Biblioteca Multimediale Marxista


Il compagno Veltroni, il più abile agente della Cia




Dopo il dossier Mitrokhin, dagli archivi dello spionaggio internazionale arriva il dossier Kuriakhin, con una rivelazione sensazionale: Walter Veltroni fin da ragazzo è stato reclutato dalla CIA per infiltrarsi nel PCI e conquistarne la leadership. Secondo Kuriakhin solo così si spiegano le abissali differenze tra quanto afferma oggi e quanto sosteneva in passato. Il dossier analizza metodicamente i suoi scritti e i discorsi, dai primi passi nella FGCI a oggi. E scopre che mentre il Veltroni del 2000 dice di non essere mai stato comunista, di aver dissentito dalla linea del PCI e di aver sempre odiato l’URSS e amato gli USA, in precedenza affermava l’esatto contrario.
Tra il gioco della satira politica e il rigore del saggio documentato, il dossier Kuriakhin ci porta a una domanda cruciale: chi è il compagno Veltroni? Il suo è un fantastico caso di spionaggio oppure un esempio insuperabile di trasformismo?


Ovviamente, Ilya Kuriakhin non esiste, e il reclutamento di Walter Veltroni nella CIA è solo un espediente satirico. Ilya Kuriakhin, infatti, è il nome di un personaggio televisivo, un agente segreto che appariva nella celebre serie di telefilm The Man From U.N.C.L.E. (trasmessa dalla RAI anche in Italia), prodotta tra il 1964 e il 1967. Per Il compagno Veltroni sotto lo pseudonimo di Ilya Kuriakhin si nasconde in realtà un giornalista che ha militato a lungo nel PCI e che conosce bene, dall’interno, le vicende di quel partito.

 

MILLELIRE STAMPA ALTERNATIVA
Direzione editoriale Marcello Baraghini

Graphic designer Daisy Jacuzzi

Stampato per conto della Nuovi Equilibri srl
presso la tipografia Union Printing spa (Viterbo) nel mese di marzo 2000

Premessa

La politica italiana è stata bersagliata sempre di dossier e rivelazioni a sorpresa. Da ultimo, ci ha pensato il dossier Mitrokhin a elencare i nomi di vere o presunte spie del KGB. Ma dopo il dossier Mitrokhin, ecco arrivare dai segreti archivi dello spionaggio internazionale il dossier Kuriakhin, che si annuncia ancor più esplosivo.
Secondo questo nuovo dossier, infatti, il leader diessino Walter Veltroni sarebbe da anni un agente della CIA.
Le rivelazioni sono inquietanti e si basano su una metodica analisi delle dichiarazioni pubbliche di Veltroni nei decenni passati, mettendole a confronto con le sue tesi attuali. Altri ex-comunisti, come Enzo Bettiza nel lontano passato, o Giuliano Ferrara in tempi più vicini, hanno teorizzato e spiegato la loro scelta di cambiare opinione, ad un certo punto della vita e dell’esperienza politica. Walter Veltroni, invece, nel condannare la “tragedia” del comunismo ha cercato di accreditare un’immagine di sé “innocente” rispetto alle colpe attribuite alla vicenda comunista, ricostruendosi a ritroso una immacolata rispettabilità di dissenziente.
Ecco perché le recenti dichiarazioni di Veltroni sull’incompatibilità tra comunismo e libertà hanno involontariamente rivelato la vera identità del segretario diessino: non sarebbe mai stato comunista, pur professandosi tale e riuscendo a scalare la gerarchia del partito fino a diventarne un dirigente nazionale e poi a raccoglierne la guida, dopo la trasformazione in DS. Anzi, Veltroni afferma candidamente (ormai non ha più bisogno di copertura: la missione è compiuta, direbbe James Bond) di aver sempre preferito gli USA all’odiata URSS. E allora? Il dossier Kuriakhin svela la verità, l’unica possibile: Veltroni era (e forse è ancor oggi) un agente della CIA.
Veltroni afferma, oggi, di non essere mai stato comunista e di aver dissentito dalla linea prevalente nel suo partito, nonostante facesse parte sin da ragazzo dei gruppi dirigenti della FGCI e poi del PCI. Di più: Veltroni sostiene di aver sempre considerato l’URSS come il nemico e gli USA come gli amici principali dell’Italia e dell’Occidente. Eppure, le sue dichiarazioni pubbliche, i suoi articoli apparsi sulla stampa comunista a partire dagli anni ’70, i documenti politici da lui controfirmati, e raccolti dal dossier Kuriakhin, affermavano l’esatto contrario: gli USA come pericolosa potenza imperialista, i paesi socialisti come speranza per le nuove generazioni, lo stalinista Togliatti come esempio per i giovani, le scelte dei leader del PCI sempre giuste e coerenti.
Non può che esserci una spiegazione, per Kuriakhin: Veltroni fin da ragazzo è stato reclutato dalla CIA per infiltrarsi nel più grande partito comunista d’occidente e, agendo sotto copertura e simulando fedeltà e allineamento alle direttive del partito, effettuare una clamorosa scalata di potere fino a conquistarne la leadership. In confronto, i risultati del KGB e della Stasi, che riuscirono a mettere un loro uomo, la spia della Germania est Gunther Guillaume, come segretario personale di Willy Brandt, impallidiscono: Veltroni, infatti, è diventato addirittura segretario del partito. Nel caso di Veltroni abbiamo a che fare con un abilissimo agente segreto dalla doppia vita (in pubblico comunista inossidabile, ma nell’intimo, per sua stessa ammissione, anticomunista e filoamericano), in grado di adempiere la missione impossibile di raggiungere per conto degli americani il vertice di un partito avversario.
La scoperta che Walter Veltroni era un agente della CIA infiltrato nel PCI getta un’ombra clamorosa sulla storia recente della democrazia italiana. E il partito comunista di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer si rivela un organismo pullulante di spie: spie del KGB, certamente, ma ora sappiamo anche spie della CIA. Ecco perché il dossier Kuriakhin rischia di diventare più devastante, almeno in Italia, del dossier Mitrokhin.
Quella che leggerete, dunque, è una storia di spionaggio, nata quando ancora si ergeva il Muro di Berlino, e un giovanissimo italiano, Walter Veltroni, anticomunista e innamorato degli Stati Uniti, accettò di compiere una straordinaria missione per sgominare i “rossi” del suo paese. Aveva un nome in codice, apprendiamo ora: “agente Icare”. Del suo eroismo, della sua vittoria, parla il dossier Kuriakhin. Al termine della lettura, ognuno potrà decidere chi è il compagno Veltroni. Il suo è un fantastico caso di spionaggio, come afferma Kuriakhin, oppure è un esempio insuperabile di trasformismo e doppiezza? La parola ai lettori.


IL DOSSIER KURIAKHIN

Mi chiamo Ilya Kuriakhin. Per molti anni ho lavorato come agente del KGB, e ho seguito da vicino le vicende italiane. La scomparsa dell’URSS non mi ha turbato più di tanto, perché io sono sempre stato un uomo utile ai servizi segreti sia dell’est che dell’ovest. Il vento spesso cambia direzione, e io mi sono adeguato. Ma non è la mia biografia che voglio raccontarvi. Quel che conta è che oggi, finito il duello tra occidente e blocco sovietico, posso finalmente rivelare quanto mi è capitato di conoscere in tanti anni di attività.
Ho operato a lungo negli Stati Uniti, sotto varie coperture, ed è a Washington che sono riuscito a mettere le mani su molti documenti scottanti del servizio segreto americano. Tra questi, il file personale di un italiano, Walter Veltroni: nome in codice “agente Icare” (anche se, per depistare, Veltroni ha recentemente affermato che il suo nome in codice sarebbe “Punto”).
Ho ricopiato tutto il dossier Veltroni su alcuni kleenex e sulle confezioni del chewing gum, a caratteri microscopici, per settimane e settimane, rischiando la vita. Ma sono fiero, ora, di poter far conoscere a tutti la verità su Veltroni, l’agente segreto Veltroni, la cui missione era di infiltrarsi nel più grande partito comunista dell’occidente capitalistico e riuscire ad entrare nei suoi vertici.
Veltroni, rivelano quelle carte da me meticolosamente ricopiate, è stato un “illegale”, un uomo costretto a una doppia vita: nel suo intimo era un anticomunista viscerale, ma in pubblico doveva fingersi un “rosso”, doveva lodare Togliatti (il killer stalinista Togliatti), doveva scagliarsi contro la Democrazia Cristiana asservita agli USA, doveva dimostrarsi pienamente allineato con le scelte politiche di un partito che odiava. Uno stress psicologico che solo i migliori agenti segreti della storia sono riusciti a tollerare. Ma lui, l’agente Walter “Icare” Veltroni, c’è riuscito.


