanno sviluppando in tal modo dei regionalismi
egemonici che tendono a prevalere sulle altre regioni e che nascondono questa
tendenza sotto la bandiera della devolution. Non si tratta allo stato di uno
scontro interregionale o tra regioni settentrionali e regioni meridionali. Si
tratta di spinte egemoniche territoriali che senza portare al secessionismo
o all’anarchia, pur sbavando nell’uno e nell’altra, mirano
a un accrescimento di competenze e a un ruolo egemonico regionale nel quadro
dell’unità formale dello Stato imperialistico. Ma il regionalismo
egemonico, amplificando le differenziazioni interne e il ventaglio della politica
(regionalizzazione della politica), esaspera la crisi italiana perché
introduce elementi di rottura nella forma Stato e nella crisi sociale. Quindi
la montata dei conflitti territoriali tende a costituirsi come nodo centrale
della crisi.
Il 30º Congresso mette in guardia le masse giovanili e le masse proletarie
a non farsi trascinare a rimorchio da questo o quello strato di media piccola
o grossa borghesia sotto i vessilli del regionalismo egemonico. Il compito dei
lavoratori è quello di spezzare la macchina dello Stato e spingere il
salariato all’internazionalismo e all’unione mondiale. Avverte altresì,
a scanso di ogni equivoco, che la montata dei conflitti territoriali come da
un lato spinge al regionalismo egemonico dall’altro spinge lo Stato alla
più estesa e generale militarizzazione. E conclude dunque sottolineando
che le avanguardie giovanili non debbono farsi invischiare dalle contraddizioni
interborghesi ma debbono sfruttarle per sviluppare l’attività rivoluzionaria.
7º. La lotta contro la "fabbrica flessibile" richiede un lavorio
capillare di organizzazione sul territorio
Il Congresso passa poi conclusivamente a trarre il bilancio e la verifica dell’attività
di partito e a tracciare le indicazioni operative ed osserva.
L’Organizzazione, con tutte le sue articolazioni (Sezioni, nuclei, comitati),
è stata in continua mobilitazione nelle più importanti lotte operaie,
in quelle della scuola, degli immigrati e nei quartieri popolari. In dettaglio.
Essa ha svolto un continuo lavorio a sostegno dell’iniziativa operaia
contro le nuove misure antisciopero. Ha svolto un’opera continua di indirizzo
della gioventù nella lotta alla fabbrica flessibile, nonché in
quella al sicuritismo forcaiuolo. Essa ha sviluppato una intensa azione di organizzazione
e di orientamento nella scuola intervenendo nelle più importanti manifestazioni
degli insegnanti contrapponendo all’uso della scuola come ariete statale
nella lotta intersistemi l’esigenza di una scuola a servizio delle masse.
Ed ha portato avanti la sua opera di propaganda e di organizzazione nel campo
femminile e nei quartieri popolari. Nell’insieme quindi l’organizzazione,
senza poter prendere la testa di significativi settori del movimento di lotta,
è stata presente e impegnata sui terreni più caldi dello scontro
sociale.
Passando alla verifica della linea il Congresso registra che l’Organizzazione
si è mossa nell’alveo delle linee tracciate dal precedente congresso.
E riconosce che il punto di maggiore difficoltà nella traduzione pratica
della linea del partito è stato quello della lotta alla fabbrica flessibile.
Soffermandosi su questa difficoltà esso rileva e chiarisce che l’attività
in questo campo è una specifica azione sul territorio in quanto tutti
i punti di vita e di formazione della gioventù sono luoghi di lavoro.
Il giovane è dove vive perché dove vive lavora. Per cui l’attività
di organizzazione, di ricomposizione e di mobilitazione politica della gioventù,
va articolata su questo piano. E a conclusione esso raccomanda all’organizzazione
di promuovere in questo campo in modo sistematico l’unificazione politica
delle forze attive della gioventù e di collegarle con le forme di organizzazione
più adatte all’azione del partito. Il partito deve quindi essere
il punto di riferimento di ogni avanzata lotta giovanile: lo scudo e la spada
delle nuove generazioni.
