Biblioteca Multimediale Marxista


Libro VII°


 

«Ora», seguitai, «paragona la nostra natura, per quanto concerne l'educazione e la mancanza di educazione, a un caso
di questo genere.(1) Pensa a uomini chiusi in una specie di caverna sotterranea, che abbia l'ingresso aperto alla luce per
tutta la lunghezza dell'antro; essi vi stanno fin da bambini incatenati alle gambe e al collo, così da restare immobili e
guardare solo in avanti, non potendo ruotare il capo per via della catena. Dietro di loro, alta e lontana, brilla la luce di un
fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada in salita, lungo la quale immagina che sia stato costruito un muricciolo,
come i paraventi sopra i quali i burattinai, celati al pubblico, mettono in scena i loro spettacoli».
«Li vedo», disse.
«Immagina allora degli uomini che portano lungo questo muricciolo oggetti d'ogni genere sporgenti dal margine, e
statue e altre immagini in pietra e in legno delle più diverse fogge; alcuni portatori, com'è naturale, parlano, altri
tacciono».
«Che strana visione», esclamò, «e che strani prigionieri!».
«Simili a noi», replicai: «innanzitutto credi che tali uomini abbiano visto di se stessi e dei compagni qualcos'altro che
le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna di fronte a loro?» «E come potrebbero», rispose, «se sono stati
costretti per tutta la vita a tenere il capo immobile?» «E per gli oggetti trasportati non è la stessa cosa?» «Sicuro!».
«Se dunque potessero parlare tra loro, non pensi che prenderebbero per reali le cose che vedono?» «è inevitabile».
«E se nel carcere ci fosse anche un'eco proveniente dalla parete opposta? Ogni volta che uno dei passanti si mettesse a
parlare, non credi che essi attribuirebbero quelle parole all'ombra che passa?» «Certo, per Zeus!».
«Allora», aggiunsi, «per questi uomini la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti».
«è del tutto inevitabile», disse.
«Considera dunque», ripresi, «come potrebbero liberarsi e guarire dalle catene e dall'ignoranza, se capitasse loro
naturalmente un caso come questo: qualora un prigioniero venisse liberato e costretto d'un tratto ad alzarsi, volgere il
collo, camminare e guardare verso la luce, e nel fare tutto ciò soffrisse e per l'abbaglio fosse incapace di scorgere quelle
cose di cui prima vedeva le ombre, come credi che reagirebbe se uno gli dicesse che prima vedeva vane apparenze,
mentre ora vede qualcosa di più vicino alla realtà e di più vero, perché il suo sguardo è rivolto a oggetti più reali, e inoltre,
mostrandogli ciascuno degli oggetti che passano, lo costringesse con alcune domande a rispondere che cos'è? Non credi
che si troverebbe in difficoltà e riterrebbe le cose viste prima più vere di quelle che gli vengono mostrate adesso?» «E di
molto!», esclamò.
«E se fosse costretto a guardare proprio verso la luce, non gli farebbero male gli occhi e non fuggirebbe, voltandosi
indietro verso gli oggetti che può vedere e considerandoli realmente più chiari di quelli che gli vengono mostrati?» «è
così », rispose.
«E se qualcuno», proseguii, «lo trascinasse a forza da lì su per la salita aspra e ripida e non lo lasciasse prima di averlo
condotto alla luce del sole, proverebbe dolore e rabbia a essere trascinato, e una volta giunto alla luce, con gli occhi
accecati dal bagliore, non potrebbe vedere neppure uno degli oggetti che ora chiamiamo veri?» «No, non potrebbe,
almeno tutto a un tratto», rispose.
«Se volesse vedere gli oggetti che stanno di sopra avrebbe bisogno di abituarvisi, credo. Innanzitutto discernerebbe
con la massima facilità le ombre, poi le immagini degli uomini e degli altri oggetti riflesse nell'acqua, infine le cose reali;
in seguito gli sarebbe più facile osservare di notte i corpi celesti e il cielo, alla luce delle stelle e della luna, che di giorno
il sole e la luce solare».
«Come no? » «Per ultimo, credo, potrebbe contemplare il sole, non la sua immagine riflessa nell'acqua o in una
superficie non propria, ma così com'è nella sua realtà e nella sua sede».
«Per forza», disse.
«In seguito potrebbe dedurre che è il sole a regolare le stagioni e gli anni e a governare tutto quanto è nel mondo
visibile, e he in qualche modo esso è causa di tutto ciò che i prigionieri vedevano».
«è chiaro», disse, «che dopo quelle esperienze arriverà a queste conclusioni».
«E allora? Credi che lui, ricordandosi della sua prima dimora, della sapienza di laggiù e dei vecchi compagni di
prigionia, non si riterrebbe fortunato per il mutamento di condizione e non avrebbe compassione di loro?» «Certamente».
«E se allora si scambiavano onori, elogi e premi, riservati a chi discernesse più acutamente gli oggetti che passavano e
si ricordasse meglio quali di loro erano soliti venire per primi, quali per ultimi e quali assieme, e in base a ciò indovinasse
con la più grande abilità quello che stava per arrivare, ti sembra che egli ne proverebbe desiderio e invidierebbe chi tra
loro fosse onorato e potente, o si troverebbe nella condizione descritta da Omero e vorrebbe ardentemente "lavorare a
salario per un altro, pur senza risorse"(2) e patire qualsiasi sofferenza piuttosto che fissarsi in quelle congetture e vivere in
quel modo?» «Io penso», rispose, «che accetterebbe di patire ogni genere di sofferenze piuttosto che vivere in quel
modo».
«E considera anche questo», aggiunsi: «se quell'uomo scendesse di nuovo a sedersi al suo posto, i suoi occhi non
sarebbero pieni di oscurità, arrivando all'improvviso dal sole?» «Certamente», rispose.
«E se dovesse di nuovo valutare quelle ombre e gareggiare con i compagni rimasti sempre prigionieri prima che i suoi
occhi, ancora deboli, si ristabiliscano, e gli occorresse non poco tempo per riacquistare l'abitudine, non farebbe ridere e
non si direbbe di lui che torna dalla sua ascesa con gli occhi rovinati e che non vale neanche la pena di provare a salire? E

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non ucciderebbero chi tentasse di liberarli e di condurli su, se mai potessero averlo tra le mani e ucciderlo?»(3) «E
come!», esclamò.
«Questa similitudine», proseguii, «caro Glaucone, dev'essere interamente applicata a quanto detto prima: il mondo che
ci appare attraverso la vista va paragonato alla dimora del carcere, la luce del fuoco che qui risplende all'azione del sole;
se poi consideri la salita e la contemplazione delle realtà superiori come l'ascesa dell'anima verso il mondo intellegibile
non ti discosterai molto dalla mia opinione, dal momento che desideri conoscerla.
Lo saprà un dio se essa è vera. Questo è dunque il mio parere: l'idea del bene è il limite estremo del mondo
intellegibile e si discerne a fatica, ma quando la si è vista bisogna dedurre che essa è per tutti causa di tutto ciò che è
giusto e bello: nel mondo visibile ha generato la luce e il suo signore, in quello intelligibile essa stessa, da sovrana,
elargisce verità e intelletto, e chi vuole avere una condotta saggia sia in privato sia in pubblico deve contemplare questa
idea».
«Sono d'accordo con te», disse, «nei limiti delle mie facoltà».
«Allora», continuai, «condividi anche questo punto e non meravigliarti che chi è giunto fin qui non voglia occuparsi
delle faccende umane, ma la sua anima tenda sempre a dimorare in alto; ciò è ragionevole, se la similitudine fatta prima è
ancora valida».
«Sì , è ragionevole», disse.
«Ebbene, credi che ci sia qualcosa di strano se uno, passando dagli spettacoli divini alle cose umane, fa delle brutte
figure e appare del tutto ridicolo, in quanto si muove a tentoni e prima di essersi ben abituato all'oscurità di quaggiù è
costretto a difendersi nei tribunali o altrove dalle ombre della giustizia o dalle immagini che queste ombre proiettano, e a
contestare il modo in cui esse sono interpretate da coloro che non hanno mai veduto la giustizia in sé?» «No, non è affatto
strano», rispose.
«Ma una persona assennata», ripresi, «si ricorderebbe che i disturbi agli occhi sono di due tipi e duplice è la loro
causa: il passaggio dalla luce all'oscurità e dall'oscurità alla luce.
Considerando che la stessa cosa accade all'anima, qualora ne vedesse una turbata e incapace di vedere non riderebbe
sconsideratamente, ma esaminerebbe se è ottenebrata dalla mancanza d'abitudine perché proviene da una vita più
luminosa, o è rimasta abbagliata da una luce più splendida perché procede verso una vita più luminosa da una maggiore
ignoranza, e allora stimerebbe felice l'una per ciò che prova e per la vita che conduce, e avrebbe compassione dell'altra; e
quand'anche volesse ridere di questa, il suo riso riuscirebbe meno inopportuno che se fosse riservato all'anima proveniente
dall'alto, alla luce».