AGENTE SEGRETO VELTRONI
FILE n. 1
GLI ANNI SETTANTA

Walter Veltroni nasce a Roma il 3 luglio 1955. Il padre è Vittorio Veltroni, «pioniere delle radiocronache in RAI», secondo la sintetica definizione di Giuseppe Fiori, e direttore dei primi telegiornali; la madre è Ivanka, a sua volta funzionaria della RAI e scrittrice di romanzi rosa.
Walter abita in un buon quartiere della borghesia romana, in via Savoia. Seguendo le orme di famiglia, compie gli studi medi all’Istituto Cine-Tv, a due passi da viale Marconi, nella periferia di Roma.
Nel 1970 si iscrive alla FGCI, l’organizzazione giovanile del Partito Comunista Italiano. Cosa spinse quel ragazzo a entrare precocemente in un’organizzazione che, secondo le dichiarazioni dello stesso Veltroni del 1999, era pericolosa per la libertà, in quanto figlia di un partito, il PCI, legato al comunismo, «tragedia del Novecento»?
Il nostro dossier, come vedremo, svela che già allora Veltroni era stato arruolato dai servizi segreti americani, e questo spiega tutto. E spiega anche perché la sua passione politica si trasformi subito in scalata di potere: in pochi mesi diventa segretario della cellula della sua scuola, e appena diplomato (nel 1973) è funzionario a tempo pieno della FGCI romana.
Nel suo nuovo ruolo di miniburocrate federale, il giovanissimo Veltroni prima dirige gli studenti comunisti della città, poi è eletto segretario della FGCI romana. Un incarico importante, nella capitale, in anni in cui l’organizzazione giovanile comunista cittadina contava ben cinquemila iscritti.
Non era certo un consesso di liberali critici verso la tragedia del comunismo, quella FGCI di cui Veltroni è dirigente fin da ragazzo. Lo Statuto della Federazione Giovanile Comunista Italiana (confermato ancora al XXI Congresso del 1978), infatti, esordisce con un preambolo in cui si afferma: «Gli iscritti e i militanti della FGCI lottano per costruire una società socialista che crei le condizioni e favorisca il processo di liberazione dell’uomo verso il comunismo». E all’articolo 1 si aggiunge: «La FGCI si riconosce nella strategia del Partito Comunista Italiano, contribuisce ad arricchirla, ed educa i suoi iscritti alla conoscenza del marxismo e del leninismo, nello spirito dell’antifascismo e dell’internazionalismo proletario».
Veltroni prese la tessera di quell’organizzazione giovanile, e ne divenne subito dirigente. Però oggi sostiene che «si poteva stare nel PCI senza essere comunisti. Era possibile, è stato così». Nell’organizzazione giovanile di Veltroni, tuttavia, si lottava per «il processo di liberazione dell’uomo verso il comunismo» e ci si educava al marxismo, al leninismo e all’internazionalismo proletario.
I suoi primi passi tra i giovani dirigenti della FGCI romana sono in una chiave che oggi si direbbe “veterocomunista”. È tra gli organizzatori, il 24 febbraio 1974, della manifestazione Togliatti con noi (Nel nome di Togliatti le lotte dei giovani per la pace, la libertà, il socialismo), arricchita da «filmati e documenti inediti sulla vita di Togliatti», come recitava il volantino promozionale. Una kermesse togliattiana che doveva essere costata molta sofferenza a Veltroni, da sempre seguace viceversa (abbiamo appreso di recente) della democrazia occidentale e tutt’al più del socialismo liberale dei fratelli Rosselli.
Ma c’è una miniera di documenti sul veltronipensiero degli anni settanta: è Roma Giovani, mensile della Federazione Giovanile Comunista Romana, come campeggia sulla copertina (e di cui era caporedattore Carlo Leoni, attuale responsabile giustizia dei DS). Fin dal 1974 il periodico ospita innumerevoli articoli e interventi del nostro, che rivelano come, già da ragazzo, fosse costretto a simulare una fede comunista e un’adesione incondizionata alla linea del PCI: oggi sappiamo che doveva occultare la sua missione segreta.
Per rendere credibile la sua scelta comunista, all’epoca, Veltroni doveva accentuare l’antiamericanismo, fugando così ogni possibile sospetto sul suo doppio gioco. Lo desumiamo da uno dei suoi primi articoli, “Una vita da cambiare: la droga”, che appare sul numero 1 di Roma Giovani, nel novembre 1974. Il giovane Walter respinge la riduzione del fenomeno droga «ad una presunta “Americanizzazione” del modo di vivere dei giovani e degli studenti delle grandi città». Le motivazioni dell’uso della droga, al contrario, starebbero in «una angosciosa situazione dove molti giovani sono stati cacciati dall’immoralità delle classi dominanti».
La soluzione, per il compagno Veltroni di allora, è semplice: «I giovani, tutti, sognano una società più giusta ed umana. Questa società per noi è il socialismo».
Di lì a poco, ecco apparire un Veltroni “militante rivoluzionario”. Lo scopriamo mentre contende a Lotta Continua la leadership del mondo giovanile di sinistra: «Il nostro ruolo è nella capacità del movimento operaio di esercitare appieno la propria egemonia su quei settori dei giovani delusi dall’esperienza estremista. È necessario quindi per il movimento operaio ed il suo partito d’avanguardia rendere più esplicito il rapporto tra lotta quotidiana e prospettiva di trasformazione dello stato, far comprendere alle giovani generazioni il proprio patrimonio teorico ed esplicare alcune questioni centro della elaborazione del marxismo italiano». E conclude solennemente: «Solo così sarà possibile recuperare alla milizia rivoluzionaria i giovani delusi dall’estremismo».
Presto il Veltroni “militante rivoluzionario” si dichiara anche leninista. È un testo chiave, quello che stiamo per leggere: I giovani, la libertà, il socialismo. Tra citazioni di Gramsci, Lenin e dei comunisti vietnamiti, Veltroni scrive che occorre «porsi concretamente oggi il problema di elevare ad un livello più alto la ribellione dei giovani dando ad essa la luce della coscienza politica e della necessità storica del socialismo».
Per raggiungere questo ambizioso obiettivo c’è una ricetta magica: «Affondando nelle pieghe della linea del nostro partito fondata sull’analisi scientifica della diversità storica della rivoluzione è possibile trovare una risposta agli interrogativi che tutti i giovani agitano».
Veltroni sostiene che bisogna «operare con rigidità scientifica quella che Gramsci chiamava “una ricognizione nazionale”». E se afferma, secondo la liturgia del PCI di allora, «la necessaria diversità della rivoluzione italiana da quella dell’Ottobre», il giovane Veltroni non disdegna di difendere il concetto di “egemonia”, che di lì a poco diventerà una parolaccia impronunciabile dopo una dura polemica scatenata dal PSI di Bettino Craxi. Scrive infatti il compagno Walter: «Dalla elaborazione del concetto d’egemonia, del partito come forza rivoluzionaria e strumento dell’egemonia, nasce, negli anni difficili del dopoguerra, il nostro disegno di “Via Italiana al Socialismo”».
Non solo, dunque, la rivendicazione dell’egemonia, ma persino del partito «come forza rivoluzionaria».
Andiamo avanti nella lettura. Ecco apparire un riferimento all’artefice della rivoluzione bolscevica, l’uomo che ogni sincero liberale (come oggi Veltroni afferma di essere sempre stato) considera il primo responsabile dei gulag e di quella che lo stesso Veltroni, nel ’99, definirà «la tragedia del comunismo»: Vladimir Ilic Ulianov detto Lenin. Scrive, infatti, il nostro con prosa soviettista: «Si esalta nell’originale elaborazione italiana l’affermazione di Lenin secondo la quale la democrazia e il socialismo si saldano fortemente e la rivoluzione democratica apre la strada a quelle socialiste, mentre la soluzione socialista porta a compimento quella democratica».
Esattamente opposte alle tesi sostenute attualmente da Veltroni sono poi le sue critiche alle altre forze politiche italiane: «Ogni volta che tra i partiti politici si parla di socialismo alcuni di essi, in primo luogo la DC, partono in voli pindarici descrivendo a tinte fosche, come in un libro di Carolina Invernizio, il carattere dittatoriale e le soppressioni della libertà che a parere loro [corsivo mio, n.d.r.] vigerebbero nei paesi socialisti. Non abbiamo mai esitato a far sentire alta la nostra voce quando abbiamo ritenuto che in questo o quel paese un intervento esterno comprimesse la libertà di quel popolo, così come non abbiamo mai mancato di sviluppare un dibattito serrato sulle questioni della democrazia socialista. Ma sempre in questi dibattiti si è affermato il carattere franco e aperto che caratterizza le discussioni tra partiti fratelli».
Sì, avete letto bene: «partiti fratelli», e chi critica l’URSS e i paesi socialisti compie «voli pindarici», e il carattere dittatoriale di quei regimi sarebbe tale solo «a parere loro».
Queste righe svelano, più di ogni altra, il doppio volto di Veltroni: pubblicamente comunista ortodosso, in segreto anticomunista al soldo degli USA. Come spiegare altrimenti la contraddizione con quanto dichiarato nell’ormai celebre articolo su La Stampa nell’ottobre 1999, definito «l’anatema di Veltroni» contro il comunismo?
