Biblioteca Multimediale Marxista
Dopo il dossier Mitrokhin, dagli archivi dello spionaggio internazionale arriva
il dossier Kuriakhin, con una rivelazione sensazionale: Walter Veltroni fin
da ragazzo è stato reclutato dalla CIA per infiltrarsi nel PCI e conquistarne
la leadership. Secondo Kuriakhin solo così si spiegano le abissali differenze
tra quanto afferma oggi e quanto sosteneva in passato. Il dossier analizza metodicamente
i suoi scritti e i discorsi, dai primi passi nella FGCI a oggi. E scopre che
mentre il Veltroni del 2000 dice di non essere mai stato comunista, di aver
dissentito dalla linea del PCI e di aver sempre odiato l’URSS e amato
gli USA, in precedenza affermava l’esatto contrario.
Tra il gioco della satira politica e il rigore del saggio documentato, il dossier
Kuriakhin ci porta a una domanda cruciale: chi è il compagno Veltroni?
Il suo è un fantastico caso di spionaggio oppure un esempio insuperabile
di trasformismo?
Ovviamente, Ilya Kuriakhin non esiste, e il reclutamento di Walter Veltroni
nella CIA è solo un espediente satirico. Ilya Kuriakhin, infatti, è
il nome di un personaggio televisivo, un agente segreto che appariva nella celebre
serie di telefilm The Man From U.N.C.L.E. (trasmessa dalla RAI anche in Italia),
prodotta tra il 1964 e il 1967. Per Il compagno Veltroni sotto lo pseudonimo
di Ilya Kuriakhin si nasconde in realtà un giornalista che ha militato
a lungo nel PCI e che conosce bene, dall’interno, le vicende di quel partito.
MILLELIRE STAMPA ALTERNATIVA
Direzione editoriale Marcello Baraghini
Graphic designer Daisy Jacuzzi
Stampato per conto della Nuovi Equilibri srl
presso la tipografia Union Printing spa (Viterbo) nel mese di marzo 2000
Premessa
La politica italiana è stata bersagliata sempre di dossier
e rivelazioni a sorpresa. Da ultimo, ci ha pensato il dossier Mitrokhin a elencare
i nomi di vere o presunte spie del KGB. Ma dopo il dossier Mitrokhin, ecco arrivare
dai segreti archivi dello spionaggio internazionale il dossier Kuriakhin, che
si annuncia ancor più esplosivo.
Secondo questo nuovo dossier, infatti, il leader diessino Walter Veltroni sarebbe
da anni un agente della CIA.
Le rivelazioni sono inquietanti e si basano su una metodica analisi delle dichiarazioni
pubbliche di Veltroni nei decenni passati, mettendole a confronto con le sue
tesi attuali. Altri ex-comunisti, come Enzo Bettiza nel lontano passato, o Giuliano
Ferrara in tempi più vicini, hanno teorizzato e spiegato la loro scelta
di cambiare opinione, ad un certo punto della vita e dell’esperienza politica.
Walter Veltroni, invece, nel condannare la “tragedia” del comunismo
ha cercato di accreditare un’immagine di sé “innocente”
rispetto alle colpe attribuite alla vicenda comunista, ricostruendosi a ritroso
una immacolata rispettabilità di dissenziente.
Ecco perché le recenti dichiarazioni di Veltroni sull’incompatibilità
tra comunismo e libertà hanno involontariamente rivelato la vera identità
del segretario diessino: non sarebbe mai stato comunista, pur professandosi
tale e riuscendo a scalare la gerarchia del partito fino a diventarne un dirigente
nazionale e poi a raccoglierne la guida, dopo la trasformazione in DS. Anzi,
Veltroni afferma candidamente (ormai non ha più bisogno di copertura:
la missione è compiuta, direbbe James Bond) di aver sempre preferito
gli USA all’odiata URSS. E allora? Il dossier Kuriakhin svela la verità,
l’unica possibile: Veltroni era (e forse è ancor oggi) un agente
della CIA.
Veltroni afferma, oggi, di non essere mai stato comunista e di aver dissentito
dalla linea prevalente nel suo partito, nonostante facesse parte sin da ragazzo
dei gruppi dirigenti della FGCI e poi del PCI. Di più: Veltroni sostiene
di aver sempre considerato l’URSS come il nemico e gli USA come gli amici
principali dell’Italia e dell’Occidente. Eppure, le sue dichiarazioni
pubbliche, i suoi articoli apparsi sulla stampa comunista a partire dagli anni
’70, i documenti politici da lui controfirmati, e raccolti dal dossier
Kuriakhin, affermavano l’esatto contrario: gli USA come pericolosa potenza
imperialista, i paesi socialisti come speranza per le nuove generazioni, lo
stalinista Togliatti come esempio per i giovani, le scelte dei leader del PCI
sempre giuste e coerenti.
Non può che esserci una spiegazione, per Kuriakhin: Veltroni fin da ragazzo
è stato reclutato dalla CIA per infiltrarsi nel più grande partito
comunista d’occidente e, agendo sotto copertura e simulando fedeltà
e allineamento alle direttive del partito, effettuare una clamorosa scalata
di potere fino a conquistarne la leadership. In confronto, i risultati del KGB
e della Stasi, che riuscirono a mettere un loro uomo, la spia della Germania
est Gunther Guillaume, come segretario personale di Willy Brandt, impallidiscono:
Veltroni, infatti, è diventato addirittura segretario del partito. Nel
caso di Veltroni abbiamo a che fare con un abilissimo agente segreto dalla doppia
vita (in pubblico comunista inossidabile, ma nell’intimo, per sua stessa
ammissione, anticomunista e filoamericano), in grado di adempiere la missione
impossibile di raggiungere per conto degli americani il vertice di un partito
avversario.
La scoperta che Walter Veltroni era un agente della CIA infiltrato nel PCI getta
un’ombra clamorosa sulla storia recente della democrazia italiana. E il
partito comunista di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer si rivela un organismo
pullulante di spie: spie del KGB, certamente, ma ora sappiamo anche spie della
CIA. Ecco perché il dossier Kuriakhin rischia di diventare più
devastante, almeno in Italia, del dossier Mitrokhin.
Quella che leggerete, dunque, è una storia di spionaggio, nata quando
ancora si ergeva il Muro di Berlino, e un giovanissimo italiano, Walter Veltroni,
anticomunista e innamorato degli Stati Uniti, accettò di compiere una
straordinaria missione per sgominare i “rossi” del suo paese. Aveva
un nome in codice, apprendiamo ora: “agente Icare”. Del suo eroismo,
della sua vittoria, parla il dossier Kuriakhin. Al termine della lettura, ognuno
potrà decidere chi è il compagno Veltroni. Il suo è un
fantastico caso di spionaggio, come afferma Kuriakhin, oppure è un esempio
insuperabile di trasformismo e doppiezza? La parola ai lettori.
IL DOSSIER KURIAKHIN
Mi chiamo Ilya Kuriakhin. Per molti anni ho lavorato come agente
del KGB, e ho seguito da vicino le vicende italiane. La scomparsa dell’URSS
non mi ha turbato più di tanto, perché io sono sempre stato un
uomo utile ai servizi segreti sia dell’est che dell’ovest. Il vento
spesso cambia direzione, e io mi sono adeguato. Ma non è la mia biografia
che voglio raccontarvi. Quel che conta è che oggi, finito il duello tra
occidente e blocco sovietico, posso finalmente rivelare quanto mi è capitato
di conoscere in tanti anni di attività.
Ho operato a lungo negli Stati Uniti, sotto varie coperture, ed è a Washington
che sono riuscito a mettere le mani su molti documenti scottanti del servizio
segreto americano. Tra questi, il file personale di un italiano, Walter Veltroni:
nome in codice “agente Icare” (anche se, per depistare, Veltroni
ha recentemente affermato che il suo nome in codice sarebbe “Punto”).
Ho ricopiato tutto il dossier Veltroni su alcuni kleenex e sulle confezioni
del chewing gum, a caratteri microscopici, per settimane e settimane, rischiando
la vita. Ma sono fiero, ora, di poter far conoscere a tutti la verità
su Veltroni, l’agente segreto Veltroni, la cui missione era di infiltrarsi
nel più grande partito comunista dell’occidente capitalistico e
riuscire ad entrare nei suoi vertici.
Veltroni, rivelano quelle carte da me meticolosamente ricopiate, è stato
un “illegale”, un uomo costretto a una doppia vita: nel suo intimo
era un anticomunista viscerale, ma in pubblico doveva fingersi un “rosso”,
doveva lodare Togliatti (il killer stalinista Togliatti), doveva scagliarsi
contro la Democrazia Cristiana asservita agli USA, doveva dimostrarsi pienamente
allineato con le scelte politiche di un partito che odiava. Uno stress psicologico
che solo i migliori agenti segreti della storia sono riusciti a tollerare. Ma
lui, l’agente Walter “Icare” Veltroni, c’è riuscito.
AGENTE SEGRETO VELTRONI
FILE n. 1
GLI ANNI SETTANTA
Walter Veltroni nasce a Roma il 3 luglio 1955. Il padre è
Vittorio Veltroni, «pioniere delle radiocronache in RAI», secondo
la sintetica definizione di Giuseppe Fiori, e direttore dei primi telegiornali;
la madre è Ivanka, a sua volta funzionaria della RAI e scrittrice di
romanzi rosa.
Walter abita in un buon quartiere della borghesia romana, in via Savoia. Seguendo
le orme di famiglia, compie gli studi medi all’Istituto Cine-Tv, a due
passi da viale Marconi, nella periferia di Roma.
