Biblioteca Multimediale Marxista


Libro VIII°


 

«Bene. Siamo quindi d'accordo, Glaucone, che nella città destinata al governo più perfetto devono essere in comune le
donne, i figli e l'intera educazione, come pure le occupazioni in pace e in guerra, e devono regnarvi i migliori nella
filosofia e nella guerra».
«Siamo d'accordo», disse.
«E abbiamo anche convenuto che i governanti, una volta insediatisi, faranno alloggiare i soldati nelle abitazioni
descritte sopra, dove nessuno avrà nulla di proprio, in quanto saranno comuni a tutti; e oltre a queste abitazioni abbiamo
concordato, se ti ricordi, anche le norme che regoleranno i loro possessi».
«Sì », confermò, «ricordo: pensavamo che nessuno dovesse possedere nulla di ciò che ora possiedono gli altri, e che in
qualità di atleti della guerra e di guardiani dovessero prendersi cura di sé e del resto della città, ricevendo come compenso
per il loro servizio il mantenimento annuale da parte degli altri concittadini».
«Giusto», risposi. «Ma ora che abbiamo concluso la trattazione di questo argomento, richiamiamo alla memoria da
quale punto abbiamo deviato fin qui, in modo da riprendere la strada di prima».(1) «Non è difficile», disse. «Più o meno
come adesso, facevi intendere di aver concluso il tuo discorso sulla città, sostenendo che consideravi buona la città
corrispondente a quella da te descritta in precedenza, e buono l'uomo conforme ad essa, pur potendo indicare, a quanto
sembra, una città e un uomo ancora migliori.
Aggiungevi comunque che, se questa città è giusta, le altre sono sbagliate. E a quanto ricordo, dicevi che esistono
quattro forme di governo, delle quali vale la pena di parlare per vederne gli errori, e quattro specie di uomini
corrispondenti ad esse. Il tuo scopo era che esaminassimo tutti questi individui e ci accordassimo sul migliore e sul
peggiore, per poi accertare se il migliore fosse il più felice e il peggiore il più infelice, o se le cose stessero altrimenti;
quando poi ti chiesi quali fossero le forme di governo di cui parlavi, a quel punto intervennero Polemarco e Adimanto, e
così tu, riallacciandoti al loro discorso, sei arrivato a questo punto».
«La tua ricostruzione è esattissima!», esclamai.
«Quindi, a mo' di lottatore, offrimi di nuovo la stessa presa, e cerca di rispondere alla mia domanda come stavi per
fare allora».
«Se ci riesco», dissi.
«D'altronde», aggiunse, «desidero anch'io ascoltare quali sono le quattro forme di governo di cui parlavi».
«Non ti sarà difficile ascoltarlo», risposi. «Le quattro forme di cui parlo hanno anche dei nomi appositi: la prima, la
più lodata, è quella cretese e spartana;(2) la seconda, tale anche nelle lodi, è chiamata oligarchia ed è una forma di
governo piena di molti mali. Diversa da questa è la democrazia, che la segue nell'ordine, e infine viene la vera e propria
tirannide, che differisce da tutte queste, quarto ed estremo malanno per una città. Sai indicare qualche altra forma di
governo che si possa collocare in una specie ben definita? Le monarchie ereditarie, i regni che si comprano e altre simili
forme di governo rientrano in queste categorie, e si possono trovare tra i barbari non meno che tra i Greci».
«In effetti le forme di governo di cui si parla sono molte e strane», disse.
«Sai dunque», dissi, «che anche gli uomini si dividono necessariamente in tante specie quante sono le forme di
governo? O credi che le forme di governo nascano da una quercia o da una pietra3 anziché dai costumi presenti nelle
città, che trascinano dietro tutto il resto indinando come il piatto di una bilancia?» «No, questa è l'unica causa», rispose.
«Perciò, se i regimi vigenti nelle città fossero cinque, sarebbero cinque anche le disposizioni spirituali dei singoli
individui».
«Certamente».
«Abbiamo già trattato dell'individuo simile al regime aristocratico,(4) e l'abbiamo correttamente definito buono e
giusto».
«L'abbiamo già trattato».
«Adesso quindi bisogna passare in rassegna gli uomini peggiori di lui, cioè l'uomo litigioso e ambizioso, modellato
sulla costituzione spartana, e poi l'oligarchico, il democratico e il tirannico, allo scopo di individuare il più ingiusto e
contrapporlo al più giusto, completando la nostra indagine sul rapporto tra la giustizia pura e l'ingiustizia pura riguardo
alla felicità e all'infelicità del singolo? Così potremo scegliere se seguire l'ingiustizia, dando retta a Trasimaco, o la
giustizia, secondo il discorso che ora stiamo portando avanti».
«Bisogna assolutamente fare così », rispose.
«Dunque, come abbiamo incominciato a studiare i caratteri prima nelle forme di governo che negli individui, poiché
questo procedimento ci sembrava più chiaro, così anche ora bisogna prendere in esame innanzitutto la costituzione
ambiziosa? Non conosco un altro nome con cui designarla: la si dovrà chiamare timocrazia o timarchia.(5) E in relazione
a questa esamineremo l'uomo timocratico, poi l'oligarchia e l'uomo oligarchico, in seguito dirigeremo la nostra
osservazione verso la democrazia e l'uomo democratico, e per quarto andremo a vedere uno Stato tirannico e guarderemo
dentro l'anima tirannica, cercando di esprimere un giudizio attendibile sulla questione che ci siamo proposti?» «Così
l'osservazione e il giudizio sarebbero senz'altro ragionevoli», rispose.
«Dunque», ripresi, «cerchiamo di definire come dall'aristocrazia può nascere la timocrazia. Non è forse ovvio che ogni
forma di governo muta per opera di chi detiene il potere, quando in lui stesso si genera la discordia, perché se vi regnasse
la concordia sarebbe impossibile anche il minimo cambiamento?» « Sì , è così ».

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«E allora», domandai, «in che modo, Glaucone, la nostra città sarà sconvolta e i guardiani e i governanti verranno a
contesa tra loro e con se stessi? Vuoi che, alla maniera di Omero, invochiamo le Muse perché ci narrino "come prese a
cadere la discordia" e giocando e scherzando con noi come con i bambini cantino però in stile tragico e sublime, quasi
facessero sul serio?»(6) «E come?» «Più o meno nel modo seguente. "è difficile che una città costruita su questi
fondamenti venga sconvolta; ma poiché tutto ciò che nasce si corrompe, neanche questa compagine rimarrà in eterno, e
un giorno si disgregherà. E la disgregazione avverrà così : non solo le piante che hanno le radici nella terra, ma anche gli
esseri viventi sulla superficie della terra sono soggetti alla fecondità e alla sterilità dell'anima e del corpo, quando le
rivoluzioni periodiche concludono i movimenti ciclici di ciascun essere, brevi per quelli di breve vita, contrari per quelli
con qualità opposte.
Coloro che avete educato come guide della città, per quanto sapienti, non riusciranno a cogliere con la ragione
applicata all'esperienza i periodi di fecondità e sterilità della vostra razza, i quali sfuggiranno al loro controllo; perciò
talvolta genereranno figli quando non dovrebbero. Per la prole divina il periodo fecondo è racchiuso da un numero
perfetto, (7) per quella umana dal primo numero in cui le elevazioni al quadrato e al cubo, comprendenti tre intervalli e
quattro termini costituiti da fattori uguali e disuguali, crescenti e decrescenti, rendono tutte le cose tra loro
commensurabili e razionali. La loro base epitrita, accoppiata al numero cinque ed elevata al cubo, genera due armonie,
l'una rappresentata da un numero moltiplicato per se stesso, cento volte cento, l'altra composta di fattori in parte usuali e
in parte disuguali, ossia da cento diagonali razionali di cinque diminuite ciascuna di una unità, o altrettante irrazionali
diminuite di due unità, e da cento cubi di tre. (8) Questo numero geometrico ha nel suo insieme il potere sulle generazioni
migliori e peggiori. E quando i vostri guardiani, ignorandole, uniranno in matrimonio ragazzi e ragazze fuori del tempo
opportuno, i figli che nasceranno non saranno nobili né fortunati. I predecessori avranno un bel mettere alla guida dello
Stato i migliori tra quelli; ma costoro, occupate le cariche dei padri senza esserne degni, cominceranno, benché guardiani,
a disinteressarsi di noi, stimando meno del dovuto la musica,(9) e di conseguenza i vostri giovani diventeranno più
incolti. Dopo di loro saliranno al potere governanti non sufficientemente forniti delle qualità di guardiani per valutare le
razze di Esiodo e quelle d'oro, d'argento, di bronzo e di ferro che si produrranno tra voi. Mescolatosi il ferro con l'argento
e il bronzo con l'oro, sorgerà una disuguaglianza e un'anomalia sregolata, che quando si manifestano partoriscono sempre
guerra e inimicizia. "Da questa generazione", (10) bisogna dirlo, trae origine la discordia, dovunque nasca"».
«E diremo che le Muse danno la risposta giusta!», esclamò.
«Per forza», ribattei, «se sono le Muse!».
«E dopo questo che cosa narrano le Muse?», domandò.
« Una volta che è sorta la discordia», ripresi, «entrambe le razze, quella di ferro e quella di bronzo, si volgono agli
affari, all'acquisto di terra, case, oro e argento, invece le altre due, quella aurea e quella argentea, dal momento che non
sono povere, bensì ricche per natura, guidano le anime verso la virtù e l'antica organizzazione.
Dopo violenze e contese reciproche raggiungono un accordo sulla distribuzione di terra e case a titolo privato,
riducono in schiavitù gli amici e nutritori che prima custodivano come uomini liberi, tenendoli in conto di perieci e di
servi,(11) e si occupano personalmente della guerra e della loro difesa"».
«Mi sembra che da qui abbia origine il sovvertimento», disse.
«Quindi», domandai, «questa forma di governo sarà una via di mezzo tra l'aristocrazia e l'oligarchia?» «Senza
dubbio».
«Ecco come avverrà il mutamento. Ma una volta che sarà avvenuto, con quale sistema di governo avremo a che fare?
Non è forse chiaro che in parte imiterà la costituzione precedente, in parte l'oligarchia, trattandosi di una via di mezzo tra
esse, ma avrà anche caratteri suoi propri?» «è così », rispose.
«Non imiterà dunque la costituzione precedente nel rispetto per i governanti, nell'astensione della classe guerriera dai
lavori agricoli e manuali e da ogni altra attività volta al denaro, nell'organizzazione di pasti in comune e nella cura della
ginnastica e degli esercizi di guerra?» (12) «Sì ».
«Ma non saranno per lo più queste le sue caratteristiche peculiari: (13) il timore che salgano al potere i sapienti, dal
momento che non dispongono più di uomini schietti e fermi, ma solo di nature composite, l'inclinazione verso i soggetti
irascibili e più rozzi, atti più alla guerra che alla pace, la considerazione in cui sono tenuti gli inganni e gli stratagemmi
militari, e l'abitudine a passare tutto il tempo a combattere?» «Sì ».
«Uomini simili», continuai, «saranno avidi di denaro, come accade nei regimi oligarchici, selvaggi che stimano
nell'ombra l'oro e l'argento, poiché avranno cassetti e scrigni domestici dove riporre e nascondere i propri averi, e inoltre
una cerchia di case, a mo' di nidi privati, nei quali consumare e spendere forti somme per le loro donne e per chi altri
vorranno».
«Verissimo», disse.
«Quindi saranno anche avari delle loro ricchezze, dato che le onorano e non le possiedono alla luce del sole, ma per la
brama di essere prodighi dei beni altrui coglieranno i loro piaceri di nascosto, sfuggendo alla legge come i figli al padre,
educati non dalla persuasione ma dalla violenza, perché hanno trascurato la vera Musa della parola e della filosofia e
hanno stimato la ginnastica più veneranda della musica».
«Tu», disse, «stai parlando di una costituzione in cui si mescolano appieno il male e il bene».
«In effetti è una costituzione mista», confermai. «Ma in essa si distingue particolarmente un solo carattere, dovuto alla
supremazia dell'elemento animoso: e cioè la presenza delle rivalità e dell'ambizione».
«E come!», esclamò.

