Biblioteca Multimediale Marxista
DEDICA
I INTRODUZIONE
II DELLA LIBERTA' DI PENSIERO E DISCUSSIONE
III DELL'INDIVIDUALITA' COME ELEMENTO
IV DEI LIMITI ALL'AUTORITA' DELLA SOCIETA' SULL'INDIVIDUO
V APPLICAZIONI
DEDICA
ALL'amata e compianta memoria di colei che fu l'ispiratrice, e in parte l'autrice,
di tutto il meglio della mia opera – all'amica e moglie il cui altissimo
senso della verità e della giustizia era il mio stimolo più grande,
e la cui approvazione era la massima ricompensa – dedico questo volume.
Come tutto ciò che ho scritto per molti anni, appartiene a lei quanto
a me; ma il lavoro, così com'è, ha ricevuto in misura molto insufficiente
l'inestimabile beneficio della sua revisione; alcune delle parti più
importanti avrebbero dovuto essere sottoposte a un riesame più accurato,
che ora non riceveranno mai più. Se solamente fossi capace di trasmettere
al mondo la metà dei grandi pensieri e dei nobili sentimenti che sono
sepolti con lei, sarei il tramite di benefici maggiori di quanti potranno mai
derivare da qualunque cosa io scriva, privo dello stimolo e del conforto della
sua impareggiabile saggezza.
I INTRODUZIONE
L'argomento di questo saggio non è la cosiddetta "libertà
della volontà", tanto infelicemente contrapposta a quella che è
impropriamente chiamata dottrina della necessità filosofica, ma la libertà
civile, o sociale: la natura e i limiti del potere che la società può
legittimamente esercitare sull'individuo. Questione raramente enunciata, e quasi
mai discussa in termini generali, ma la cui presenza latente influisce profondamente
sulle polemiche quotidiane del nostro tempo, e che probabilmente si paleserà
ben presto come il problema fondamentale del futuro. È così poco
nuova che, in un certo senso, ha diviso l'umanità quasi fin dai tempi
più remoti; ma, allo stadio di progresso cui sono ora giunti i settori
più civilizzati della nostra specie, si presenta alla luce di condizioni
nuove e richiede di essere trattata in modo diverso e più fondamentale.
La lotta tra libertà e autorità è il carattere più
evidente dei primi periodi storici di cui veniamo a conoscenza, in particolare
in Grecia, Roma e Inghilterra. Ma nell'antichità si trattava di conflitti
tra sudditi, o alcune classi di sudditi, e governo. Per libertà si intendeva
la protezione dalla tirannia dei governanti, concepiti (salvo che nel caso di
alcuni governi popolari della Grecia) come necessariamente antagonisti al popolo
da essi governato. Si trattava di un singolo, o di una tribù o casta
dominante, la cui autorità era ereditaria o frutto di conquista, in ogni
caso non della volontà dei governatori, e la cui supremazia gli uomini
non osavano, o forse non desideravano, porre in discussione, quali che fossero
le eventuali misure di precauzione contro un suo esercizio troppo oppressivo.
Il potere dei governanti era considerato necessario, ma anche estremamente pericoloso:
un'arma che essi avrebbero cercato di usare contro i propri sudditi altrettanto
che contro i nemici esterni. Per impedire che i membri più deboli della
comunità venissero depredati e tormentati da innumerevoli avvoltoi, era
indispensabile la presenza di un rapace più forte degli altri, con l'incarico
di tenerli a bada. Ma, poiché il re degli avvoltoi sarebbe stato voglioso
quanto le minori arpie di depredare il gregge, si rendeva necessario un perpetuo
atteggiamento di difesa contro il suo becco e i suoi artigli. Quindi, lo scopo
dei cittadini era di porre dei limiti al potere sulla comunità concesso
al governante: e questa delimitazione era ciò che essi intendevano per
libertà. Si cercava di conseguirla in due modi: in primo luogo, ottenendo
il riconoscimento di certe immunità, chiamate libertà o diritti
politici, la cui violazione da parte del governante sarebbe stata considerata
infrazione ai doveri del suo ufficio, e avrebbe giustificato l'opposizione specifica
o la ribellione generale. Una seconda modalità, generalmente successiva,
era la creazione di vincoli costituzionali per cui il consenso della comunità,
o di un qualche organismo che avrebbe dovuto rappresentarne gli interessi, veniva
reso condizione necessaria per alcuni degli atti fondamentali dell'esercizio
del potere. Nella maggior parte dei paesi europei, i governanti furono più
o meno costretti ad accettare il primo sistema ma non il secondo, e conseguirlo,
o conseguirlo più compiutamente nelle situazioni in cui già in
una certa misura esisteva, divenne in ogni paese l'obiettivo principale di chi
amava la libertà. E, fino a quando l'umanità si accontentò
di combattere un nemico con un altro, e di avere un signore a condizione di
essere più o meno efficacemente garantita contro la sua tirannide, le
sue aspirazioni si fermarono qui. Tuttavia, a un certo punto del progresso umano,
gli uomini cessarono di pensare che i governanti dovessero necessariamente essere
un potere indipendente, con interessi opposti ai propri, e giudicarono molto
preferibile che i vari magistrati dello Stato ricevessero in concessione l'esercizio
del potere, fossero cioè dei delegati revocabili a piacimento dalla comunità.
Solo così, si pensava, gli uomini avrebbero potuto essere completamente
sicuri che non si sarebbe mai abusato a loro danno dei poteri di governo. Gradualmente,
questa nuova richiesta di governo temporaneo e elettivo divenne l'obiettivo
principale dell'azione dei partiti popolari ovunque essi esistessero, sostituendosi
in larga misura ai precedenti tentativi di limitare il potere dei governanti.
Con lo sviluppo della lotta per fare emanare il potere dalla scelta periodica
dei governanti, alcuni cominciarono a pensare che si era attribuita troppa importanza
alla limitazione del potere in quanto tale, limitazione che a loro giudizio
andava invece considerata un'arma contro quei governanti i cui interessi si
contrapponessero abitualmente a quelli popolari. Ciò che ora si voleva
era l'identificazione dei governanti con il popolo, la coincidenza del loro
interesse e volontà con quelli della nazione. Quest'ultima non aveva
bisogno di essere protetta dalla propria volontà: non vi era da temere
che diventasse il tiranno di se stessa. Se i governanti fossero stati effettivamente
responsabili verso di essa, e da essa immediatamente amovibili, la nazione avrebbe
potuto permettersi di affidare loro un potere il cui uso sarebbe dipeso dalla
sua volontà: il potere di governo non sarebbe stato altro che quello
della nazione, concentrato in forma tale da permetterne un efficace esercizio.
Questa linea di pensiero, o – forse più esattamente – questo
sentimento, era diffusa nell'ultima generazione del liberalismo europeo, e sembra
ancora predominare nel Continente. Coloro che ammettono limiti alle possibilità
di azione di un governo, salvo che si tratti di governi che a loro avviso non
dovrebbero esistere, sono delle brillanti, isolate eccezioni tra i pensatori
politici del Continente: e un sentimento analogo potrebbe ormai prevalere anche
nel nostro paese se le circostanze che lo hanno per un certo periodo favorito
fossero rimaste immutate. Ma, nelle teorie politiche e filosofiche come nelle
persone, il successo pone in luce difetti e debolezze che l'insuccesso avrebbe
potuto mantenere celati. L'idea secondo cui non vi è necessità
che il popolo limiti il proprio potere su se stesso poteva sembrare assiomatica
in tempi in cui il governo popolare era solo un obiettivo fantasticato o lo
si conosceva attraverso le letture, come fenomeno di un lontano passato: né
venne necessariamente scossa da aberrazioni temporanee come quelle della Rivoluzione
francese, le peggiori delle quali erano opera di pochi usurpatori, e che comunque
non erano proprie del funzionamento permanente di istituzioni popolari, ma di
un'improvvisa e convulsa esplosione contro il dispotismo monarchico e aristocratico.