Nel 1970 si iscrive alla FGCI, l’organizzazione giovanile del Partito
Comunista Italiano. Cosa spinse quel ragazzo a entrare precocemente in un’organizzazione
che, secondo le dichiarazioni dello stesso Veltroni del 1999, era pericolosa
per la libertà, in quanto figlia di un partito, il PCI, legato al comunismo,
«tragedia del Novecento»?
Il nostro dossier, come vedremo, svela che già allora Veltroni era stato
arruolato dai servizi segreti americani, e questo spiega tutto. E spiega anche
perché la sua passione politica si trasformi subito in scalata di potere:
in pochi mesi diventa segretario della cellula della sua scuola, e appena diplomato
(nel 1973) è funzionario a tempo pieno della FGCI romana.
Nel suo nuovo ruolo di miniburocrate federale, il giovanissimo Veltroni prima
dirige gli studenti comunisti della città, poi è eletto segretario
della FGCI romana. Un incarico importante, nella capitale, in anni in cui l’organizzazione
giovanile comunista cittadina contava ben cinquemila iscritti.
Non era certo un consesso di liberali critici verso la tragedia del comunismo,
quella FGCI di cui Veltroni è dirigente fin da ragazzo. Lo Statuto della
Federazione Giovanile Comunista Italiana (confermato ancora al XXI Congresso
del 1978), infatti, esordisce con un preambolo in cui si afferma: «Gli
iscritti e i militanti della FGCI lottano per costruire una società socialista
che crei le condizioni e favorisca il processo di liberazione dell’uomo
verso il comunismo». E all’articolo 1 si aggiunge: «La FGCI
si riconosce nella strategia del Partito Comunista Italiano, contribuisce ad
arricchirla, ed educa i suoi iscritti alla conoscenza del marxismo e del leninismo,
nello spirito dell’antifascismo e dell’internazionalismo proletario».
Veltroni prese la tessera di quell’organizzazione giovanile, e ne divenne
subito dirigente. Però oggi sostiene che «si poteva stare nel PCI
senza essere comunisti. Era possibile, è stato così». Nell’organizzazione
giovanile di Veltroni, tuttavia, si lottava per «il processo di liberazione
dell’uomo verso il comunismo» e ci si educava al marxismo, al leninismo
e all’internazionalismo proletario.
I suoi primi passi tra i giovani dirigenti della FGCI romana sono in una chiave
che oggi si direbbe “veterocomunista”. È tra gli organizzatori,
il 24 febbraio 1974, della manifestazione Togliatti con noi (Nel nome di Togliatti
le lotte dei giovani per la pace, la libertà, il socialismo), arricchita
da «filmati e documenti inediti sulla vita di Togliatti», come recitava
il volantino promozionale. Una kermesse togliattiana che doveva essere costata
molta sofferenza a Veltroni, da sempre seguace viceversa (abbiamo appreso di
recente) della democrazia occidentale e tutt’al più del socialismo
liberale dei fratelli Rosselli.
Ma c’è una miniera di documenti sul veltronipensiero degli anni
settanta: è Roma Giovani, mensile della Federazione Giovanile Comunista
Romana, come campeggia sulla copertina (e di cui era caporedattore Carlo Leoni,
attuale responsabile giustizia dei DS). Fin dal 1974 il periodico ospita innumerevoli
articoli e interventi del nostro, che rivelano come, già da ragazzo,
fosse costretto a simulare una fede comunista e un’adesione incondizionata
alla linea del PCI: oggi sappiamo che doveva occultare la sua missione segreta.
Per rendere credibile la sua scelta comunista, all’epoca, Veltroni doveva
accentuare l’antiamericanismo, fugando così ogni possibile sospetto
sul suo doppio gioco. Lo desumiamo da uno dei suoi primi articoli, “Una
vita da cambiare: la droga”, che appare sul numero 1 di Roma Giovani,
nel novembre 1974. Il giovane Walter respinge la riduzione del fenomeno droga
«ad una presunta “Americanizzazione” del modo di vivere dei
giovani e degli studenti delle grandi città». Le motivazioni dell’uso
della droga, al contrario, starebbero in «una angosciosa situazione dove
molti giovani sono stati cacciati dall’immoralità delle classi
dominanti».
La soluzione, per il compagno Veltroni di allora, è semplice: «I
giovani, tutti, sognano una società più giusta ed umana. Questa
società per noi è il socialismo».
Di lì a poco, ecco apparire un Veltroni “militante rivoluzionario”.
Lo scopriamo mentre contende a Lotta Continua la leadership del mondo giovanile
di sinistra: «Il nostro ruolo è nella capacità del movimento
operaio di esercitare appieno la propria egemonia su quei settori dei giovani
delusi dall’esperienza estremista. È necessario quindi per il movimento
operaio ed il suo partito d’avanguardia rendere più esplicito il
rapporto tra lotta quotidiana e prospettiva di trasformazione dello stato, far
comprendere alle giovani generazioni il proprio patrimonio teorico ed esplicare
alcune questioni centro della elaborazione del marxismo italiano». E conclude
solennemente: «Solo così sarà possibile recuperare alla
milizia rivoluzionaria i giovani delusi dall’estremismo».
Presto il Veltroni “militante rivoluzionario” si dichiara anche
leninista. È un testo chiave, quello che stiamo per leggere: I giovani,
la libertà, il socialismo. Tra citazioni di Gramsci, Lenin e dei comunisti
vietnamiti, Veltroni scrive che occorre «porsi concretamente oggi il problema
di elevare ad un livello più alto la ribellione dei giovani dando ad
essa la luce della coscienza politica e della necessità storica del socialismo».
Per raggiungere questo ambizioso obiettivo c’è una ricetta magica:
«Affondando nelle pieghe della linea del nostro partito fondata sull’analisi
scientifica della diversità storica della rivoluzione è possibile
trovare una risposta agli interrogativi che tutti i giovani agitano».
Veltroni sostiene che bisogna «operare con rigidità scientifica
quella che Gramsci chiamava “una ricognizione nazionale”».
E se afferma, secondo la liturgia del PCI di allora, «la necessaria diversità
della rivoluzione italiana da quella dell’Ottobre», il giovane Veltroni
non disdegna di difendere il concetto di “egemonia”, che di lì
a poco diventerà una parolaccia impronunciabile dopo una dura polemica
scatenata dal PSI di Bettino Craxi. Scrive infatti il compagno Walter: «Dalla
elaborazione del concetto d’egemonia, del partito come forza rivoluzionaria
e strumento dell’egemonia, nasce, negli anni difficili del dopoguerra,
il nostro disegno di “Via Italiana al Socialismo”».
Non solo, dunque, la rivendicazione dell’egemonia, ma persino del partito
«come forza rivoluzionaria».
Andiamo avanti nella lettura. Ecco apparire un riferimento all’artefice
della rivoluzione bolscevica, l’uomo che ogni sincero liberale (come oggi
Veltroni afferma di essere sempre stato) considera il primo responsabile dei
gulag e di quella che lo stesso Veltroni, nel ’99, definirà «la
tragedia del comunismo»: Vladimir Ilic Ulianov detto Lenin. Scrive, infatti,
il nostro con prosa soviettista: «Si esalta nell’originale elaborazione
italiana l’affermazione di Lenin secondo la quale la democrazia e il socialismo
si saldano fortemente e la rivoluzione democratica apre la strada a quelle socialiste,
mentre la soluzione socialista porta a compimento quella democratica».
Esattamente opposte alle tesi sostenute attualmente da Veltroni sono poi le
sue critiche alle altre forze politiche italiane: «Ogni volta che tra
i partiti politici si parla di socialismo alcuni di essi, in primo luogo la
DC, partono in voli pindarici descrivendo a tinte fosche, come in un libro di
Carolina Invernizio, il carattere dittatoriale e le soppressioni della libertà
che a parere loro [corsivo mio, n.d.r.] vigerebbero nei paesi socialisti. Non
abbiamo mai esitato a far sentire alta la nostra voce quando abbiamo ritenuto
che in questo o quel paese un intervento esterno comprimesse la libertà
di quel popolo, così come non abbiamo mai mancato di sviluppare un dibattito
serrato sulle questioni della democrazia socialista. Ma sempre in questi dibattiti
si è affermato il carattere franco e aperto che caratterizza le discussioni
tra partiti fratelli».
Sì, avete letto bene: «partiti fratelli», e chi critica l’URSS
e i paesi socialisti compie «voli pindarici», e il carattere dittatoriale
di quei regimi sarebbe tale solo «a parere loro».
Queste righe svelano, più di ogni altra, il doppio volto di Veltroni:
pubblicamente comunista ortodosso, in segreto anticomunista al soldo degli USA.
Come spiegare altrimenti la contraddizione con quanto dichiarato nell’ormai
celebre articolo su La Stampa nell’ottobre 1999, definito «l’anatema
di Veltroni» contro il comunismo?
Afferma oggi Veltroni: «Io ero ragazzo, negli anni settanta, ma pensavo
che avesse ragione Ian Palach e non i carri armati dell’invasione sovietica.
Io ero ragazzo, allora, ma consideravo Breznev un avversario, la sua dittatura
un nemico da abbattere».
Ma come? Il partito di Breznev non era il primo tra i «partiti fratelli»
evocati da Veltroni, proprio negli anni settanta? E perché Veltroni attaccava
la DC, rea di dipingere «a tinte fosche» i paesi socialisti, quando
ora scopriamo che già allora considerava quelle dittature «un nemico
da abbattere»? Resta, di nuovo, una sola spiegazione possibile: Veltroni
era un infiltrato, fin da ragazzo, nelle file del PCI.