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«Ecco come può nascere questa forma di governo», dissi. «Ne ho tracciato uno schema teorico senza completare i
dettagli, ma basta anche questo abbozzo per discernere l'uomo più giusto e l'uomo più ingiusto; d'altronde è un lavoro
impossibile, data la sua lunghezza, passare in rassegna tutte le forme di governo e tutti i caratteri senza tralasciare nulla».
«Ben detto», approvò.
«Quale sarà dunque l'uomo corrispondente a questa forma di governo? Come nasce e qual è il suo carattere?»
Intervenne Adimanto: «Credo che per il suo spirito battagliero tenda ad essere vicino al nostro Glaucone».
«Sotto questo aspetto forse sì », dissi, «ma sotto questi altri mi sembra diverso».
«Quali?» «Il nostro uomo», risposi, «dev'essere un po' più prepotente e incolto, benché non del tutto estraneo alle
Muse; amante della musica e delle discussioni, ma niente affatto eloquente. Un individuo simile sarà duro con gli schiavi,
pur senza disprezzarli come chi possiede una perfetta educazione, affabile con gli uomini liberi, molto obbediente alle
autorità; desideroso di cariche e di onori, non vorrà salire al potere per capacità oratorie o altre doti di questo genere, ma
per imprese militari e qualità legate all'arte della guerra, essendo amante della ginnastica e della caccia».
«In effetti», osservò, «questo carattere corrisponde a quella forma di governo».
«Un uomo così , quindi», proseguii, «potrà anche disprezzare il denaro finché è giovane, ma quanto più invecchierà
tanto più lo avrà caro, poiché partecipa della natura dell'uomo avido e la sua inclinazione alla virtù è impura, essendogli
mancato il custode migliore?» «Quale?», chiese Adimanto.
«La contemperanza di ragione e musica», risposi, «la sola che alberga per tutta la vita in chi possiede la virtù e può
conservarla».
«Hai ragione», disse.
«E questo», conclusi, «e il giovane timocratico, conforme a una tale città».
«Senza dubbio».
«Questo individuo», ripresi, «nasce più o meno così : talvolta è il giovane figlio di un padre onesto che abita in una
città mal governata, evita gli onori, le cariche, le cause giudiziarie e ogni altra briga del genere e si accontenta di una
posizione subordinata per non avere fastidi...» «E come nasce allora?», domandò «Quando», risposi, «sente che sua
madre si lamenta del marito per una serie di motivi: innanzitutto perché non fa parte dei governanti, il che la pone in una
condizione di inferiorità rispetto alle altre mogli, poi perché vede che non si dà troppo pensiero del denaro, non lotta e si
lascia insultare in privato, nei tribunali e nella vita pubblica, anzi sopporta questo genere di comportamenti con indolenza,
e infine perché si accorge che pensa sempre a se stesso, senza nutrire per lei un particolare rispetto o disprezzo.
Ella si duole di tutto ciò e dice al figlio che suo padre è vile e troppo rilassato, e le altre litanie che le donne sono solite
ripetere in queste occasioni».
«Che sono davvero molte», esclamò Adimanto, «e conformi al loro carattere!».
«Tu sai», aggiunsi, «che talvolta perfino i loro servi fanno di nascosto simili discorsi ai figli, quando danno
l'impressione di essere affezionati; e se vedono un debitore non perseguito dal padre o qualcuno che gli fa un altro torto,
incitano il figlio a punire tutti questi individui una volta divenuto adulto e ad essere più uomo del padre. Uscendo di casa
il figlio ascolta e vede altre cose del genere: chi in città si fa gli affari suoi ha la nomea di sciocco ed è tenuto in scarsa
considerazione, chi invece sì comporta in modo contrario è onorato e lodato. Allora il giovane, sentendo e vedendo tutto
ciò, e inoltre ascoltando i discorsi del padre e osservando la sua condotta da vicino, a differenza di quella degli altri,
subisce l'attrazione di entrambe le forze, del padre che irriga e sviluppa nell'anima l'elemento razionale, degli altri che
invece coltivano l'elemento concupiscibile e impulsivo, perché per natura non è figlio di un uomo malvagio, ma ha
frequentato cattive compagnie. Trascinato da entrambe le parti si trova nel mezzo e affida il governo di se stesso
all'elemento intermedio, battagliero e impulsivo, diventando un uomo superbo e ambizioso».
«Mi sembra che tu abbia delineato precisamente la genesi di questo individuo», disse.
«Ecco dunque», conclusi, «la seconda forma di governo e il secondo tipo di uomo».
«Sì , eccolo», assentì .
«Ora dobbiamo ripetere il verso di Eschilo, "altr'uomo schierato in altra città",(14) oppure, secondo il nostro progetto,
dobbiamo prima parlare della città?» «Facciamo così », rispose.
«La forma di governo che viene dopo di questa», ripresi, «sarà, credo, l'oligarchia».
«Ma quale costituzione intendi per oligarchia?», domandò.
«Quella basata sul censo», risposi, «nella quale i ricchi comandano e i poveri non partecipano al governo».
«Capisco», disse.
«Quindi bisogna innanzitutto spiegare come avviene il passaggio dalla timarchia all'oligarchia?» «Sì ».
«Eppure», dissi, «questo passaggio è chiaro anche a un cieco».
«In che senso?» «Questa forma di governo», risposi, «è rovinata da quel ripostiglio che ognuno ha pieno d'oro.
Dapprima infatti trovano il modo di fare grosse spese e a tale scopo stravolgono le leggi, alle quali disobbediscono essi
stessi e le loro donne».
«è probabile», disse.
«Poi, credo, rendono il popoì o simile a loro spiandosi e invidiandosi l'un l'altro».
«è probabile».
«Da allora in poi», ripresi, «continuano ad arricchirsi e quanto più apprezzano il denaro, tanto più disprezzano la virtù.
La virtù e la ricchezza non si distinguono forse per il fatto che entrambe stanno come sul piatto di una bilancia e inclinano
sempre in direzioni opposte?» «Sicuro!», rispose.