A un certo punto, tuttavia, vi fu una repubblica democratica che si sviluppò
fino a occupare una vasta distesa di territorio e a far sentire il proprio peso
come uno dei membri più potenti nella comunità delle nazioni;
e in questo modo il governo elettivo e responsabile divenne oggetto delle osservazioni
e delle critiche che accompagnano ogni grande realtà. Ci si rese allora
conto che espressioni come "autogoverno" e "potere del popolo
su se stesso" non esprimevano il vero stato delle cose. Il "popolo"
che esercita il potere non coincide sempre con coloro sui quali quest'ultimo
viene esercitato; e l'"autogoverno" di cui si parla non è il
governo di ciascuno su se stesso, ma quello di tutti gli altri su ciascuno.
Inoltre, la volontà del popolo significa, in termini pratici, la volontà
della parte di popolo più numerosa o attiva – la maggioranza, o
coloro che riescono a farsi accettare come tale; di conseguenza, il popolo può
desiderare opprimere una propria parte, e le precauzioni contro ciò sono
altrettanto necessarie quanto quelle contro ogni altro abuso di potere. Quindi,
la limitazione del potere del governo sugli individui non perde in alcun modo
la sua importanza quando i detentori del potere sono regolarmente responsabili
verso la comunità, cioè al partito che in essa predomina. Questa
impostazione, che soddisfa sia la riflessione intellettuale sia le tendenze
di quelle importanti classi della società europea ai cui interessi, reali
o presunti, si oppone la democrazia, non ha trovato difficoltà a imporsi;
e il pensiero politico ormai comprende generalmente "la tirannia della
maggioranza" tra i mali da cui la società deve guardarsi. Come altre
tirannie, quella della maggioranza fu dapprima – e volgarmente lo è
ancora – considerata, e temuta, soprattutto in quanto conseguenza delle
azioni delle pubbliche autorità. Ma le persone più riflessive
compresero che, quando la società stessa è il tiranno –
la società nel suo complesso, sui singoli individui che la compongono
–, il suo esercizio della tirannia non si limita agli atti che può
compiere per mano dei suoi funzionari politici. La società può
eseguire, ed esegue, i propri ordini: e se gli ordini che emana sono sbagliati,
o comunque riguardano campi in cui non dovrebbe interferire, esercita una tirannide
sociale più potente di molti tipi di oppressione politica, poiché,
anche se generalmente non viene fatta rispettare con pene altrettanto severe,
lascia meno vie di scampo, penetrando più profondamente nella vita quotidiana
e rendendo schiava l'anima stessa. Quindi la protezione dalla tirannide del
magistrato non è sufficiente: è necessario anche proteggersi dalla
tirannia dell'opinione e del sentimento predominanti, dalla tendenza della società
a imporre come norme di condotta e con mezzi diversi dalle pene legali, le proprie
idee e usanze a chi dissente, a ostacolare lo sviluppo – e a prevenire,
se possibile, la formazione – di qualsiasi individualità discordante,
e a costringere tutti i caratteri a conformarsi al suo modello. Vi è
un limite alla legittima interferenza dell'opinione collettiva sull'indipendenza
individuale: e trovarlo, e difenderlo contro ogni abuso, è altrettanto
indispensabile alla buona conduzione delle cose umane quanto la protezione dal
dispotismo politico. Ma, anche se quest'asserzione è difficilmente opinabile
in termini generali, nella questione pratica della determinazione del limite
– di come conseguire l'equilibrio più opportuno tra indipendenza
individuale e controllo sociale – quasi tutto resta ancora da fare. Tutto
ciò che rende l'esistenza di chiunque degna di essere vissuta dipende
dall'impostazione di restrizioni sulle azioni altrui. Di conseguenza devono
essere imposte alcune regole di condotta – dalla legge in primo luogo,
e dall'opinione nei molti campi che non si prestano a legislazione. Quali debbano
essere queste regole è il problema principale della collettività
umana; ma, ad eccezione di alcuni dei casi più ovvii, è questo
un problema verso la cui soluzione sono stati compiuti minori progressi. Nessun'epoca,
e quasi nessun paese, lo hanno risolto nello stesso modo; e la soluzione di
un paese o epoca è lo stupore degli altri: e tuttavia, gli uomini di
qualsiasi singolo paese, o epoca, non ne sospettano mai le difficoltà,
come se l'umanità fosse sempre stata unanime su questo argomento. Le
regole secondo cui vivono sembrano loro ovvie e autogiustificantesi. Quest'illusione
del tutto universale è un esempio della magica influenza della consuetudine,
che non è solo, come afferma il proverbio, una seconda natura, ma viene
continuamente scambiata per la prima. L'efficacia della consuetudine nel prevenire
ogni dubbio sulle norme di condotta che gli uomini si impongono a vicenda è
tanto più completa perché l'argomento è uno di quelli su
cui non viene generalmente considerato necessario fornire spiegazioni, né
agli altri né a se stessi. Gli uomini sono abituati a credere, e a ciò
sono stati incoraggiati da alcuni che aspirano a essere definiti filosofi, che
in questioni di tale natura i loro sentimenti siano meglio delle ragioni e le
rendano inutili. Il principio pratico che forma le loro opinioni sulle regole
della condotta umana è il sentimento, da parte di ciascuno, che a ciascuno
dovrebbe essere prescritto di agire come piacerebbe a lui e a coloro con cui
simpatizza. Nessuno, è vero, ammette a se stesso che il suo criterio
di giudizio è il suo gradimento; ma un'opinione su un dato tipo di condotta,
che non sia confortata da ragioni, può solo essere considerata una preferenza
individuale; e se le ragioni addotte sono semplicemente un appello a una simile
preferenza condivisa da altri, l'opinione è solo il gradimento di molti
invece che di uno. Tuttavia, per un uomo comune la sua preferenza, su una simile
base, è non solo una ragione perfettamente soddisfacente ma generalmente
l'unica che giustifica qualunque sua nozione di morale, gusto o decoro che non
sia espressamente prevista dal suo credo religioso, e la sua principale guida
anche nell'interpretazione di quest'ultimo. Di conseguenza, le opinioni degli
uomini su ciò che sia degno di lode o di biasimo sono condizionate da
tutte le molteplici cause che ne influenzano i desideri riguardanti l'altrui
condotta, le quali sono altrettanto numerose quanto quelle che determinano i
desideri umani in ogni altro campo. Talvolta è la ragione; talaltra i
pregiudizi o le superstizioni; spesso le passioni sociali, non di rado quelle
antisociali, l'invidia o la gelosia, l'arroganza o il disprezzo; ma soprattutto
i desideri o le paure per se stessi – gli interessi personali, legittimi
o illegittimi. Dovunque vi sia una classe dominante, la morale del paese emana,
in buona parte, dai suoi interessi di classe e dai suoi sentimenti di superiorità
di classe. L'etica dei rapporti tra Spartani e Iloti, tra piantatori e negri,
tra principi e sudditi, tra nobili e rotuners, tra uomini e donne è stata
per la maggior parte creata da questi interessi e sentimenti di classe; e i
sentimenti così generati reagiscono a loro volta sulla morale dei membri
della classe dominante nei loro rapporti reciproci. Dove, d'altro canto, una
classe non sia più dominante, o il suo predominio sia impopolare, i sentimenti
morali prevalenti sono frequentemente improntati a un'impaziente avversione
per la sua superiorità. Un altro grande principio che ha determinato
le norme di condotta – intesa sia come azione sia come omissione –
fatte rispettare dalla legge o dall'opinione è stato il servilismo degli
uomini nei confronti delle supposte preferenze o antipatie dei loro signori
temporali o dei loro dei. Questo servilismo, anche se essenzialmente egoistico,
non è ipocrisia; dà luogo a sentimenti di orrore del tutto genuini;
ha fatto bruciare maghi e eretici. Tra tante mediocri influenze, anche gli interessi
generali e evidenti della società hanno naturalmente avuto un ruolo,
importante, nell'orientamento dei sentimenti morali: meno, tuttavia, in quanto
elementi razionali, e per i propri meriti intrinseci, che in virtù delle
conseguenze delle simpatie e antipatie da essi originate; e simpatie e antipatie
che con gli interessi della società avevano poco o nulla a che fare hanno
avuto un peso altrettanto grande nell'affermazione delle morali sociali. Le
simpatie e antipatie della società, o di qualche suo potente settore,
sono quindi il fattore principale che ha in pratica determinato le norme di
comportamento da osservare per non incorrere nelle sanzioni della legge o dell'opinione.