«Hai proprio ragione!», esclamò.
«Se questo è vero», dissi, «dobbiamo concludere che l'educazione non è come la definiscono certuni che si professano
filosofi.
Essi sostengono di instillare la scienza nell'anima che non la possiede, quasi infondessero la vista in occhi che non
vedono».(4) «In effetti sostengono questo», confermò.
«Ma il discorso attuale», insistetti, «rivela che questa facoltà insita nell'anima di ciascuno e l'organo che permette di
apprendere devono essere distolti dal divenire assieme a tutta l'anima, così come l'occhio non può volgersi dalla tenebra
alla luce se non assieme all'intero corpo, finché non risultino capaci di reggere alla contemplazione dell'essere e della sua
parte più splendente; questo, secondo noi, è il bene. O no?» «Sì ».
«Può quindi esistere», proseguii, «un'arte della conversione, che insegni il modo più facile ed efficace di girare
quell'organo. Non si tratta di infondervi la vista, bensì , presupponendo che l'abbia, ma che non sia rivolto nella giusta
direzione e non guardi là dove dovrebbe, di adoperarsi per orientarlo da questa parte».
«Pare di sì », disse.
«Pertanto le altre cosiddette virtù dell'anima sono probabilmente vicine a quelle del corpo: in effetti, se all'inizio
mancano, è facile che poi vengano infuse con l'abitudine e l'esercizio. Invece la virtù dell'intelletto, a quanto pare,
riguarda più d'ogni altra un qualcosa di più divino, che non perde mai il suo potere e per effetto della conversione diventa
utile e giovevole o viceversa inutile e dannoso. Non hai ancora notato come l'animuccia di quelli che sono considerati
malvagi, ma in gamba, abbia uno sguardo penetrante e discerna con acutezza ciò a cui si rivolge, poiché la sua vista non è
scarsa, ma è costretta a servire la malvagità, al punto che quanto più acutamente vede, tanto maggiori sono i mali che
produce?» «Proprio così », rispose.
«Tuttavia», aggiunsi, «se a una natura simile fossero amputati sin dall'infanzia quella sorta di pesi di piombo congeniti
al divenire, che si attaccano a lei con i cibi, i piaceri della gola e le leccornie e torcono la vista dell'anima verso il basso;
se, liberatasi di essi, si convertisse alla verità, la stessa natura di queste persone vedrebbe la realtà con la massima
acutezza, come vede ciò cui ora è rivolta».
«è logico», disse.
«E allora», domandai, «non è una conseguenza 1ogica, anzi inevitabile delle nostre premesse, che né gli uomini incolti
e ignari della verità, né quelli cui viene permesso di passare tutta la loro vita nello studio potranno mai governare una città
in modo adeguato, gli uni perché non hanno nella vita un unico scopo cui deve mirare ogni loro azione privata e pubblica,
gli altri perché non lo faranno di loro volontà, ritenendo di essersi trasferiti ancora vivi nelle Isole dei beati?» «Vero»,
rispose.
«Il nostro compito di fondatori», continuai, «è dunque quello di costringere le migliori nature ad apprendere ciò che
prima abbiamo definito la cosa più importante, cioè vedere il bene e compiere quell'ascesa, e di non permettere loro, una

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volta che siano salite e abbiano visto a sufficienza, ciò che ora è concesso».
«Che cosa?» «Di rimanere là», risposi, «e non voler ridiscendere tra quei prigionieri e partecipare alle loro fatiche e ai
loro onori, che siano più o meno seri».
«Allora», chiese, «useremo loro ingiustizia e li faremo vivere peggio, quando hanno la possibilità di vivere meglio?»
«Ti sei dimenticato di nuovo, mio caro», replicai, «che la legge non si prefigge l'obiettivo di procurare un particolare
benessere a una sola classe della città, ma si adopera perché ciò si verifichi nella città intera, armonizzando i cittadini con
la persuasione e la costrizione e obbligandoli a mettere in comune tra loro l'utile che ciascuno è in grado di fornire alla
collettività; la legge stessa forgia cittadini simili non per lasciarli liberi di volgersi dove ciascuno vuole, ma per creare
tramite loro il vincolo che tenga la città unita».
«è vero», ammise: «me n'ero dimenticato».
«Considera dunque, Glaucone», continuai, «che non faremo un torto a coloro che nascono filosofi presso di noi, ma
porremo loro giuste richieste costringendoli a prendersi cura degli altri e a proteggerli. Infatti diremo: "Per coloro che
nascono filosofi nelle altre città è naturale non partecipare alle fatiche della vita pubblica, in quanto si sviluppano da sé,
contro il volere della costituzione vigente in ciascuna di esse, e ciò che si sviluppa da sé, non essendo debitore a nessuno
della propria crescita, è giusto che non si preoccupi di pagarne a nessuno il prezzo. Noi invece abbiamo generato voi per
voi stessi e per il resto della città come capi e re in un alveare, poiché avete ricevuto un'educazione migliore e più perfetta
di loro e siete più capaci di svolgere entrambe le attività.(5) Pertanto dovete scendere, ciascuno al suo turno, nella dimora
degli altri e abituarvi a guardare ciò che è avvolto nella tenebra; e una volta che vi sarete abituati vedrete mille volte
meglio di quelli laggiù e conoscerete quali sono le singole immagini e quali oggetti riflettono, perché avrete visto la verità
sul bello, sul giusto e sul bene. Così la città sarà governata da noi e da voi in stato di veglia e non di sogno, mentre ora la
maggior parte degli Stati è retta da uomini che combattono tra loro a vuoto e lottano per il potere come se fosse un grande
bene. Ma la verità è questa: la città in cui i futuri governanti sono meno smaniosi del potere è necessariamente governata
nel modo migliore e più stabile, mentre quella che ha governanti contrari si trova nella situazione contraria».
«Precisamente», disse.
«Credi dunque che i nostri discepoli, all'udire queste parole, non ci obbediranno e si rifiuteranno di condividere,
ciascuno al suo turno, le fatiche della vita pubblica, e vorranno passare la maggior parte del tempo tra di loro nel puro
mondo delle idee?» «Impossibile», rispose, «perché impartiremo ordini giusti a uomini giusti. La cosa più importante di
tutte è che ciascuno di loro affronterà l'esercizio del potere come una necessità inevitabile, al contrario degli attuali
governanti di ogni città».
«è così , amico», ripresi. «Se per i futuri governanti troverai una condizione di vita migliore del potere, la tua città può
diventare ben governata, perché sarà l'unica in cui governeranno coloro che sono realmente ricchi, non di oro ma della
ricchezza che deve possedere l'uomo felice, ossia di una vita onesta e saggia.
Ma se le cariche pubbliche sono occupate da individui poveri e affamati di proprietà privata, che pensano di doverne
ricavare il proprio guadagno, questa possibilità non può sussistere, in quanto il potere diventa oggetto di contesa e una
simile guerra intestina e civile manda in rovina loro e il resto della città».
«Verissimo», disse.
«Mi sai quindi indicare», chiesi, «un genere di vita che disprezzi le cariche politiche e non sia quello della vera
filosofia?» «No, per Zeus!», esclamò.
«D'altra parte non deve salire al potere chi ne è appassionato amante, altrimenti i rivali si combatteranno tra loro».
«Come no?» «Ma chi altri costringerai a proteggere la città, se non coloro che intendono il modo migliore di
governarla, godono di altri onori e conducono una vita più virtuosa di quella dell'uomo politico?» «Nessun altro», rispose.
«Vuoi dunque che ora esaminiamo il modo di formare tali persone e di condurle alla luce, come si dice che alcuni
dall'Ade siano ascesi tra gli dèi?» «Certo che lo voglio!», esclamò.
«Questo però, a quanto sembra, non sarà come girare un coccio,(6) ma comporterà una conversione dell'anima da un
giorno di tenebra notturna a un giorno vero, ossia un'ascesa verso l'essere, che noi chiameremo la vera filosofia».
«Appunto».
«Bisogna dunque esaminare quale disciplina possieda tale facoltà?» «Come no?» «E quale sarà, Glaucone, la
disciplina che trascina l'anima dal divenire all'essere? Mentre parlo mi viene in mente una cosa: non abbiamo detto che
questi uomini devono sin da giovani essere atleti della guerra?» «Sì , l'abbiamo detto».
«Quindi la disciplina che cerchiamo deve mirare anche a questo».
«A che cosa?» «A non essere inutili ai guerrieri».