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«Perciò, quando in una città sono onorate la ricchezza e i ricchi, saranno maggiormente disprezzate la virtù e gli
onesti».
«è chiaro».
«E si ha cura di ciò che di volta in volta è apprezzato, mentre si trascura ciò che è disprezzato».
«Proprio così ».
«Di conseguenza questi individui, anziché battaglieri e ambiziosi, alla fine diventano avidi di ricchezze e di guadagno,
lodano e ammirano il ricco e gli conferiscono il potere, mentre disprezzano il povero».
«Certamente».
«E allora promulgano una legge con la quale impongono come limite della costituzione oligarchica una determinata
quantità di ricchezze, maggiore dove l'oligarchia è più forte, minore dove è più debole, interdicendo dalle cariche chi non
possiede un patrimonio che raggiunga il censo prescritto; e realizzano il loro scopo con la forza delle armi o, prima ancora
di giungere a questo, stabiliscono una tale forma di governo con il terrore. Non è così ?» «è proprio così ».
«In poche parole, ecco com'è questa costituzione».
«Sì », disse: «ma qual è il suo carattere? E quali sono i difetti che abbiamo individuato in essa?» «Il primo», risposi, «è
rappresentato dal suo stesso limite. Pensa un po' se si scegliessero i piloti delle navi in base al censo e non si affidasse
questo compito a un povero, anche se fosse più bravo a guidare una nave...» «Questa gente farebbe una brutta
navigazione!», esclamò.
«E non sarebbe lo stesso per qualsiasi altra carica?» «Credo di sì ».
«Eccetto nel governo di una città?», chiesi. «O anche in questo?» «Tanto più in questo, quanto più la carica è gravosa
e importante», rispose.
«Ecco dunque un grave difetto dell'oligarchia».
«Pare di sì ».
«E quest'altro è forse inferiore al precedente?» «Quale?» «Il fatto che questo regime comporti inevitabilmente la
presenza non di una, ma di due città, quella dei ricchi e quella dei poveri, che pur coabitando tentano sempre di colpirsi a
vicenda».
«Per Zeus, non è affatto inferiore», rispose.
«Ma non è neppure bello non poter magari affrontare una guerra perché si è costretti a ricorrere al popoì o armato e a
temerlo più dei nemici, oppure a non farvi ricorso e apparire proprio in battaglia oligarchici nel vero senso della
parola,(15) e nello stesso tempo non voler contribuire alle spese per avarizia».
«No, non è bello».
«E ti sembra corretto ciò che prima abbiamo disapprovato, ossia il fatto che in questa forma dì governo le stesse
persone esercitino contemporaneamente il mestiere di contadino, commerciante e guerriero?» «Niente affatto!».
«Guarda dunque se questo male, che è il più grave di tutti, non colpisce per prima l'oligarchia».
«Quale?» «La facoltà di vendere tutti i propri beni e comprare quelli di un altro, e dopo averli venduti abitare nella
città senza appartenere ad alcuna delle classi sociali in essa presenti - commercianti, artigiani, cavalieri e opliti -, ma solo
con la reputazione di povero e indigente».
«Sì », disse, «è la prima a esserne colpita».
«Una cosa del genere non è certo vietata nei regimi oligarchici: altrimenti non ci sarebbero alcuni cittadini straricchi e
altri completamente poveri».
«Giusto».
«Considera anche questo: quando un individuo simile era ricco e spendeva, era forse più utile alla città per gli scopi di
cui parlavamo poc'anzi? O aveva solo l'apparenza di uno dei governanti, ma in realtà non era né governante né suddito,
bensì un dissipatore dei beni a sua disposizione?» «è così », rispose: «nonostante le apparenze, non era altro che un
dissipatore».
«Vuoi dunque», ripresi, «che definiamo questo individuo un fuco domestico, malanno della città, come in un favo
nasce il fuco, malanno dell'alveare?»(16) «Proprio così , Socrate», rispose.
«Ebbene, Adimanto, la divinità ha creato tutti i fuchi alati senza pungiglione, ma di questi a due zampe alcuni li ha
resi inoffensivi, altri li ha dotati di terribili pungiglioni? E quelli privi di pungiglione da vecchi finiscono per diventare dei
pezzenti, mentre quelli che ne sono provvisti hanno tutti fama di malfattori?» «Verissimo», rispose.
«Pertanto», proseguii, «è chiaro che in una città in cui tu vedi dei pezzenti si nascondono ladri, borseggiatori,
profanatori di templi e delinquenti d'ogni genere».
«è chiaro», disse.
«E nelle città rette a oligarchia non vedi forse dei pezzenti?» «Lo sono quasi tutti», rispose, «tranne i governanti».
«Non dobbiamo allora credere», continuai, «che in queste città ci siano molti malfattori dotati di pungiglione,
sorvegliati e trattenuti a forza dalle autorità?» «Sì , dobbiamo crederlo», rispose.
«E non diremo che costoro vi nascono a causa dell'ignoranza, della cattiva educazione e della costituzione vigente?»
«Sì , lo diremo».
«Tale dunque sarà la città oligarchica, e tanti, o forse ancora più numerosi, saranno i suoi mali».
«Più o meno», ammise.
«Consideriamo quindi conclusa anche la trattazione di questa forma di governo chiamata oligarchia, le cui cariche
sono assegnate in base al censo; esaminiamo ora come nasce e quali caratteri possiede l'individuo corrispondente».

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«Benissimo», disse.
«E il passaggio dall'uomo timocratico a quello oligarchico non avviene proprio così ?» «Come?» «Quando gli nasce un
figlio, sulle prime questi emula il padre e ne segue le orme, ma poi vede che urta all'improvviso contro la città come
contro uno scoglio e perde i propri beni e se stesso, dopo essere stato stratego o aver ricoperto qualche altra carica
importante; quindi viene trascinato dai sicofanti (17) in tribunale, dove subisce la condanna a morte o all'esilio o alla
privazione dei diritti civili e di tutte le proprie sostanze».
«è probabile», disse.
«Avendo visto e subito tutto ciò, caro amico, e trovandosi, credo, privo di beni e in preda alla paura, egli getta subito
giù a capofitto dal trono della sua anima l'ambizione e l'elemento impulsivo; umiliato dalla povertà, si volge al commercio
e con tenacia, risparmiando e lavorando, a poco a poco accumula ricchezze. Non credi dunque che un uomo simile insedi
su quel trono lo spirito di cupidigia e avidità e ne faccia il gran re del suo animo, cingendolo della tiara, delle bende e
della scimitarra?» (18) «Credo di sì ».
«A mio parere, poi, fa sedere a terra, ai lati di quello spirito, l'elemento razionale e quello impulsivo, rendendoli suoi
schiavi; all'uno permette di calcolare e studiare soltanto il modo in cui aumentare il proprio capitale, all'altro di ammirare
e onorare soltanto la ricchezza e i ricchi e di ambire unicamente al possesso di denaro e a quant'altro possa contribuire a
questo fine».
«Non c'è», disse, «un altro modo così rapido ed efficace per trasformare un giovane ambizioso in un uomo avido di
denaro».
«E non è forse questo l'uomo oligarchico?», domandai.
«Sì , la sua trasformazione corrisponde alla forma di governo dalla quale si è sviluppata l'oligarchia».
«Vediamo dunque se le assomiglia».
«Vediamo».
«Tanto per cominciare, non le assomiglierà nell'alta considerazione per il denaro?» «Come no?» «E nell'essere
parsimonioso e lavoratore, soddisfacendo soltanto i desideri necessari senza concedersi altre spese, anzi dominando gli
altri desideri come vani».
«Certamente».
«Un uomo arido», dissi, «che ricava denaro da ogni cosa e accumula tesori, insomma, uno di quei tipi che piacciono al
volgo: non sarà così l'individuo corrispondente a una tale forma di governo?» «Mi pare di sì », rispose. «Per una città e un
individuo simili il denaro ha sicuramente un grande valore».
«Non credo infatti», aggiunsi, «che costui si sia mai interessato di cultura».
«Non mi sembra», concordò, «altrimenti non avrebbe messo un cieco alla guida del coro, onorandolo tanto!». (19)
«Bene», feci io. «Ora considera questo: non dobbiamo dire che per la sua ignoranza nascono in lui passioni da fuco, in
parte miserevoli, in parte disoneste, trattenute a forza dalle altre sue occupazioni?» «E come!», esclamò.
«E tu sai», ripresi, «dove dovrai guardare per scorgere le malefatte di questi individui?» «Dove?», chiese.
«Alla tutela degli orfani, e dovunque capiti loro un'occasione che dia ampia licenza di commettere ingiustizia».
«è vero».
«E da ciò non risulta evidente che un uomo simile, nelle altre relazioni in cui la sua apparenza di uomo giusto gli fa
acquisire una buona reputazione, frena con una forte compostezza interiore altre passioni malvagie che albergano in lui,
ma non le persuade della loro disonestà e non le placa con la ragione, ma cede alla costrizione e al terrore, in quanto teme
per il resto del suo patrimonio?» «Proprio così », rispose.
«E per Zeus», ripresi, «caro amico, troverai che nella maggior parte di costoro, quando si tratta di spendere il denaro
altrui, albergano le passioni congenite ai fuchi».
«E in larga misura!», assentì .
«Quindi un individuo simile non sarà immune da un dissidio interiore e in lui si troveranno non una, ma due persone,
anche se di solito i desideri migliori prevarranno su quelli peggiori».
«è così ».
«Per questo motivo, credo, sarà più rispettabile di molti altri; ma la vera virtù di un'anima concorde e armonizzata
fuggirà lontano da lui».
«Mi pare di sì ».
«D'altra parte l'uomo parsimonioso, a livello individuale, è un debole concorrente in città per una vittoria o un'altra
nobile ambizione, perché non vuole spendere denaro per queste competizioni in cui è in palio la buona fama, timoroso
com'è di risvegliare le passioni costose e di invitarle a lottare al suo fianco. Perciò combatte da vero oligarchico con pochi
dei suoi mezzi e di solito viene sconfitto, pur conservando la propria ricchezza».
«Certo», disse.
«Abbiamo forse ancora dei dubbi», domandai, «a istituire una somiglianza tra l'uomo parsimonioso e affarista e la
città oligarchica?» «Nessun dubbio», rispose.
«Ora, a quanto pare, bisogna esaminare come nasce la democrazia e qual è il suo carattere, per conoscere a sua volta il
carattere dell'uomo corrispondente e sottoporlo al vaglio».
«Potremmo seguire il nostro solito procedimento», suggerì .
«E il passaggio dall'oligarchia alla democrazia», domandai, «non è forse determinato dall'insaziabilità del bene che si
propone quel regime, ossia di dover accumulare ricchezze a ogni costo?» «In che senso?» «I governanti, credo, dato che