Proseguiamo nella lettura del fondamentale testo veltroniano I giovani, la libertà,
il socialismo. Walter denuncia «l’acquiescenza all’imperialismo»
e aggiunge una serie di considerazioni sulle vicende internazionali del periodo.
La prima riflessione è dedicata alla rivoluzione portoghese “dei
garofani” (caduto il fascismo, il partito comunista-stalinista di Alvaro
Cunhal era arrivato alla stanza dei bottoni): «Il Portogallo vive oggi
la sua stagione di libertà ed ha iniziato un travagliato e contraddittorio
processo di democratizzazione». Persino il segretario del PCI, Enrico
Berlinguer, era stato più coraggioso, prendendo le distanze dagli eccessi
antidemocratici di Cunhal, che per Veltroni sono solo «un travagliato
e contraddittorio processo di democratizzazione».
Ma andiamo avanti. Ora Veltroni si occupa del Vietnam, «il piccolo popolo
che ha sconfitto il grande colosso americano». Incurante della caduta
di un paese nelle mani dei tiranni comunisti, Veltroni afferma: «I compagni
vietnamiti ci hanno detto: “La nostra lotta è giusta, uniti vinceremo”.
Ed hanno sconfitto la grande potenza americana e sono entrati a Saigon dove
lavorano per costruire un Vietnam pacifico e indipendente».
Veltroni esulta perché sui muri di Saigon «i soldati del GRP hanno
scritto le parole che Ho Ci Min pronunciò nel ’68 prima dell’offensiva
del TET: “Questa primavera sarà migliore di ogni altra; la notizia
delle vittorie riempie di gioia tutto il paese, Nord e Sud, gareggiando in coraggio
sconfiggono lo Yankee. Avanti, la vittoria è nelle nostre mani”.
L’Indocina, l’Africa, l’America latina, la Cina, Cuba Socialista,
il Portogallo, la Grecia, i paesi socialisti dell’Est europeo, tutto il
mondo si colloca sulla strada della libertà e del progresso. Libertà,
progresso, giustizia sociale, valori che si affermano in dimensioni sempre più
ampie tra i giovani e che vanno tutte nella direzione del socialismo. Esso,
lo sappiamo, non è dietro l’angolo. Coscienti di questo nel chiedere
ai giovani il voto al PCI sentiamo di dover proporre qualcosa di più:
un impegno coerente di coscienza e di lotta. Questa è la linea che prospettiamo
ma non ne esistono, ne siamo convinti, altre».
Il compagno Veltroni conclude l’articolo con la retorica che non lo abbandonerà
mai, nemmeno negli anni recenti “liberalsocialisti”: «No,
non ci sono scorciatoie. Lenin diceva che “la via della Rivoluzione non
è dritta e selciata come la prospettiva Newski”. I giovani questa
via hanno già cominciato a percorrerla, andranno ancora avanti per gli
ideali per i quali si sono battuti in questi anni. Gli ideali della pace, della
democrazia, del socialismo».
Veltroni nel ’99 scrive: «Noi trentenni “finimmo” la
storia del PCI, perché la contraddizione era diventata insostenibile.
In primo luogo per noi, per una generazione che aveva l’URSS come avversario
e la democrazia occidentale nel DNA, nel vissuto, nella formazione culturale».
Come può essere lo stesso Veltroni che nel 1975 parlava di Rivoluzione
(rigorosamente con la R maiuscola), citava Lenin, diceva che i paesi socialisti
viaggiavano «sulla strada della libertà e del progresso»,
attaccava sprezzante «gli Yankee»?
Al fine di compiere perfettamente la sua infiltrazione, Veltroni continua a
pubblicare articoli dal linguaggio ultra-comunista. Nell’estate del 1975,
dopo le elezioni del 15 giugno che hanno visto un’avanzata clamorosa del
PCI, declama: «Il nostro partito, con la sua linea ed il suo modo di essere,
ha saputo mostrarsi come la grande forza in grado di superare la crisi della
società capitalistica». E chiude: «Orientare la spesso generica
aspirazione al rinnovamento che è presente tra i larghi settori delle
nuove generazioni nella direzione dell’adesione all’ideale della
società socialista è già un compito dei giorni successivi
il 15 giugno».
In quello stesso articolo Veltroni si auto-loda (un atteggiamento che non lo
abbandonerà mai) per aver contribuito alla vittoria del PCI, a suo parere
addirittura con «un peso storico», tramite la nascita dei Comitati
Unitari, cioè il movimento studentesco di area PCI di cui a Roma era
stato artefice. Teorizzazione che viene amplificata dallo stesso Veltroni poche
pagine dopo, sullo stesso numero di Roma Giovani, in un articolo intitolato
“Per un nuovo movimento degli studenti”.
Certo quel suo attivismo intorno ai Comitati Unitari (ritenuti dalle altre forze
politiche giovanili il semplice tentativo di creare una “cinghia di trasmissione”
tra PCI e studenti) aveva fatto crescere le quotazioni di Walter presso Massimo
D’Alema, appena nominato segretario nazionale della FGCI: la conoscenza
tra i due data da allora, quando partecipavano entrambi alle estenuanti riunioni
nella sede della Federazione Giovanile Comunista di via della Vite.
A questo proposito, però, nel 1995 Veltroni farà una rivelazione
che deve aver lasciato di stucco tutti i suoi compagni di allora. Nessuno aveva
mai colto il seppur minimo dissenso del giovane Veltroni dai vertici della FGCI,
e anzi era notorio il suo “appiattimento” su qualsiasi indicazione
venisse dalle sedi direttive sia del PCI che dell’organizzazione giovanile.
Invece no, la verità (ancora una volta segreta) era tutta diversa: «Quando
D’Alema era segretario della FGCI non andavamo d’accordo, proprio
non andavamo d’accordo. In maniera molto netta. Avevamo due visioni della
politica diverse. Allora, le nostre diversità erano moltiplicate per
cento. Eravamo più giovani, lui venne dal partito per dirigere più
severamente una FGCI ribelle, io ero più attento ai movimenti. Quindi
non ci prendevamo bene. A quei tempi ci fu un conflitto tra noi, un conflitto
di quelli che, quando si è ragazzi, lasciano qualche segno. Per questo,
per un certo numero di anni, ci siamo guardati con qualche reciproco sospetto».
Peccato che questo “conflitto” non sia testimoniato da nessun intervento,
nessun articolo, nessuna parola del Veltroni di allora. Mai, assolutamente mai
il giovane Walter ha espresso pubblicamente questa sua visione politica “diversa”.
Forse il centralismo democratico era così rigoroso nella FGCI che era
impossibile esprimere un seppur timido dissenso? O forse la sua missione (fare
carriera negli organigrammi comunisti) gli imponeva anche in quel caso il silenzio
più totale?
Torniamo agli scritti dell’epoca. Agli inizi del 1976 Veltroni si occupa
di centrosinistra e anticomunismo, due temi che saranno cruciali nella sua carriera
politica futura. Ma negli anni ’70 erano per Veltroni solo oggetti di
critica dura. Scrive: «Si è chiusa, non certo in gloria, la stagione
decennale del centro-sinistra i cui cascami, dopo la storica rottura avvenuta
nel corpo della società italiana per le lotte operaie e studentesche
del ’68-69, si sono trascinati fino a questi ultimi mesi. Così,
il centro-sinistra, inadeguato ed incapace, viziato dall’ambizione di
molti, di comportare, con l’uso spregiudicato di questa formula, l’esaurimento
nel ruolo di opposizione della funzione storica e della forza del PCI, chiude
miseramente la sua intensa storia».
E Veltroni plaude alla sconfitta della contrapposizione frontale ai comunisti
da parte della DC: «Occorrerebbe, per svolgere un’opera di reale
rinnovamento, che la DC condannasse sé stessa per il suo passato, per
l’espulsione dei comunisti dal governo dopo la guerra, per aver venduto
agli americani il proprio partito, e il nostro paese, per aver giocato la carta
della legge truffa».
La DC un partito «venduto agli americani»? E l’espulsione
dei comunisti dal governo un atto da condannare e non una scelta saggia? Se,
come sostiene il Veltroni del 2000, il comunismo è incompatibile con
la libertà, e l’occidente a guida americana ha tutelato l’Italia
dalla dittatura, allora quelle posizioni della DC dovrebbero ritenersi sacrosante.
Ci auguriamo che presto la storia sia riscritta definitivamente, dallo stesso
Veltroni, fino a riabilitare coerentemente tutti i suoi avversari del passato.
Ma c’è dell’altro nell’articolo in questione. Veltroni
dichiara di ritenere «positivo che si spengano le fiammelle dell’anticomunismo».
E poi ecco il consueto appello alla rivoluzione: «La domanda di una società
nuova si è fatta “senso comune” nell’animo della gioventù,
spetta a noi tradurla nella lotta conseguente per la rivoluzione italiana».
Per il Veltroni rivoluzionario degli anni ’70, la DC e gli americani sono
la bestia nera. Scrive, sempre nel 1976: «Nella fase immediatamente successiva
alla guerra di Resistenza, noi siamo stati in presenza di alcune scelte della
Democrazia Cristiana tese ad edificare un sistema di potere: penso ad esempio
al viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti, e in sostanza l’asservimento
del partito della Democrazia Cristiana e dell’Italia stessa al soldo ed
al volere degli americani. È la storia recente della concessione delle
basi Nato in Italia».