«Sì », rispose, «se è possibile».
«Prima noi li abbì amo educati nella ginnastica e nella musica».
«Proprio così », disse.
«E la ginnastica si occupa di ciò che nasce e perisce, in quanto sorveglia la crescita e il deperimento del corpo».
«Pare».
«Pertanto questa non può essere la disciplina che cerchiamo».
«No di certo».
«Forse allora è la musica, come l'abbiamo descritta prima?» «Ma quella», obiettò, «se ti ricordi, era il corrispettivo
della ginnastica: educava i guardiani con la forza delle abitudini, conferiva attraverso l'armonia il senso della proporzione,
non una scienza, attraverso il ritmo l'eleganza, e conteneva nelle narrazioni, sia quelle mitiche sia quelle più veridiche,

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certi altri caratteri affini a questi; ma neppure in essa era presente una disciplina che guidasse a ciò che tu ora cerchi».
«Me lo stai rammentando con grande precisione», dissi; «sì , in realtà non conteneva nulla di simile. Ma allora quale
sarà mai questa disciplina, esimio Glaucone? Le arti ci sono sembrate tutte quante vili...».
«Come no? Eppure quale altra disciplina rimane, tolte la musica, la ginnastica e le arti?» «Via», dissi, «se non
abbiamo più null'altro da prendere, rivolgiamoci a una disciplina che abbia un'applicazione generale».
«Quale?» «Ad esempio quella disciplina comune di cui si servono tutte le arti, le opinioni intellettuali e le scienze, e
che ognuno deve per forza imparare molto presto...» «Ossia?», domandò.
«Quella molto semplice», risposi, «che distingue l'uno, il due e il tre: insomma, sto parlando del numero e del
calcolo.(7) Non è forse vero che ogni arte e scienza è costretta a essere partecipe di queste nozioni?» «E come!», esclamò.
«Quindi anche l'arte della guerra?», chiesi.
«è assolutamente necessario», rispose.
«E allora», osservai, «è un comandante davvero ridicolo l'Agamennone delle tragedie, come ce lo presenta ogni volta
Palamede!(8) Non hai capito che questi, l'inventore del numero, afferma di aver disposto le schiere in campo a Ilio e di
aver contato le navi e tutto il resto, come se prima d'allora non le avessero mai contate e Agamennone, a quanto risulta,
non conoscesse neanche il numero dei suoi piedi, se davvero non sapeva contare? Ma che razza di comandante era,
secondo te?» «Un comandante ben strano», rispose, «se questo corrispondesse a verità!».
«Porremo dunque», domandai, «come altra nozione necessaria al guerriero la conoscenza del calcolo e dei numeri?»
«Soprattutto questa», rispose, «se egli vuole capire qualcosa di tattica, o piuttosto se vuole essere un uomo».
«E su questa disciplina sei d'accordo con me?», chiesi.
«A che proposito?» «Probabilmente essa per sua natura fa parte di quelle discipline che cerchiamo e che guidano
verso la conoscenza intellettiva, ma nessuno ne fa un uso corretto, sebbene sia davvero capace di trarre verso l'essere in
sé».
«Che cosa intendi dire?» «Cercherò di chiarire il mio pensiero», risposi. «Tu osserva assieme a me la distinzione che
opero tra ciò che conduce e ciò che non conduce alla nostra mèta, e concedi oppure rifiuta il tuo assenso: così vedremo
più chiaramente se la mia congettura corrisponde alla realtà».
«Dimostramelo», disse.
«Eccoti la mia dimostrazione», ripresi: «se ci fai caso, alcuni oggetti sensibili non invitano l'intelletto a indagarli, in
quanto sono sufficientemente vagliati dai sensi, altri invece gli impongono in tutti i modi questo esame, in quanto i sensi
non ne ricavano nulla di valido».
«è chiaro», disse, «che tu parli degii oggetti che si vedono da lontano e di quelli dipinti in prospettiva».
«Non hai afferrato pienamente il senso delle mie parole», dissi.
«E allora di quali oggetti parli?», domandò.
«Gli oggetti che non invitano all'indagine», spiegai, «sono quelli che non generano contemporaneamente sensazioni
opposte; quelli che invece le producono li considero stimolanti alla riflessione, ogni qual volta la sensazione, che
provenga da vicino o da lontano, non indica affatto un oggetto più che il suo contrario.
Capirai più chiaramente il mio pensiero con il seguente esempio.
Queste, diciamo, sono tre dita: il pollice, l'indice e il medio».
«Certo», rispose.
«Ora immagina che io le intenda viste da vicino. Ma su di esse fa' piuttosto questa considerazione».
«Quale?» «Ognuno di essi sembra indistintamente un dito, e non c'è alcuna differenza se lo si guarda al centro o
all'estremità, se è bianco o nero, grosso o sottile, e così via. In tutti questi casi l'anima dei più non è costretta a chiedere
all'intelletto che cos'è un dito, perché in nessun caso la vista le indica che il dito sia allo stesso tempo il suo contrario».
«No di certo», disse.
«Pertanto», proseguii, «è logico che un oggetto del genere non possa richiamare né risvegliare la conoscenza
intellettiva».
«è logico».
«Ma la vista discerne a sufficienza la grandezza o la piccolezza delle dita, e per essa non fa alcuna differenza che un
dito sia posto al centro oppure all'estremità? E allo stesso modo il tatto percepisce la grossezza e la sottigliezza, o la
mollezza e la durezza? E gli altri sensi non sono carenti nell'evidenziare queste qualità? Oppure ciascuno di essi procede
così : dapprima l'organo di senso preposto alla durezza è costretto a farsi carico anche della mollezza, e riferisce all'anima
che avverte il medesimo oggetto duro e molle insieme?» «è così », rispose.
«Ma non è allora inevitabile», ripresi, «che in simili casi l'anima non sappia con certezza che cosa intende questa
sensazione per duro, se dice che il medesimo oggetto è anche molle, e quale significato attribuisce la sensazione del
leggero e del pesante ai rispettivi vocaboli, se indica il pesante come leggero e il leggero come pesante?» «Certo»,
rispose, «queste interpretazioni sono strane per l'anima e richiedono un attento esame».
«Pertanto», dissi, «è logico che in simili casi l'anima dapprima provi a ricorrere al calcolo e alla comprensione
intellettiva, per esaminare se ognuna delle impressioni che le viene riportata riguarda una sola cosa oppure due».
«Come no?» «E se le cose risultano due, ognuna di esse si rivela un'entità singola e diversa dall'altra?» «Sì ».
«Se dunque ciascuna di esse è una cosa sola, e l'una e l'altra assieme sono due, l'anima le concepirà come due entità
separate, perché se non fossero distinte non le concepirebbe come due, ma come una sola».
«Giusto».

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«La vista, diciamo, percepiva un qualcosa di grande e di piccolo, non però separati, bensì confusi. O no?» «Sì ».
«Per fare chiarezza su questo punto l'intelletto è stato costretto a discernere un grande e un piccolo, non più confusi
ma distinti, al contrario della vista».
«Vero».
«Dunque è da lì che incominciamo a chiederci che cos'è il grande e il piccolo?» «Certamente».
«In questo modo abbiamo distinto il mondo intellegibile e quello visibite».
«Giustissimo», assentì .
«Ecco che cosa cercavo di esprimere poco fa, dicendo che alcune cose stimolano la riflessione, altre no; quelle che
generano nei sensi due impressioni contrarie nello stesso tempo le definisco stimolanti, mentre le altre non risvegliano
secondo me la conoscenza intellettiva».
«Ora capisco», disse, «e anch'io la penso così ».
«E a quale di queste due categorie ti sembra che appartengano il numero e l'unità?» «Non ne ho idea», rispose.
«Deducilo per analogia dalle premesse», dissi. «Se l'unità in sé si coglie a sufficienza con la vista o con un altro
organo di senso, non può attrarre verso l'essere, come abbiamo detto a proposito del dito; se invece la sua visione suscita
sempre impressioni contraddittorie, così da non apparire unità più che il suo contrario, allora ci vorrà un giudice che
risolva il problema e la sua anima sarà costretta a dubitare e a indagare, mettendo in moto dentro di sé la riflessione, e a
chiedersi che cos'è l'unità in sé; così la scienza dell'unità potrebbe appartenere a quelle che conducono e convertono alla
contemplazione dell'essere».
«Anzi», aggiunse, «questo è vero soprattutto per la visione dell'unità, poiché noi vediamo la stessa cosa
contemporaneamente come una e di numero infinito».(9) «E se la cosa vale per l'unità», domandai, «non vale anche per
ogni numero?» «Come no?» «Ma la scienza del calcolo e dell'aritmetica verte tutta sul numero».
«Certo».