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nell'oligarchia detengono il potere grazie al possesso di molte ricchezze, non vogliono frenare con la legge i giovani
intemperanti e impedire loro di spendere e dilapidare le proprie sostanze, per diventare ancora più ricchi e onorati
comprando i loro beni e prestando a interesse».
«Sì , soprattutto per questo».
«E non è ormai evidente che in uno Stato i cittadini non possono apprezzare la ricchezza e insieme essere
sufficientemente temperanti, ma è inevitabile che trascurino o l'una o l'altra cosa?» «è ben evidente», rispose.
«Così i regimi oligarchici talvolta hanno ridotto in povertà uomini non ignobili trascurandoli e permettendo loro di
darsi all'intemperanza».
«Certo».
«Costoro dunque, a mio parere, se ne stanno in città forniti di pungiglione e ben armati, alcuni pieni di debiti, altri
privati dei diritti civili, altri ancora nell'una e nell'altra situazione; pieni di odio e desiderosi di colpire, tra gli altri,
soprattutto chi possiede i loro beni, essi aspirano a una rivoluzione».
«è così ».
«Gli affaristi, chini sul loro mestiere, sembra che non li vedano neanche, e con il denaro che accumulano feriscono
chiunque ceda loro; e moltiplicando i frutti del loro capitale generano nella città un gran numero di fuchi e miserabili».
«E come potrebbe essere altrimenti?» «E non vogliono», proseguii, «spegnere questo male che divampa impedendo di
fare dei propri beni l'uso che si vuole oppure con quest'altro sistema, secondo il quale simili casi si risolvono con un'altra
legge».
«Quale legge?» «Una seconda legge contro i dissipatori che costringa i cittadini a darsi pensiero della virtù. Se si
imponesse di stipulare la maggior parte dei contratti volontari a proprio rischio e pericolo, in città gli usurai non farebbero
guadagni così spudorati e nascerebbero meno guai del tipo di quelli che abbiamo appena indicato».
«Molti di meno, senz'altro», disse.
«Ora invece», continuai, «per tutte le ragioni accennate i governanti della città hanno ridotto i sudditi in queste
condizioni: e quanto a se stessi e i loro figli, non rendono forse i giovani molli, inadatti alle fatiche fisiche e spirituali e
incapaci di resistere ai piaceri e ai dolori a causa della loro fiacchezza e pigrizia?» «Sicuro.» «Ed essi stessi non si curano
d'altro che degli affari, e non si preoccupano affatto della virtù più che dei poveri?» «No davvero».
«In queste condizioni, quando i governanti e i sudditi vengono a contatto tra loro in viaggio o in qualche altra
occasione d'incontro, nelle feste, nelle spedizioni militari, durante una navigazione o una guerra combattuta assieme,
oppure quando si osservano a vicenda nei momenti stessi di pericolo, i poveri non sono affatto disprezzati dai ricchi, ma
spesso un uomo povero robusto e abbronzato, schierato in battaglia accanto a un ricco allevato all'ombra e coperto di
molto grasso superfluo, lo vede tutto ansante e in difficoltà. Non pensi allora che attribuisca la ricchezza di persone simili
alla viltà dei poveri come lui, e che i poveri, quando si incontrano in privato, si riferiscano l'un l'altro: "Quegli uomini
sono in nostra balia, perché non valgono nulla"?» «Per quanto mi riguarda», rispose, «so bene che fanno così ».
«Come dunque a un corpo debole basta ricevere una piccola spinta dall'esterno per ammalarsi, e talvolta è indisposto
anche senza cause esterne, così anche la città che si trova in una situazione analoga si ammala ed è in conflitto con se
stessa per un futile motivo, mentre gli uni invocano l'alleanza di una città oligarchica o gli altri quella di una città
democratica, e talvolta scoppia la rivolta anche senza interventi esterni?» «E come!».
«Pertanto la democrazia, a mio parere, nasce quando i poveri, riportata la vittoria sulla fazione avversaria, uccidono
gli uni e mandano in esilio gli altri, e dividono con i rimanenti a parità di condizioni il governo e le cariche, che per lo più
vengono assegnate tramite sorteggio».
«Questo regime», disse, «è in effetti la democrazia, sia che nasca in seguito a una lotta armata, sia che gli avversari
vadano in esilio per paura».
«E in che modo si governano costoro?», domandai. «E quali caratteri ha un regime simile? è chiaro che l'individuo
corrispondente si rivelerà democratico».
«è chiaro», rispose.
«Innanzitutto i cittadini sono liberi, la città si riempie di libertà e di franchezza, e c'è la possibilità di fare ciò che si
vuole?» «Così almeno si dice», rispose.
«Ma è evidente che, dove esiste licenza, ciascuno potrà organizzare la propria vita come gli pare».
«è evidente».
«Perciò in questa città si può trovare gente d'ogni risma».
«Come no?» «Può darsi», osservai, «che questa sia la costituzione migliore: come un mantello trapunto d'ogni colore,
così anch'essa, screziata di tutti i caratteri, può apparire bellissima. E forse», continuai, «molti potranno giudicarla
bellissima, come i fanciulli e le donne che contemplano la varietà».
«Certo», disse.
«E qui, beato amico», aggiunsi, «è agevole cercare una forma di governo».
«Perché?» «Perché a causa della licenza ha in sé ogni genere di governo, e probabilmente chi vuole istituire uno Stato,
come facciamo noi ora, deve recarsi in una città democratica e scegliere la forma di governo che gli piace, come se si
recasse a una fiera delle costituzioni, e fondare il suo Stato in base a questa scelta».
«Forse i modelli non gli mancherebbero davvero», disse.
«Il fatto che in questa città», proseguii, «non ci sia nessun obbligo di governare neanche se si è in grado di farlo, né di
essere governati se non lo si vuole, né di combattere quando si è in guerra, né di mantenere la pace quando la mantengono