E, in generale, coloro il cui pensiero o i cui sentimenti erano più avanzati
di quelli della loro società hanno evitato di attaccare in linea di principio
questo stato di cose, anche se talvolta possono essersi trovati in conflitto
con alcuni suoi aspetti. Si sono preoccupati di determinare ciò che la
società dovrebbe preferire o avversare, piuttosto che di chiedersi se
queste simpatie o antipatie debbano aver valore di legge per gli individui:
hanno preferito tentare di modificare i sentimenti degli uomini rispetto alle
questioni particolari su cui essi stessi erano degli eretici, piuttosto che
far causa comune con gli eretici in generale per difendere la libertà.
Il solo caso in cui si è scelta per principio questa posizione più
elevata, e la si è mantenuta con coerenza, salvo rare eccezioni individuali,
è quello delle convinzioni religiose: caso per molti aspetti istruttivo,
non da ultimo perché costituisce un esempio straordinario della fallibilità
di ciò che è chiamato senso morale; poiché l'odium theologicum,
in un sincero bigotto, è uno dei casi più inequivocabili di sentimento
morale. Coloro che per primi spezzarono il giogo di quella che si autodefiniva
Chiesa Universale erano in generale altrettanto poco inclini di quest'ultima
a permettere differenze di opinione religiosa. Ma, quando si spense la vampata
del conflitto senza che nessun contendente riportasse completa vittoria, e ogni
chiesa o setta si trovò costretta a limitare le proprie speranze al mantenimento
del terreno che in quel momento occupava, le minoranze, consce di non aver alcuna
possibilità di diventare maggioranze, dovettero necessariamente richiedere
a coloro che non potevano convertire il permesso di dissentire. Di conseguenza
è su questo campo di battaglia – caso quasi unico – che i
diritti dell'individuo, contrapposti a quelli della società, sono stati
rivendicati su un'ampia base di principio, e la pretesa da parte della società
di esercitare la propria autorità sui dissenzienti è stata apertamente
contestata. I grandi scrittori cui il mondo è debitore del grado di libertà
religiosa di cui gode hanno per la maggior parte rivendicato la libertà
di coscienza come diritto inalienabile, e assolutamente negato che si debba
rendere conto ad altri delle proprie convinzioni religiose. Tuttavia, l'intolleranza,
in tutti i campi che realmente contano per l'umanità, è tanto
connaturata che la libertà religiosa non è stata quasi mai realizzata
in pratica, salvo che nei casi in cui l'indifferenza religiosa, che non gradisce
essere turbata da dispute teologiche, ha fatto valere il proprio peso. Quasi
tutte le persone religiose, anche nei paesi più tolleranti, ammettono
il dovere della tolleranza con tacite riserve. Qualcuno sopporterà il
dissenso in questioni di governo ecclesiastico, ma non di dogma; un altro tollererà
tutti, purché non siano papisti o unitari; pochi spingono la propria
carità un poco più oltre, ma non transigono sulla questione dell'esistenza
di un Dio e della vita futura. Dovunque il sentimento religioso della maggioranza
rimane genuino e intenso, si scopre che la sua pretesa di essere ubbidito è
appena mitigata. Le particolari circostanze della nostra storia politica fanno
sì che in Inghilterra, anche se il giogo dell'opinione è forse
più pesante, quello della legge sia più lieve che nella maggior
parte degli altri paesi europei; e vi è un'accentuata insofferenza per
l'intervento diretto del potere legislativo o esecutivo nella condotta individuale,
non tanto per un giusto rispetto dell'indipendenza individuale, ma perché
sussiste ancora l'abitudine di considerare il governo come espressione di interessi
contrapposti a quelli dei cittadini. La maggioranza non ha ancora imparato a
percepire il potere del governo come proprio potere, o le opinioni governative
come proprie. Quando ciò avverrà, la libertà individuale
sarà probabilmente altrettanto esposta agli assalti dello Stato quanto
lo è già a quelli dell'opinione pubblica. Ma, ancor oggi, prevale
un diffuso sentimento pronto a essere mobilitato contro ogni tentativo da parte
della legge di controllare gli individui in campi in cui fino ad ora non sono
stati abituati a tale controllo; è una reazione quasi del tutto indiscriminata,
che non si chiede se una data questione appartenga o meno alla sfera legittima
del controllo legale; tanto che questo sentimento, nel complesso altamente salutare,
nella pratica viene forse evocato altrettanto spesso a torto che a ragione.
In effetti, non vi è alcun principio riconosciuto sulla cui base venga
valutata abitualmente la maggiore o minore opportunità dell'interferenza
statale. Gli uomini decidono secondo le loro preferenze personali: alcuni, di
fronte alla possibilità di realizzare un bene o di rimediare a un male,
incitano volentieri lo Stato a prendersene carico, mentre altri preferiscono
sopportare quasi ogni sorta di male sociale piuttosto che aumentare, fosse pure
di uno, il numero dei settori di attività umane riconducibili sotto il
controllo statale. E, in ciascun caso particolare, gli uomini si schierano in
uno dei due campi, secondo quest'inclinazione generale dei loro sentimenti,
o secondo il loro grado di interesse nella questione per cui è proposto
l'intervento statale, o secondo le loro previsioni sul comportamento dello Stato,
giudicato nei termini delle loro preferenze; ma molto di rado prendono partito
in base a una loro opinione coerente su ciò che spetti allo Stato compiere.
E mi sembra che, a causa di questa mancanza di una regola o principio, attualmente
i due opposti campi errino nella stessa misura: l'interferenza dello Stato è,
quasi con la stessa frequenza, auspicata a torto e condannata a torto. Scopo
di questo saggio è formulare un principio molto semplice, che determini
in assoluto i rapporti di coartazione e controllo tra società e individuo,
sia che li si eserciti mediante la forza fisica, sotto forma di pene legali,
sia mediante la coazione morale dell'opinione pubblica. Il principio è
che l'umanità è giustificata, individualmente o collettivamente,
a interferire sulla libertà d'azione di chiunque soltanto al fine di
proteggersi: il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un
potere su qualunque membro di una comunità civilizzata, contro la sua
volontà, è per evitare danno agli altri. Il bene dell'individuo,
sia esso fisico o morale, non è una giustificazione sufficiente. Non
lo si può costringere a fare o non fare qualcosa perché è
meglio per lui, perché lo renderà più felice, perché,
nell'opinione altrui, è opportuno o perfino giusto: questi sono buoni
motivi per discutere, protestare, persuaderlo o supplicarlo, ma non per costringerlo
o per punirlo in alcun modo nel caso si comporti diversamente. Perché
la costrizione o la punizione siano giustificate, l'azione da cui si desidera
distoglierlo deve essere intesa a causare danno a qualcun altro. Il solo aspetto
della propria condotta di cui ciascuno deve rendere conto alla società
è quello riguardante gli altri: per l'aspetto che riguarda soltanto lui,
la sua indipendenza è, di diritto, assoluta. Su se stesso, sulla sua
mente e sul suo corpo, l'individuo è sovrano. È forse superfluo
aggiungere che questa dottrina vale solo per esseri umani nella pienezza delle
loro facoltà. Non stiamo parlando di bambini o di giovani che sono per
legge ancora minori d'età. Coloro che ancora necessitano dell'assistenza
altrui devono essere protetti dalle proprie azioni quanto dalle minacce esterne.