«E queste cognizioni sembra che conducano alla verità».
«In mamera straordinaria!».
«A quanto pare, dunque, potrebbero far parte delle cognizioni che cerchiamo: per un guerriero è necessario impararle
per la tattica, per un filosofo perché deve emergere dal divenire e toccare l'essere, altrimenti non diventerà mai un esperto
di calcolo».
«E così », disse.
«Quindi il nostro guardiano si trova a essere insieme guerriero e filosofo».
«Sicuro!».
«Pertanto, Glaucone, sarebbe conveniente imporre questa disciplina per legge e persuadere coloro che devono
esercitare nella città le più alte cariche a indiizzarsi verso la scienza del calcolo e a studiarla non superficialmente, ma fino
a raggiungere col puro intelletto la contemplazione della natura dei numeri, senza usarla per vendere e comprare, come
fanno i mercanti e i bottegai, ma per la guerra e per facilitare la conversione dell'anima stessa dal divenire alla verità e
all'essere».
«Parole magnifiche!», esclamò.
«Ora che si è parlato della disciplina relativa ai calcoli», continuai, «mi rendo conto di come sia elevata e sotto molti
aspetti utiile al raggiungimento dei nostri scopi, se la si pratica per conoscere, non per trafficare».
«In che senso?», chiese.
«Nel senso che, come abbiamo appena detto, essa conferisce all'anima una forte spinta verso l'alto e la costringe a
ragionare sui numeri in se stessi, senza accettare mai che le si venga a parlare di numeri presentandoli come dotati di
corpi visibili o tangibili. (10) Tu sai infatti che gli esperti in materia deridono chi tenta di scindere teoricamente l'unità in
sé e non ammettono questo procedimento, ma se tu la dividi, essi la moltiplicano, per evitare che l'unità non appaia più
una, bensì un aggregato di molte parti».
«Quello che dici è verissimo», assentì .
«E se qualcuno, Glaucone, chiedesse loro: "Mirabili uomini, di quali numeri state parlando, nei quali l'unità è come
voi pretendete, ognuna perfettamente uguale all'altra, senza la minima differenza e senza avere in sé parti distinte?", che
cosa risponderebbero, secondo te?» «Questo, penso: che essi parlano di ciò che si può solo concepire con l'intelletto e non
si può trattare in nessun altro modo».
«Vedi dunque, caro amico», proseguii, «che forse questa disciplina ci è davvero necessaria, poiché è evidente che
costringe l'anima a fare uso del puro intelletto per giungere alla pura verità?» «E in effetti ottiene proprio questo
risultato», disse.
«E allora? Avrai già avuto modo di notare che gli individui naturalmente portati per il calcolo sono, per così dire, acuti
d'ingegno in tutte le discipline, mentre coloro che sono lenti ad apprendere, se istruiti e addestrati nell'aritmetica, pur non
ricavandone altra utilità, fanno tutti per lo meno qualche progresso e diventano più acuti di prima?» «è così », rispose.
«E comunque penso che non ti sarà facile trovare molte discipline più faticose di questa per chi la apprende e la
pratica».
«No di certo».
«Per tutte queste ragioni essa non va trascurata, ma dev'essere insegnata agli individui dotati della natura migliore».
«Sono d'accordo», disse.
«Ecco dunque che abbiamo stabilito la prima disciplina», ripresi.

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«Come seconda vediamo se ci è utile quella che si connette ad essa».
«Quale?», domandò. «Intendi dire la geometria?» «Proprio questa», confermai.
«Per quanto attiene alla guerra», disse, «è chiaramente utile: corre molta differenza tra l'essere esperti o meno di
geometria quando si tratta di porre l'accampamento, occupare postazioni, riunire e dispiegare le forze ed eseguire tutte le
altre manovre militari in battaglia e in marcia».
«Ma per questo», obiettai, «può bastare anche una piccola parte di geometria e di calcolo. Bisogna invece esaminare
se la parte maggiore e più progredita della geometria mira a far scorgere più facilmente l'idea del bene. A questo fine,
diciamo, tendono tutte le discipline che costringono l'anima a volgersi verso quel luogo dove ha sede la parte più beata
dell'essere, che ella deve in ogni modo contemplare».
«Hai ragione», disse.
«Pertanto, se la geometria costringe a contemplare l'essere è utile, se costringe a contemplare il divenire, no».
«D'accordo».
«Ora», proseguii, «chiunque sia anche solo un poco esperto di geometria non ci contesterà che questa scienza è tutto il
contrario di come la descrivono coloro che la praticano».
«In che senso?», domandò.
«Essi ne parlano in modo davvero ridicolo e forzato: affermano di tracciare quadrilateri, prolungare linee, aggiungere
figure e così via per scopi pratici, ai quali si rifanno in tutti i loro discorsi, mentre questa disciplina dev'essere interamente
coltivata solo per la conoscenza».
«Senza dubbio», disse.
«E non bisogna ammettere anche questo?» «Che cosa?» «Che si tratta della conoscenza di ciò che eternamente è, non
di ciò che nasce e perisce».
«è facile convenirne», disse: «la geometria è effettivamente la conoscenza di ciò che eternamente è».
«Quindi, nobile amico, essa può trascinare l'anima verso la verità e produrre un pensiero filosofico, al punto da
rivolgere verso l'alto ciò che noi ora teniamo indebitamente rivolto verso il basso».
«Quanto più è possibile», rispose.
«E in ogni modo possibile», ripresi, «dobbiamo imporre agli abitanti della tua bella città di non astenersi
assolutamente dalla geometria. Infatti anche le sue funzioni accessorie non sono di poco conto».
«Quali?», domandò.
«Quelle che hai menzionato tu», risposi, «in riferimento alla guerra; inoltre sappiamo che per un migliore
apprendimento di ogni disciplina ci sarà una differenza totale tra chi è esperto in geometria e chi non lo è».
«Sì , proprio totale, per Zeus!», esclamò.
«Dobbiamo dunque stabilire questa come seconda disciplina per i giovani?» «Stabiliamola pure», disse.
«E come terza stabiliremo l'astronomia? O non sei dell'avviso?» «Sì che lo sono», rispose. «Essere più pronti a
percepire le stagioni, i mesi e gli anni non si addice solo all'agricoltura o alla navigazione, ma anche, e non meno, alla
strategia».
«Che carino», replicai: «sembra che tu tema di dare al volgo l'impressione di prescrivere discipline inutili! Invece non
è affatto poco importante, anzi è difficile credere che in queste discipline si purifichi e si ravvivi in ciascuno di noi un
organo dell'anima rovinato e accecato dalle altre occupazioni, e meritevole d'essere salvato più di un infinito numero di
occhi, poiché solo grazie ad esso si vede la verità. Perciò chi condivide la tua opinione giudicherà le tue parole
straordinariamente belle, mentre tutti quelli che non ne hanno mai capito nulla penseranno, com'è logico, che tu dica delle
sciocchezze, perché non vedono in questi studi un'altra utilità di qualche importanza. Ora dunque considera a chi di loro ti
rivolgi, o se piuttosto non ti rivolgi né agli uni né agli altri, ma fai i tuoi ragionamenti soprattutto per te stesso, senza
comunque negare ad altri l'utilità che potrebbero ricavarne».
«Preferisco il secondo sistema», disse: «parlare con domande e risposte soprattutto per me stesso».
«Allora torna un passo indietro», ripresi, «perché poco fa non abbiamo afferrato correttamente ciò che viene subito
dopo la geometria».
«In che senso?», chiese.
«Dopo una figura piana», risposi, «abbiamo preso in esame un corpo solido già in movimento prima dì considerarlo in
se stesso; invece è corretto studiare la terza dimensione subito dopo la seconda. Essa è quella che concerne il cubo e i
solidi dotati di profondità». (11) «è così infatti», disse. «Ma questa scienza, Socrate, sembra che non sia stata ancora
scoperta».
«Sì », confermai, «e per due motivi: si tratta di una disciplina troppo poco studiata, in quanto nessuna città la tiene in
considerazione e presenta un grado elevato di difficoltà; inoltre coloro che conducono le loro ricerche in questo campo
hanno bisogno di un maestro, senza il quale non potrebbero scoprire nulla. E questo maestro innanzitutto è difficile da
trovare, poi, anche se ci fosse, ora come ora gli studiosi di questa disciplina non lo seguirebbero, perché sono presuntuosi.
Se invece l'intera città collaborasse a tenerla in considerazione, questi individui si mostrerebbero obbedienti ed essa
verrebbe indagata con assiduità e rigore, rivelando la sua essenza; perché anche ora, pur essendo disprezzata e osteggiata
dal volgo, ma anche da chi la studia senza rendersi conto della sua utilità, a dispetto di tutto questo si sviluppa ugualmente
grazie al suo fascino, e non ci sarebbe da meravigliarsi se venisse in piena luce».