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gli altri, se non lo si desidera, e d'altra parte si possa stare al potere e amministrare la giustizia, nel caso venga in mente di
farlo, anche se una legge lo impedisce: questo modo di vivere non è divinamente piacevole sul momento?» «Forse»,
rispose, «almeno sulle prime».
«E non è graziosa la mitezza di certe sentenze? Non hai mai visto in una simile forma di governo uomini condannati a
morte o all'esilio, che non di meno rimangono in città e si aggirano in mezzo agli altri come degli eroi, quasi che nessuno
se ne preoccupasse o li vedesse?»~ «Ne ho visti molti!», rispose.
«E veniamo all'indulgenza e al totale lassismo propri della democrazia, per non dire il disprezzo di quei princì pi che
abbiamo esposto con tanto rispetto quando fondavamo la città. Allora dicevamo che un individuo, a meno di non avere
una natura straordinaria, non potrebbe diventare un uomo onesto se fin da bambino non praticasse giochi belli e non
attendesse a ogni simile occupaziOne ora invece con quanta disinvoltura la democrazia calpesta tutto ciò e non si cura
della condotta morale di chi si accosta alla politica, ma lo onora solo che proclami di essere favorevole al popolo!».
«Un regime veramente nobile!», osservò.
«La democrazia», dissi, «avrà dunque queste e altre caratteristiche analoghe, e a quanto pare sarà una forma di
governo piacevole, anarchica e variegata, che dispensa una certa qual uguaglianza a ciò che è uguale come a ciò che non
lo è».
«Parli di cose ben note!», esclamò.
«Considera dunque», proseguii, «qual è, nella sfera individuale, l'uomo democratico. O bisogna prima esaminare,
come abbiamo fatto per la forma di governo, in che modo nasce?» «Sì », rispose.
«Forse nel modo seguente: da quell'oligarca avaro non potrebbe, come penso, nascere un figlio allevato dal padre
secondo le sue abitudini?» «Perché no?» «Anche costui, quindi, reprime a forza i suoi piaceri dispendiosi, che non
procurano ricchezza e sono appunto chiamati non necessari».
«è chiaro», disse.
«Vuoi dunque», ripresi, «che per non discutere alla cieca definiamo innanzitutto quali sono i desideri necessari e quali
no?» (21) «Sono d'accordo», rispose.
«E non è giusto chiamare necessari quelli che non siamo in grado di respingere e quelli che, una volta soddisfatti, ci
procurano giovamento? La nostra natura deve provare di necessità sia gli uni sia gli altri desideri. O no?» «Certamente».
«Giustamente quindi applicheremo ad essi il concetto di necessario».
«Giustamente».
«E non avremmo ragione a definire non necessari tutti quelli che invece si possono rimuovere, se ci si abitua fin da
giovani, e la cui azione non produce niente di buono, anzi talvolta genera effetti contrari?» «Sì , avremmo ragione».
«Dobbiamo quindi scegliere un esempio di entrambe le categorie, per farcene un'idea generale?» «Certo, conviene».
«Il desiderio di mangiare pane e companatico fino a raggiungere la salute e il benessere non sarà forse necessario?»
«Credo di sì ».
«In tal caso il desiderio del pane è necessario sotto entrambi gli aspetti, sia perché è utile sia perché è in grado di
mantenere in vita».
«Sì ».
«Quello del companatico invece è necessario se contribuisce in qualche modo al benessere fisico».
«Precisamente».
«E il desiderio che va oltre e ricerca cibi diversi da questi, benché si possa eliminare dalla maggior parte degli uomini,
se viene frenato sin dalla giovane età con l'educazione, e che è dannoso sia al corpo sia all'anima agli effetti della
saggezza e della temperanza? Non sarebbe giusto chiamarlo non necessario?» «Anzi, giustissimo! ».
«Diremo quindi che questi desideri sono dispendiosi, quelli invece sono utilitari, in quanto servono alle nostre
attività?» «Sicuro!».
«Diremo la stessa cosa a proposito dei piaceri amorosi e degli altri?» «Sì , la stessa cosa».
«Ebbene, l'uomo che poco fa abbiamo chiamato fuco non è forse quello che, come s'è detto, si fa dominare dai piaceri
e dai desideri non necessari e ne è ricolmo, mentre l'uomo da noi definito avaro e oligarchico è quello dominato dai
piaceri necessari?» «Ma certo!».
«Torniamo dunque a descrivere», ripresi, «come l'uomo democratico nasce dall'oligarchico. Mi pare che di solito
avvenga così ».
«Come?» «Quando un giovane, allevato come abbiamo detto prima, ossia in modo rozzo e gretto, gusta il miele dei
fuchi e frequenta belve focose e terribili, capaci di procurare svariati piaceri d'ogni sorta e qualità, sta' sicuro che allora il
suo temperamento oligarchico comincia a mutarsi in democratico».
«è del tutto inevitabile», disse.
«Ebbene, come la città si trasformava perché una delle due fazioni riceveva aiuto da un alleato esterno, in virtù della
reciproca affinità, così anche il giovane si trasforma per l'intervento esterno di un genere di desideri affine e simile a uno
dei due generi presenti in lui?» «Senz'altro».
«Ma se la sua parte oligarchica riceve a sua volta un aiuto, o dal padre o dagli altri familiari che lo redarguiscono e lo
rimproverano, allora, credo, scoppia nel suo intimo una rivoluzione, un controrivoluzione e un conflitto con se stesso».
«Certamente».
«E talvolta, penso, la parte democratica cede a quella oligarchica, e alcuni dei suoi desideri scompaiono, altri ancora
vengono banditi, in virtù di un certo pudore che rinasce nell'anima del giovane, il quale ritorna a una vita ordinata».

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«Sì , talvolta accade questo», disse.
«Ma altre volte, immagino, per l'insipienza dell'educazione paterna si sviluppano e acquistano forza molti altri desideri
affini a quelli messi al bando».
«Sì , di solito accade questo».
«Essi dunque lo trascinano verso le solite compagnie, e le loro unioni clandestine ne partoriscono molti altri».
«Certo».
«Alla fine, penso, conquistano la rocca dell'anima del giovane, rendendosi conto che è vuota di cognizioni, nobili
occupazioni e discorsi veri, che nelle menti degli uomini cari agli dèi sono le sentinelle e i guardiani migliori».
«E di gran lunga!», esclamò.
«E al loro posto, immagino, accorrono a occupare quello stesso luogo discorsi e opinioni mendaci e arroganti».
«Senza dubbio», disse.
«E il giovane non tornerà ad abitare apertamente presso quei Lotofagi?(22) E se da parte dei familiari giunge un
qualche aiuto all parte economa della sua anima, quei discorsi arroganti, sbarrate in lui le porte delle mura regali, non
lasciano entrare i soccorsi e non accolgono come ambasciatori i discorsi di cittadini più anziani, ma siccome nella
battaglia sono proprio loro a prevalere, mandano in disonorevole esilio il pudore affibiandogli il nome di dabbenaggine,
bandiscono la temperanza chiamandola viltà e coprendola di fango, e persuadendo il giovane che la misura e le spese
regolate sono indice di rozzezza e meschinità le spediscono oltre confine, sostenuti da molti desideri inutili?» «Proprio
così ».
«Dopo aver svuotato e pulito di queste virtù l'anima di chi è in loro potere, la iniziano ai grandi misteri; poi vi
introducono, splendidamente incoronate e accompagnate da un coro solenne, la tracotanza, l'anarchia, la dissolutezza e
l'impudenza, celebrandole e ricoprendole di nomi carezzevoli: la tracotanza la chiamano buona educazione, l'anarchia
libertà, la dissolutezza magnificenza, l'impudenza coraggio. Non è pressappoco così », chiesi, «che un giovane allevato tra
i desideri necessari si trasforma fino a liberare e scatenare i piaceri non necessari e inutili?» «Certo, ed è ben evidente!»,
rispose.
«In seguito un uomo simile, immagino, vive spendendo denaro, fatica e tempo non meno per i piaceri non necessari
che per quelli necessari; ma se è fortunato e non cade in preda a un eccessivo delirio, anzi, una volta che è divenuto più
anziano ed è passato il grosso della buriana, accoglie parte delle virtù bandite e non si arrende totalmente ai vizi che
hanno preso il loro posto, allora passa la vita stabilendo una condizione di parità tra i piaceri e assegnando la signoria di
se stesso al piacere di turno, quasi l'avesse ottenuta in sorte, fin che non ne è sazio, senza disprezzarne alcuno, ma
nutrendoli tutti in ugual modo».
«Senz'altro».
«Inoltre», aggiunsi, «non accetta un discorso vero e non lo lascia entrare nella sua guarnigione, se per caso qualcuno
gli dice che alcuni piaceri riguardano i desideri nobili e onesti, altri quelli malvagi, e che bisogna coltivare e apprezzare
gli uni, punire e reprimere gli altri; ma nega il suo assenso a tutto ciò e sostiene che tutti i piaceri sono uguali e meritano
lo stesso apprezzamento».
«Con una tale disposizione d'animo», disse, «si comporta davvero così ».
«Pertanto», ripresi, «egli trascorre i suoi giorni a compiacere il primo desiderio che gli capita: ora si ubriaca al suono
dei flauti, poi beve acqua e segue una cura dimagrante, ora fa ginnastica, talvolta invece se ne sta in ozio e si disinteressa
di tutto, e in certi momenti vuole dare persino l'impressione di studiare la filosofia.
Spesso prende parte alla vita pubblica e salta su a dire e a fare la prima cosa che gli viene in mente; e se per caso
emula qualche uomo di guerra, si volge in questa direzione, se invece emula qualche affarista, si volge da quest'altra
parte. Nessun ordine o costrizione regola la sua vita, alla quale si attiene di continuo chiamandola piacevole, libera e
beata».
«Hai descritto perfettamente la vita di un uomo egualitario», disse.
«Credo pure», proseguii, «che sia multiforme e piena di tantissime abitudini, e che quest'uomo sia bello e vario come
quella città; molti uomini e molte donne potrebbero invidiarlo per la sua vita, in quanto egli racchiude in sé tantissimi
modelli di governi e di comportamenti».
«Costui è fatto proprio così », disse.
«Vogliamo dunque ascrivere un individuo simile alla democrazia, così da poterlo correttamente definire
democratico?» «Ascriviamolo», rispose.
«Ora», ripresi, «ci resterebbe da descrivere la più bella forma di governo e il migliore individuo: la tirannide e il
tiranno».
«Certamente», disse.
«Ebbene, caro amico, qual è il carattere della tirannide? è pressoché evidente che si tratta di un trapasso dalla
democrazia».
«Sì , è evidente».
«Quindi la tirannide nasce dalla democrazia allo stesso modo in cui questa nasce dall'oligarchia?» «In che modo?» «Il
bene che i cittadini si proponevano», spiegai, «e per il quale avevano istituito l'oligarchia era la ricchezza eccessiva: non è
vero?» «Sì ».
«Ma l'insaziabile brama di ricchezza e la noncuranza d'ogni altro valore a causa dell'affarismo l'hanno portata alla
rovina».