Per la stessa ragione, possiamo tralasciare quelle società arretrate
in cui la razza stessa può essere considerata minorenne. Le difficoltà
che inizialmente si oppongono al progresso spontaneo sono così grandi
che raramente si può scegliere tra diversi mezzi di superarle: e un governante
animato da intenzioni progressiste è giustificato a impiegare ogni mezzo
che permetta di conseguire un fine forse altrimenti impossibile. Il dispotismo
è una forma legittima di governo quando si ha a che fare con barbari,
purché il fine sia il loro progresso e i mezzi vengano giustificati dal
suo reale conseguimento. La libertà, come principio, non è applicabile
in alcuna situazione precedente il momento in cui gli uomini sono diventati
capaci di migliorare attraverso la discussione libera e tra eguali. Fino ad
allora, non vi è nulla per loro, salvo l'obbedienza assoluta a un Aqbar
o a un Carlomagno se sono così fortunati da trovarlo. Ma, non appena
gli uomini hanno conseguito la capacità di essere guidati verso il proprio
progresso dalla convinzione o dalla persuasione (condizione da molto tempo raggiunta
in tutte le nazioni di cui ci dobbiamo occupare), la costrizione, sia in forma
diretta sia sotto forma di pene e sanzioni per chi non si adegua, non è
più ammissibile come strumento di progresso, ed è giustificabile
solo per la sicurezza altrui. È opportuno dichiarare che rinuncio a qualsiasi
vantaggio che alla mia argomentazione potrebbe derivare dalla concezione del
diritto astratto come indipendente dall'utilità. Considero l'utilità
il criterio ultimo in tutte le questioni etiche; ma deve trattarsi dell'utilità
nel suo senso più ampio, fondata sugli interessi permanenti dell'uomo
in quanto essere progressivo. La mia tesi è che questi interessi autorizzano
l'assoggettamento della spontaneità individuale al controllo esterno
solo rispetto alle azioni individuali che riguardino interessi altrui. Se qualcuno
commette un atto che danneggia altri, vi è motivo evidente di punirlo
con sanzioni legali o, nel caso in cui siano di incerta applicazione, con la
disapprovazione generale. Vi sono anche molte azioni positive a favore di altri
che ciascuno può essere legittimamente obbligato a compiere: per esempio,
testimoniare davanti a un tribunale, portare il giusto contributo alla difesa
comune o a ogni altra attività collettiva necessaria agli interessi della
società di cui si gode la protezione, compiere certi atti di assistenza
individuale, come salvare la vita di un altro essere umano o intervenire a proteggere
delle persone indifese contro gli abusi – tutte quelle azioni insomma
che costituiscono un palese dovere, del cui mancato adempimento si può
legittimamente essere chiamati a rispondere alla società. Una persona
può causare danno agli altri non solo per azione ma anche per omissione,
e in entrambi i casi ne deve giustamente rendere loro conto. È vero che
il secondo caso richiede, in misura molto maggiore del primo, cautela nell'esercizio
della coercizione. Rendere chiunque responsabile del male che fa agli altri
è la regola; renderlo responsabile del male che non impedisce è,
in termini relativi, l'eccezione. Tuttavia vi sono molti casi sufficientemente
chiari e gravi da giustificarlo. In tutto ciò che riguarda i rapporti
esterni dell'individuo, quest'ultimo è de jure responsabile verso coloro
i cui interessi sono coinvolti, e, se necessario, verso la società in
quanto loro protettore. Vi sono spesso buone ragioni per non richiamarlo a questa
responsabilità, ma devono dipendere dalle particolarità specifiche
della situazione: o si tratta di casi in cui, tutto considerato, è probabile
che l'individuo si comporti meglio se lo si lascia agire come ritiene più
opportuno e non si esercita su di lui alcuno dei controlli di cui la società
ha il potere; oppure il tentativo di esercitare un controllo produrrebbe altri
mali, maggiori di quelli che eviterebbe. Quando ragioni come queste impediscono
il richiamo alla responsabilità, dovrebbe essere la coscienza dell'individuo
a farsi giudice e a proteggere gli interessi di chi non gode di protezioni esterne,
esercitando un giudizio tanto più severo in quanto la situazione lo esime
dal rendere conto ai suoi simili. Ma vi è una sfera d'azione in cui la
società, in quanto distinta dall'individuo, ha, tutt'al più, soltanto
un interesse indiretto: essa comprende tutta quella parte della vita e del comportamento
di un uomo che riguarda soltanto lui, o se riguarda anche altri, solo con il
loro libero consenso e partecipazione, volontariamente espressi e non ottenuti
con l'inganno. Quando dico "soltanto" lui, intendo "direttamente
e in primo luogo", poiché tutto ciò che riguarda un individuo
può attraverso di lui riguardare altri; e l'obiezione che può
sorgere in questa circostanza verrà presa in considerazione più
avanti. Questa, quindi, è la regione propria della libertà umana.
Comprende, innanzitutto, la sfera della coscienza interiore, ed esige libertà
di coscienza nel suo senso più ampio, libertà di pensiero e sentimento,
assoluta libertà di opinione in tutti i campi, pratico o speculativo,
scientifico, morale, o teologico. La libertà di esprimere e rendere pubbliche
le proprie opinioni può sembrare dipendere da un altro principio, poiché
rientra in quella parte del comportamento individuale che riguarda gli altri,
ma ha quasi altrettanta importanza della stessa libertà di pensiero,
in gran parte per le stesse ragioni, e quindi ne è in pratica inscindibile.