Afferma oggi Veltroni: «Io ero ragazzo, negli anni settanta, ma pensavo che avesse ragione Ian Palach e non i carri armati dell’invasione sovietica. Io ero ragazzo, allora, ma consideravo Breznev un avversario, la sua dittatura un nemico da abbattere».
Ma come? Il partito di Breznev non era il primo tra i «partiti fratelli» evocati da Veltroni, proprio negli anni settanta? E perché Veltroni attaccava la DC, rea di dipingere «a tinte fosche» i paesi socialisti, quando ora scopriamo che già allora considerava quelle dittature «un nemico da abbattere»? Resta, di nuovo, una sola spiegazione possibile: Veltroni era un infiltrato, fin da ragazzo, nelle file del PCI.
Proseguiamo nella lettura del fondamentale testo veltroniano I giovani, la libertà, il socialismo. Walter denuncia «l’acquiescenza all’imperialismo» e aggiunge una serie di considerazioni sulle vicende internazionali del periodo. La prima riflessione è dedicata alla rivoluzione portoghese “dei garofani” (caduto il fascismo, il partito comunista-stalinista di Alvaro Cunhal era arrivato alla stanza dei bottoni): «Il Portogallo vive oggi la sua stagione di libertà ed ha iniziato un travagliato e contraddittorio processo di democratizzazione». Persino il segretario del PCI, Enrico Berlinguer, era stato più coraggioso, prendendo le distanze dagli eccessi antidemocratici di Cunhal, che per Veltroni sono solo «un travagliato e contraddittorio processo di democratizzazione».
Ma andiamo avanti. Ora Veltroni si occupa del Vietnam, «il piccolo popolo che ha sconfitto il grande colosso americano». Incurante della caduta di un paese nelle mani dei tiranni comunisti, Veltroni afferma: «I compagni vietnamiti ci hanno detto: “La nostra lotta è giusta, uniti vinceremo”. Ed hanno sconfitto la grande potenza americana e sono entrati a Saigon dove lavorano per costruire un Vietnam pacifico e indipendente».
Veltroni esulta perché sui muri di Saigon «i soldati del GRP hanno scritto le parole che Ho Ci Min pronunciò nel ’68 prima dell’offensiva del TET: “Questa primavera sarà migliore di ogni altra; la notizia delle vittorie riempie di gioia tutto il paese, Nord e Sud, gareggiando in coraggio sconfiggono lo Yankee. Avanti, la vittoria è nelle nostre mani”. L’Indocina, l’Africa, l’America latina, la Cina, Cuba Socialista, il Portogallo, la Grecia, i paesi socialisti dell’Est europeo, tutto il mondo si colloca sulla strada della libertà e del progresso. Libertà, progresso, giustizia sociale, valori che si affermano in dimensioni sempre più ampie tra i giovani e che vanno tutte nella direzione del socialismo. Esso, lo sappiamo, non è dietro l’angolo. Coscienti di questo nel chiedere ai giovani il voto al PCI sentiamo di dover proporre qualcosa di più: un impegno coerente di coscienza e di lotta. Questa è la linea che prospettiamo ma non ne esistono, ne siamo convinti, altre».
Il compagno Veltroni conclude l’articolo con la retorica che non lo abbandonerà mai, nemmeno negli anni recenti “liberalsocialisti”: «No, non ci sono scorciatoie. Lenin diceva che “la via della Rivoluzione non è dritta e selciata come la prospettiva Newski”. I giovani questa via hanno già cominciato a percorrerla, andranno ancora avanti per gli ideali per i quali si sono battuti in questi anni. Gli ideali della pace, della democrazia, del socialismo».
Veltroni nel ’99 scrive: «Noi trentenni “finimmo” la storia del PCI, perché la contraddizione era diventata insostenibile. In primo luogo per noi, per una generazione che aveva l’URSS come avversario e la democrazia occidentale nel DNA, nel vissuto, nella formazione culturale». Come può essere lo stesso Veltroni che nel 1975 parlava di Rivoluzione (rigorosamente con la R maiuscola), citava Lenin, diceva che i paesi socialisti viaggiavano «sulla strada della libertà e del progresso», attaccava sprezzante «gli Yankee»?
Al fine di compiere perfettamente la sua infiltrazione, Veltroni continua a pubblicare articoli dal linguaggio ultra-comunista. Nell’estate del 1975, dopo le elezioni del 15 giugno che hanno visto un’avanzata clamorosa del PCI, declama: «Il nostro partito, con la sua linea ed il suo modo di essere, ha saputo mostrarsi come la grande forza in grado di superare la crisi della società capitalistica». E chiude: «Orientare la spesso generica aspirazione al rinnovamento che è presente tra i larghi settori delle nuove generazioni nella direzione dell’adesione all’ideale della società socialista è già un compito dei giorni successivi il 15 giugno».
In quello stesso articolo Veltroni si auto-loda (un atteggiamento che non lo abbandonerà mai) per aver contribuito alla vittoria del PCI, a suo parere addirittura con «un peso storico», tramite la nascita dei Comitati Unitari, cioè il movimento studentesco di area PCI di cui a Roma era stato artefice. Teorizzazione che viene amplificata dallo stesso Veltroni poche pagine dopo, sullo stesso numero di Roma Giovani, in un articolo intitolato “Per un nuovo movimento degli studenti”.
Certo quel suo attivismo intorno ai Comitati Unitari (ritenuti dalle altre forze politiche giovanili il semplice tentativo di creare una “cinghia di trasmissione” tra PCI e studenti) aveva fatto crescere le quotazioni di Walter presso Massimo D’Alema, appena nominato segretario nazionale della FGCI: la conoscenza tra i due data da allora, quando partecipavano entrambi alle estenuanti riunioni nella sede della Federazione Giovanile Comunista di via della Vite.
A questo proposito, però, nel 1995 Veltroni farà una rivelazione che deve aver lasciato di stucco tutti i suoi compagni di allora. Nessuno aveva mai colto il seppur minimo dissenso del giovane Veltroni dai vertici della FGCI, e anzi era notorio il suo “appiattimento” su qualsiasi indicazione venisse dalle sedi direttive sia del PCI che dell’organizzazione giovanile. Invece no, la verità (ancora una volta segreta) era tutta diversa: «Quando D’Alema era segretario della FGCI non andavamo d’accordo, proprio non andavamo d’accordo. In maniera molto netta. Avevamo due visioni della politica diverse. Allora, le nostre diversità erano moltiplicate per cento. Eravamo più giovani, lui venne dal partito per dirigere più severamente una FGCI ribelle, io ero più attento ai movimenti. Quindi non ci prendevamo bene. A quei tempi ci fu un conflitto tra noi, un conflitto di quelli che, quando si è ragazzi, lasciano qualche segno. Per questo, per un certo numero di anni, ci siamo guardati con qualche reciproco sospetto».
Peccato che questo “conflitto” non sia testimoniato da nessun intervento, nessun articolo, nessuna parola del Veltroni di allora. Mai, assolutamente mai il giovane Walter ha espresso pubblicamente questa sua visione politica “diversa”. Forse il centralismo democratico era così rigoroso nella FGCI che era impossibile esprimere un seppur timido dissenso? O forse la sua missione (fare carriera negli organigrammi comunisti) gli imponeva anche in quel caso il silenzio più totale?
Torniamo agli scritti dell’epoca. Agli inizi del 1976 Veltroni si occupa di centrosinistra e anticomunismo, due temi che saranno cruciali nella sua carriera politica futura. Ma negli anni ’70 erano per Veltroni solo oggetti di critica dura. Scrive: «Si è chiusa, non certo in gloria, la stagione decennale del centro-sinistra i cui cascami, dopo la storica rottura avvenuta nel corpo della società italiana per le lotte operaie e studentesche del ’68-69, si sono trascinati fino a questi ultimi mesi. Così, il centro-sinistra, inadeguato ed incapace, viziato dall’ambizione di molti, di comportare, con l’uso spregiudicato di questa formula, l’esaurimento nel ruolo di opposizione della funzione storica e della forza del PCI, chiude miseramente la sua intensa storia».
E Veltroni plaude alla sconfitta della contrapposizione frontale ai comunisti da parte della DC: «Occorrerebbe, per svolgere un’opera di reale rinnovamento, che la DC condannasse sé stessa per il suo passato, per l’espulsione dei comunisti dal governo dopo la guerra, per aver venduto agli americani il proprio partito, e il nostro paese, per aver giocato la carta della legge truffa».
La DC un partito «venduto agli americani»? E l’espulsione dei comunisti dal governo un atto da condannare e non una scelta saggia? Se, come sostiene il Veltroni del 2000, il comunismo è incompatibile con la libertà, e l’occidente a guida americana ha tutelato l’Italia dalla dittatura, allora quelle posizioni della DC dovrebbero ritenersi sacrosante. Ci auguriamo che presto la storia sia riscritta definitivamente, dallo stesso Veltroni, fino a riabilitare coerentemente tutti i suoi avversari del passato.
Ma c’è dell’altro nell’articolo in questione. Veltroni dichiara di ritenere «positivo che si spengano le fiammelle dell’anticomunismo». E poi ecco il consueto appello alla rivoluzione: «La domanda di una società nuova si è fatta “senso comune” nell’animo della gioventù, spetta a noi tradurla nella lotta conseguente per la rivoluzione italiana».