Ritorna dunque il rimprovero alla DC in chiave antiamericana. E la stessa Democrazia
Cristiana viene definita «strumento della borghesia capitalistica, e dalla
borghesia capitalistica scelto e diretto».
Veltroni se la prende anche con “Comunione e Liberazione”, tirando
in ballo Marx. Infatti, la convinzione di CL «che si debba cambiare i
rapporti umani perché possano cambiare le strutture» è da
contestare, secondo Veltroni, in quanto sarebbe «l’esatto opposto
della intuizione teorica di Marx contenuta nella splendida prefazione a Per
la critica dell’economia politica».
Ecco i consigli di lettura che dava ai suoi coetanei nel 1976: la «splendida
prefazione» di Karl Marx. I “santini” del comunismo sono ancora
dei fari luminosi, per Walter. Del resto, nel numero 13 (settembre 1976) sempre
Roma Giovani pubblica un paginone centrale dedicato non a Ian Palach bensì
a Mao, dove sotto una grande foto del leader cinese si legge (in un testo non
firmato): «Ricordando il compagno Mao Tse Tung e quanto di positivo Egli
è riuscito a realizzare anche nel nostro paese, a tante miglia di distanza
dalla sua Cina, noi oggi auspichiamo il recupero di un nuovo clima di comprensione
e di rispetto, di solidarietà internazionale fra i partiti comunisti
e operai del mondo intero».
Una simile lettura avrebbe dovuto agghiacciare Walter, che disprezzava i regimi
socialisti.
Mentre oggi apprendiamo che Veltroni fin da ragazzo riteneva l’URSS «un
nemico da abbattere», nel 1976 deve fingere di credere esattamente il
contrario, utilizzando una frase di Togliatti dove si additano come «nemici
per l’Italia» i seguaci degli USA: «Per trent’anni siamo
stati dipendenti economicamente e politicamente dagli Stati Uniti, la DC è
stata connivente con la guerra nel Vietnam. Kissinger può indisturbato
rivolgere apprezzamenti sulla situazione politica italiana, i ministri DC e
chissà chi altro prendono i soldi dalle fabbriche di aerei americane.
Alla faccia dell’indipendenza e dell’autonomia! Diceva Togliatti,
parlando alla Federazione Romana nel ’44: “A coloro, agenti di questa
politica antinazionale, che dicono: la nostra rovina sono i comunisti, sono
i socialisti; cacciamo i socialisti e i comunisti dal potere, poi vedrete tutto
quello che riceveremo, gli Stati Uniti ci manderanno i dollari, l’Inghilterra
ci darà chissà quanti chilometri di sabbia nell’Africa sui
quali potremmo ricostruire ancora una volta un nuovo e bellissimo impero…
a costoro diciamo: voi siete dei nemici per l’Italia”».
C’è un altro tassello da aggiungere al ritratto del giovane Veltroni.
Al convegno della FGCI di Roma “Per il riscatto di questa generazione”,
che si svolge il 7-8 aprile 1976, Veltroni è relatore e avrà poi
il compito di aprire la manifestazione conclusiva dell’11 aprile, al cinema
Metropolitan (a fianco di Massimo D’Alema).
Il documento preparatorio del convegno, stilato in gran parte dallo stesso Veltroni,
è significativo. Vi si legge il consueto ritratto a fosche tinte della
società americana. In America, recita il documento, «alla società
giovane, ribelle e rissosa, seguì l’organizzazione della malavita,
le grandi speculazioni, la tendenza alla guerra, la violenza della Polizia e
dello Stato [notare le maiuscole, n.d.r.]. L’America che gli italiani
conobbero di persona fu questa e questa America ha influenzato negativamente
lo stato d’animo ed il modo di vita dei giovani».
Il faro indicato dal documento è ancora quello di Palmiro Togliatti,
per una sua risposta del 1962 alla lettera di un giovane. Una pagina e mezza
del documento è dedicata al testo di Togliatti (definito «grande
dirigente comunista»), con questa chiosa: «Ci vorremmo scusare per
la lunghezza della citazione, ma crediamo che sia così significativa
e chiara che, non solo non abbia annoiato, ma anzi ci permette di consigliare
la lettura completa della lettera e della risposta di Palmiro Togliatti».
La retorica di scuola comunista cresce nelle ultime pagine: «Se la costruzione
della società socialista vuole essere una grande esperienza creativa,
allora diciamo che la rivoluzione deve vivere già oggi nella lotta e
nella vita di questa generazione… Il socialismo ed il comunismo debbono
essere così il progetto di più alta realizzazione della libertà,
di più grande valorizzazione del lavoro come forza motrice della storia».
Il finale è un tripudio: «Occorre comprendere come oggi stesso
“fare politica” significa edificare mattone per mattone una società
nuova, significa partecipare al progetto ambizioso della vittoria della rivoluzione
proletaria in occidente, di quella rivoluzione che noi portiamo avanti e che
tutti i giovani debbono vivere e far vivere da oggi».
La terminologia è ben più rozza di quella usata dal PCI nello
stesso periodo. Il Partito non avrebbe mai evocato la «rivoluzione proletaria»
in un suo documento, ma Veltroni ha un chiodo fisso: far concorrenza ai «gruppi
estremisti», che nelle scuole e nelle università hanno un consenso
ben maggiore della FGCI. E allora diventa necessario appesantire il linguaggio
con qualche parola gradita a un uditorio avvezzo ai proclami rivoluzionari.
Il sostantivo rivoluzione e l’aggettivo rivoluzionario, infatti, sono
ripetuti a ogni piè sospinto, persino nelle ultime righe: «Da questa
volontà e da questo progetto, al quale vogliamo guardino gli studenti,
le ragazze, i giovani operai, e disoccupati, nasce la possibilità per
una intera generazione di dire no all’isolamento e alla sconfitta, e costruire
con grande determinatezza e grande slancio rivoluzionario quella che noi vogliamo
chiamare la “società del riscatto”».
La rivista Roma Giovani chiude quando la FGCI e il PCI sono presi alla sprovvista
dall’improvvisa esplosione del cosiddetto “movimento del ’77”.
Walter Veltroni è ancora segretario della FGCI romana quando scoppiano
gli scontri all’Università di Roma che si concludono con la “cacciata
di Lama”. Di certo è corresponsabile della sottovalutazione dei
rapporti di forza nell’ateneo romano, almeno quanto il funzionario del
PCI Gustavo Imbellone, su cui sarà fatta cadere la colpa per quella disfatta.
Per Walter il destino è meno severo. È costretto a difendere la
giustezza di quella fallimentare prova di forza all’università
anche in un’intervista a La Repubblica, ma dopo questo episodio la sua
stella momentaneamente si opacizza. Secondo la regola del “promoveatur
ut amoveatur”, fin dal maggio 1977 viene sollevato dalla guida della federazione
giovanile e spostato al partito, dove gli si affida la responsabilità
della propaganda. Contestualmente, come ogni ex-segretario provinciale della
FGCI, viene nominato nella segreteria romana del partito. Delle vicende in cui
è stato coinvolto fino a pochi mesi prima è meglio che non si
occupi più, e al mega-convegno del PCI e della FGCI “La crisi della
società italiana e gli orientamenti delle nuove generazioni”, organizzato
nell’ottobre 1977 proprio per riflettere sulla grave situazione provocata
dal movimento del ’77, Veltroni resta in disparte e non prende nemmeno
la parola.
Ormai il capitolo FGCI è chiuso (suggellato anche dal suo primo libro,
Il PCI e la questione giovanile), e il compagno Walter «è passato
al partito». Nel PCI romano di via dei Frentani, il suo referente è
Luigi Petroselli, segretario della federazione e comunista “tutto d’un
pezzo”, all’antica.
Sull’onda delle vittorie elettorali del PCI, e con il consenso attivo
di Petroselli, Veltroni già nel 1976 era diventato consigliere comunale
di Roma (rimarrà in questa carica fino al 1981). È la fase in
cui si rafforza quella che Stephen Gundle definisce «la troika dei giovani
comunisti romani»: Ferdinando Adornato (da direttore della Città
Futura a capo della sezione cultura dell’Espresso, poi animatore di Alleanza
Democratica), Gianni Borgna (autore di saggi sul festival di Sanremo) e Walter
Veltroni (ma si potrebbero aggiungere figure minori come Goffredo Bettini e
Carlo Leoni).
Veltroni, poi, sceglie di legare, con acuta preveggenza, il suo nome a quello
di un dirigente del PCI allora in ascesa, Achille Occhetto. È proprio
Veltroni a firmare, nel 1978, un libro-intervista con Occhetto dedicato al ’68.
Tuttavia, paga pegno alle velleità dell’Occhetto di allora, ancora
comunista “doc” e vicino alla sinistra ingraiana. Così, nell’intervista
Veltroni fa capire che il leninismo è ancora un bene prezioso, tanto
che i gruppi estremisti vengono convenzionalmente tacciati di «deformazione
caricaturale del leninismo».
AGENTE SEGRETO VELTRONI
FILE n. 2
GLI ANNI OTTANTA
Mentre nel 1980 Massimo D’Alema viene spedito da Enrico
Berlinguer in Puglia, a farsi le ossa tra le mille difficoltà del partito
al sud, Veltroni nella tranquillità del suo ufficio alle Botteghe Oscure
può dedicare il tempo libero alla scrittura.
Infatti, ad appena venticinque anni è stato nominato viceresponsabile
nazionale della “Stampa e propaganda”. Il salto è compiuto:
dalla federazione romana alla sede nazionale del partito.