In secondo luogo, questo principio richiede la libertà di gusti e occupazioni,
di modellare il piano della nostra vita secondo il nostro carattere, di agire
come vogliamo, con tutte le possibili conseguenze, senza essere ostacolati dai
nostri simili, purché le nostre azioni non li danneggino, anche se considerano
il nostro comportamento stupido, nervoso, o sbagliato. In terzo luogo, da questa
libertà di ciascuno discende, entro gli stessi limiti, quella di associazione
tra individui: la libertà di unirsi per qualunque scopo che non implichi
altrui danno, a condizione che si tratti di adulti, non costretti con la forza
o l'inganno. Nessuna società in cui queste libertà non siano rispettate
nel loro complesso è libera, indipendentemente dalla sua forma di governo;
e nessuna in cui non siano assolute e incondizionate è completamente
libera. La sola libertà che meriti questo nome è quella di perseguire
il nostro bene a nostro modo, purché non cerchiamo di privare gli altri
del loro o li ostacoliamo nella loro ricerca. Ciascuno è l'unico autentico
guardiano della propria salute, sia fisica sia mentale e spirituale. Gli uomini
traggono maggior vantaggio dal permettere a ciascuno di vivere come gli sembra
meglio che dal costringerlo a vivere come sembra meglio agli altri. Benché
questa dottrina sia tutt'altro che nuova, e per alcuni possa aver l'aria di
un truismo, non ve n'è altra che si contrapponga più direttamente
alla tendenza generale dell'opinione e della pratica attuali. La società
ha sempre tentato di costringere (per quanto le era possibile) i suoi membri
a conformarsi alle sue nozioni di eccellenza, e quella personale è sicuramente
stata oggetto di altrettanti sforzi che quella sociale. Le comunità antiche,
con l'approvazione dei filosofi, si ritenevano in diritto di esercitare il controllo
pubblico su ogni aspetto della condotta individuale, giustificandolo col fatto
che lo Stato aveva un profondo interesse nell'intera disciplina mentale e fisica
di ogni suo cittadino – un modo di pensare che poteva essere ammissibile
in piccole repubbliche circondate da nemici potenti, in continuo pericolo di
essere rovesciate da attacchi esterni o moti interni, per i quali anche un breve
intervallo di rilassamento dell'energia e dell'autocontrollo avrebbe potuto
così facilmente risultare fatale che non potevano permettersi di attendere
i salutari effetti permanenti della libertà. Nel mondo moderno, le maggiori
dimensioni delle comunità politiche e, soprattutto, la separazione tra
autorità spirituale e temporale (che ha posto la direzione delle coscienze
degli uomini in mani diverse da quelle che ne controllano le sorti terrene)
hanno impedito che la legge interferisse a tal punto nella vita privata; ma
gli strumenti di repressione morale hanno infierito sul dissenso dall'opinione
dominante con maggiore accanimento, nelle questioni private ancor più
che in quelle sociali; infatti la religione, l'elemento più potente per
la formazione del sentimento morale, è stata quasi sempre assoggettata
o all'ambizione di una gerarchia che cercava di controllare ogni aspetto della
condotta umana, o allo spirito del Puritanesimo. E alcuni di quei moderni riformatori
che si sono più violentemente opposti alle religioni del passato non
sono certo stati da meno di chiese o sette nella loro asserzione del diritto
alla dominazione spirituale: in particolare Comte, il cui sistema sociale, descritto
nel suo Système de Politique Positive, mira a instaurare (anche se con
mezzi morali più che legali) un dispotismo della società sull'individuo
che oltrepassa qualsiasi ideale politico del più ferreo e severo filosofo
antico. A parte i curiosi dogmi di singoli pensatori, vi è in generale
nel mondo anche una crescente inclinazione a estendere indebitamente i poteri
della società sull'individuo, sia con la forza dell'opinione sia con
quella della legislazione; e, poiché la tendenza di tutti i mutamenti
in corso nel mondo è a rafforzare la società e diminuire il potere
dell'individuo, questo abuso non è un male che tende a scomparire spontaneamente,
ma, al contrario, diventa sempre più formidabile. L'inclinazione degli
uomini, siano essi governanti o semplici cittadini, a imporre agli altri, come
norme di condotta, le proprie opinioni e tendenze è così energicamente
appoggiata da alcuni dei migliori e dei peggiori sentimenti inerenti all'umana
natura, che quasi sempre è frenata soltanto dalla mancanza di potere;
e poiché quest'ultimo non è in diminuzione ma in aumento, dobbiamo
attenderci che, se non si riesce a erigere una solida barriera di convinzioni
morali contro di esso, nella situazione attuale del mondo il male si estenda.
Ai fini della nostra argomentazione sarà opportuno, invece di affrontare
immediatamente la tesi generale, limitarci per il momento a un suo aspetto singolo,
riguardo al quale il principio da noi enunciato è ammesso dall'opinione
corrente, se non completamente, almeno fino a un certo punto. Questo aspetto
è la libertà di pensiero, da cui è impossibile separare
la connessa libertà di parola e di scrittura. Anche se esse, in misura
abbastanza considerevole, fanno parte dell'etica politica di tutti i paesi professanti
la tolleranza religiosa e le libere istituzioni, le basi, sia filosofiche sia
pratiche, su cui si fondano non sono forse del tutto familiari all'opinione
comune, né comprese tanto a fondo quanto ci si attenderebbe da molti,
tra cui anche uomini politici. Queste basi, se correttamente comprese, hanno
una validità che non si limita soltanto a questo aspetto della questione,
il cui esame approfondito si rivelerà la migliore introduzione agli altri.
Spero quindi che coloro ai quali nulla di ciò che mi appresto a dire
suonerà nuovo mi scusino se mi permetto di discutere ancora una volta
un argomento che da ormai tre secoli è stato così frequentemente
oggetto di dibattito.
II DELLA LIBERTA' DI PENSIERO E DISCUSSIONE
È da sperare che sia trascorsa l'epoca in cui era necessario difendere
la "libertà di stampa" come una delle garanzie contro un governo
corrotto o tirannico. Possiamo supporre che non sia più necessario dimostrare
che non si può consentire a una legislatura o a un esecutivo, i cui interessi
non si identifichino con quelli dei cittadini, di imporre loro delle opinioni
e di stabilire quali dottrine o argomentazioni essi possano ascoltare. Inoltre,
questo aspetto della questione è stato così spesso e con tale
successo fatto valere da autori precedenti che è inutile insistervi particolarmente
in questa sede. Anche se la legge d'Inghilterra è, per quanto riguarda
la stampa, altrettanto servile oggi di quanto lo era all'epoca dei Tudor, vi
è scarso pericolo che venga effettivamente applicata contro la discussione
politica, salvo che in situazioni temporanee di panico, in cui la paura di insurrezioni
spinge ministri e giudici a violare le regole che devono governare la loro condotta
; e, più in generale, nei paesi a regime costituzionale non vi è
da temere che i governi, siano essi completamente responsabili verso il popolo
o no, tentino spesso di controllare l'espressione delle opinioni, salvo nei
casi in cui così facendo esprimano l'intolleranza generale dei cittadini.
Supponiamo quindi che il governo concordi totalmente con i cittadini, e non
sia mai tentato di esercitare alcun potere coercitivo che non corrisponda a
quella che ritiene la loro opinione. Ma io nego il diritto del popolo a esercitare
questa coercizione, sia da solo sia mediante il proprio governo. Il potere stesso
è illegittimo: il migliore governo non vi ha più diritto del peggiore.
È altrettanto, o forse più, dannoso quando lo si esercita seguendo
l'opinione pubblica che contro di essa. Se tutti gli uomini, meno uno, avessero
la stessa opinione, non avrebbero più diritto di far tacere quell'unico
individuo di quanto ne avrebbe lui di far tacere, avendone il potere, l'umanità.
Se l'opinione fosse un bene privato, privo di valore eccetto che per il suo
proprietario, se essere ostacolati nel suo godimento fosse semplicemente un
danno privato, il numero delle persone che lo subiscono farebbe una certa differenza.
Ma impedire l'espressione di un'opinione è un crimine particolare, perché
significa derubare la razza umana, i posteri altrettanto che i vivi, coloro
che dall'opinione dissentono ancor più di chi la condivide: se l'opinione
è giusta, sono privati dell'opportunità di passare dall'errore
alla verità; se è sbagliata, perdono un beneficio quasi altrettanto
grande, la percezione più chiara e viva della verità, fatta risaltare
dal contrasto con l'errore. È necessario considerare separatamente queste
due ipotesi, a ciascuna delle quali corrisponde un aspetto distinto della nostra
argomentazione. Non possiamo mai essere certi che l'opinione che stiamo cercando
di soffocare sia falsa; e anche se lo fossimo, soffocarla resterebbe un male.
In primo luogo, l'opinione che si cerca di sopprimere d'autorità può
forse essere vera. Naturalmente, coloro che desiderano sopprimerla ne negheranno
la verità: ma non sono infallibili. Non hanno alcuna autorità
di decidere la questione per tutta l'umanità, togliendo a chiunque altro
la possibilità di giudizio. Rifiutarsi di ascoltare un'opinione perché
si è certi che è falsa significa presupporre che la propria certezza
coincida con la certezza assoluta. Ogni soppressione della discussione è
una presunzione di infallibilità: per condannarla basta questo ragionamento,
semplice, ma non per questo inefficace. Sfortunatamente per il buon senso degli
uomini, la loro effettiva fallibilità non ha certo nei loro giudizi pratici
il peso che le viene sempre attribuito nella teoria; poiché, mentre ciascuno
sa benissimo di essere fallibile, pochi ritengono necessario cautelarsi dalla
propria fallibilità o ammettere la supposizione che una qualsiasi opinione
di cui si sentano del tutto certi possa essere un esempio di quell'errore cui
si riconoscono soggetti. I sovrani assoluti, o coloro che sono abituati a una
deferenza illimitata, generalmente hanno questa completa fiducia nelle proprie
opinioni su quasi ogni questione. Le persone in una condizione più felice,
le cui opinioni sono talvolta contestate e per cui non è del tutto insolito
essere corrette quando hanno torto, hanno la stessa fiducia illimitata soltanto
nelle opinioni condivise da tutti coloro che le circondano, o di coloro ai cui
giudizi si rimettono; poiché, in misura proporzionale alla sua mancanza
di fiducia nel proprio giudizio individuale, l'uomo abitualmente si basa, con
fiducia assoluta, sull'infallibilità del "mondo" in generale.