8º. Il trasporto della linea mobilitativa tra la gioventù
Il 30º Congresso, considerando la costruzione del partito e il ruolo della
gioventù alla luce della verifica della linea, osserva. Da tempo i giovani
hanno voltato le spalle ai partiti istituzionali e alla politica affaristica.
Da tempo essi sono in fase di riorientamento politico. E c’è già
una leva di giovani che comincia a manifestare il proprio interesse alla costruzione
del partito. L’organizzazione deve quindi trasportare con fermezza la
linea mobilitativa tra la gioventù.
Coerentemente il Congresso fa propria la parola d’ordine proposta dall’Esecutivo
Centrale uscente "Avvicinare i giovani al partito" e la esplicita
con questi significati. Primo che al centro della costruzione del partito deve
essere il rapporto tra questo e la gioventù. Secondo che l’organizzazione
deve impegnarsi a concentrare la propria attività tra le masse giovanili
e che la stessa deve sforzarsi ad attrarre al lavoro politico pratico una fascia
crescente di giovani. Terzo che l’organizzazione si impegna a migliorare
l’attività di propaganda per avvicinare i giovani al marxismo rivoluzionario.
Quarto che l’attività giovanile va svolta dando preminenza a quella
femminile. Pertanto la parola d’ordine viene assunta e proposta nei suoi
più elementari termini pratico-operativi.
9º. Conclusioni e indicazioni immediate
Al termine dell’analisi della situazione, delle condizioni di esistenza
giovanili, dei conflitti territoriali e della verifica dell’attività
del partito, il 30º Congresso trae le seguenti conclusioni.
I) L’organizzazione deve utilizzare il patrimonio di esperienza accumulato
per concretizzare la saldatura pratica con le nuove generazioni. Quindi deve
mettere a frutto il proprio bagaglio teorico politico organizzativo.
II) La linea mobilitativa non può farsi condizionare dai limiti legalitari
dei movimenti di lotta. Deve spingere i movimenti a superare questi limiti.
La linea mobilitativa è un’articolazione della lotta rivoluzionaria
ed è finalizzata alla conquista del potere.
III) Lo schiacciamento sociale e generazionale ha fatto esplodere in tutta la
sua estensione e profondità la questione femminile. Non solo nell’aspetto
schiavistico di commercio carnale. Ma nell’aspetto più recente,
che presuppone la completa parità giuridica e la parità nel lavoro
tra uomo e donna, di contrasto negazione mercificazione dei sessi. Ragazzo e
ragazza vivono il rapporto tra i sessi in forma di competizione crescente: come
attrito, impotenza, stress. La giovane, sempre più dipendente dal lavoro
e dal mercato, è costretta a limitare la vita sessuale e a subire la
violenza maschile. Ragazzo e ragazza sono sempre più costretti a vivere
il rapporto sessuale come mercificazione del corpo. C’è quindi
un bisogno gigantesco di liberazione umana di cui la protagonista principale
non può essere che la giovane.
Infine impartisce le seguenti indicazioni operative.
1) Lotta permanente contro la fabbrica flessibile a difesa delle giovani e dei
giovani, locali ed immigrati; promuovendo la loro ricomposizione e organizzazione
sul territorio.
2) Promuovere l’organizzazione di lotta femminile e giovanile contro i
meccanismi di schiacciamento sociale e generazionale.
3) Operare all’unione della gioventù operaia e studentesca contro
il nuovo modello di istruzione per una scuola istruttiva e collettiva.
4) Attaccare la politica di militarizzazione sanzionamento criminalizzazione
di lavoratori disoccupati immigrati organizzando l’autodifesa e il contrattacco
proletario.
5) Elevare l’attività elaborativa e formativa per lo sviluppo e
la pratica del marxismo e del materialismo scientifico.
6) Lavorare al collegamento delle avanguardie comuniste europee come punto di
partenza per l’unione mondiale del movimento rivoluzionario.
E a chiusura ratifica i lavori e la risoluzione della XV Conferenza Operaia
svoltasi il 19 marzo 2000.
Milano 25-26 novembre 2000
Il 30º Congresso
di Rivoluzione Comunista