«Senza dubbio», disse, «possiede una straordinaria attrattiva. Ma spiegami più chiaramente ciò che hai detto poco fa.
Tu hai definito geometria la trattazione delle figure piane».

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«Sì », confermaì .
«Dopo di questa», proseguì , «in un primo momento hai posto la geometria, poi però sei tornato indietro».
«Perché avevo fretta», risposi, «di trattare rapidamente tutti questi argomenti, e invece procedo con maggiore lentezza.
Dopo la geometria viene la scienza che tratta la dimensione della profondità, ma io l'ho saltata per il modo ridicolo in cui
la si studia e dalla geometria sono passato all'astronomia, che si occupa dei solidi in movimento».
«Hai ragione», disse.
«Poniamo quindi l'astronomia», suggerii, «come quarta disciplina, tenendo conto di quella che ora tralasciamo, nel
caso la città voglia coltivarla».
«Così va bene», disse. «Quanto al fatto che prima, Socrate, mi hai rimproverato di lodare l'astronomia in modo
ordinario, ora conformo la mia lode alle tue richieste, poiché mi sembra chiaro per tutti che essa costringe l'anima a
guardare verso l'alto e dalle cose di questo mondo la conduce lassù».
«Forse», replicai, «è chiaro per tutti tranne che per me: io non la penso così ».
«E come, allora?», domandò.
«Dal modo in cui ora la praticano quelli che la innalzano al rango di filosofia, mi sembra che faccia guardare verso il
basso».
«Ma che cosa dici?», fece lui.
«Mi sembra», risposi, «che il tuo modo di concepire lo studio dei corpi celesti non sia affatto ignobile: probabilmente,
se uno osservasse a testa in su le decorazioni di un soffitto e imparasse qualcosa, tu penseresti che egli guarda con
l'intelletto e non con gli occhi. Forse però hai ragione tu, e io sono uno sciocco. Infatti non riesco a credere che un'altra
scienza spinga l'anima a guardare in alto, se non quella che concerne l'essere invisibile; e se uno cerca di acquisire
qualche cognizione sugli oggetti sensibili, che stia a bocca aperta verso l'alto o piegato verso il basso, affermo che non
potrà mai imparare, perché di cose simili non esiste scienza, e la sua anima non guarda in alto ma in basso, anche se
studiasse supino, disteso per terra o nuotando in mare».
«Ho quel che mi merito», disse, «e hai fatto bene a rimproverarmi.
Ma in che senso hai affermato che bisogna imparare l'astronomia diversamente da adesso, se si vuole che questo
studio sia utile al nostro scopo?» «Nel senso che», risposi, «questi ornamenti del cielo si possono ritenere i più belli e
perfetti tra quelli intessuti nella stoffa del mondo visibile, ma sono di gran lunga inferiori a quelli veri, nei quali la
velocità e la lentezza reale si muovono in relazione reciproca e muovono gli oggetti che racchiudono in sé secondo il vero
numero e tutte le vere figure; ciò si può cogliere con la ragione e il pensiero, non con la vista.(12) O pensi di sì ?»
«Nient'affatto!», esclamò.
«Quindi», proseguii, «bisogna servirsi del ricamo celeste come di un modello per comprendere le realtà invisibili,
come se ci si imbattesse in disegni tracciati ed elaborati con eccezionale maestria da Dedalo (13) o da qualche altro
artefice o pittore. Un esperto di geometria, se li vedesse, giudicherebbe splendida la loro esecuzione, ma è ridicolo
esaminarli seriamente con l'intenzione di cogliervi la vera essenza dell'uguale o del doppio o di qualche altro rapporto
numerico».
«E come può non essere ridicolo?» «Non credi dunque», domandai, «che un vero astronomo avrà la stessa
impressione, guardando i moti degli astri? Egli penserà che il cielo e i corpi in esso racchiusi siano stati realizzati dal loro
artefice nel modo migliore in cui si possono compiere tali opere; ma secondo te non riterrà strano che si consideri il
rapporto tra la notte e il giorno, tra questi e il mese, tra il mese e l'anno e quello degli altri astri con questi e tra loro come
fenomeni immutabili e non soggetti ad alcun cambiamento, benché abbiano un corpo e siano visibili, e che si cerchi in
ogni modo di coglierne la verità?» «Ad ascoltare queste tue parole, pare così anche a me», rispose.
«Studiamo dunque l'astronomia», ripresi, «allo stesso modo della geometria, cioè per risolvere problemi particolari, e
lasciamo perdere i fenomeni celesti, se vogliamo davvero occuparci di astronomia e rendere utile la parte naturalmente
intelligente dell'anima, da inutile che era».
«Certo che imponi una fatica molto più gravosa di quanto sia lo studio attuale dell'astronomia!», esclamò.
«E credo», aggiunsi, «che estenderemo queste imposizioni anche al resto, se la nostra opera di legislatori serve a
qualcosa. Ma sei in grado di ricordare un'altra disciplina utile?» «No», rispose, «almeno sul momento».
«Eppure», dissi, «esistono più specie di moto, non una sola, credo.
Forse un sapiente le saprà enumerare: ma quelle manifeste anche a noi sono due».
«Quali?» «Questa che ho citato», risposi, «e la sua corrispondente».
«Ossia?» «Probabilmente», dissi, «come gli occhi sono destinati all'astronomia, così le orecchie sono destinate al
moto armonico, e queste due scienze sono tra loro sorelle; e su questo punto, Glaucone, siamo d'accordo con i Pitagorici.
O in che modo dobbiamo porre la questione?» «Così », rispose.
«Allora», proseguii, «dato che si tratta di una faccenda seria, chiederemo il loro parere sull'argomento e su altre cose
ancora. Noi però, a fronte di tutto questo, resteremo fedeli al nostro principio».
«Quale?» «Che in queste discipline i nostri futuri alunni non si accingano mai a imparare qualche nozione imperfetta,
che non possa arrivare sempre là dove tutto deve arrivare, come abbiamo detto poco fa a proposito dell'astronomia. Non
sai che fanno un uso simile anche dell'armonia? Misurando tra loro gli accordi e i suoni percepiti dall'orecchio, compiono,
come gli astronomi, una fatica inutile».
«Sì , per gli dèi, e anche ridicola!», esclamò. «Tirando in ballo certe frazioni di tono e tendendo l'orecchio, come per
captare la voce dei vicini di casa, gli un dicono che tra due suoni ne percepiscono un terzo, e che questo è l'intervallo

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minimo da usare come unità di misura, gli altri ribattono che questi suoni sono tutti uguali; entrambi comunque
antepongono le orecchie all'intelletto».
«Tu», dissi, «stai parlando di quelle brave persone che tormentano e saggiano le corde torcendole con le chiavette; e
per non farla troppo lunga, lascio perdere l'immagine dei colpi inflitti col plettro e delle accuse rivolte alle corde quando
non danno suono o lo danno troppo forte, e preciso che non sto parlando di loro, ma di quelli che poco fa ci siamo
proposti di interrogare sull'armonia.
Essi infatti si comportano come gli astronomi: in questi accordi percepiti dall'orecchio cercano i rapporti numerici
senza però risalire ai problemi, cioè non esaminano quali numeri sono consonanti e quali no, e per quale motivo».(14)
«Stai parlando di una questione sovrumana!», esclamò.
«Utile», risposi, «alla ricerca del bello e del bene, ma inutile se perseguita in altro modo».
«è logico», disse.
«Io credo», ripresi, «che anche la ricerca su tutte queste discipline da noi passate in rassegna, se arriva a cogliere la
loro reciproca comunanza e affinità e a dedurne la natura di tale rapporto, possa dare qualche contributo al nostro scopo e
non sia una fatica inutile, altrimenti non serve a nulla».
«Lo prevedo anch'io», disse. «Ma stai parlando di un compito assai gravoso, Socrate».
«Ti riferisci al proemio», domandai, «o a quale altra parte? Non sappiamo forse che tutto ciò è il preludio della
melodia che dobbiamo imparare? Di certo non pensi che i valenti conoscitori di queste discipline siano esperti di
dialettica».
«No, per Zeus», disse, «tranne pochissimi di quelli in cui mi sono imbattuto».
«Ma allora», ripresi, «chi non è in grado di sostenere o comprendere una tesi saprà mai qualcosa di ciò che a nostro
giudizio occorre sapere?» «No, neanche questo», rispose.