E il mondo significa, per ciascuno, la parte di esso con cui è in contatto:
il suo partito, la sua setta, la sua chiesa, la sua classe sociale; al confronto
l'uomo per cui il significato del mondo si estende a comprendere il suo paese
o la sua epoca può essere quasi definito liberale e di larghe vedute.
E la sua fede in questa autorità collettiva non è affatto scossa
dal sapere che altre epoche, nazioni, sette, chiese, classi e parti politiche
hanno pensato, e tuttora pensano, esattamente il contrario. L'uomo scarica sul
proprio mondo la responsabilità di essere nel giusto, contro il dissenso
dei mondi altrui; e non è mai turbato dal fatto che è stato il
puro accidente a decidere quale di questi numerosi mondi sia oggetto della sua
fiducia, e che le stesse cause che lo hanno reso anglicano a Londra l'avrebbero
fatto diventare buddista o confuciano a Pechino. Tuttavia è di per sé
evidente, senza alcun bisogno di dimostrazione, che le epoche storiche non sono
più infallibili degli individui: ciascuna ha creduto vere molte opinioni
giudicate non solo false ma assurde da epoche successive; ed è certo
che molte opinioni, attualmente comuni, saranno respinte dal futuro, come molte
opinioni comuni in passato sono respinte dal presente. L'obiezione più
plausibile a questo ragionamento verrebbe probabilmente formulata nel modo seguente.
Il divieto di propagare l'errore non implica una presunzione di infallibilità
maggiore di quella implicita in qualsiasi altro atto compiuto dall'autorità
pubblica in base al suo giudizio e alla sua responsabilità. Il giudizio
è dato agli uomini perché lo usino. Dato che lo possono esercitare
erroneamente, bisogna dirgli che non dovrebbero usarlo affatto? Vietare ciò
che ritengono dannoso non significa pretendere di essere immuni dall'errore,
ma adempiere al dovere, che tocca loro anche se sono fallibili, di agire in
base alle proprie convinzioni e coscienze. Se non agissimo mai sulla base delle
nostre opinioni perché possono essere erronee, trascureremmo tutti i
nostri interessi e verremmo meno a tutti i nostri doveri. Una obiezione che
riguardi il complesso del comportamento umano non può essere valida per
alcun comportamento particolare. È dovere dei governi, e degli individui,
formarsi opinioni che rispondano il più possibile al vero; formarsele
con cura, e non imporle mai ad altri se non si è certi di aver ragione.
Ma, una volta che ne siano certi (così proseguirebbero i sostenitori
di questa posizione), sarebbero mossi non dalla coscienza ma dalla viltà
se evitassero di agire in base alle proprie opinioni e permettessero a dottrine
che in buona fede ritengono pericolose per il benessere dell'umanità,
in questa vita o in un'altra, di diffondersi senza freno, per la sola ragione
che altri, in tempi meno illuminati, hanno perseguitato opinioni oggi considerate
vere. Stiamo attenti – si potrebbe ammonire – a non compiere lo
stesso errore; ma i governi e le nazioni hanno errato in altri campi, in cui
l'esercizio dell'autorità non viene considerato illegittimo: hanno imposto
tassazioni inique, scatenato guerre ingiuste. Dovremmo allora non imporre tasse
e, per quanto provocati, non dichiarare guerre? Uomini e governi devono agire
come meglio sanno. La certezza assoluta non esiste, ma esiste una sicurezza
sufficiente ai fini della vita umana. Nella guida della nostra condotta possiamo,
e dobbiamo, presumere che la nostra opinione sia vera: proibire a dei malvagi
di sconvolgere la società diffondendo opinioni che riteniamo false e
perniciose non presuppone nulla di più. La mia risposta è che
presuppone molto di più. Vi è la massima differenza tra presumere
che un'opinione è vera perché, pur esistendo ogni opportunità
di discuterla, non è stata confutata, e presumerne la verità al
fine di non permetterne la confutazione. È proprio la completa libertà
di contraddire e confutare la nostra opinione che ci giustifica quando ne presumiamo
la verità ai fini della nostra azione; e solo in questi termini chi disponga
di facoltà umane può trovare una sicurezza razionale di essere
nel giusto. Se consideriamo la storia dell'opinione oppure la normale condotta
delle vicende umane, qual è la causa per cui entrambe non sono peggiori
di quanto siano? Non certo la forza intrinseca della comprensione umana, poiché
per ogni questione che non sia del tutto ovvia vi sono novantanove persone completamente
incapaci di darne un giudizio per una che lo è; e la capacità
della centesima è soltanto relativa, dal momento che la maggior parte
degli uomini illustri di ciascuna generazione passata ha sostenuto molte opinioni
che oggi vengono riconosciute erronee, e compiuto o approvato molti atti che
oggi nessuno giustificherebbe. Perché, allora, tra gli uomini nel complesso
predominano comportamenti e opinioni razionali? Se davvero vi è questo
predominio – e deve esservi, altrimenti gli uomini sarebbero, e sarebbero
sempre stati, in una situazione quasi disperata –, è dovuto a una
qualità della mente umana, la fonte di tutto ciò che vi è
di rispettabile nell'uomo inteso come essere sia intellettuale sia morale, e
cioè la possibilità di correggere i propri errori, di rimediarvi
con la discussione e l'esperienza. Non con la sola esperienza: la discussione
è necessaria per indicarne l'interpretazione. Le opinioni e le pratiche
erronee cedono gradualmente ai fatti e agli argomenti: che però per avere
effetto sulla mente devono essere sottoposti alla sua considerazione. Pochissimi
fatti si spiegano da soli, senza necessità di commenti che ne mostrino
il significato. Dato quindi che la forza e il valore del giudizio umano dipendono
interamente dalla sua proprietà di poter venire corretto quando è
errato, esso è attendibile soltanto quando i mezzi per correggerlo sono
tenuti costantemente a disposizione. Consideriamo una persona il cui giudizio
sia veramente degno di fiducia: come lo è diventato? Perché si
è mantenuto aperto alle critiche riguardanti le sue opinioni e la sua
condotta. Perché si è imposto come prassi costante di ascoltare
tutto ciò che potesse venire detto contro di lui; di metterne a profitto
quanto fosse giusto, e di chiarire, a se stesso e se necessario ad altri, l'erroneità
di quanto fosse erroneo. Perché ha intuito che il solo modo in cui un
uomo può in una certa misura avvicinarsi alla conoscenza complessiva
di un argomento è ascoltando ciò che ne dicono persone di ogni
opinione, e studiando tutte le modalità secondo cui può essere
considerato da ogni punto di vista. Nessuno è mai giunto alla saggezza
in altro modo; né la natura dell'intelletto umano consente altri modi
di diventare saggi. La costante abitudine a correggere e completare la propria
opinione confrontandola con le altrui non solo non causa dubbi ed esitazioni
nel tradurla in pratica, ma anzi è l'unico fondamento stabile di una
corretta fiducia in essa; poiché, conoscendo tutto ciò che può,
almeno nella misura del prevedibile, venire detto contro di noi, e avendo preso
una posizione rispetto a tutti i nostri oppositori – sapendo di aver cercato
le obiezioni e le difficoltà invece di evitarle, e di aver preso in esame
ogni punto di vista – abbiamo il diritto di considerare il nostro giudizio
migliore di quello di qualsiasi persona, o gruppo di persone, che non abbia
seguito una procedura analoga. Non è eccessivo richiedere che quell'eterogenea
massa di pochi saggi e molti stupidi chiamata pubblico si sottoponga ai criteri
che i più saggi tra gli uomini, coloro che più hanno diritto a
confidare nel proprio giudizio, ritengono necessari per giustificare tale fiducia.