Per il Veltroni rivoluzionario degli anni ’70, la DC e gli americani sono la bestia nera. Scrive, sempre nel 1976: «Nella fase immediatamente successiva alla guerra di Resistenza, noi siamo stati in presenza di alcune scelte della Democrazia Cristiana tese ad edificare un sistema di potere: penso ad esempio al viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti, e in sostanza l’asservimento del partito della Democrazia Cristiana e dell’Italia stessa al soldo ed al volere degli americani. È la storia recente della concessione delle basi Nato in Italia».
Ritorna dunque il rimprovero alla DC in chiave antiamericana. E la stessa Democrazia Cristiana viene definita «strumento della borghesia capitalistica, e dalla borghesia capitalistica scelto e diretto».
Veltroni se la prende anche con “Comunione e Liberazione”, tirando in ballo Marx. Infatti, la convinzione di CL «che si debba cambiare i rapporti umani perché possano cambiare le strutture» è da contestare, secondo Veltroni, in quanto sarebbe «l’esatto opposto della intuizione teorica di Marx contenuta nella splendida prefazione a Per la critica dell’economia politica».
Ecco i consigli di lettura che dava ai suoi coetanei nel 1976: la «splendida prefazione» di Karl Marx. I “santini” del comunismo sono ancora dei fari luminosi, per Walter. Del resto, nel numero 13 (settembre 1976) sempre Roma Giovani pubblica un paginone centrale dedicato non a Ian Palach bensì a Mao, dove sotto una grande foto del leader cinese si legge (in un testo non firmato): «Ricordando il compagno Mao Tse Tung e quanto di positivo Egli è riuscito a realizzare anche nel nostro paese, a tante miglia di distanza dalla sua Cina, noi oggi auspichiamo il recupero di un nuovo clima di comprensione e di rispetto, di solidarietà internazionale fra i partiti comunisti e operai del mondo intero».
Una simile lettura avrebbe dovuto agghiacciare Walter, che disprezzava i regimi socialisti.
Mentre oggi apprendiamo che Veltroni fin da ragazzo riteneva l’URSS «un nemico da abbattere», nel 1976 deve fingere di credere esattamente il contrario, utilizzando una frase di Togliatti dove si additano come «nemici per l’Italia» i seguaci degli USA: «Per trent’anni siamo stati dipendenti economicamente e politicamente dagli Stati Uniti, la DC è stata connivente con la guerra nel Vietnam. Kissinger può indisturbato rivolgere apprezzamenti sulla situazione politica italiana, i ministri DC e chissà chi altro prendono i soldi dalle fabbriche di aerei americane. Alla faccia dell’indipendenza e dell’autonomia! Diceva Togliatti, parlando alla Federazione Romana nel ’44: “A coloro, agenti di questa politica antinazionale, che dicono: la nostra rovina sono i comunisti, sono i socialisti; cacciamo i socialisti e i comunisti dal potere, poi vedrete tutto quello che riceveremo, gli Stati Uniti ci manderanno i dollari, l’Inghilterra ci darà chissà quanti chilometri di sabbia nell’Africa sui quali potremmo ricostruire ancora una volta un nuovo e bellissimo impero… a costoro diciamo: voi siete dei nemici per l’Italia”».
C’è un altro tassello da aggiungere al ritratto del giovane Veltroni. Al convegno della FGCI di Roma “Per il riscatto di questa generazione”, che si svolge il 7-8 aprile 1976, Veltroni è relatore e avrà poi il compito di aprire la manifestazione conclusiva dell’11 aprile, al cinema Metropolitan (a fianco di Massimo D’Alema).
Il documento preparatorio del convegno, stilato in gran parte dallo stesso Veltroni, è significativo. Vi si legge il consueto ritratto a fosche tinte della società americana. In America, recita il documento, «alla società giovane, ribelle e rissosa, seguì l’organizzazione della malavita, le grandi speculazioni, la tendenza alla guerra, la violenza della Polizia e dello Stato [notare le maiuscole, n.d.r.]. L’America che gli italiani conobbero di persona fu questa e questa America ha influenzato negativamente lo stato d’animo ed il modo di vita dei giovani».
Il faro indicato dal documento è ancora quello di Palmiro Togliatti, per una sua risposta del 1962 alla lettera di un giovane. Una pagina e mezza del documento è dedicata al testo di Togliatti (definito «grande dirigente comunista»), con questa chiosa: «Ci vorremmo scusare per la lunghezza della citazione, ma crediamo che sia così significativa e chiara che, non solo non abbia annoiato, ma anzi ci permette di consigliare la lettura completa della lettera e della risposta di Palmiro Togliatti».
La retorica di scuola comunista cresce nelle ultime pagine: «Se la costruzione della società socialista vuole essere una grande esperienza creativa, allora diciamo che la rivoluzione deve vivere già oggi nella lotta e nella vita di questa generazione… Il socialismo ed il comunismo debbono essere così il progetto di più alta realizzazione della libertà, di più grande valorizzazione del lavoro come forza motrice della storia».
Il finale è un tripudio: «Occorre comprendere come oggi stesso “fare politica” significa edificare mattone per mattone una società nuova, significa partecipare al progetto ambizioso della vittoria della rivoluzione proletaria in occidente, di quella rivoluzione che noi portiamo avanti e che tutti i giovani debbono vivere e far vivere da oggi».
La terminologia è ben più rozza di quella usata dal PCI nello stesso periodo. Il Partito non avrebbe mai evocato la «rivoluzione proletaria» in un suo documento, ma Veltroni ha un chiodo fisso: far concorrenza ai «gruppi estremisti», che nelle scuole e nelle università hanno un consenso ben maggiore della FGCI. E allora diventa necessario appesantire il linguaggio con qualche parola gradita a un uditorio avvezzo ai proclami rivoluzionari. Il sostantivo rivoluzione e l’aggettivo rivoluzionario, infatti, sono ripetuti a ogni piè sospinto, persino nelle ultime righe: «Da questa volontà e da questo progetto, al quale vogliamo guardino gli studenti, le ragazze, i giovani operai, e disoccupati, nasce la possibilità per una intera generazione di dire no all’isolamento e alla sconfitta, e costruire con grande determinatezza e grande slancio rivoluzionario quella che noi vogliamo chiamare la “società del riscatto”».
La rivista Roma Giovani chiude quando la FGCI e il PCI sono presi alla sprovvista dall’improvvisa esplosione del cosiddetto “movimento del ’77”. Walter Veltroni è ancora segretario della FGCI romana quando scoppiano gli scontri all’Università di Roma che si concludono con la “cacciata di Lama”. Di certo è corresponsabile della sottovalutazione dei rapporti di forza nell’ateneo romano, almeno quanto il funzionario del PCI Gustavo Imbellone, su cui sarà fatta cadere la colpa per quella disfatta.
Per Walter il destino è meno severo. È costretto a difendere la giustezza di quella fallimentare prova di forza all’università anche in un’intervista a La Repubblica, ma dopo questo episodio la sua stella momentaneamente si opacizza. Secondo la regola del “promoveatur ut amoveatur”, fin dal maggio 1977 viene sollevato dalla guida della federazione giovanile e spostato al partito, dove gli si affida la responsabilità della propaganda. Contestualmente, come ogni ex-segretario provinciale della FGCI, viene nominato nella segreteria romana del partito. Delle vicende in cui è stato coinvolto fino a pochi mesi prima è meglio che non si occupi più, e al mega-convegno del PCI e della FGCI “La crisi della società italiana e gli orientamenti delle nuove generazioni”, organizzato nell’ottobre 1977 proprio per riflettere sulla grave situazione provocata dal movimento del ’77, Veltroni resta in disparte e non prende nemmeno la parola.
Ormai il capitolo FGCI è chiuso (suggellato anche dal suo primo libro, Il PCI e la questione giovanile), e il compagno Walter «è passato al partito». Nel PCI romano di via dei Frentani, il suo referente è Luigi Petroselli, segretario della federazione e comunista “tutto d’un pezzo”, all’antica.
Sull’onda delle vittorie elettorali del PCI, e con il consenso attivo di Petroselli, Veltroni già nel 1976 era diventato consigliere comunale di Roma (rimarrà in questa carica fino al 1981). È la fase in cui si rafforza quella che Stephen Gundle definisce «la troika dei giovani comunisti romani»: Ferdinando Adornato (da direttore della Città Futura a capo della sezione cultura dell’Espresso, poi animatore di Alleanza Democratica), Gianni Borgna (autore di saggi sul festival di Sanremo) e Walter Veltroni (ma si potrebbero aggiungere figure minori come Goffredo Bettini e Carlo Leoni).
Veltroni, poi, sceglie di legare, con acuta preveggenza, il suo nome a quello di un dirigente del PCI allora in ascesa, Achille Occhetto. È proprio Veltroni a firmare, nel 1978, un libro-intervista con Occhetto dedicato al ’68. Tuttavia, paga pegno alle velleità dell’Occhetto di allora, ancora comunista “doc” e vicino alla sinistra ingraiana. Così, nell’intervista Veltroni fa capire che il leninismo è ancora un bene prezioso, tanto che i gruppi estremisti vengono convenzionalmente tacciati di «deformazione caricaturale del leninismo».