«E non è proprio questa, Glaucone», domandai, «la melodia che la dialettica esegue? Quella melodia che, pur essendo
intellegibile, può essere imitata dalla facoltà della vista, la quale, come abbiamo detto, si sforza di guardare all'essenza
degli esseri viventi, degli astri e persino del sole. Così anche la dialettica, quando comincia a muoversi verso l'essenza di
ogni singola realtà senza l'aiuto di tutti i sensi, ma solo con la ragione, e non rinuncia prima di aver colto con il puro
intelletto il bene in sé, tocca i confini stessi dell'intellegibile, come la vista arrivava ai limiti del mondo visibile».
«Senza dubbio», disse.
«E a questo procedimento non dai il nome di dialettica?» «Certamente».
«La liberazione dalle catene», continuai, «la conversione dalle ombre alle immagini e alla luce, l'ascesa dalla caverna
sotterranea al sole, e qui la persistente incapacità di guardare gli esseri viventi, le piante e la luce del sole, le loro
immagini divine riflesse nell'acqua e le ombre degli esseri reali, ma non più delle immagini proiettate da un'altra luce
analoga a quella del sole: lo studio di tutte le arti che abbiamo passato in rassegna produce questo effetto e innalza la parte
migliore dell'anima alla contemplazione della parte migliore dell'essere, come prima elevava il più acuto dei sensi
corporei alla contemplazione dell'oggetto più luminoso nel mondo materiale e visibile».
«Accetto il ragionamento», disse, «per quanto mi sembri davvero difficile da accettare; ma d'altro canto è anche
difficile rifiutarlo.
Ad ogni modo, dato che non dobbiamo discuterne solo in questo momento, ma dovremo ritornarci sopra più volte
anche in seguito, posto che le cose stiano come diciamo ora, torniamo alla melodia stessa e spieghiamola come abbiamo
fatto per il preludio. Dimmi dunque qual è il metodo della facoltà dialettica, in quali generi è suddivisa e quali sono le sue
vie: a quanto pare, esse dovrebbero condurre verso quella mèta dove chi giunge troverà riposo dal cammino percorso e la
fine del viaggio».
«Non sarai più in grado di seguirmi, caro Glaucone», ribattei, «anche se da parte mia la buona volontà non
mancherebbe; inoltre non vedresti più un'immagine di ciò che diciamo, ma la verità stessa, almeno come pare a me. Se sia
o non sia effettivamente così , non vale più la pena di appurarlo, ma bisogna dimostrare che qualcosa del genere si può
vedere. O no?» «Certamente».
«Quindi dobbiamo anche dimostrare che soltanto la facoltà dialettica può rivelare questa visione a chi è esperto nelle
discipline passate prima in rassegna, e che la cosa non è possibile in nessun altro modo?» «Vale la pena di appurare anche
questo», rispose.
«Allora», dissi, «nessuno contraddirà le nostre affermazioni, sostenendo che per cogliere l'essenza di ogni singola cosa
esiste un altro procedimento metodico. Invece tutte le altre arti sono rivolte alle opinioni e alle passioni umane, o ai
processi di nascita e di fabbricazione delle cose, o alla cura di ciò che si produce in natura e viene costruito dall'uomo; e le
rimanenti, cioè la geometria e le discipline affini, che come abbiamo detto attingono un poco all'essere, vediamo che lo
sognano, ma non riescono a vederlo in stato di veglia, finché mantengono immutabili le ipotesi di cui si servono senza
saperle spiegare. Chi infatti accetta come principio ciò che non conosce, e con questo ha intrecciato la conclusione e i
passaggi intermedi della sua ricerca, avrà mai qualche possibilità che una tale convenzione diventi scienza?» «No mai!»,
rispose.
«Pertanto», aggiunsi, «soltanto il metodo dialettico procede per questa via, eliminando le ipotesi, verso il principio
stesso per confermare le proprie conclusioni, e dolcemente trascina e solleva verso l'alto l'occhio dell'anima immerso in
un fango veramente barbarico, servendosi delle arti menzionate come di compagne e coadiutrici nella conversione;
spesso, per abitudine, le abbiamo chiamate scienze, ma necessitano di un altro nome, più fulgido di opinione e più oscuro
di scienza. Prima, in qualche punto, le abbiamo definite riflessione... ma a mio parere non si tratta di contendere sul nome,

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quando si ha di fronte un'indagine di questioni tanto importanti come le nostre».
«No di certo», disse.
«Ci basterà dunque quel nome che in qualche modo può esprimere con chiarezza lo stato dell'anima?» (15) «Sì ».
«Allora», ripresi, «basterà continuare a chiamare la prima parte scienza, la seconda riflessione, la terza assenso e la
quarta congettura. Queste ultime due le chiameremo opinione, le altre due intelletto; l'opinione riguarda il divenire,
l'intelletto l'essere.
L'essere sta al divenire come l'intelletto sta all'opinione, e il rapporto tra intelletto e opinione è lo stesso che intercorre
tra scienza e assenso e tra raziocinio e congettura. E lasciamo stare, Glaucone, la corrispondenza tra i concetti cui si
applicano questi vocaboli e la divisione in due parti di ciascun ambito, dell'opinabile e dell'intellegibile, per non essere
gravati da discorsi ancora più numerosi dei precedenti».
«Per quanto riesco a seguirti», ammise, «sono d'accordo con te».
«Quindi tu chiami esperto di dialettica chi sa rendere ragione dell'essenza di ogni singola cosa? E chi non è capace di
questo dirai che non ne possiede una conoscenza intellettiva, in quanto non sa renderne conto né a se stesso né agli altri?»
«E come potrei dire diversamente?», rispose.
«Allora è così anche per il bene: un individuo che non è in grado di definire razionalmente l'idea del bene,
distinguendola da tutto il resto e passando come in battaglia attraverso ogni genere di obiezioni, pronto a confutarle non
secondo l'opinione ma secondo la realtà, e non affronta tutte queste prove senza che la sua ragione vacilli, non dirai che
non conosce il bene in sé né alcun altro bene, ma se mai ne afferra una qualche parvenza, l'afferra non con la scienza, ma
con l'opinione, e la sua vita attuale è un torpido sogno dal quale non si desta in questo mondo, perché prima scende
nell'Ade a dormire un sonno completo?» «Sì , per Zeus, certo che dirò tutto questo!», esclamò.
«Ma se un giorno allevassi di fatto i tuoi figli, che ora allevi ed educhi in teoria, non lasceresti, credo, che privi della
ragione come linee irrazionali (16) governino la città detenendo le cariche più alte».
«No di certo», disse.
«Quindi imporrai loro per legge di coltivare in ogni modo quell'educazione che li renderà capaci di interrogare e
rispondere nella più piena conformità con il metodo scientifico?» «Lo farò», rispose, «almeno col tuo aiuto».
«Ti sembra dunque», chiesi, «che la dialettica si trovi per noi al vertice, come un fregio a coronamento delle altre
discipline, e che nessun'altra disciplina possa a buon diritto essere collocata più in alto, tanto che la trattazione delle
discipline ha qui il suo compimento?» «Mi sembra di sì », rispose.
«A questo punto», proseguii, «ti resta da decidere a chi e in che modo assegneremo queste discipline».
«è chiaro», disse.
«Ti ricordi allora quali governanti abbiamo scelto per primi?» «Come no?» «Allora», dissi, «convinciti che sotto ogni
altro aspetto bisogna scegliere quelle nature, in quanto sono da preferirsi gli uomini più saldi e coraggiosi, e se possibile
più belli d'aspetto. Inoltre bisogna cercare persone non solo dal carattere nobile e dignitoso, ma anche fornite di doti
conformi a questo tipo di educazione».
«E quali doti determini?» «Beato amico», risposi, «essi devono avere acutezza d'ingegno e imparare senza sforzo. Le
anime si scoraggiano molto di più negli studi difficili che negli esercizi ginnici, perché qui la fatica le riguarda
particolarmente e non è condivisa dal corpo».
«Vero», disse.
«E bisogna cercare un individuo di buona memoria, tenace e molto amante della fatica. In caso contrario, come puoi
credere che uno vorrà sottoporsi agli esercizi fisici e applicarsi sino in fondo in uno studio di questa mole?» «Nessuno
vorrà farlo», rispose, «a meno che non abbia una disposizione naturale perfetta».
«Pertanto», continuai, «l'errore attuale che ha attirato il discredito sulla filosofia è dovuto al fatto che, come abbiamo
detto prima, non se ne occupano persone degne: non dovevano accostarsi ad essa figli bastardi, ma legittimi».
«In che senso?», chiese.
«Innanzitutto», risposi, «chi si accosterà ad essa non dev'essere zoppo nell'amore per la fatica, cioè laborioso soltanto
a metà. Questo accade quando uno è appassionato di ginnastica e di caccia e pratica ogni sorta di esercizio fisico, ma non
ama imparare, né ascoltare, né fare ricerche, anzi detesta la fatica in tutte queste attività; ma è zoppo anche chi indirizza la
sua laboriosità nel senso contrario a questo».