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«è vero» disse.
«E anche la disgregazione della democrazia non è provocata dall'insaziabile brama di ciò che si prefigge come bene?»
«E che cosa, secondo te, si prefigge?» «La libertà», risposi. «In una città democratica sentirai dire che questo è il bene
supremo e quindi chi è libero per natura dovrebbe abitare soltanto là».
«In effetti si ripete spesso questa sentenza», osservò.
«Come stavo per chiederti», proseguii, «non sono dunque la brama insaziabile e la noncuranza d'ogni altro valore a
trasformare questa forma di governo e a prepararla ad avere bisogno della tirannide?» «In che senso?», domandò.
«A mio parere, quando una città democratica, assetata di libertà, viene ad essere retta da cattivi coppieri, si ubriaca di
libertà pura oltre il dovuto e perseguita i suoi governanti, a meno che non siano del tutto remissivi e non concedano molta
libertà, accusandoli di essere scellerati e oligarchici».
«Sì », disse, «fanno questo».
«E ricopre d'insulti», continuai, «coloro che si mostrano obbedienti alle autorità, trattandoli come uomini di nessun
valore, contenti di essere schiavi, mentre elogia e onora in privato e in pubblico i governanti che sono simili ai sudditi e i
sudditi che sono simili ai governanti. In una tale città non è inevitabile che la libertà tocchi il suo culmine?» «Come no?»
«Inoltre, mio caro», aggiunsi, «l'anarchia penetra anche nelle case private e alla fine sorge persino tra gli animali».
«In che senso possiamo dire una cosa simile?», domandò.
«Nel senso», risposi, «che ad esempio un padre si abitua a diventare simile al figlio e a temere i propri figli, il figlio
diventa simile al padre e pur di essere libero non ha né rispetto né timore dei genitori; un meteco (23) si eguaglia a un
cittadino e un cittadino a un meteco, e lo stesso vale per uno straniero».
«In effetti accade questo», disse.
«E accadono altri piccoli inconvenienti dello stesso tipo: in una tale situazione un maestro ha paura degli allievi e li
lusinga, gli allievi dal canto loro fanno poco conto sia dei maestri sia dei pedagoghi; insomma, i giovani si mettono alla
pari dei più anziani e li contestano a parole e a fatti, mentre i vecchi, abbassandosi al livello dei giovani, si riempiono di
facezie e smancerie, imitando i giovani per non sembrare spiacevoli e dispotici».
«Precisamente», disse.
«In una città come questa», seguitai, «caro amico, il limite estremo della libertà a cui può giungere il volgo viene
toccato quando gli uomini e le donne comprati non sono meno liberi dei loro compratori. E per poco ci dimenticavamo di
dire quanto sono grandi la parità giuridica e la libertà degli uomini nei confronti delle donne e delle donne nei confronti
degli uomini!».
«Dunque», fece lui, «con Eschilo "diremo quel ch'ora ci venne al labbro"?» (24) «è appunto ciò che sto dicendo»,
risposi: «nessuno, a meno di non constatarlo di persona, potrebbe convincersi di quanto la condizione degli animali
domestici sia più libera qui che altrove.
Le cagne, secondo il proverbio, diventano esattamente come le loro padrone, i cavalli e gli asini, abituati a procedere
con grande libertà e fierezza, urtano per la strada chiunque incontrino, se non si scansa, e parimenti ogni altra cosa si
riempie di libertà».
«Stai raccontando il mio sogno»,(25) disse, «perché anche a me, quando vado in campagna, spesso capita proprio
questo».
«Ma non capisci», domandai, «che la somma di tutti questi elementi messi insieme rammollisce l'anima dei cittadini a
tal punto che, se si prospetta loro un minimo di sudditanza, si indignano e non lo sopportano? Tu sai che finiscono per
non curarsi neppure delle leggi, scritte e non scritte, affinché tra loro non ci sia assolutamente alcun padrone».
«E come se lo so!», rispose.
«Dunque, amico mio», dissi, «questo mi sembra l'inizio bello e vigoroso da cui nasce la tirannide».
«Davvero vigoroso!», esclamò. «Ma che cosa succede dopo?» «Lo stesso malanno», continuai, «che si manifesta
nell'oligarchia portandola alla rovina, nasce anche nella democrazia, più forte e violento a causa della licenza, e la
asservisce. In effetti l'eccesso produce di solito un grande mutamento in senso contrario, nelle stagioni, nelle piante, negli
animali e non ultimo anche nelle forme di governo».
«è naturale», disse.
«Infatti l'eccessiva libertà non sembra mutarsi in altro che nell'eccessiva schiavitù, tanto per il singolo quanto per la
città».
«Sì , è naturale».
«Ed è quindi naturale», ripresi, «che la tirannide si formi solo dalla democrazia, ossia che dall'estrema libertà si
sviluppi la schiavitù più grave e più feroce».
«è logico», disse.
«Tu però», continuai, «non mi stavi chiedendo questo, bensì qual è quello stesso malanno che nasce nell'oligarchia e
nella democrazia asservendole».
«è vero», confermò.
«Ebbene», dissi, «io intendevo parlare di quella razza di uomini pigri e spendaccioni, i più coraggiosi in testa e i più
vili al seguito: noi paragoniamo gli uni ai fuchi dotati di pungiglione, gli altri a quelli che ne sono privi».
«E con ragione!», esclamò.
«Questi due gruppi», ripresi, «nascono in ogni regime e vi creano scompiglio, come nel corpo la flemma e la bile;
perciò il buon medico e legislatore della città, non meno di un esperto apicultore, deve prendere per tempo le sue

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precauzioni, innanzitutto per impedire che nascano, e se nascono perché siano recisi al più presto assieme ai loro favi».
«Sì , per Zeus, proprio così !», disse.
«Quindi», proseguii, «per scorgere più distintamente il nostro obiettivo, procediamo in questo modo».
«Come?» «Dividiamo una città democratica in tre parti, cosa che del resto corrisponde alla realtà. La prima, se non
erro, è quella classe che nasce qui non meno che nella città oligarchica a causa della licenza».
«è così ».
«Ma in questo regime è molto più violenta che in quello».
«In che senso?» «Là rimane inesperta e debole perché non viene apprezzata, anzi viene tenuta lontano dalle cariche;
nella democrazia invece questa, salvo pochi casi, è la classe dirigente e la sua parte più violenta parla e agisce, mentre gli
altri, seduti attorno alle tribune, ronzano e non tollerano chi contraddice. Così in un simile regime tutto è amministrato da
questa classe, con poche eccezioni».
«Precisamente», disse.
«C'è poi un'altra classe che si distingue sempre dal volgo».
«Quale?» «Quando tutti si danno agli affari, le persone dalla natura più equilibrata diventano di solito molto ricche».
«è logico».
«E da lì , penso, i fuchi ricavano facilmente la massima quantità di miele da suggere».
«E come potrebbero suggere da chi ha poche sostanze?», replicò.
«E questi, credo, sono i ricchi che vengono chiamati erba dei fuchi».
«Più o meno», disse.
«La terza classe sarebbe il popolo, composto da chi lavora in proprio e non partecipa agli affari pubblici, gente che
non possiede un patrimonio cospicuo: ma nella democrazia questa è la classe più numerosa e più potente, quando si
coalizza».
«In effetti è così », disse; «ma non vuole farlo spesso, se non riceve un po' di miele!».
«Eppure ne riceve sempre», replicai, «ogni volta che i governanti spogliano i cittadini abbienti dei loro averi e ne
distribuiscono al popolo, tenendo per sé la parte maggiore».
«Sì , lo riceve in questo modo», disse.
Perciò le vittime di queste spoliazioni sono costrette a difendersi credo, parlando e agendo tra il popolo come meglio
possono».
«Come no?» «E allora, anche se non aspirano alla rivoluzione, sono accusati dagli altri di tendere insidie al popoì o e
di essere oligarchici».
«Certo».
«E alla fine, quando vedono che il popoì o tenta di danneggiarli non di sua iniziativa, ma perché è ignorante e viene
ingannato dai calunniatori, allora, che lo vogliano o no, diventano veramente oligarchici non di loro iniziativa, ma perché
quel fuco, pungendoli, produce anche questo male».
«Senza dubbio».
«Allora nascono le denunce, i processi e le contese reciproche».
«Appunto».
«Ma il popolo non ha sempre l'abitudine di mettere alla sua testa un solo individuo, di cui alimenta e accresce il
potere?» «Sì , ha questa abitudine».
«E allora», dissi, «è evidente che quando nasce un tiranno, germoglia dalla radice di un capo e non da un'altra».
«E come se è evidente!».
«E come inizia la trasformazione da capo a tiranno? Non è chiaro che ciò avviene quando il capo incomincia a
comportarsi come nel mito che si racconta sul tempio di Zeus Liceo in Arcadia?» «Quale mito?», chiese.
«Quello secondo il quale chi ha gustato viscere umane, tagliate e mescolate a quelle di altre vittime sacrificali, si
trasforma inevitabilmente in lupo.(26) Non hai mai sentito questa storia?» «Sì , certo».
«Ebbene, allo stesso modo chi è stato messo a capo del popolo, se incontra una massa troppo obbediente, non si
astiene dal sangue dei concittadini, ma con false accuse, come accade di solito, trascina l'avversario in tribunale e si
macchia di un delitto togliendo la vita a un uomo, e gustando con lingua e bocca impure sangue della sua razza manda in
esilio, condanna a morte e proclama cancellazioni di debiti e divisioni di terre. Non è forse inevitabile che dopo queste
azioni un individuo simile sia destinato a cadere vittima dei suoi nemici o a diventare tiranno, trasformandosi da uomo in
lupo?» «è del tutto inevitabile», rispose.
«Ecco colui che lotta contro i possessori di beni!», esclamai.
«Sì , eccolo».
«E se viene esiliato e rimpatria a dispetto dei suoi nemici, non ritorna da perfetto tiranno?» «è ovvio».
«Se però i nemici non riescono a scacciarlo o a ucciderlo calunniandolo di fronte alla cittadinanza, meditano di farlo
perire segretamente di morte violenta».
«In genere le cose vanno così », confermò.
«A questo punto tutti coloro che si sono spinti fin qui tirano fuori la famosa richiesta dei tiranni: chiedono al popoì o
delle guardie del corpo per garantire l'incolumità del loro difensore».(27) «Certamente», disse.
«E il popoì o, penso, gliele concede, perché teme per lui e confida nelle proprie forze».
«Sicuro».