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GLI ANNI OTTANTA

Mentre nel 1980 Massimo D’Alema viene spedito da Enrico Berlinguer in Puglia, a farsi le ossa tra le mille difficoltà del partito al sud, Veltroni nella tranquillità del suo ufficio alle Botteghe Oscure può dedicare il tempo libero alla scrittura.
Infatti, ad appena venticinque anni è stato nominato viceresponsabile nazionale della “Stampa e propaganda”. Il salto è compiuto: dalla federazione romana alla sede nazionale del partito.
Da allora abbandona per qualche tempo il generico presenzialismo politico e veleggia verso l’impegno soprattutto nel campo dell’industria culturale e delle comunicazioni di massa. È in questo settore che maturerà un approccio alla politica in cui i contenuti non sono più importanti, ma vale solo la ricerca di consenso da parte delle industrie culturali e del “pubblico” di massa.
Dal suo osservatorio massmediologico, Veltroni ha percepito che si sta delineando un revival degli anni ’60, e allora eccolo pubblicare un libro scritto con il suo collaboratore di allora Gregorio Paolini (oggi dirigente televisivo). Il sogno degli anni ’60 raccoglie i ricordi di svariati personaggi, da Gianni Morandi che rievoca il Cantagiro, a Giuliano Zincone e Giuliano Ferrara, fino ad Alessandro Curzi e Renato Nicolini. Una ghiotta occasione per intrecciare ulteriori legami con personalità della politica e dello spettacolo, oltre che per avere risalto sui media.
Il libro suscita le sferzanti ironie di Goffredo Fofi, ma Veltroni ha già pronta la seconda cartuccia: un altro libro con le stesse caratteristiche, dedicato questa volta al calcio.
La scalata non si arresta: è eletto per la prima volta nel Comitato Centrale, a ventisette anni, al XVI congresso del PCI, che si svolge a Milano nel marzo 1983. È ancora il partito di Enrico Berlinguer, e con il beneplacito del segretario, Veltroni diventa il più giovane membro del CC (ma deve scontare una votazione tormentata, in cui riceve 26 voti contrari e 45 astensioni). Al congresso, però, non prende la parola, forse per non rivelare il suo disappunto e il suo orrore per la presenza, tra le delegazioni dei partiti esteri al congresso, non solo del Partito comunista dell’Unione Sovietica e del Partito comunista cinese (alla guida delle due grandi dittature comuniste nel mondo di allora), ma anche di innumerevoli organizzazioni dei vari regimi oppressivi dell’est europeo, dal Partito comunista bulgaro al Partito comunista cecoslovacco (per colpa del quale si immolò Ian Palach, l’eroe di Veltroni), del Partito operaio unificato di Polonia persecutore di Wojtyla, persino della terribile SED della Germania orientale (i cui vertici finiranno in prigione dopo la caduta del Muro), del Partito comunista romeno del boia Nicolae Ceausescu, del Partito del lavoro di Corea guidato dal tiranno Kim-Il-Sung. E di quei paesi erano state invitate, ed erano presenti, persino rappresentanze delle ambasciate! La coscienza anticomunista di Veltroni, evidentemente, ribolliva, soffriva: ma la sua missione (scalare i vertici del PCI) gli imponeva il mascheramento delle sue vere opinioni.
Come premio per il suo ossequioso silenzio, Veltroni ottiene anche la carica di responsabile della sezione “comunicazione di massa”: non è più un “vice”, finalmente.
Assolutamente allineato sulla linea di Enrico Berlinguer, il nostro si allineerà altrettanto tranquillamente ai suoi successori.
Dopo l’improvvisa morte di Berlinguer, infatti, il partito vive una duplice contraddizione. Ha perso il suo leader più carismatico e amato, e deve fare i conti con una crisi pluriennale della propria politica, segnalata anche da altalenanti risultati elettorali: se le elezioni europee a pochi giorni dalla scomparsa di Berlinguer sono un trionfo, il trend del PCI nelle elezioni nazionali e locali è in costante discesa. E il nuovo segretario del partito, Alessandro Natta, stenta a trovare un orientamento capace di invertire la tendenza e soprattutto di tenere in equilibrio le varie anime del PCI.
In tanta tempesta, però, Veltroni riesce a non prendere mai una posizione autonoma. Per lui, chi comanda il partito ha sempre ragione. E ora il nuovo capo del PCI è Alessandro Natta, un comunista senza pentimenti, che rimarrà tale anche dopo il futuro scioglimento del partito.
All’importante Comitato Centrale del maggio 1985, naturalmente il compagno Veltroni dichiara di condividere la relazione di Natta (il rito del consenso al leader non deve essere infranto). Certo, riappare l’ossessione veltroniana per gli USA, ma in chiave critica, come accadeva al Veltroni pre-DS. Questa volta l’obiettivo polemico sono i democratici americani, che presto diventeranno invece il suo faro-guida: «Vedo il rischio che la sinistra italiana compia lo stesso errore di Mondale e dei democratici americani: l’idea di un blocco sociale tradizionale, di un partito locomotiva al quale agganciare tutti i vagoni delle minoranze, senza sintesi, in pura giustapposizione».
Tuttavia in questo periodo lo spirito filo-americano di Veltroni può ormai riaffiorare senza troppi freni. Aprendo un fascicolo speciale sui mass media del bimestrale Critica Marxista (testata che doveva apparirgli quantomai odiosa per il suo titolo retrò), Veltroni scrive che anche in Italia i giovani talenti devono trovare l’opportunità di esprimersi: «I sogni non si devono realizzare solo negli USA. Kevin Reynolds, un giovane studente americano, inviò un giorno una sua sceneggiatura a Steven Spielberg che la lesse e gli fece assegnare un budget di 7.000 dollari. Reynolds realizzò così il primo film della sua vita, Fandango».
Un’America dei sogni, dove i giovani grazie al libero mercato possono diventare d’incanto ricchi e famosi.
Ma Veltroni paga ancora un pegno al vecchio PCI, tessendo le lodi, nello stesso saggio su Critica Marxista, di Enrico Berlinguer e «di quello straordinario manifesto di “modernità” rappresentato dalla sua intervista sul 1984».
Forse Veltroni non aveva letto bene il testo di Berlinguer. L’allora segretario del PCI, infatti, in quell’intervista del 1993:
a) stigmatizzava l’uso che era stato fatto negli anni ’50 del 1984 di George Orwell («la reazione che ebbi allora fu probabilmente molto influenzata dall’utilizzazione che del libro si fece durante la guerra fredda: antisovietica e anticomunista»);
b) negava che si fosse realizzata nel mondo una società simile a quella paventata da Orwell (grazie «ai nuovi traguardi raggiunti nel riscatto delle masse proletarie»);
c) contrapponeva a Orwell il Jack London del Tallone di ferro e se la prendeva con la presenza nel pensiero e nell’azione del movimento socialista in Italia «di una visione che non era propria di Marx»;
d) attaccava il presidente americano Ronald Reagan per avere usato, nei confronti dell’URSS, «un’espressione medioevale come “Impero del Male”»;
e) usava ripetutamente per descrivere le politiche dell’occidente la categoria di “imperialismo” e rivendicava «il coraggio di una Utopia che lavori sui “tempi lunghi”»;
f) si preoccupava di una guerra nucleare globale, «davvero possibile», e proponeva il «disarmo totale»;
g) negava che l’irruzione dell’elettronica nei nuovi processi industriali mettesse in discussione le teorie classiche dei comunisti: «Mi pare che sia assolutamente da respingere l’idea che questi nuovi processi costituiscano una confutazione del marxismo e del pensiero di Marx in particolare»;
h) riteneva ancora attuale il concetto di “sol dell’avvenire” della cultura socialista e comunista («se guardiamo alla realtà del mondo d’oggi chi potrebbe dire che quegli obiettivi non siano più validi?»).