«Quello che dici è verissimo», ammise.
«Anche in riferimento alla verità, quindi», domandai, «considereremo allo stesso modo mutila l'anima che odia la
menzogna volontaria, non la tollera in se stessa e si indigna fortemente quando gli altri mentono, ma accetta facilmente
quella involontaria e non si irrita se viene colta in fallo di ignoranza, anzi si voltola pacificamente nell'ignoranza come un
maiale?» «Senz'altro», rispose.
«E anche riguardo alla temperanza», aggiunsi, «al coraggio, alla magnanimità e tutti gli altri elementi della virtù
bisogna distinguere non meno attentamente il bastardo dal legittimo. Quando un individuo o una città non sanno condurre
con ogni scrupolo una simile indagine, non si accorgono di avere a che fare in qualsiasi circostanza con persone zoppe e
bastarde, nel primo caso amici, nel secondo governanti».
«è proprio così », disse.
«Pertanto noi», ripresi, «dobbiamo fare molta attenzione a tutto ciò: se faremo educare in uno studio e un esercizio di
questa importanza uomini integri nel corpo e nello spirito, la giustizia stessa non avrà nulla da eccepire e noi salveremo la
città e la costituzione, mentre se sottoporremo a questa pratica gente di ben altra indole, otterremo risultati esattamente

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opposti e copriremo la filosofia di un ridicolo ancora maggiore».
«E sarebbe una vergogna!», esclamò.
«Proprio così », dissi. «Ma ho l'impressione che anche adesso mi stia capitando qualcosa di ridicolo».
«Che cosa?», domandò.
«Mi sono dimenticato», risposi, «che stavamo scherzando, ho parlato con troppa foga. Infatti, mentre parlavo, ho
rivolto lo sguardo alla filosofia e mi sembra di essermi adirato al vederla indegnamente coperta di fango; allora, quasi
incollerito con i colpevoli, ho pronunciato quelle parole con eccessiva serietà».
«No, per Zeus, almeno per un ascoltatore come me!», esclamò.
«Ma per un retore come me sì !», ribattei. «Non dimentichiamo che dapprima abbiamo scelto degli anziani, mentre ora
non ci sarà più possibile. Non si deve credere a Solone, quando afferma che invecchiando si possono imparare molte
cose;(17) al contrario è meno facile che imparare a correre, e tutte le fatiche gravose e di un certo peso spettano ai
giovani».
«è inevitabile», disse.
«In conclusione», ripresi, «l'aritmetica, la geometria e tutta l'educazione propedeutica che va impartita prima della
dialettica devono essere proposte sin dall'infanzia, senza però conferire all'insegnamento una forma costrittiva».
«E perché?» «Perché», risposi, «l'uomo libero non deve imparare nulla con la costrizione. Le fatiche fisiche, anche se
sono affrontate per forza, non peggiorano lo stato del corpo, mentre nessuna cognizione introdotta a forza nell'animo vi
rimane».
«è vero», confermò.
«Quindi, carissimo», continuai, «non educare i fanciulli negli studi a forza, ma in forma di gioco: in questo modo
saprai discernere ancora meglio le propensioni naturali di ciascuno».
«Le tue parole sono sensate», disse.
«E non ricordi», domandai, «che secondo noi i fanciulli devono essere condotti anche in guerra come osservatori a
cavallo, e se non incombe un pericolo bisogna portarli vicino alla battaglia e far gustare loro il sangue, come ai
cagnolini?» «Mi ricordo», rispose.
«In tutte queste fatiche, studi e pericoli», dissi, «chi di volta in volta appare il più pronto deve entrare a far parte di un
gruppo scelto».
«A che età?», chiese.
«Quando hanno terminato gli esercizi ginnici obbligatori», risposi.
«Durante questo periodo, che duri due o tre anni, è impossibile fare altro, perché la stanchezza e il sonno sono
nemiche dello studio.
Del resto anche questa è una prova non trascurabile delle capacità di ognuno negli esercizi ginnici».
«Come no?», disse.
«Dopo questo periodo», proseguii, «quelli prescelti tra i ventenni otterranno onori maggiori degli altri, e le discipline
che hanno già studiato confusamente nell'educazì one giovanile saranno loro riproposte in una visione d'insieme, che
mostri la loro affinità reciproca e la natura dell'essere».
«Certo», ammise, «solo un'istruzione di questo genere è solida, per chi l'ha acquisita».
«Ed è anche la prova più efficace», aggiunsi, «per riconoscere la natura dialettica: solo chi è capace di una visione
d'insieme è un dialettico».
«Sono d'accordo», disse.
«Tenendo presenti queste considerazioni», ripresi, «dovrai individuare tra i giovani prescelti coloro che più di tutti
possiedono queste doti e rivelano costanza nello studio, nella guerra e nelle altre attività stabilite per legge; e una volta
che abbiano superato i trent'anni dovrai insignirlì di onori più grandi e saggiare con la facoltà dialettica chi sia capace di
giungere con l'aiuto della verità all'essere in sé, senza ricorrere alla vista e agli altri sensi.
E in questo è necessaria molta cautela, amico».
«E perché mai?», chiese.
«Non ti accorgi», ribattei, «di quanto sia grande il difetto attuale della dialettica?» «Quale?», domandò.
«I dialettici», risposi, «sono in certo qual modo pieni di disordine morale».
«Certamente», assentì .
«E non credi», incalzai, «che la loro condizione sia strana e meriti la tua commiserazione?» «In che senso?»
«Supponiamo», dissi, «che un figlio adottivo sia allevato tra grandi ricchezze, in una famiglia illustre e potente e in mezzo
a molti adulatori, e una volta adulto si renda conto di non essere figlio dei genitori che credeva, ma non riesca a ritrovare
quelli veri: sei in grado di prevedere come si comporterebbe con gli adulatori e con i suoi pretesi genitori prima di sapere
dell'adozione e dopo averlo saputo? O vuoi sentire la mia previsione?» «Lo voglio, sì », rispose.
«Ebbene», continuai, «prevedo che onorerebbe il padre, la madre e gli altri presunti familiari più degli adulatori,
sopporterebbe meno facilmente che mancassero di qualcosa, sarebbe meno incline a farli oggetto di azioni o parole
ingiuste e nelle questioni importanti disobbedirebbe a loro meno che agli adulatori; questo nel periodo in cui non fosse a
conoscenza della verità».
«è logico», disse.
«Ma una volta che si fosse reso conto di come stanno le cose, prevedo che diminuirebbe l'onore e la cura nei loro
confronti a tutto vantaggio degli adulatori, ai quali presterebbe orecchio molto più di prima, vivendo a modo loro e

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frequentandoli apertamente, e non gli importerebbe nulla di quel padre e degli altri presunti familiari, a meno che non
fosse dotato di una natura straordinariamente nobile».
«Accadrebbe precisamente come dici», concordò. «Ma in che modo questo paragone si può riferire a coloro che si
occupano della dialettica?» «Nel modo seguente. Sin dall'infanzia noi abbiamo delle opinioni sul giusto e sul bello, che ci
hanno allevati come dei genitori e alle quali obbediamo e portiamo rispetto».
«Sì , è così ».
«Ma esistono anche abitudini piacevoli contrarie a queste, che adulano la nostra anima e la trascinano verso di loro,
senza però persuadere gli uomini appena un poco equilibrati, i quali rispettano le usanze tradizionali e ad esse rimangono
fedeli».
«è così ».
«Ebbene», proseguii, «quando a una persona del genere viene posta la domanda: "Che cos'è il bello?", e la ragione
confuta la risposta che questi ha dato per averla udita dal legislatore, e quando una confutazione frequente e serrata lo
induce a credere che ciò non è per nulla più bello che brutto e a procedere allo stesso modo con il giusto, il bene e ciò che
teneva in maggior conto, cosa credi che farà in seguito dell'onore e dell'obbedienza a quei valori?» «è inevitabile»,
rispose, «che il suo onore e la sua obbedienza non siano più gli stessi».
«Quando dunque», domandai, «non riterrà questi valori degni di rispetto e familiari come prima, e d'altra parte non
riuscirà a trovare quelli veri, potrà ragionevolmente dirigersi verso una vita diversa da quella che lo lusinga?» «No»,
rispose.
«E da rispettoso della legge sembrerà che sia divenuto un trasgressore, penso».
«è inevitabile».
«Quindi», ripresi, «ciò che accade a chi fa questo uso della dialettica non è forse naturale e, come ho detto prima,
degno di molta indulgenza?» «E anche di compassione!», aggiunse.
«E per non esporre i tuoi trentenni a questa compassione, non si dovrà affrontare la dialettica con la massima
cautela?» «Certamente», rispose.