Da allora abbandona per qualche tempo il generico presenzialismo politico e
veleggia verso l’impegno soprattutto nel campo dell’industria culturale
e delle comunicazioni di massa. È in questo settore che maturerà
un approccio alla politica in cui i contenuti non sono più importanti,
ma vale solo la ricerca di consenso da parte delle industrie culturali e del
“pubblico” di massa.
Dal suo osservatorio massmediologico, Veltroni ha percepito che si sta delineando
un revival degli anni ’60, e allora eccolo pubblicare un libro scritto
con il suo collaboratore di allora Gregorio Paolini (oggi dirigente televisivo).
Il sogno degli anni ’60 raccoglie i ricordi di svariati personaggi, da
Gianni Morandi che rievoca il Cantagiro, a Giuliano Zincone e Giuliano Ferrara,
fino ad Alessandro Curzi e Renato Nicolini. Una ghiotta occasione per intrecciare
ulteriori legami con personalità della politica e dello spettacolo, oltre
che per avere risalto sui media.
Il libro suscita le sferzanti ironie di Goffredo Fofi, ma Veltroni ha già
pronta la seconda cartuccia: un altro libro con le stesse caratteristiche, dedicato
questa volta al calcio.
La scalata non si arresta: è eletto per la prima volta nel Comitato Centrale,
a ventisette anni, al XVI congresso del PCI, che si svolge a Milano nel marzo
1983. È ancora il partito di Enrico Berlinguer, e con il beneplacito
del segretario, Veltroni diventa il più giovane membro del CC (ma deve
scontare una votazione tormentata, in cui riceve 26 voti contrari e 45 astensioni).
Al congresso, però, non prende la parola, forse per non rivelare il suo
disappunto e il suo orrore per la presenza, tra le delegazioni dei partiti esteri
al congresso, non solo del Partito comunista dell’Unione Sovietica e del
Partito comunista cinese (alla guida delle due grandi dittature comuniste nel
mondo di allora), ma anche di innumerevoli organizzazioni dei vari regimi oppressivi
dell’est europeo, dal Partito comunista bulgaro al Partito comunista cecoslovacco
(per colpa del quale si immolò Ian Palach, l’eroe di Veltroni),
del Partito operaio unificato di Polonia persecutore di Wojtyla, persino della
terribile SED della Germania orientale (i cui vertici finiranno in prigione
dopo la caduta del Muro), del Partito comunista romeno del boia Nicolae Ceausescu,
del Partito del lavoro di Corea guidato dal tiranno Kim-Il-Sung. E di quei paesi
erano state invitate, ed erano presenti, persino rappresentanze delle ambasciate!
La coscienza anticomunista di Veltroni, evidentemente, ribolliva, soffriva:
ma la sua missione (scalare i vertici del PCI) gli imponeva il mascheramento
delle sue vere opinioni.
Come premio per il suo ossequioso silenzio, Veltroni ottiene anche la carica
di responsabile della sezione “comunicazione di massa”: non è
più un “vice”, finalmente.
Assolutamente allineato sulla linea di Enrico Berlinguer, il nostro si allineerà
altrettanto tranquillamente ai suoi successori.
Dopo l’improvvisa morte di Berlinguer, infatti, il partito vive una duplice
contraddizione. Ha perso il suo leader più carismatico e amato, e deve
fare i conti con una crisi pluriennale della propria politica, segnalata anche
da altalenanti risultati elettorali: se le elezioni europee a pochi giorni dalla
scomparsa di Berlinguer sono un trionfo, il trend del PCI nelle elezioni nazionali
e locali è in costante discesa. E il nuovo segretario del partito, Alessandro
Natta, stenta a trovare un orientamento capace di invertire la tendenza e soprattutto
di tenere in equilibrio le varie anime del PCI.
In tanta tempesta, però, Veltroni riesce a non prendere mai una posizione
autonoma. Per lui, chi comanda il partito ha sempre ragione. E ora il nuovo
capo del PCI è Alessandro Natta, un comunista senza pentimenti, che rimarrà
tale anche dopo il futuro scioglimento del partito.
All’importante Comitato Centrale del maggio 1985, naturalmente il compagno
Veltroni dichiara di condividere la relazione di Natta (il rito del consenso
al leader non deve essere infranto). Certo, riappare l’ossessione veltroniana
per gli USA, ma in chiave critica, come accadeva al Veltroni pre-DS. Questa
volta l’obiettivo polemico sono i democratici americani, che presto diventeranno
invece il suo faro-guida: «Vedo il rischio che la sinistra italiana compia
lo stesso errore di Mondale e dei democratici americani: l’idea di un
blocco sociale tradizionale, di un partito locomotiva al quale agganciare tutti
i vagoni delle minoranze, senza sintesi, in pura giustapposizione».
Tuttavia in questo periodo lo spirito filo-americano di Veltroni può
ormai riaffiorare senza troppi freni. Aprendo un fascicolo speciale sui mass
media del bimestrale Critica Marxista (testata che doveva apparirgli quantomai
odiosa per il suo titolo retrò), Veltroni scrive che anche in Italia
i giovani talenti devono trovare l’opportunità di esprimersi: «I
sogni non si devono realizzare solo negli USA. Kevin Reynolds, un giovane studente
americano, inviò un giorno una sua sceneggiatura a Steven Spielberg che
la lesse e gli fece assegnare un budget di 7.000 dollari. Reynolds realizzò
così il primo film della sua vita, Fandango».
Un’America dei sogni, dove i giovani grazie al libero mercato possono
diventare d’incanto ricchi e famosi.
Ma Veltroni paga ancora un pegno al vecchio PCI, tessendo le lodi, nello stesso
saggio su Critica Marxista, di Enrico Berlinguer e «di quello straordinario
manifesto di “modernità” rappresentato dalla sua intervista
sul 1984».
Forse Veltroni non aveva letto bene il testo di Berlinguer. L’allora segretario
del PCI, infatti, in quell’intervista del 1993:
a) stigmatizzava l’uso che era stato fatto negli anni ’50 del 1984
di George Orwell («la reazione che ebbi allora fu probabilmente molto
influenzata dall’utilizzazione che del libro si fece durante la guerra
fredda: antisovietica e anticomunista»);
b) negava che si fosse realizzata nel mondo una società simile a quella
paventata da Orwell (grazie «ai nuovi traguardi raggiunti nel riscatto
delle masse proletarie»);
c) contrapponeva a Orwell il Jack London del Tallone di ferro e se la prendeva
con la presenza nel pensiero e nell’azione del movimento socialista in
Italia «di una visione che non era propria di Marx»;
d) attaccava il presidente americano Ronald Reagan per avere usato, nei confronti
dell’URSS, «un’espressione medioevale come “Impero del
Male”»;
e) usava ripetutamente per descrivere le politiche dell’occidente la categoria
di “imperialismo” e rivendicava «il coraggio di una Utopia
che lavori sui “tempi lunghi”»;
f) si preoccupava di una guerra nucleare globale, «davvero possibile»,
e proponeva il «disarmo totale»;
g) negava che l’irruzione dell’elettronica nei nuovi processi industriali
mettesse in discussione le teorie classiche dei comunisti: «Mi pare che
sia assolutamente da respingere l’idea che questi nuovi processi costituiscano
una confutazione del marxismo e del pensiero di Marx in particolare»;
h) riteneva ancora attuale il concetto di “sol dell’avvenire”
della cultura socialista e comunista («se guardiamo alla realtà
del mondo d’oggi chi potrebbe dire che quegli obiettivi non siano più
validi?»).
All’epoca, per il Veltroni pubblico (perché in privato aveva di
certo ben altre opinioni) non solo Togliatti, ma anche Berlinguer fa parte dell’empireo
dei “buoni”, dei leader comunisti da citare con ammirazione.
Alla metà degli anni ’80 la sua attività, però, non
gli offre molte chance per le riflessioni ideologico-politiche sulla storia
del partito e del comunismo. Continua infatti ad essere concentrata sui mass
media, dalle stanze dell’ufficio stampa del PCI, e in particolare si occupa
del servizio pubblico radiotelevisivo, il luogo del “potere” nel
settore delle comunicazioni e dell’informazione. Ed ecco che nel 1987
si rivela artefice della nuova spartizione delle reti televisive pubbliche tra
le forze politiche. In base a quell’accordo la terza rete viene assegnata
al PCI. Secondo Nello Ajello, «la terza rete nasce da un incontro fra
Biagio Agnes, direttore generale, ed Enrico Manca, presidente dell’ente
di viale Mazzini, con Walter Veltroni, plenipotenziario delle Botteghe Oscure
per l’informazione». E sempre Ajello definisce Veltroni «autore
dell’operazione per conto del PCI».
Con questa manovra Veltroni cattura il consenso di Angelo Guglielmi, nominato
direttore della rete, intellettuale dell’ex Gruppo ’63, da allora
sempre più potente nelle scelte culturali non solo della televisione,
ma anche dell’editoria italiana, e di Sandro Curzi, scelto per dirigere
il Tg3 e legato all’anima continuista del vecchio PCI.
Il 1987 è un altro anno di successi nella gerarchia interna del partito.
Al Comitato Centrale del luglio 1987 Veltroni è promosso all’unanimità
capo della sezione “Stampa e propaganda”. E soprattutto è
diventato deputato della X legislatura, e subito nominato componente della commissione
speciale per il “Riordino del settore radiotelevisivo” (in seguito
sarà membro anche della commissione Istruzione e di quella dei Trasporti).