La chiesa cattolica romana, la più intollerante di tutte, ammette persino
alla canonizzazione di un santo l'"avvocato del diavolo", e lo ascolta
pazientemente: a quanto pare, nemmeno il più puro tra gli uomini può
essere ammesso agli onori postumi prima che tutte le pecche che il diavolo gli
può rinfacciare non siano note e pesate. Se si vietasse di dubitare della
filosofia di Newton, gli uomini non potrebbero sentirsi così certi della
sua verità come lo sono. Le nostre convinzioni più giustificate
non riposano su altra salvaguardia che un invito permanente a tutto il mondo
a dimostrarle infondate. Se la sfida non viene raccolta, o viene tentata e perduta,
siamo ancora molto lontani dalla certezza, ma abbiamo fatto quanto di meglio
ci consente la presente condizione della ragione umana: non abbiamo trascurato
nulla pur di offrire alla verità una possibilità di raggiungerci;
se l'invito resta aperto, possiamo sperare che, se esiste una verità
migliore, essa venga scoperta quando la mente umana sarà in grado di
recepirla; e nel frattempo possiamo avere la sicurezza di esserci avvicinati
alla verità nella misura a noi possibile. Questo è il grado di
certezza raggiungibile da un essere soggetto all'errore, e questo il solo modo
di raggiungerlo. È strano che gli uomini ammettano la validità
degli argomenti a favore della libera discussione, ma obiettino se "vengono
spinti alle estreme conseguenze", senza rendersi conto che se date ragioni
non valgono in un caso estremo non valgono in alcun caso. Strano che immaginino
di non presumersi infallibili quando ammettono che vi deve essere libertà
di discussione su tutte le questioni che possano essere dubbie, ma pensano che
vada vietata la discussione di un particolare principio o dottrina perché
è così certo, cioè perché sono certi che è
certo. Definire certa qualsiasi proposizione quando vi è chi ne negherebbe
la certezza se ciò non gli fosse vietato significa presumere che noi,
e chi è d'accordo con noi, siamo i giudici della certezza – e giudici
che ignorano gli oppositori. Nell'epoca attuale – che è stata descritta
come "priva di fede, ma terrorizzata dallo scetticismo" –, in
cui gli uomini si sentono sicuri non tanto della verità delle loro opinioni
quanto del fatto che non saprebbero che fare senza di esse, le pretese di un'opinione
a essere protetta da attacchi pubblici si fondano non tanto sulla sua verità
quanto sulla sua importanza per la società. Si sostiene che certe convinzioni
sono così utili, per non dire indispensabili, al bene comune che i governi
hanno il dovere di proteggerle quanto qualsiasi altro interesse della società.
Si afferma che in un caso di tale necessità, che fa parte così
integrante del loro dovere, qualcosa di meno dell'infallibilità può
giustificare, e persino obbligare, i governi ad agire in base alla propria opinione,
confermata da quella dell'umanità in generale. Viene inoltre spesso sostenuto,
e ancora più spesso pensato, che solo i malvagi desidererebbero minare
queste salutari convinzioni; e non è sbagliato, si pensa, coartare dei
malvagi e vietare ciò che solo loro vorrebbero compiere. Questo modo
di pensare rende la giustificazione delle restrizioni imposte alla discussione
non una questione di verità delle varie dottrine ma della loro utilità,
e così si illude di sfuggire alla responsabilità di dichiararsi
giudice infallibile delle opinioni. Ma chi si acquieta la coscienza in questo
modo non comprende che così facendo la presupposizione di infallibilità
viene semplicemente spostata. L'utilità di una opinione è essa
stessa una questione di opinione – altrettanto controversa, aperta al
dibattito, e da discutere, che l'opinione stessa. Vi è la stessa necessità
di un infallibile giudice delle opinioni per decidere la nocività di
un'opinione che per deciderne la falsità, a meno che l'opinione condannata
riceva ogni opportunità di difendersi. E non vale obiettare che si può
consentire all'eretico dl affermare che la sua opinione è utile o innocua,
pur vietandogli di dire che è vera. La verità di un'opinione è
parte della sua utilità. Se volessimo sapere se è desiderabile
o meno che una data proposizione sia creduta, potremmo rifiutarci di vagliarne
la verità? Nell'opinione, non dei malvagi, ma dei migliori, nessuna convinzione
contraria alla verità può essere realmente utile; e si può
loro impedire di addurre questo argomento quando sono accusati di negare una
dottrina di cui viene asserita l'utilità, ma che ritengono falsa? Coloro
che stanno dalla parte delle opinioni comunemente accettate non mancano mai
di trarre ogni possibile vantaggio da questo argomento; non sono certo loro
a trattare la questione dell'efficacia come se fosse completamente isolabile
da quella della verità; al contrario, è soprattutto perché
la loro dottrina è "la verità" che conoscerla o credervi
è ritenuto così indispensabile. Non si può discutere la
questione dell'utilità ad armi pari quando un argomento tanto essenziale
può essere impiegato da una parte, ma non dall'altra. E infatti, quando
la legge o il sentimento pubblico non permettono di porre in dubbio la verità
di un'opinione, tollerano altrettanto poco la negazione della sua utilità:
al massimo consentono ad attenuarne la necessità assoluta, o la gravità
della colpa di rifiutarla. Per illustrare più chiaramente quanto sia
negativo rifiutarci di prestare attenzione a opinioni che il nostro giudizio
ha condannato, sarà opportuno ancorare la discussione a un caso concreto:
e preferisco scegliere i casi a me più sfavorevoli – quelli in
cui l'argomentazione contro la libertà di opinione è considerata
più valida, sia in termini di verità sia di utilità. Siano
le opinioni contestate la fede in un Dio e in una vita futura, oppure qualsiasi
dottrina morale comunemente accettata. Combattere su questo terreno dà
un grande vantaggio a un antagonista sleale, che sicuramente domanderà
(e molti, senza alcuna intenzione di slealtà, lo domanderanno tacitamente):
"Sono queste le dottrine che non ritieni sufficientemente certe da essere
poste sotto la tutela della legge? Credere in un Dio è una delle opinioni
la cui certezza presuppone, a tuo avviso, l'infallibilità? " Ma
mi si deve permettere di osservare che sentirsi sicuri di una dottrina (qualunque
essa sia) non è ciò che io chiamo una presunzione di infallibilità:
lo è incaricarsi di decidere la questione per conto di altri, senza permettere
loro di ascoltare le possibili opinioni contrarie. E denuncio e biasimo questa
pretesa, tanto più se è avanzata a favore delle mie convinzioni
più solenni. Per quanto si possa essere positivamente convinti non solo
della falsità ma delle perniciose conseguenze – non solo delle
perniciose conseguenze, ma (per adottare espressioni che condanno in toto) dell'immoralità
e dell'empietà – di un'opinione, tuttavia se in base a questo giudizio
individuale, anche se appoggiato dal giudizio di concittadini e contemporanei,
si impedisce che essa venga difesa, si presuppone la propria infallibilità.