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«Perciò, quando un uomo danaroso, che per le sue ricchezze è accusato di odiare il popoì o, si accorge di questo, egli,
amico mio, come recita l'oracolo dato a Creso, "lungo l'Ermo ghiaioso fugge senza ristare né ha vergogna d'essere
vile"».(28) «Già, perché non potrebbe vergognarsi una seconda volta!», esclamò.
«Ma se viene arrestato», proseguii, «penso che venga messo a morte».
«Per forza».
«Ed è chiaro che quel capopopolo non giace "grande e lungo disteso", (29) ma dopo aver buttato giù molti altri sta
ritto sul carro della città, trasformatosi ormai da capo in perfetto tiranno».
«E perché non dovrebbe?», disse.
«Dobbiamo dunque descrivere», domandai, «la felicità dell'individuo e della città in cui nasce un simile mortale?»
«Certo», rispose, «descriviamola».
«Ebbene», seguitai, «nei primi giorni e in un primo tempo non rivolge forse sorrisi e saluti a tutti quelli che incontra?
Non nega di essere un tiranno e non fa molte promesse in privato e in pubblico? Non condona i debiti, non distribuisce la
terra al popolo e ai suoi accoliti e non finge di essere mite e affabile con tutti?» «Per forza», rispose.
«Ma quando, credo, si è liberato dei nemici esterni accordandosi con gli uni e annientando gli altri, e dal quel lato può
stare tranquillo, comincia a suscitare guerre in continuazione, affinché il popolo abbia la necessità di un capo».
«Sì , è logico».
«E anche perché i cittadini, impoveritisi per i tributi che devono versare, siano costretti a vivere alla giornata e pensino
meno a cospirare contro di lui?» «è chiaro».
«E magari per eliminare con un pretesto, consegnandoli ai nemici, coloro che sospetta abbiano uno spirito troppo
libero per lasciarlo governare? Per tutti questi motivi il tiranno non deve per forza scatenare sempre una guerra?» «Per
forza, sì ».
«Ma facendo questo non è facile che venga ancora più in odio ai cittadini?» «Come no?» «Quindi anche quelli che
l'hanno aiutato a prendere il potere e si trovano in una posizione di forza, o almeno i più coraggiosi, parlano con
franchezza a lui e tra di loro, criticando il suo operato?» «è probabile».
«Perciò il tiranno deve eliminarli tutti, se vuole dominare, finché non gli rimane nessuno né tra gli amici né tra i
nemici che valga qualcosa».
«è ovvio».
«Allora deve distinguere con acume chi è coraggioso, chi generoso, chi assennato, chi ricco; ed è tanto fortunato che,
volente o nolente, deve per forza essere nemico di tutti costoro e cospirare ai loro danni, fino a ripulire la città».
«Una bella pulizia!», esclamò.
«Sì », dissi, «l'opposto di quella prescritta dai medici per il corpo: essi tolgono il peggio e lasciano il meglio, costui fa
il contrario».
«E a quanto pare», aggiunse, «è forzato ad agire così , se davvero vuole governare».
«Egli si trova implicato in un dilemma davvero felice», ripresi, «che gli impone di vivere con una massa di mediocri,
dai quali per giunta è odiato, oppure di non vivere».
«Sì , in un dilemma del genere», disse.
«Ma quanto più si renderà odioso ai cittadini con questo comportamento, tanto più avrà bisogno di guardie del corpo
numerose e fedeli?» «Come no?» Ma chi saranno questi uomini fedeli, e da dove li farà arrivare?» «Se darà una
mercede», rispose, «molti verranno a volo spontaneamente».
«Corpo d'un cane», esclamai, «mi sembra che tu stia parlando di fuchi stranieri d'ogni razza!».
«E ti sembra bene», disse.
«E dal suo stesso Paese chi verrà? Il tiranno non vorrà forse... » «Che cosa?» «Togliere gli schiavi ai cittadini, liberarli
e farne le proprie guardie del corpo?» «Certo», rispose, «perché costoro gli sono assolutamente fedeli».
«Davvero beata», esclamai, «è per te la condizione del tiranno, se si riduce ad avere come amici fidati individui simili,
dopo aver tolto di mezzo quelli di prima!».
«Eppure», ribatté, «la gente a cui ricorre è proprio questa».
«E sono questi», domandai, «i compagni che lo ammirano e i nuovi cittadini che lo attorniano, mentre le persone
oneste lo odiano e lo evitano?» «E come può essere altrimenti?» «Non a torto», dissi, «la tragedia in genere ha fama di
essere sapiente, ma in particolare quella di Euripide».
«Perché?» «Perché ha proferito anche questa sentenza dal significato profondo: "saggi sono i tiranni in compagnia dei
saggi".(30) Voleva dire, è chiaro, che questi sono i saggi con cui il tiranno vive».
«Ed esalta pure la tirannide», aggiunse, «come divina,(31) ricoprendola di molte lodi al pari degli altri poeti».
«Pertanto», continuai, «i poeti tragici, nella loro sapienza, vorranno perdonare noi e quanti si governano come noi se
non li accoglieremo nel nostro Stato, dato che inneggiano alla tirannide».
«Da parte mia», disse, «credo che i più intelligenti tra loro ci perdonino».
«Ma io penso che essi trascinino gli Stati verso la tirannide e la democrazia girando per le altre città, radunando le
folle e assoldando voci belle, forti e persuasive».
«E come!».
«Inoltre ricevono per questo compensi e onori soprattutto dai tiranni, com'è ovvio, e poi dalla democrazia; e quanto
più salgono nell'erta delle costituzioni, tanto più cara il loro prestigio, quasi fosse incapace di proseguire per il fiatone».
«Proprio così ».

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«Tuttavia», ripresi, «qui siamo usciti di strada. Torniamo a parlare di quella forza armata del tiranno, bella, numerosa,
varia e mai uguale a se stessa, e vediamo da dove potrà mantenerla».
«è chiaro», disse, «che se la città ha un tesoro sacro gli darà fondo, e finché il ricavato della vendita sarà sufficiente
(32) imporrà al popolo minori tributi».
«E che cosa succederà quando queste ricchezze verranno meno?» «è chiaro», rispose, «che lui, i commensali, i
compagni e le favorite si manterranno con i beni di famiglia».
«Capisco», dissi: «il popoì o che ha generato il tiranno manterrà lui e i suoi compagni».
«Dovrà farlo per forza», confermò.
«Ma come!», replicai. «E se il popolo si indignasse e dicesse che per un figlio nel fiore dell'età non è giusto farsi
mantenere dal padre, anzi dovrebbe essere il contrario, e che il padre non lo ha messo al mondo e insediato al potere per
diventare, una volta che sia cresciuto, lo schiavo dei suoi schiavi e mantenere lui e i servi con una colluvie d'altri parassiti,
ma per essere liberato sotto la sua tutela dai cosiddetti ricchi e galantuomini della città, mentre ora gli ordina di andarsene
dalla città, lui e i suoi amici, come un padre che scaccia di casa un figlio assieme alla sua compagnia di convitati
molesti?» «Allora, per Zeus», rispose, «il popolo comprenderà quale belva ha generato, carezzato e cresciuto, e si renderà
conto di essere troppo debole per scacciare chi ormai è troppo forte».
«Ma che cosa dici?», feci io. «Il tiranno oserà fare violenza al padre, e a percuoterlo se non gli obbedirà?» «Sì »,
rispose, «dopo avergli tolto le armi».
«Tu», proseguii, «stai parlando di un tiranno parricida che offre un cattivo sostentamento alla vecchiaia; e a quanto
pare, dovremmo ormai essere in presenza di quella che per consenso unanime chiamiamo tirannide. Come dice il
proverbio, il popolo, per evitare il fumo della schiavitù sotto uomini liberi, cadrà nel fuoco del dispotismo di schiavi,
cingendosi, invece che di tutta quella libertà inopportuna, della veste più dura e più amara: la schiavitù esercitata da
schiavi».
«Sì , accade proprio questo», disse.
«Ebbene», conclusi, «sarà fuor di luogo affermare che abbiamo descritto esaurientemente il passaggio dalla
democrazia alla tirannide e le caratteristiche di quest'ultima?» «La descrizione è senz'altro esauriente», rispose.
NOTE: 1) La discussione sul filosofo e sullo Stato retto dai filosofi, iniziata con il libro 5 e protrattasi fino a tutto il 7,
rappresenta la "deviazione" dall'argomento principale dell'indagine, ossia la superiorità della vita giusta rispetto a ogni
altro genere di vita. Ora Socrate annuncia di voler riprendere questa ricerca, e in effetti il libro 8 e l'inizio del libro 9 (fino
a 576b) sono dedicati all'analisi dell'ingiustizia.
2) Le due costituzioni, qui accomunate, sono considerate le più vicine a quella ideale. Infatti la descrizione della
timocrazia è profondamente influenzata dalla costituzione spartana, da cui Platone aveva già desunto alcune norme
relative all'educazione dei guardiani (libro 3, 416d-417b).
3) Parafrasi di Omero, Odyssea, libro 19, verso 163.
4) Aristocrazia è qui intesa nel senso etimologico di 'governo dei migliori' e designa naturalmente lo Stato ideale.
5) Anche questo termine è connesso ai significato originario di "timé" ('onore') e non indica il regime creato ad Atene
da Solone, che prevedeva una divisione in classi dei cittadini in base al censo.
6) Le parole in corsivo ricalcano tipiche espressioni dell'epica. Omero di solito invoca le Muse in momenti cruciali
della narrazione; analogamente la ripresa platonica vuole evidenziare l'importanza del racconto seguente nell'economia
del libro, e nel contempo, con un pizzico d'ironia, l'elemento mitico in esso presente.
7) è il numero che governa la generazione divina ed esprime il tempo occorso per la creazione dell'universo. Platone
non dice quale sia, ma è probabile che si tratti di un numero in cui la somma dei divisori è uguale al numero stesso: per
esempio il 6, in quanto 1+2+3 =6.
8) La questione del «numero nuziale», il numero perfetto che regola la generazione umana, è uno dei passi
maggiormente dibattuti dell'intera opera; nell'impossibilità di riportare le varie interpretazioni, cerchiamo di fornire quella
a nostro giudizio più plausibile. I quattro termini potrebbero indicare i numeri delle due quaterne pitagoriche (1:2:4:8 e
1:3:9:27), separati tra loro da tre intervalli, in cui le progressive moltiplicazioni rispettivamente per due e per tre sono
anche, per gli ultimi due termini di ciascuna serie, elevazioni al quadrato e al cubo. Moltiplicando tra loro i primi due
termini, i secondi due termini e così via delle due quaterne, si ottengono i prodotti 1, 6, 36, 216, che sono nello stesso
rapporto reciproco delle due serie precedenti in relazione a 6, il supposto numero della generazione divina.
è altresì possibile che Platone faccia riferimento a una serie costituita dalle proporzioni A:B = B:C = C:D, in cui A, B,
C, D sono i termini e i rapporti sono gli intervalli: in tal caso la formula del numero nuziale sarebbe a.a.a; a.a.b; b.b.a;
b.b.b, in cui a minore di b.
Per fattori uguali si intenderebbero i numeri regolari, elevati al quadrato e al cubo, per fattori disuguali i numeri
irregolari, risultanti da fattori disuguali; «crescente» significherebbe che il fattore diverso è maggiore (a.a.b),
«decrescente» che è minore (b.b.a). Quanto alla determinazione delle due armonie, il punto di partenza è "la base
epitrita", che esprime la frazione 4/3; ponendo a=3 e b=4, la formula del numero nuziale dà i prodotti 27, 36, 48, 64, che
sono appunto, in ordine decrescente, in rapporto di 4:3. L'unione con il cinque (l'accoppiamento nella filosofia pitagorica
esprime la moltiplicazione) indica probabilmente l'ipotenusa di un triangolo rettangolo in rapporto ai cateti 3 e 4. Il
numero della prima armonia, rappresentata da un quadrato il cui lato è espressione del numero 100, è 10.000; a 100 si può
arrivare sommando i due prodotti del numero nuziale risultanti dall'elevazione al quadrato di fattori uguali (64 + 36). Più
complessa è la determinazione della seconda armonia, rappresentata un rettangolo. Infatti «la diagonale di 5», cioè la