Con tanti trionfi, non ci si stupisce se l’onorevole Veltroni nel 1987
viene definito «l’enfant prodige romano». Il suo talento è
pronto per essere messo al servizio del successore di Natta, Achille Occhetto.
Veltroni fa subito parte dei luogotenenti di Occhetto, detti gli “achillei”
da Giampaolo Pansa, e nel 1988 entra finalmente nella segreteria nazionale del
PCI.
Si avvicina il momento della svolta occhettiana, sotto i mattoni del Muro di
Berlino prossimo al crollo. Ma non deve rivelare alcuna fretta innovatrice,
il cauto Veltroni, per non inimicarsi nessuna “anima” del partito.
Al diciottesimo congresso del PCI, nel marzo 1989, delegato di Roma, prende
la parola. Il clima nel partito è incandescente, ma Veltroni smentisce
con forza che le intenzioni del gruppo dirigente occhettiano, di cui lui stesso
fa parte, siano di sciogliere il PCI.
La sua affermazione è esplicita, ancor più di quanto lo siano
gli interventi di altri leader occhettiani: «La direzione che abbiamo
preso non è quella dello scioglimento del PCI, è quella della
sua ripresa. Così costruiamo il nuovo corso, la nuova sintonia del PCI
con i mutamenti della società».
Di più: «Sbaglieremmo se scegliessimo la via della chiusura settaria
ma anche se pensassimo che la soluzione sia arrotolare, come fossimo al tramonto,
bandiere e striscioni».
Dunque la bandiera rossa del PCI, con falce martello e stella (esattamente uguale
a quella sovietica, se non fosse per l’aggiunta del tricolore sullo sfondo),
non va arrotolata.
E con lo scopo di attirarsi (all’epoca) il consenso dell’anima antiamericana
del partito, Veltroni non esita a parlare delle società occidentali come
di «una realtà che non si riesce più a controllare»,
e che si presenta «in una forma allucinata» proprio negli Stati
Uniti: «Non alla periferia del mondo ma al suo centro, a Washington, dopo
le 23 non si può uscire».
Il PCI e il dirsi comunisti è forse un ostacolo all’avvenire della
sinistra? Niente affatto. Proprio Veltroni, che nel 1999 dichiarerà che
comunismo e libertà sono incompatibili e che respinge la stessa dizione
di “ex-comunisti” per i diessini, al diciottesimo congresso conclude
il suo intervento esclamando: «Oggi noi siamo una forza autonoma e unitaria.
È finito il tempo in cui ci si poteva dividere in filo-socialisti e filo-DC.
Siamo tutti filo-comunisti».
Al termine del congresso viene rieletto nel Comitato Centrale con 12 no e 12
astensioni (e L’Unità, che enfatizza «gli otto voti contrari
a Ingrao», sottolinea invece che su Veltroni ci sono stati «applausi
per quei soli 12 no e 12 astenuti»).
Poco dopo sarà eletto anche nella direzione e nella segreteria, sempre
incaricato di seguire la propaganda e l’informazione. Ora è arrivato
nella stanza dei bottoni, e può concedersi qualche vezzo conversando
con i giornalisti. A La Repubblica dichiara candidamente di amare papa Giovanni
XXIII e di essere intento a scrivere un libro sui Kennedy («dedicato soprattutto
alla figura di Bob, che ritengo massima espressione del pensiero liberal-democratico
negli Stati Uniti»): finalmente può cominciare a togliersi la maschera
del comunista e rivelare quello che il nostro dossier conferma, e cioè
la sua vera identità.
Nella stessa occasione si lascia andare a qualche commento politico: «La
situazione è brutta, sembra d’essere tornati agli anni ’50,
con Andreotti e Martelli che siedono nello stesso governo».
Veltroni non prevedeva, forse, che un decennio dopo il governo Prodi di cui
sarebbe stato numero due e poi il governo D’Alema avrebbero visto insieme,
tra gli altri, proprio ex-comunisti, andreottiani e socialisti.
Ma veniamo al Comitato Centrale della svolta di Occhetto (20-24 novembre 1989).
Ancora una volta Veltroni si dimostra tutt’altro che coraggioso nel sostenere
la linea del segretario. Il suo è anzi uno degli interventi più
moderati, senza accelerazioni che evidentemente ritiene rischiose per la sua
immagine. Fino al punto di dimostrarsi quasi conservatore del “bene inestimabile”
del PCI. Afferma nel suo intervento che la svolta di Occhetto prospetta «non
la liquidazione di valori, ma il loro inveramento, come affermazione nel tempo
che viviamo. Per questo riterrei il concetto di omologazione antitetico a questa
idea politica».
E ancora: «Se la proposta dell’unità socialista è
la sollecitazione alla reductio ad unum, magari in forme e tempi praticabili,
ciò che sarebbe in discussione non è solo la rinuncia al nome
e al simbolo ma la rinuncia ai programmi e alle ragioni del PCI. L’esatto
opposto della proposta che abbiamo avanzato».
Dunque la proposta occhettiana non prevederebbe per Veltroni la rinuncia alle
ragioni del PCI. Parole ben distanti da quelle con cui egli stesso argomenterà
la nascita del PDS e poi dei DS.
Per altro, la firma di Veltroni appare sotto il documento Dare vita alla fase
costituente di una nuova formazione politica. Un documento che compie lo strappo
definitivo con il PCI, ma che conserva un continuismo presumibilmente incompatibile
con le idee di Veltroni per come le conosciamo nel 2000. Si legge: «Il
PCI non è stato una variante nazionale dello stalinismo. Non è
per doppiezza o per calcolo strumentale che fummo tra i fondatori della democrazia
parlamentare, attori principali del suo rinnovamento, difensori delle libertà
continuamente minacciate dalle vecchie classi dirigenti, attori di grandi processi
di emancipazione e promozione sociale che hanno caratterizzato questo mezzo
secolo dell’Italia repubblicana. Ciò deve essere detto con chiarezza,
e non per ragioni di patriottismo di partito ma perché non farlo significherebbe
imbiancare le pagine più importanti scritte in questi decenni dalla cultura
riformatrice italiana».
AGENTE SEGRETO VELTRONI
FILE n. 3
DAGLI ANNI NOVANTA AL DUEMILA
Agli esordi degli anni ’90, Veltroni continua a occuparsi
soprattutto di radiotelevisione. Nel 1990, titola un suo libro sulla politica
televisiva del PCI Io e Berlusconi. Poi lancia una grande campagna per proibire
l’interruzione con spot pubblicitari dei film trasmessi in tv: «Non
si interrompe un’emozione». Una campagna fallita e dimenticata,
ma che serve come cassa di risonanza per Veltroni nel ceto intellettuale meno
scaltro.
Lo stesso ceto intellettuale che Veltroni chiama a raccolta, il 10 febbraio
1990, al cinema Capranica di Roma. È la “Sinistra sommersa”,
un’operazione di corto respiro (dalle sue ceneri nascerà l’effimera
Alleanza Democratica di Ferdinando Adornato), ma che serve a Veltroni per schierare
con sé e con Achille Occhetto molte “celebri firme”.
Si tratta di uno schieramento utilissimo, dato che si avvicina il diciannovesimo
congresso del PCI, in un clima agitato e con una forte opposizione al progetto
di scioglimento del partito. Per Veltroni, però, non è ancora
giunto il tempo di prendere le distanze dalla storia del PCI. Tutt’altro.
Per lui il PCI è una bandiera da difendere anche al congresso, che si
tiene a Bologna nel marzo 1990. Veltroni enfatizza il fatto che «la svolta»
ha un solo obiettivo: «Evitare il declino del PCI per costruire le condizioni
perché le ragioni e gli ideali del nostro partito possano vivere e vincere
nell’Italia degli anni ’90».
Dunque l’obiettivo è evitare il declino del PCI, non sciogliere
il partito. Del resto, nel gennaio del 1991, a Rimini, al ventesimo Congresso
del PCI, quello in cui muore il PCI e nasce il PDS, Veltroni continua a rivendicare
la sua appartenenza alla storia del PCI, distinguendo nettamente tra «i
comunisti» (ai quali ancora sostiene di appartenere) e «gli esterni»:
«Per tutti noi che portiamo la parte più viva della grande storia
e della originalità politica dei comunisti italiani, per gli esterni
che recano nuove culture e competenze è ora davvero un nuovo inizio».
Veltroni al Congresso si schiera contro la Guerra del Golfo, richiamando Robert
Kennedy e i suoi antichi dissensi per la guerra del Vietnam. Però non
parla più di socialismo, non cita più Lenin e Togliatti, e riduce
l’alternativa alla «riforma del sistema politico, dei meccanismi
elettorali, degli strumenti di governo». Una logica, dunque, tutta istituzionale.
Tuttavia la sua firma appare in calce alla mozione presentata da Achille Occhetto
per il Partito Democratico della Sinistra, dove i legami con la storia comunista
sono ancora enfatizzati. Si legge nella mozione che il PDS si propone «il
grande obiettivo del socialismo. La bandiera del nuovo partito sarà,
pertanto, la bandiera rossa».
E la mozione firmata da Veltroni aggiunge: «Non è il crollo del
“socialismo reale” all’origine della nostra proposta. Da quando,
abbattuto il fascismo, i comunisti italiani poterono sviluppare liberamente
la loro azione non si sono mai proposti di imitare quei modelli. Hanno seguito,
invece, una propria via, fondata sull’affermazione del legame inscindibile
fra democrazia e socialismo. Noi, quindi, non dobbiamo rinnegare una storia
e una tradizione per entrare a far parte di un’altra».