«Ma non è una grande precauzione impedire loro di gustarla finché sono giovani? Non ti è sfuggito, credo, che i
ragazzi, non appena assaggiano la dialettica, la usano come un gioco per contraddire sempre, e imitando quelli che
confutano finiscono per farlo essi stessi, godendo come cagnolini di tirare e mordere con la parola chi di volta in volta si
trova vicino a loro».
«E provano un piacere straordinario!», esclamò.
«Pertanto, quando ne confutano molti e da molti sono confutati, ben presto cadono in una forte sfiducia verso tutto ciò
in cui credevano prima; di conseguenza sia loro stessi, sia nel complesso tutta la filosofia, cadono in discredito presso gli
altri».
«Verissimo», disse.
«Al contrario», proseguii, «l'uomo più anziano non parteciperà di una simile follia, ma imiterà chi vuole usare la
dialettica per indagare il vero piuttosto che chi vuole giocare e contraddire per divertimento; inoltre sarà egli stesso pì u
equilibrato e renderà la sua professione più onorata anziché più disprezzabile».
«Giusto», disse.
«E anche tutto il discorso di prima non è stato forse dettato dalla precauzione che coloro a cui sarà trasmessa la
dialettica siano per natura ordinati e costanti, e che non se ne occupi, come ora, il primo venuto privo di qualsiasi
attitudine?» «Senz'altro», rispose.
«Per assimilare la dialettica è dunque sufficiente un'applicazione costante e assidua, che escluda ogni altra attività e
corrisponda nel metodo agli esercizi fisici, ma duri il doppio?» «Vuoi dire sei o quattro anni?», domandò.
«Via», dissi, «facciamo cinque. Dopo questo periodo dovrai far ridiscendere i tuoi discepoli in quella caverna e
obbligarli a esercitare i comandi militari e tutte le cariche detenute dai giovani, affinché non siano inferiori agli altri per
esperienza; e anche in questo campo bisogna metterli alla prova per vedere se, trascinati in ogni direzione, rimarranno
fermi o si lasceranno smuovere un poco».
«Quanto tempo assegni a queste attività?», chiese.
«Quindici anni», risposi. «Arrivati a cinquant'anni, coloro che si sono mantenuti integri e si sono particolarmente
distinti in tutte le attività pratiche e in tutte le scienze dovranno essere condotti alla perfezione e costretti a volgere verso
l'alto il lume dell'anima e a guardare l'essere in sé che dà luce a ogni cosa; e dopo aver visto il bene in sé, dovranno usarlo
come modello per ordinare, ciascuno a turno, la città, i privati cittadini e se stessi per il resto della loro vita, dedicando la
maggior parte del tempo alla filosofia. E quando arriva il loro turno, dovranno impegnarsi nel travaglio della politica e del
governo della città pensando di compiere un'opera non bella, ma necessaria; così , dopo aver educato altri concittadini e
averli lasciati al loro posto come guardiani, andranno ad abitare nelle isole dei beati. Allora la città dovrà consacrare loro
monumenti e sacrifici pubblici come a esseri sovrumani, se la Pizia darà responso favorevole, altrimenti come a uomini
beati e divini».
«Hai reso i governanti bellissimi, Socrate, come uno scultore di statue!», esclamò.
«E anche le governanti, Glaucone! », ripresi. «Non credere che le mie parole valgano più per gli uomini che per le
donne, almeno per quante di loro possiedono le doti naturali indispensabili».
«è giusto», disse, «se davvero parteciperanno in uguale misura a tutte le attività degli uomini, come abbiamo
spiegato».

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Platone La Repubblica
«Ebbene», proseguii, «non convenite che riguardo alla città e alla costituzione non abbiamo espresso semplici
desideri, ma proposte fattibili, per quanto la loro realizzazione sia difficile e possa avvenire soltanto nel modo che
abbiamo detto, cioè quando i veri filosofi, molti o uno solo, (18) prenderanno il potere nella città e disprezzeranno gli
onori attuali, ritenendoli miseri e di nessun valore, e al contrario avranno la massima considerazione della rettitudine e
degli onori che ne derivano e reputeranno la giustizia il valore più alto e più necessario, mettendosi al suo servizio per
darle incremento e ordinare la loro città?» «In che modo?», domandò.
«Manderanno in campagna», risposi, «tutti i cittadini al di sopra dei dieci anni, prenderanno in cura i loro figli, ancora
immuni dalle attuali abitudini dei loro genitori, e li educheranno ai loro costumi e alle loro leggi, che saranno rispondenti
a quanto abbiamo esposto prima. Così la costituzione che abbiamo delineato entrerà in vigore nel modo più rapido e
facile, la città sarà prospera e il popolo che vedrà realizzarsi il nostro progetto ne trarrà il massimo giovamento».
«Certamente», disse. «E mi sembra che tu, Socrate, abbia spiegato bene come potrebbe realizzarsi, se mai ciò
accadesse».
«Non abbiamo parlato abbastanza», chiesi ancora, «di questa città e dell'uomo conforme ad essa? è chiaro quali
dovranno essere, a nostro giudizio, le sue caratteristiche».
«Sì , è chiaro», rispose, «e come vuol far intendere la tua domanda, mi sembra che la questione sia conclusa».
NOTE: 1) Il mito della caverna, che rappresenta i quattro gradi della conoscenza, è strettamente legato alla distinzione
tra mondo sensibile e mondo intellegibile tracciata negli ultimi capitoli del libro 6 attraverso l'immagine dei due segmenti
e delle quattro parti, a ciascuna delle quali corrisponde un diverso livello e strumento di conoscenza; questo denso
discorso concettuale trova qui la sua esplicitazione e il suo coronamento.
2) Omero, Odyssea, libro 11, versi 439-490; il passo, citato più ampiamente a libro 3, 386c, viene qui adattato al
contesto e risulta assai appropriato perché in queste parole, che Achille rivolge a Odisseo durante la sua discesa agli
Inferi, il mondo delle ombre, cioè l'Ade, viene contrapposto al mondo dei vivi.
3) Altra allusione al destino di Socrate, che pagò con la vita il suo tentativo di condurre gli uomini dall'oscurità alla
luce della filosofia e del bene.
4) Questa teoria della trasmissione del sapere, riferita ai sofisti, è contestata anche nel Simposio (175d-e).
5) La filosofia e la politica.
6) L'immagine è derivata da un gioco di ragazzi, citato anche nel Fedro (241b), nel quale si usava un coccio bianco da
una parte e nero dall'altra. I giocatori erano divisi in due squadre, ciascuna delle quali sceglieva uno dei due colori; il
coccio veniva poi gettato in aria al grido di "nùs e eméra", ('notte o giorno!') e a seconda di come cadeva una squadra
fuggiva e l'altra inseguiva.
7) I Greci distinguevano tra l'aritmetica, puramente teorica, e l'arte del calcolo, volta alle applicazioni pratiche.
8) Palamede, eroe greco che gareggiava con Ulisse in astuzia e ingegno, era considerato l'inventore dell'aritmetica,
dell'astronomia e dell'alfabeto. Platone ironizza sulla ripetitività di certi soggetti tragici, dato che la figura di Palamede era
protagonista di molte tragedie, ma forse anche su un'opera di Gorgia a lui dedicata.
9) Per esempio la pioggia e le singole gocce, il bosco e gli alberi che lo costituiscono.
10) Platone concepisce i numeri in sé come entità astratte, a metà tra le idee e gli oggetti sensibili.
11) Si tratta della stereometria, che fu studiata a fondo da Euclide e dalla scuola platonica. Uno dei maggiori esperti
greci di stereometria fu quel Teeteto cui Platone dedicò il dialogo omonimo.
12) Gli astri, ornamenti del cielo, appartengono al mondo visibile e quindi sono soltanto una copia dei veri corpi
celesti, che risiedono nel mondo delle idee.
13) Il nome del mitico costruttore del Labirinto di Creta, dove il re Minosse teneva nascosto il Minotauro, offre lo
spunto per un gioco di parole su "daídalos", che come aggettivo significa 'artisticamente lavorato'.
14) L'interesse di Platone per l'armonia è esclusivamente teorico e prescinde dalle sue applicazioni pratiche nel campo
della musica.
15) La traduzione segue la congettura di Burnet, poiché la corruttela del testo è insanabile.
16) I matematici greci rappresentavano le grandezze irrazionali con un sistema di linee irrazionali; questa sembra la
migliore interpretazione dell'immagine, più convincente di quella che intende "grammé" nel senso di "parola scritta".
17) Parafrasi di Solone, frammento 22, Gentili-Prato.
18) Platone non fa una distinzione precisa tra monarchia e aristocrazia, purché il potere sia in mano ai filosofi.