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diagonale del quadrato di lato 5, corrisponde a radice quadrata di 50, un numero irrazionale, la cui forma razionale è
radice quadrata di 49; sottraendo rispettivamente due e una unità ai due quadrati si ha 48, che esprime un lato del
rettangolo, mentre il numero dell'altro lato è 27, ossia 3 al cubo. Il numero della seconda armonia sarebbe quindi 7.500,
risultante dalla somma dei due lati moltiplicata per 100. Con questo calcolo complicato, profondamente intessuto della
simbologia aritmetica pitagorica, Platone vuole dimostrare che tutta la vita cosmica è regolata da un'armonia esprimibile
secondo leggi matematiche, e nulla di conseguenza è affidato al caso.
9) Il segmento "deúteron tá te gumnastike", sembra da espungere, poiché la ginnastica è ancora contemplata nella
prima forma di degenerazione descritta più avanti e modellata sulla costituzione spartana.
10) Omero, Ilias, libro 6, verso 211. Per le quattro generazioni, modellate su quelle esiodee, cfr. libro 3, 415a e
seguenti.
11) A Sparta i perieci erano cittadini liberi, ma privi di diritti politici, che esercitavano mestieri artigianali. Il termine
«servi» indica probabilmente gli iloti, che erano assoggettati alla classe dominante e vivevano in una condizione servile.
12) Gli Spartiati erano totalmente dediti alla guerra e non svolgevano alcuna attività agricola o artigianale; gli esercizi
ginnici e i sissizi, pranzi pubblici volti a cementare il cameratismo, erano punti fondamentali della loro educazione.
13) Nell'elencare il lati negativi della timocrazia Platone adombra alcuni dei difetti più gravi di Sparta, come il
disprezzo per ogni forma di cultura e l'avidità della classe dirigente.
14) Eschilo, Septem adversus Thebas, 451 e 570, combinati tra loro.
15) Platone gioca sul termine oligarchia, attribuendogli il significato di 'governo su pochi' anziché quello, usuale. di
'governo di pochi'; cfr. anche 555a. In effetti l'esercito spartano, costituito di norma solo dagii Spartiati, era molto ridotto;
perciò in caso di guerra veniva integrato con uomini scelti dalle classi subalterne, con il conseguente rischio di rivolte.
16) Similitudine frequente nella letteratura greca a partire da Esiodo, Opera et dies 304-305.
17) L'immagine dello scoglio è tratta da Eschilo (Agamemnon 1006; Eumenides 554-565). Per i sicofanti cfr. libro 1,
340d con la relativa nota 20.
18) Si tratta del monarca persiano, del quale sono elencati alcuni attributi.
19) Pluto, dio della ricchezza, era solitamente raffigurato cieco (si pensi all'omonima commedia di Aristofane, che
sfrutta questo motivo).
Per l'immagine del coro cfr. libro 6, 490c, libro 8, 560e.
20) Dalla stessa vicenda di Socrate appare evidente che ad Atene i condannati a morte potevano salvarsi con la fuga.
Nel passo si allude alla credenza popolare secondo cui gli dèi, gli eroi e anche i defunti potevano aggirarsi sulla terra
senza essere visti.
21) Platone distingue i piaceri in piaceri necessari, piaceri non necessari ma innocui, piaceri non necessari e dannosi.
A ciascuna categoria corrisponde una forma di governo: l'oligarchia alla prima, la democrazia alla seconda, la tirannide
alla terza.
22) I Lotofagi, ovvero i 'mangiatori di loto', il fiore dell'oblio, sono uno dei popoli incontrati da Ulisse nelle sue
peregrinazioni (Omero, Odyssea, libro 9, versi 83-102). Qui simboleggiano i fuchi spendaccioni e parassiti, che
dimenticano i piaceri necessari per adagiarsi in quelli non necessari, come in Omero chi mangiava il loto si scordava del
ritorno in patria.
23) Ad Atene i meteci erano gli stranieri residenti, che godevano di alcuni diritti civili ma non di quelli politici; questa
discriminazione si poteva però facilmente aggirare, come mostra l'allusione del passo.
Cefalo, il padre di Lisia e Polemarco, era appunto un meteco originario della Sicilia.
24) Eschilo, frammento 334 Radt.
25) Vale a dire: parli di cose che conosco benissimo. Cfr. anche Platone, Charmides, 173a; Theaetetus, 201e.
26)"Aukaios", epiteto abitualmente di Apollo, ma anche, come qui, di Zeus, è connesso con "lúkos" 'lupo': è uno dei
vari residui dell'arcaico zoomorfismo dei culti greci.
27) Pretesto addotto da parecchi tiranni per impadronirsi del potere; i casi più famosi furono quelli di Pisistrato ad
Atene e di Dionisio il Vecchio a Siracusa.
28) Citazione, adattata al contesto, di una parte dell'oracolo che la Pizia diede a Creso, re della Lidia, poco prima della
guerra contro Ciro il Grande, re di Persia; cfr. Erodoto, libro 1, 55, 2. Nell'oracolo si consigliava a Creso di fuggire
quando un mulo fosse divenuto re dei Persiani; Creso non capì l'allusione a Ciro e interpretando il responso alla lettera
non rinunciò alla guerra che si sarebbe risolta con la sua sconfitta.
29) Omero, Ilias, libro 16, verso 776. A differenza di Cebrione, l'auriga omerico che cade dal carro e giace sul campo
di battaglia proprio nel punto dove più infuria la mischia, il tiranno butta gli altri giù dal carro, cioè dallo Stato, finché non
ne resta l'unico padrone.
30) Verso attribuito a Euripide anche in Platone, Teages 125b.
Probabilmente è lo stesso al quale si allude in Aristofane, Thesmophoriazusae 21; secondo lo scoliaste di Aristofane
però esso appartiene a una tragedia perduta di Sofocle.
31) Cfr. Euripide, Troades, 1168 e Phoenissae, 524. Per la verità l'elogio di Euripide è ironico, ma non è escluso che
Platone lo travisi volutamente per un particolare astio nei suoi confronti.
32) La traduzione cerca di dare un senso plausibile all'espressione "tà tôn apodoménon", piuttosto forzata; la difficoltà
non si appiana del tutto neanche con la correzione "tà tôn apoloménon", 'i beni degli uccisi'.