E se Veltroni, nell’intervento al Congresso, mette «in primo luogo»
i ritocchi istituzionali e la legge elettorale, nella mozione sotto cui appone
la firma viene citato Marx e si parla (togliattianamente e con linguaggio cripto-marxista)
di un «riformismo forte, capace di incidere non solo sui processi distributivi
ma sulle strutture, di investire direttamente un meccanismo di accumulazione,
la cui forza risiede oltre che nei rapporti economico-sociali nel modo di essere
dello Stato».
Che la continuità con il PCI (almeno di immagine) stesse a cuore al gruppo
occhettiano di Veltroni lo dimostrava persino il simbolo scelto per la nuova
formazione politica, dove il marchio del PCI (falce, martello e stella su bandiera
rossa e tricolore) rimane ai piedi della quercia. Secondo Ajello, quel simbolo
sarebbe proprio una creatura di Veltroni: «È stato Veltroni, “l’americano”,
a curare, come responsabile della propaganda, la messa a punto del simbolo della
quercia, disegnato dal grafico delle Botteghe Oscure, Bruno Magno».
Con il nuovo partito, Veltroni ascende al trono di direttore dell’Unità,
carica che mantiene dal maggio 1992 fino all’aprile 1996. La sua gestione
si caratterizza per l’allontanamento o l’emarginazione dei giornalisti
contrari alla svolta occhettiana, mentre acquistano spazio alcune vecchie conoscenze
di Veltroni ai tempi della FGCI.
Ma quel che piace a Veltroni sono le “iniziative speciali” del suo
giornale. Tra le più eclatanti, la sua trovata del 1994 di vendere gli
album di figurine dei calciatori Panini allegate a L’Unità.
Accanto alle figurine, Veltroni sviluppa l’operazione delle videocassette.
Un espediente che nasconde momentaneamente la drammatica crisi finanziaria del
quotidiano: nei giorni in cui è allegata una cassetta di successo, le
vendite risalgono, per poi precipitare di nuovo quando non c’è
gadget. Con le videocassette Veltroni occulta il declino dell’Unità:
il rialzo di vendite si rivela un’illusione ottica, si moltiplicano i
consumatori che acquistano il giornale solo per avere la cassetta, senza maturare
alcuna “fedeltà” al quotidiano.
Nel 1994 Veltroni decide di auto-candidarsi per la segreteria del PDS. Riesce
a ottenere il consenso dei dirigenti locali del partito, nel corso di una sorta
di referendum interno. Ma al Consiglio Nazionale del PDS perde il duello con
D’Alema.
Ha inizio in quell’occasione una sfida tra Veltroni e D’Alema che
non si è ancora conclusa. Obiettivo di Walter è quello di additare
l’avversario come esponente di una vecchia sinistra tradizionalista, schematico,
inviso ai moderati. Mentre lui si presenta come campione della «bella
modernità» (una sua formula ricorrente) e del nuovo: «Noi
vinceremo solo se saremo più moderni della destra», afferma al
fatidico Consiglio Nazionale del giugno 1994.
L’appello al moderno non convince i suoi colleghi di partito, e Veltroni
perde la corsa alla segreteria, pur avendo le redini del giornale del PDS.
Presto conierà le sue nuove definizioni della politica: dal «cammino
delle persone» a «la bella politica», titolo del libro che
scrive per Rizzoli nel 1995. Il suo La bella politica contiene una vibrante
lettera alle sue due figlie, dove si legge: «Certe volte provo a immaginarlo,
il loro futuro. Non so perché, quando chiudo gli occhi, penso a una notte
di Natale. Penso che si incontreranno con le loro famiglie e ci saranno i loro
bambini e la storia continuerà… ».
Nello stesso libro (aperto da un apologo del cardinal Martini, definito «biblista
magnifico»), Veltroni afferma: «Ho dedicato tutta la mia vita politica
a un obiettivo: far incontrare i democratici». Forse dimentica i suoi
anni alla FGCI, quando, come abbiamo visto, aveva in mente soprattutto «l’egemonia»
dei comunisti sulle altre forze politiche.
Ma Veltroni si vanta per la prima volta anche della sua passata ostilità
verso i paesi del socialismo reale: un’ostilità che, abbiamo visto,
a dire il vero non si è mai palesata. Dice nel suo libro: «Io non
sono mai andato all’estero, nei paesi socialisti». Falso. Quantomeno,
ha partecipato a meeting della gioventù comunista in Germania est.
Del resto, nel 1994 Veltroni comincia a rivelare le sue carte a lungo mascherate:
«In questi giorni, da più parti, si è scritto del mio interesse
per il kennedismo, o il clintonismo, o il rooseveltismo. Non ho detto, come
di solito si fa, presunto. Perché il mio interesse è reale».
Dunque, può liberarsi anche dell’ultima “copertura”.
È uomo degli americani, e ora può dirlo: non deve più respingere
le insinuazioni con un «presunto».
Abbiamo visto che Veltroni mai, neppure per un momento, si è distanziato
pubblicamente dalle posizioni dominanti nel PCI. Non c’è la seppur
minima traccia di “dissenso” nelle sue dichiarazioni, nei suoi comportamenti
e nei suoi scritti. Eppure, a partire dalla metà degli anni ’90,
ha iniziato un’opera di permanente manipolazione riguardo alla sua biografia
politica. Ora deve accreditarsi come l’uomo che non ha mai condiviso le
«pagine tragiche» del PCI o le contraddizioni del «più
grande partito comunista d’occidente», arrivando a ridipingere sé
stesso come un tenace avversario della linea prevalente nel vecchio PCI. È
rivelatore di questa manipolazione uno scambio di battute tra Veltroni e l’ex
segretario democristiano Ciriaco De Mita nei corridoi di Montecitorio, secondo
quanto riportato dal Corriere della Sera. A un Veltroni che lo aveva pesantemente
criticato per alcune sue affermazioni, De Mita dice: «La verità
è che siete solo degli opportunisti, non guardate in faccia a niente
e a nessuno… ». E Walter replica: «Che cosa vuoi dire, che
sono comunista? Io sono sempre andato controcorrente, anche nel mio partito».
De Mita: «Ma fammi il piacere… ».
L’allineamento totale di Veltroni alle tesi predominanti nel PCI è
raccontato anche da un suo ex compagno di partito, Paolo Franchi, che lo conosce
bene. Franchi anni fa ha scritto che la caratteristica di Veltroni, fin da ragazzo,
è stata «la fedeltà assoluta ai gruppi dirigenti in carica»,
e ne delineava questo ritratto: «Scarso gusto per la lotta politica interna,
modesto tasso di passione ideologica, attenzione estrema alle modificazioni
anche minute dei rapporti di forza nel partito, sforzo costante di miscelare
nelle giuste dosi modernità e attaccamento al “patrimonio storico
del PCI”».
E nel 1989 La Repubblica informava che Veltroni era soprannominato nel PCI “compagno
Perfettini”, per la sua «miscela di fantasia e diligenza»:
un vero modello, persino imbarazzante, di fedeltà ai vertici.
Ma torniamo agli anni ’90. La lotta con D’Alema, nel frattempo,
ha relegato Veltroni a cercare la scalata di potere momentaneamente fuori dalle
strettoie di partito, per navigare verso l’alleanza di centrosinistra.
Non che gli manchino le cariche: è direttore dell’Unità,
deputato, numero due del PDS e finanche critico cinematografico per il Venerdì
di Repubblica. Ma la mancata nomina a segretario del partito gli brucia.
Le elezioni regionali del 1995, poi, abbastanza soddisfacenti per il PDS, fanno
sfumare i suoi sogni di rivalsa su D’Alema. Dopo aver criticato la scelta
di Romano Prodi come candidato del centrosinistra, perché sarebbe stata
una concessione di D’Alema al PPI, ecco che diventa il numero due proprio
dell’ex DC Prodi nella corsa per Palazzo Chigi.
Certo, gli pesa il destino di eterno numero due (prima di D’Alema, ora
di Prodi), ma se la coalizione di centrosinistra vincesse, per lui si aprirebbero
finalmente le porte del Potere con la P maiuscola: il governo, vero oggetto
del desiderio della covata di quarantenni dell’ex PCI.
Per raggiungere questo obiettivo, ora conta su appoggi a largo raggio. Con lui,
da tempo, c’è La Repubblica. Ma anche “ceti sociali”
molto, molto antichi. Non la classe operaia, però: l’aristocrazia.
Durante la campagna elettorale, infatti, Roma ospita una festa organizzata espressamente
per lui dalla principessa Damietta Hercolani del Drago, a Palazzo del Drago,
in via delle Quattro Fontane. È la nobiltà di Roma che si incontra
con il leader ulivista, per celebrarlo. Una cena dell’aristocrazia, con
alcune decine di invitati eccellenti. Piace ai nobili capitolini, il secondo
di Prodi. Gente raffinata, che preferisce l’ex-leninista di buona famiglia
Walter al parvenu Berlusconi.
La campagna elettorale “a tutto campo” porta i suoi frutti, e il
21 aprile 1996 i risultati elettorali consentono a Veltroni di coronare il suo
sogno governativista: è Vicepresidente del Consiglio dei Ministri, e
nel primo governo Prodi ricopre anche l’incarico di Ministro per i Beni
Culturali.
Incautamente, si lascia andare più volte ad affermazioni perentorie,
dicendosi sicuro che il suo governo avrebbe superato la soglia del 2000. Invece
Prodi deve capitolare molto presto, e Veltroni torna a impegnarsi nel suo partito.