All’epoca, per il Veltroni pubblico (perché in privato aveva di certo ben altre opinioni) non solo Togliatti, ma anche Berlinguer fa parte dell’empireo dei “buoni”, dei leader comunisti da citare con ammirazione.
Alla metà degli anni ’80 la sua attività, però, non gli offre molte chance per le riflessioni ideologico-politiche sulla storia del partito e del comunismo. Continua infatti ad essere concentrata sui mass media, dalle stanze dell’ufficio stampa del PCI, e in particolare si occupa del servizio pubblico radiotelevisivo, il luogo del “potere” nel settore delle comunicazioni e dell’informazione. Ed ecco che nel 1987 si rivela artefice della nuova spartizione delle reti televisive pubbliche tra le forze politiche. In base a quell’accordo la terza rete viene assegnata al PCI. Secondo Nello Ajello, «la terza rete nasce da un incontro fra Biagio Agnes, direttore generale, ed Enrico Manca, presidente dell’ente di viale Mazzini, con Walter Veltroni, plenipotenziario delle Botteghe Oscure per l’informazione». E sempre Ajello definisce Veltroni «autore dell’operazione per conto del PCI».
Con questa manovra Veltroni cattura il consenso di Angelo Guglielmi, nominato direttore della rete, intellettuale dell’ex Gruppo ’63, da allora sempre più potente nelle scelte culturali non solo della televisione, ma anche dell’editoria italiana, e di Sandro Curzi, scelto per dirigere il Tg3 e legato all’anima continuista del vecchio PCI.
Il 1987 è un altro anno di successi nella gerarchia interna del partito. Al Comitato Centrale del luglio 1987 Veltroni è promosso all’unanimità capo della sezione “Stampa e propaganda”. E soprattutto è diventato deputato della X legislatura, e subito nominato componente della commissione speciale per il “Riordino del settore radiotelevisivo” (in seguito sarà membro anche della commissione Istruzione e di quella dei Trasporti).
Con tanti trionfi, non ci si stupisce se l’onorevole Veltroni nel 1987 viene definito «l’enfant prodige romano». Il suo talento è pronto per essere messo al servizio del successore di Natta, Achille Occhetto. Veltroni fa subito parte dei luogotenenti di Occhetto, detti gli “achillei” da Giampaolo Pansa, e nel 1988 entra finalmente nella segreteria nazionale del PCI.
Si avvicina il momento della svolta occhettiana, sotto i mattoni del Muro di Berlino prossimo al crollo. Ma non deve rivelare alcuna fretta innovatrice, il cauto Veltroni, per non inimicarsi nessuna “anima” del partito. Al diciottesimo congresso del PCI, nel marzo 1989, delegato di Roma, prende la parola. Il clima nel partito è incandescente, ma Veltroni smentisce con forza che le intenzioni del gruppo dirigente occhettiano, di cui lui stesso fa parte, siano di sciogliere il PCI.
La sua affermazione è esplicita, ancor più di quanto lo siano gli interventi di altri leader occhettiani: «La direzione che abbiamo preso non è quella dello scioglimento del PCI, è quella della sua ripresa. Così costruiamo il nuovo corso, la nuova sintonia del PCI con i mutamenti della società».
Di più: «Sbaglieremmo se scegliessimo la via della chiusura settaria ma anche se pensassimo che la soluzione sia arrotolare, come fossimo al tramonto, bandiere e striscioni».
Dunque la bandiera rossa del PCI, con falce martello e stella (esattamente uguale a quella sovietica, se non fosse per l’aggiunta del tricolore sullo sfondo), non va arrotolata.
E con lo scopo di attirarsi (all’epoca) il consenso dell’anima antiamericana del partito, Veltroni non esita a parlare delle società occidentali come di «una realtà che non si riesce più a controllare», e che si presenta «in una forma allucinata» proprio negli Stati Uniti: «Non alla periferia del mondo ma al suo centro, a Washington, dopo le 23 non si può uscire».
Il PCI e il dirsi comunisti è forse un ostacolo all’avvenire della sinistra? Niente affatto. Proprio Veltroni, che nel 1999 dichiarerà che comunismo e libertà sono incompatibili e che respinge la stessa dizione di “ex-comunisti” per i diessini, al diciottesimo congresso conclude il suo intervento esclamando: «Oggi noi siamo una forza autonoma e unitaria. È finito il tempo in cui ci si poteva dividere in filo-socialisti e filo-DC. Siamo tutti filo-comunisti».
Al termine del congresso viene rieletto nel Comitato Centrale con 12 no e 12 astensioni (e L’Unità, che enfatizza «gli otto voti contrari a Ingrao», sottolinea invece che su Veltroni ci sono stati «applausi per quei soli 12 no e 12 astenuti»).
Poco dopo sarà eletto anche nella direzione e nella segreteria, sempre incaricato di seguire la propaganda e l’informazione. Ora è arrivato nella stanza dei bottoni, e può concedersi qualche vezzo conversando con i giornalisti. A La Repubblica dichiara candidamente di amare papa Giovanni XXIII e di essere intento a scrivere un libro sui Kennedy («dedicato soprattutto alla figura di Bob, che ritengo massima espressione del pensiero liberal-democratico negli Stati Uniti»): finalmente può cominciare a togliersi la maschera del comunista e rivelare quello che il nostro dossier conferma, e cioè la sua vera identità.
Nella stessa occasione si lascia andare a qualche commento politico: «La situazione è brutta, sembra d’essere tornati agli anni ’50, con Andreotti e Martelli che siedono nello stesso governo».
Veltroni non prevedeva, forse, che un decennio dopo il governo Prodi di cui sarebbe stato numero due e poi il governo D’Alema avrebbero visto insieme, tra gli altri, proprio ex-comunisti, andreottiani e socialisti.
Ma veniamo al Comitato Centrale della svolta di Occhetto (20-24 novembre 1989). Ancora una volta Veltroni si dimostra tutt’altro che coraggioso nel sostenere la linea del segretario. Il suo è anzi uno degli interventi più moderati, senza accelerazioni che evidentemente ritiene rischiose per la sua immagine. Fino al punto di dimostrarsi quasi conservatore del “bene inestimabile” del PCI. Afferma nel suo intervento che la svolta di Occhetto prospetta «non la liquidazione di valori, ma il loro inveramento, come affermazione nel tempo che viviamo. Per questo riterrei il concetto di omologazione antitetico a questa idea politica».
E ancora: «Se la proposta dell’unità socialista è la sollecitazione alla reductio ad unum, magari in forme e tempi praticabili, ciò che sarebbe in discussione non è solo la rinuncia al nome e al simbolo ma la rinuncia ai programmi e alle ragioni del PCI. L’esatto opposto della proposta che abbiamo avanzato».
Dunque la proposta occhettiana non prevederebbe per Veltroni la rinuncia alle ragioni del PCI. Parole ben distanti da quelle con cui egli stesso argomenterà la nascita del PDS e poi dei DS.
Per altro, la firma di Veltroni appare sotto il documento Dare vita alla fase costituente di una nuova formazione politica. Un documento che compie lo strappo definitivo con il PCI, ma che conserva un continuismo presumibilmente incompatibile con le idee di Veltroni per come le conosciamo nel 2000. Si legge: «Il PCI non è stato una variante nazionale dello stalinismo. Non è per doppiezza o per calcolo strumentale che fummo tra i fondatori della democrazia parlamentare, attori principali del suo rinnovamento, difensori delle libertà continuamente minacciate dalle vecchie classi dirigenti, attori di grandi processi di emancipazione e promozione sociale che hanno caratterizzato questo mezzo secolo dell’Italia repubblicana. Ciò deve essere detto con chiarezza, e non per ragioni di patriottismo di partito ma perché non farlo significherebbe imbiancare le pagine più importanti scritte in questi decenni dalla cultura riformatrice italiana».

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DAGLI ANNI NOVANTA AL DUEMILA

Agli esordi degli anni ’90, Veltroni continua a occuparsi soprattutto di radiotelevisione. Nel 1990, titola un suo libro sulla politica televisiva del PCI Io e Berlusconi. Poi lancia una grande campagna per proibire l’interruzione con spot pubblicitari dei film trasmessi in tv: «Non si interrompe un’emozione». Una campagna fallita e dimenticata, ma che serve come cassa di risonanza per Veltroni nel ceto intellettuale meno scaltro.
Lo stesso ceto intellettuale che Veltroni chiama a raccolta, il 10 febbraio 1990, al cinema Capranica di Roma. È la “Sinistra sommersa”, un’operazione di corto respiro (dalle sue ceneri nascerà l’effimera Alleanza Democratica di Ferdinando Adornato), ma che serve a Veltroni per schierare con sé e con Achille Occhetto molte “celebri firme”.
Si tratta di uno schieramento utilissimo, dato che si avvicina il diciannovesimo congresso del PCI, in un clima agitato e con una forte opposizione al progetto di scioglimento del partito. Per Veltroni, però, non è ancora giunto il tempo di prendere le distanze dalla storia del PCI. Tutt’altro. Per lui il PCI è una bandiera da difendere anche al congresso, che si tiene a Bologna nel marzo 1990. Veltroni enfatizza il fatto che «la svolta» ha un solo obiettivo: «Evitare il declino del PCI per costruire le condizioni perché le ragioni e gli ideali del nostro partito possano vivere e vincere nell’Italia degli anni ’90».
Dunque l’obiettivo è evitare il declino del PCI, non sciogliere il partito. Del resto, nel gennaio del 1991, a Rimini, al ventesimo Congresso del PCI, quello in cui muore il PCI e nasce il PDS, Veltroni continua a rivendicare la sua appartenenza alla storia del PCI, distinguendo nettamente tra «i comunisti» (ai quali ancora sostiene di appartenere) e «gli esterni»: «Per tutti noi che portiamo la parte più viva della grande storia e della originalità politica dei comunisti italiani, per gli esterni che recano nuove culture e competenze è ora davvero un nuovo inizio».
Veltroni al Congresso si schiera contro la Guerra del Golfo, richiamando Robert Kennedy e i suoi antichi dissensi per la guerra del Vietnam. Però non parla più di socialismo, non cita più Lenin e Togliatti, e riduce l’alternativa alla «riforma del sistema politico, dei meccanismi elettorali, degli strumenti di governo». Una logica, dunque, tutta istituzionale.
Tuttavia la sua firma appare in calce alla mozione presentata da Achille Occhetto per il Partito Democratico della Sinistra, dove i legami con la storia comunista sono ancora enfatizzati. Si legge nella mozione che il PDS si propone «il grande obiettivo del socialismo. La bandiera del nuovo partito sarà, pertanto, la bandiera rossa».
E la mozione firmata da Veltroni aggiunge: «Non è il crollo del “socialismo reale” all’origine della nostra proposta. Da quando, abbattuto il fascismo, i comunisti italiani poterono sviluppare liberamente la loro azione non si sono mai proposti di imitare quei modelli. Hanno seguito, invece, una propria via, fondata sull’affermazione del legame inscindibile fra democrazia e socialismo. Noi, quindi, non dobbiamo rinnegare una storia e una tradizione per entrare a far parte di un’altra».
E se Veltroni, nell’intervento al Congresso, mette «in primo luogo» i ritocchi istituzionali e la legge elettorale, nella mozione sotto cui appone la firma viene citato Marx e si parla (togliattianamente e con linguaggio cripto-marxista) di un «riformismo forte, capace di incidere non solo sui processi distributivi ma sulle strutture, di investire direttamente un meccanismo di accumulazione, la cui forza risiede oltre che nei rapporti economico-sociali nel modo di essere dello Stato».
Che la continuità con il PCI (almeno di immagine) stesse a cuore al gruppo occhettiano di Veltroni lo dimostrava persino il simbolo scelto per la nuova formazione politica, dove il marchio del PCI (falce, martello e stella su bandiera rossa e tricolore) rimane ai piedi della quercia. Secondo Ajello, quel simbolo sarebbe proprio una creatura di Veltroni: «È stato Veltroni, “l’americano”, a curare, come responsabile della propaganda, la messa a punto del simbolo della quercia, disegnato dal grafico delle Botteghe Oscure, Bruno Magno».
Con il nuovo partito, Veltroni ascende al trono di direttore dell’Unità, carica che mantiene dal maggio 1992 fino all’aprile 1996. La sua gestione si caratterizza per l’allontanamento o l’emarginazione dei giornalisti contrari alla svolta occhettiana, mentre acquistano spazio alcune vecchie conoscenze di Veltroni ai tempi della FGCI.
Ma quel che piace a Veltroni sono le “iniziative speciali” del suo giornale. Tra le più eclatanti, la sua trovata del 1994 di vendere gli album di figurine dei calciatori Panini allegate a L’Unità.
Accanto alle figurine, Veltroni sviluppa l’operazione delle videocassette. Un espediente che nasconde momentaneamente la drammatica crisi finanziaria del quotidiano: nei giorni in cui è allegata una cassetta di successo, le vendite risalgono, per poi precipitare di nuovo quando non c’è gadget. Con le videocassette Veltroni occulta il declino dell’Unità: il rialzo di vendite si rivela un’illusione ottica, si moltiplicano i consumatori che acquistano il giornale solo per avere la cassetta, senza maturare alcuna “fedeltà” al quotidiano.
Nel 1994 Veltroni decide di auto-candidarsi per la segreteria del PDS. Riesce a ottenere il consenso dei dirigenti locali del partito, nel corso di una sorta di referendum interno. Ma al Consiglio Nazionale del PDS perde il duello con D’Alema.
Ha inizio in quell’occasione una sfida tra Veltroni e D’Alema che non si è ancora conclusa. Obiettivo di Walter è quello di additare l’avversario come esponente di una vecchia sinistra tradizionalista, schematico, inviso ai moderati. Mentre lui si presenta come campione della «bella modernità» (una sua formula ricorrente) e del nuovo: «Noi vinceremo solo se saremo più moderni della destra», afferma al fatidico Consiglio Nazionale del giugno 1994.
L’appello al moderno non convince i suoi colleghi di partito, e Veltroni perde la corsa alla segreteria, pur avendo le redini del giornale del PDS.
Presto conierà le sue nuove definizioni della politica: dal «cammino delle persone» a «la bella politica», titolo del libro che scrive per Rizzoli nel 1995. Il suo La bella politica contiene una vibrante lettera alle sue due figlie, dove si legge: «Certe volte provo a immaginarlo, il loro futuro. Non so perché, quando chiudo gli occhi, penso a una notte di Natale. Penso che si incontreranno con le loro famiglie e ci saranno i loro bambini e la storia continuerà… ».
Nello stesso libro (aperto da un apologo del cardinal Martini, definito «biblista magnifico»), Veltroni afferma: «Ho dedicato tutta la mia vita politica a un obiettivo: far incontrare i democratici». Forse dimentica i suoi anni alla FGCI, quando, come abbiamo visto, aveva in mente soprattutto «l’egemonia» dei comunisti sulle altre forze politiche.
Ma Veltroni si vanta per la prima volta anche della sua passata ostilità verso i paesi del socialismo reale: un’ostilità che, abbiamo visto, a dire il vero non si è mai palesata. Dice nel suo libro: «Io non sono mai andato all’estero, nei paesi socialisti». Falso. Quantomeno, ha partecipato a meeting della gioventù comunista in Germania est.
Del resto, nel 1994 Veltroni comincia a rivelare le sue carte a lungo mascherate: «In questi giorni, da più parti, si è scritto del mio interesse per il kennedismo, o il clintonismo, o il rooseveltismo. Non ho detto, come di solito si fa, presunto. Perché il mio interesse è reale».
Dunque, può liberarsi anche dell’ultima “copertura”. È uomo degli americani, e ora può dirlo: non deve più respingere le insinuazioni con un «presunto».
Abbiamo visto che Veltroni mai, neppure per un momento, si è distanziato pubblicamente dalle posizioni dominanti nel PCI. Non c’è la seppur minima traccia di “dissenso” nelle sue dichiarazioni, nei suoi comportamenti e nei suoi scritti. Eppure, a partire dalla metà degli anni ’90, ha iniziato un’opera di permanente manipolazione riguardo alla sua biografia politica. Ora deve accreditarsi come l’uomo che non ha mai condiviso le «pagine tragiche» del PCI o le contraddizioni del «più grande partito comunista d’occidente», arrivando a ridipingere sé stesso come un tenace avversario della linea prevalente nel vecchio PCI. È rivelatore di questa manipolazione uno scambio di battute tra Veltroni e l’ex segretario democristiano Ciriaco De Mita nei corridoi di Montecitorio, secondo quanto riportato dal Corriere della Sera. A un Veltroni che lo aveva pesantemente criticato per alcune sue affermazioni, De Mita dice: «La verità è che siete solo degli opportunisti, non guardate in faccia a niente e a nessuno… ». E Walter replica: «Che cosa vuoi dire, che sono comunista? Io sono sempre andato controcorrente, anche nel mio partito». De Mita: «Ma fammi il piacere… ».
L’allineamento totale di Veltroni alle tesi predominanti nel PCI è raccontato anche da un suo ex compagno di partito, Paolo Franchi, che lo conosce bene. Franchi anni fa ha scritto che la caratteristica di Veltroni, fin da ragazzo, è stata «la fedeltà assoluta ai gruppi dirigenti in carica», e ne delineava questo ritratto: «Scarso gusto per la lotta politica interna, modesto tasso di passione ideologica, attenzione estrema alle modificazioni anche minute dei rapporti di forza nel partito, sforzo costante di miscelare nelle giuste dosi modernità e attaccamento al “patrimonio storico del PCI”».
E nel 1989 La Repubblica informava che Veltroni era soprannominato nel PCI “compagno Perfettini”, per la sua «miscela di fantasia e diligenza»: un vero modello, persino imbarazzante, di fedeltà ai vertici.
Ma torniamo agli anni ’90. La lotta con D’Alema, nel frattempo, ha relegato Veltroni a cercare la scalata di potere momentaneamente fuori dalle strettoie di partito, per navigare verso l’alleanza di centrosinistra. Non che gli manchino le cariche: è direttore dell’Unità, deputato, numero due del PDS e finanche critico cinematografico per il Venerdì di Repubblica. Ma la mancata nomina a segretario del partito gli brucia.
Le elezioni regionali del 1995, poi, abbastanza soddisfacenti per il PDS, fanno sfumare i suoi sogni di rivalsa su D’Alema. Dopo aver criticato la scelta di Romano Prodi come candidato del centrosinistra, perché sarebbe stata una concessione di D’Alema al PPI, ecco che diventa il numero due proprio dell’ex DC Prodi nella corsa per Palazzo Chigi.