O meglio, nel terzo partito della sua vita. Dopo il PCI e il PDS, infatti, ora
è il momento dei Democratici di Sinistra. Ma questa volta il comando
è tutto suo. Mentre D’Alema assurge alla carica di Presidente del
Consiglio, per Veltroni è pronto il passo conclusivo della sua antica
missione segreta: conquistare il ruolo di segretario nazionale del partito.
Dal 6 novembre 1998 è Segretario politico dei Democratici di Sinistra.
Ora che il suo compito è assolto, può rapidamente liberarsi di
ogni infingimento, e scoprire le sue carte. Soprattutto può sostenere
pubblicamente il suo odio per il comunismo.
Quando scoppia “l’affare Mitrokhin”, molti intellettuali,
in particolare dalle colonne della Stampa, sollecitano Veltroni a dare una ulteriore
dimostrazione di distacco dalla propria storia, recidendo l’ultimo filo.
Dopo le bordate di Barbara Spinelli e Gianni Riotta, ecco che Veltroni coglie
la palla al balzo: non ne può più di vedersi rimproverata la sua
militanza ventennale nel PCI, è un ingombro che va tolto una volta per
tutte.
È venuto il momento di riscrivere la storia, la sua storia in particolare.
Gli mancava, infatti, l’abiura e lo “strappo” dall’intera
vicenda comunista, con l’equiparazione del comunismo al nazismo e l’affermazione
che comunismo e libertà sono stati «incompatibili». Per avvalorare
la sua differenza da questo ritratto a colori cupi dell’esperienza comunista,
e che finalmente Veltroni può esplicitare dopo tanto e lungo silenzio,
il nostro cerca di sbiancare tutta la sua biografia dal totalitarismo rosso.
Fino ad arrivare al punto di suggerire ciò che apparentemente è
incredibile: lui non ha colpe perché non è mai stato comunista,
giacché «si poteva stare nel PCI senza essere comunisti. Era possibile,
è stato così».
È quanto afferma nello “storico” articolo per La Stampa,
il 16 ottobre 1999, dal titolo “Incompatibili comunismo e libertà”.
Tra i primi apprezzamenti, quelli del capo di Alleanza Nazionale, Gianfranco
Fini.
Una lode che sarà ricambiata, di lì a poco, da Veltroni. Il 17
febbraio 2000, infatti, Veltroni, a proposito delle valutazioni del cancelliere
tedesco Schroeder, si affretta a spiegare che non si possono mettere sullo stesso
piano AN e il partito austriaco di Joerg Haider.
Nell’articolo “Incompatibili comunismo e libertà” la
demolizione del passato è globale, non risparmia nulla. C’è
persino una frase che non compare nel testo pubblicato da La Stampa il 16 ottobre
1999, ma che lo stesso quotidiano torinese, due giorni dopo, riporta in un box
riassuntivo: «Mi riconosco volentieri e sinceramente nell’affermazione
secondo la quale la rivoluzione russa non fu un successo tradito ma lo stravolgimento
di nobili ideali».
Dunque anche il Lenin così positivamente citato dal giovane Veltroni,
come leggevamo su Roma Giovani, ora è a sua volta relegato nel firmamento
dei “cattivi”, giacché la rivoluzione d’Ottobre di
per sé diventa «stravolgimento di nobili ideali» (mentre
il PCI di Enrico Berlinguer condannava Stalin, ma salvava sempre Lenin).
Passano pochi giorni, e Veltroni ribadisce le sue tesi durante un dibattito
al liceo classico Tasso di Roma, in occasione del convegno “L’ultimo
Ottobre. Ragionamenti sul comunismo come problema irrisolto”.
Ancora una volta Veltroni critica duramente il PCI degli anni ’80, senza
ricordare che, all’epoca, pur essendo un dirigente di quel partito lui
stesso non osò mai esprimere pubblicamente un dissenso. Dice Veltroni
che «occorre tagliare» quella che definisce «la parte tragica
della storia del PCI», una parte che sarebbe durata «sino alla seconda
metà degli anni ’80». Ebbene, come abbiamo visto, sono anni
in cui Veltroni è di casa a Botteghe Oscure, ha incarichi di responsabilità,
interviene a comitati centrali e congressi. Eppure mai, nemmeno una volta, il
Veltroni di allora pensò di scoprire il suo vero pensiero, mai scrisse
un articolo o dedicò un discorso a quella «parte tragica».
Adesso, invece, tutto ruota intorno all’ossessione del comunismo. Nel
suo discorso alla Festa nazionale dell’Unità, così come
nell’articolo su La Stampa, arriva a definire «il simbolo del migliore
Novecento» quello di un individuo che si batte contro i carri armati di
un regime comunista: «Se dovessi scegliere una immagine, una sola, della
grandezza del Novecento, prenderei la foto di un ragazzo di cui nessuno sa il
nome. È quel ragazzo cinese, con due buste di plastica in mano, che si
parò da solo di fronte ad una colonna di carri armati che andavano a
massacrare i suoi coetanei nella piazza Tien An Men. Sia quel ragazzo sconosciuto
e coraggioso, sia la sua voglia di libertà il simbolo del migliore Novecento».
Il Novecento è stato lungo, e di eroi e simboli forse ne ha avuti di
più significativi. Ma l’individuo isolato che si erge contro il
comunismo sembrava a Veltroni un’irresistibile metafora. Peccato che Veltroni,
un tempo acuto conoscitore dei meccanismi massmediatici, abbia dimenticato i
seri dubbi che esistono sulla genuinità di quell’episodio. Michele
Tito, che non è certo un provocatore anti-liberale, scrive nel giugno
1999: «Dieci anni or sono la foto del ragazzo che va incontro ai carri
armati e li immobilizza fece il giro del mondo e della protesta di Tien An Men
fece un’epopea. Ma quel giovane era un agente degli organismi di sicurezza.
Era un complice dei soldati dei carri armati e il suo improvviso sbucare dalla
folla per attraversare l’immensa via della Lunga Pace e mettersi sull’attenti
dinanzi alla colonna dei blindati era forse una messa in scena del potere. Il
racconto, meticolosamente documentato da uno studioso americano di origine cinese
ch’era in missione a Pechino e che si trovò ad assistere all’episodio,
fu pubblicato da una rivista degli universitari vietnamiti di California nel
’93, porta la firma del professor Tung Jen, è stato ripreso da
più parti e mai è stato smentito».
Ma quando Veltroni deve rimuovere «l’ombra del comunismo, che continuerà
a pesare a lungo, come un’ipoteca, sulle sorti della sinistra italiana»,
la forza delle belle immagini non ha bisogno di riscontri reali. Del resto,
nel mondo del Duemila, dov’è il confine tra fiction e reale, tra
manipolazione e verità?
L’importante, ormai, è rendere indiscutibile l’assioma secondo
cui il comunismo è «una delle più grandi tragedie del Novecento».
Sicuro di avere riscritto la storia una volta per tutte, Veltroni può
arrivare ad affermare in modo “totalitario”, nella relazione al
Congresso dei DS, che gli argomenti da lui sostenuti nell’articolo su
La Stampa sono «argomenti sui quali tra di noi non vi sono, non vi possono
essere, non vi potrebbero essere differenze». Un vero capo, deciso e potente,
che esclude qualsiasi differenziazione sulle proprie parole, proprio come avveniva
ai leader dei partiti comunisti di un tempo. Del resto, sa che ormai la sinistra
interna ed esterna ai DS è talmente anestetizzata e divisa da non avere
nemmeno la forza di reagire. Della sua relazione al congresso parleranno tutti
bene, dai Verdi (che non trovano niente da dire quando Veltroni mette le istanze
ecologiste per la qualità non in contraddizione ma a «integrazione
della cultura quantitativa dominante nella modernità») ai Comunisti
Italiani, contenti di non aver subito attacchi diretti da parte del leader.
Anche la sinistra democratica, laica e cattolica, ormai accetta il primato clintoniano
di Veltroni. Tutto è relativo, anche la battaglia “politically
correct” contro la pena di morte: se la pena di morte va contro i diritti
umani, perché quando Veltroni dice che «nessun governante, nessuno
Stato, in nessuna parte del mondo, può abusare dei diritti umani e rimanere
impunito» non gli si ricorda che Bill Clinton è uno dei difensori
più strenui della pena di morte?
E a segnalare con precisione la vuotezza del partito veltroniano, a parte gli
avversari di sempre della sinistra, restano in pochi, come Il Sole-24 Ore, allarmato
da un partito «sempre più gracile»: «Al venir meno
del rigido ancoraggio ideologico non ha sopperito una forte elaborazione politica».
Ma queste sono minuzie, sottigliezze, inutili chiose. Il punto importante è
che la missione di Walter Veltroni, noto alla CIA con il nome in codice di “agente
Icare”, si è conclusa con un trionfo. Gradino dopo gradino ha raggiunto
la vetta del più grande partito comunista d’occidente, ha contribuito
al suo scioglimento e, non pago, ha scalato anche le due formazioni politiche
nate da quello scioglimento, prima il PDS e poi il partito dei DS, riuscendo
a conquistarne la guida.
Ben fatto, agente Veltroni! Ora manca solo l’ultimo atto: riveli ufficialmente
la sua identità di agente segreto e di infiltrato. Questa è la
richiesta definitiva che le viene dall’opinione pubblica democratica,
per cancellare ogni residuo dubbio sulla sua affidabilità, sulla sua
coerenza, sulla sua limpida onestà intellettuale.
NOTE