Certo, gli pesa il destino di eterno numero due (prima di D’Alema, ora di Prodi), ma se la coalizione di centrosinistra vincesse, per lui si aprirebbero finalmente le porte del Potere con la P maiuscola: il governo, vero oggetto del desiderio della covata di quarantenni dell’ex PCI.
Per raggiungere questo obiettivo, ora conta su appoggi a largo raggio. Con lui, da tempo, c’è La Repubblica. Ma anche “ceti sociali” molto, molto antichi. Non la classe operaia, però: l’aristocrazia.
Durante la campagna elettorale, infatti, Roma ospita una festa organizzata espressamente per lui dalla principessa Damietta Hercolani del Drago, a Palazzo del Drago, in via delle Quattro Fontane. È la nobiltà di Roma che si incontra con il leader ulivista, per celebrarlo. Una cena dell’aristocrazia, con alcune decine di invitati eccellenti. Piace ai nobili capitolini, il secondo di Prodi. Gente raffinata, che preferisce l’ex-leninista di buona famiglia Walter al parvenu Berlusconi.
La campagna elettorale “a tutto campo” porta i suoi frutti, e il 21 aprile 1996 i risultati elettorali consentono a Veltroni di coronare il suo sogno governativista: è Vicepresidente del Consiglio dei Ministri, e nel primo governo Prodi ricopre anche l’incarico di Ministro per i Beni Culturali.
Incautamente, si lascia andare più volte ad affermazioni perentorie, dicendosi sicuro che il suo governo avrebbe superato la soglia del 2000. Invece Prodi deve capitolare molto presto, e Veltroni torna a impegnarsi nel suo partito. O meglio, nel terzo partito della sua vita. Dopo il PCI e il PDS, infatti, ora è il momento dei Democratici di Sinistra. Ma questa volta il comando è tutto suo. Mentre D’Alema assurge alla carica di Presidente del Consiglio, per Veltroni è pronto il passo conclusivo della sua antica missione segreta: conquistare il ruolo di segretario nazionale del partito. Dal 6 novembre 1998 è Segretario politico dei Democratici di Sinistra.
Ora che il suo compito è assolto, può rapidamente liberarsi di ogni infingimento, e scoprire le sue carte. Soprattutto può sostenere pubblicamente il suo odio per il comunismo.
Quando scoppia “l’affare Mitrokhin”, molti intellettuali, in particolare dalle colonne della Stampa, sollecitano Veltroni a dare una ulteriore dimostrazione di distacco dalla propria storia, recidendo l’ultimo filo. Dopo le bordate di Barbara Spinelli e Gianni Riotta, ecco che Veltroni coglie la palla al balzo: non ne può più di vedersi rimproverata la sua militanza ventennale nel PCI, è un ingombro che va tolto una volta per tutte.
È venuto il momento di riscrivere la storia, la sua storia in particolare. Gli mancava, infatti, l’abiura e lo “strappo” dall’intera vicenda comunista, con l’equiparazione del comunismo al nazismo e l’affermazione che comunismo e libertà sono stati «incompatibili». Per avvalorare la sua differenza da questo ritratto a colori cupi dell’esperienza comunista, e che finalmente Veltroni può esplicitare dopo tanto e lungo silenzio, il nostro cerca di sbiancare tutta la sua biografia dal totalitarismo rosso. Fino ad arrivare al punto di suggerire ciò che apparentemente è incredibile: lui non ha colpe perché non è mai stato comunista, giacché «si poteva stare nel PCI senza essere comunisti. Era possibile, è stato così».
È quanto afferma nello “storico” articolo per La Stampa, il 16 ottobre 1999, dal titolo “Incompatibili comunismo e libertà”. Tra i primi apprezzamenti, quelli del capo di Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini.
Una lode che sarà ricambiata, di lì a poco, da Veltroni. Il 17 febbraio 2000, infatti, Veltroni, a proposito delle valutazioni del cancelliere tedesco Schroeder, si affretta a spiegare che non si possono mettere sullo stesso piano AN e il partito austriaco di Joerg Haider.
Nell’articolo “Incompatibili comunismo e libertà” la demolizione del passato è globale, non risparmia nulla. C’è persino una frase che non compare nel testo pubblicato da La Stampa il 16 ottobre 1999, ma che lo stesso quotidiano torinese, due giorni dopo, riporta in un box riassuntivo: «Mi riconosco volentieri e sinceramente nell’affermazione secondo la quale la rivoluzione russa non fu un successo tradito ma lo stravolgimento di nobili ideali».
Dunque anche il Lenin così positivamente citato dal giovane Veltroni, come leggevamo su Roma Giovani, ora è a sua volta relegato nel firmamento dei “cattivi”, giacché la rivoluzione d’Ottobre di per sé diventa «stravolgimento di nobili ideali» (mentre il PCI di Enrico Berlinguer condannava Stalin, ma salvava sempre Lenin).
Passano pochi giorni, e Veltroni ribadisce le sue tesi durante un dibattito al liceo classico Tasso di Roma, in occasione del convegno “L’ultimo Ottobre. Ragionamenti sul comunismo come problema irrisolto”.
Ancora una volta Veltroni critica duramente il PCI degli anni ’80, senza ricordare che, all’epoca, pur essendo un dirigente di quel partito lui stesso non osò mai esprimere pubblicamente un dissenso. Dice Veltroni che «occorre tagliare» quella che definisce «la parte tragica della storia del PCI», una parte che sarebbe durata «sino alla seconda metà degli anni ’80». Ebbene, come abbiamo visto, sono anni in cui Veltroni è di casa a Botteghe Oscure, ha incarichi di responsabilità, interviene a comitati centrali e congressi. Eppure mai, nemmeno una volta, il Veltroni di allora pensò di scoprire il suo vero pensiero, mai scrisse un articolo o dedicò un discorso a quella «parte tragica».
Adesso, invece, tutto ruota intorno all’ossessione del comunismo. Nel suo discorso alla Festa nazionale dell’Unità, così come nell’articolo su La Stampa, arriva a definire «il simbolo del migliore Novecento» quello di un individuo che si batte contro i carri armati di un regime comunista: «Se dovessi scegliere una immagine, una sola, della grandezza del Novecento, prenderei la foto di un ragazzo di cui nessuno sa il nome. È quel ragazzo cinese, con due buste di plastica in mano, che si parò da solo di fronte ad una colonna di carri armati che andavano a massacrare i suoi coetanei nella piazza Tien An Men. Sia quel ragazzo sconosciuto e coraggioso, sia la sua voglia di libertà il simbolo del migliore Novecento».
Il Novecento è stato lungo, e di eroi e simboli forse ne ha avuti di più significativi. Ma l’individuo isolato che si erge contro il comunismo sembrava a Veltroni un’irresistibile metafora. Peccato che Veltroni, un tempo acuto conoscitore dei meccanismi massmediatici, abbia dimenticato i seri dubbi che esistono sulla genuinità di quell’episodio. Michele Tito, che non è certo un provocatore anti-liberale, scrive nel giugno 1999: «Dieci anni or sono la foto del ragazzo che va incontro ai carri armati e li immobilizza fece il giro del mondo e della protesta di Tien An Men fece un’epopea. Ma quel giovane era un agente degli organismi di sicurezza. Era un complice dei soldati dei carri armati e il suo improvviso sbucare dalla folla per attraversare l’immensa via della Lunga Pace e mettersi sull’attenti dinanzi alla colonna dei blindati era forse una messa in scena del potere. Il racconto, meticolosamente documentato da uno studioso americano di origine cinese ch’era in missione a Pechino e che si trovò ad assistere all’episodio, fu pubblicato da una rivista degli universitari vietnamiti di California nel ’93, porta la firma del professor Tung Jen, è stato ripreso da più parti e mai è stato smentito».
Ma quando Veltroni deve rimuovere «l’ombra del comunismo, che continuerà a pesare a lungo, come un’ipoteca, sulle sorti della sinistra italiana», la forza delle belle immagini non ha bisogno di riscontri reali. Del resto, nel mondo del Duemila, dov’è il confine tra fiction e reale, tra manipolazione e verità?
L’importante, ormai, è rendere indiscutibile l’assioma secondo cui il comunismo è «una delle più grandi tragedie del Novecento». Sicuro di avere riscritto la storia una volta per tutte, Veltroni può arrivare ad affermare in modo “totalitario”, nella relazione al Congresso dei DS, che gli argomenti da lui sostenuti nell’articolo su La Stampa sono «argomenti sui quali tra di noi non vi sono, non vi possono essere, non vi potrebbero essere differenze». Un vero capo, deciso e potente, che esclude qualsiasi differenziazione sulle proprie parole, proprio come avveniva ai leader dei partiti comunisti di un tempo. Del resto, sa che ormai la sinistra interna ed esterna ai DS è talmente anestetizzata e divisa da non avere nemmeno la forza di reagire. Della sua relazione al congresso parleranno tutti bene, dai Verdi (che non trovano niente da dire quando Veltroni mette le istanze ecologiste per la qualità non in contraddizione ma a «integrazione della cultura quantitativa dominante nella modernità») ai Comunisti Italiani, contenti di non aver subito attacchi diretti da parte del leader. Anche la sinistra democratica, laica e cattolica, ormai accetta il primato clintoniano di Veltroni. Tutto è relativo, anche la battaglia “politically correct” contro la pena di morte: se la pena di morte va contro i diritti umani, perché quando Veltroni dice che «nessun governante, nessuno Stato, in nessuna parte del mondo, può abusare dei diritti umani e rimanere impunito» non gli si ricorda che Bill Clinton è uno dei difensori più strenui della pena di morte?
E a segnalare con precisione la vuotezza del partito veltroniano, a parte gli avversari di sempre della sinistra, restano in pochi, come Il Sole-24 Ore, allarmato da un partito «sempre più gracile»: «Al venir meno del rigido ancoraggio ideologico non ha sopperito una forte elaborazione politica».
Ma queste sono minuzie, sottigliezze, inutili chiose. Il punto importante è che la missione di Walter Veltroni, noto alla CIA con il nome in codice di “agente Icare”, si è conclusa con un trionfo. Gradino dopo gradino ha raggiunto la vetta del più grande partito comunista d’occidente, ha contribuito al suo scioglimento e, non pago, ha scalato anche le due formazioni politiche nate da quello scioglimento, prima il PDS e poi il partito dei DS, riuscendo a conquistarne la guida.
Ben fatto, agente Veltroni! Ora manca solo l’ultimo atto: riveli ufficialmente la sua identità di agente segreto e di infiltrato. Questa è la richiesta definitiva che le viene dall’opinione pubblica democratica, per cancellare ogni residuo dubbio sulla sua affidabilità, sulla sua coerenza, sulla sua limpida onestà intellettuale.

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