E questo assunto non è meno criticabile o pericoloso perché l'opinione
è definita immorale o empia, anzi questo è il caso in cui esso
è più fatale. Sono esattamente queste le occasioni in cui una
generazione commette quegli spaventosi errori che lasciano attoniti e inorriditi
i posteri: qui troviamo i casi storici memorabili di impiego del braccio armato
della legge per sterminare gli uomini migliori e le più nobili dottrine;
con disgraziato successo, per quanto riguarda gli uomini, anche se alcune dottrine
sono sopravvissute per essere invocate (come per beffa) a difesa di analoga
condotta nei confronti di chi dissente da esse, o dalla loro interpretazione
comunemente accettata. All'umanità non sarà mai troppo spesso
ricordato un uomo di nome Socrate, e il suo memorabile scontro con le autorità
legali e l'opinione pubblica del suo tempo. Nato in epoca e in un paese ricchi
di grandezza individuale, quest'uomo ci è stato tramandato come il più
virtuoso del suo tempo da chi meglio conosceva entrambi; mentre noi lo conosciamo
come capo e prototipo di tutti i successivi maestri di virtù, fonte ugualmente
dell'alta ispirazione di Platone e del giudizioso utilitarismo di Aristotele,
"i maestri di color che sanno", le due sorgenti della filosofia etica
e di tutte le altre. Questo maestro riconosciuto da tutti i grandi pensatori
vissuti dopo di lui – la cui fama, ancora crescente dopo più di
duemila anni, quasi supera quella complessiva di tutti gli altri nomi che rendono
illustre la sua città natale – fu messo a morte dai suoi concittadini,
dopo che un tribunale lo aveva condannato per empietà e immoralità.
Empietà, poiché negava gli dei riconosciuti dallo Stato; anzi,
il suo accusatore affermò (vedi l'Apologia) che non credeva in alcun
dio. Immoralità, poiché era, con le sue dottrine e i suoi insegnamenti,
un "corruttore della gioventù". Vi è ogni ragione di
credere che il tribunale lo trovò colpevole di queste imputazioni in
tutta onestà, e condannò un uomo che probabilmente, dei nati fino
ad allora, più meritava la gratitudine dell'umanità, a essere
messo a morte come un criminale. Passiamo da questo al solo altro caso di iniquità
giudiziaria la cui menzione dopo la condanna di Socrate non sarebbe una caduta
nella banalità: l'evento del Calvario più di mille e ottocento
anni fa. L'uomo che lasciò nella memoria di chi fu testimone della sua
vita e delle sue parole una tale impressione di grandezza morale che i diciotto
secoli successivi l'hanno venerato come la personificazione dell'Onnipotente,
perché fu mandato ignominiosamente a morte? Perché blasfemo. Gli
uomini non si limitarono a non riconoscere il loro benefattore, lo scambiarono
per l'esatto contrario di ciò che era e lo trattarono come quel prodigio
di empietà che ora sono loro stessi ritenuti, per ciò che gli
fecero. I sentimenti con cui gli uomini di oggi considerano questi due deplorevoli
eventi, specialmente il secondo, li rendono estremamente ingiusti nel giudizio
sui loro infelici autori. Stando a ogni apparenza, non erano dei malvagi –
non peggiori degli uomini normali, semmai il contrario: uomini che condividevano
pienamente, forse anzi in misura eccessiva i sentimenti religiosi, morali e
patriottici del loro tempo e popolo: esattamente quel tipo di uomini che in
ogni epoca, compresa la nostra, hanno ogni probabilità di attraversare
la vita circondati da stima e rispetto. Il gran sacerdote che si strappò
le vesti quando furono pronunciate le parole che, secondo tutte le idee del
suo paese, costituivano la colpa più nera, era in tutta probabilità
altrettanto sincero nel suo orrore e nella sua indignazione quanto lo è
oggi, nei sentimenti morali e religiosi professati, la generalità degli
uomini rispettabili e pii; e la gran maggioranza di coloro che oggi sono inorriditi
dalla sua condotta avrebbero agito precisamente come lui se fossero stati degli
ebrei suoi contemporanei. I cristiani ortodossi che sono tentati di considerare
peggiori di sé coloro che lapidarono i primi martiri farebbero meglio
a ricordarsi che tra i persecutori c'era san Paolo. Consideriamo un ultimo esempio,
il più impressionante di tutti se si misura la grandezza di un errore
con la saggezza e la virtù di chi vi cade. Se mai un detentore del potere
ha avuto buoni motivi per ritenersi il migliore e il più illuminato tra
i suoi contemporanei, questo fu l'imperatore Marco Aurelio. Monarca assoluto
di tutto il mondo civile, mantenne per tutta la vita non solo la giustizia più
irreprensibile ma, cosa che ci si sarebbe meno aspettata dalla sua educazione
stoica, l'animo più sensibile. Le poche manchevolezze attribuitegli furono
tutte dovute a eccessiva indulgenza, mentre i suoi scritti, il più elevato
prodotto etico del pensiero antico, poco o nulla differiscono dai più
caratteristici insegnamenti di Cristo. Quest'uomo, in ogni senso, salvo che
in quello dogmatico, miglior cristiano di quasi tutti i sovrani nominalmente
cristiani venuti dopo di lui, perseguitò il Cristianesimo. Vissuto in
quello che allora era l'apice del progresso umano, dotato di un intelletto aperto
e privo di pregiudizi, di un carattere che lo portò spontaneamente a
incarnare nelle sue opere morali l'ideale cristiano, Marco Aurelio tuttavia
non vide che il Cristianesimo avrebbe costituito un bene e non un male per il
mondo, nei cui confronti aveva una così profonda coscienza dei propri
doveri. Sapeva che la società del suo tempo si trovava in condizioni
deplorevoli: ma vedeva, o gli pareva di vedere, che ciò che la teneva
insieme e le impediva di peggiorare erano la fede nelle divinità comunemente
accettate e il loro culto. In quanto signore dell'umanità, riteneva suo
dovere non permettere che la società si disgregasse; e non vedeva come,
se fossero scomparsi i legami esistenti, se ne potessero formare altri che la
ricomponessero. La nuova religione mirava apertamente a distruggere questi legami:
di conseguenza, gli sembrava suo dovere o schiacciarla oppure adottarla. Quindi,
dato che la teologia del Cristianesimo non gli sembrava vera o di origine divina,
che questa strana storia di un Dio crocifisso gli appariva inverosimile, e dato
che non poteva prevedere che un sistema che asseriva di basarsi interamente
su un fondamento per lui così completamente incredibile fosse quel fattore
di rinnovamento che, cessate le tempeste, si è in effetti dimostrato,
il più sensibile e generoso dei filosofi e dei governanti, ispirandosi
a un solenne senso del dovere, autorizzò la persecuzione dei cristiani.
A mio parere questo è uno degli eventi più tragici di tutta la
storia. È amaro pensare quanto avrebbe potuto essere diversa la Cristianità
se la fede cristiana fosse stata adottata come religione dell'Impero sotto Marco
Aurelio invece che sotto Costantino. Ma sarebbe ugualmente ingiusto verso di
lui e verso la verità negare che Marco Aurelio, nel combattere, come
fece, la diffusione del Cristianesimo, poteva addurre tutte le ragioni che vengono
addotte per combattere gli insegnamenti anticristiani. Nessun cristiano crede
che l'ateismo sia falso e tenda alla disgregazione della società più
fermamente di quanto Marco Aurelio non credesse le stesse cose del Cristianesimo;
lui che, tra tutti i suoi contemporanei, si sarebbe potuto ritenere il più
capace di apprezzarlo. A meno che chiunque approvi la punizione della diffusione
di opinioni non si illuda di essere migliore e più saggio di Marco Aurelio
– il più profondo conoscitore del pensiero del suo tempo, intellettualmente
più elevato rispetto ad esso, più impegnato nella ricerca della
verità, e più sinceramente devoto a essa una volta trovatala –,
è meglio che eviti quella presunzione di essere, insieme alla moltitudine,
infallibile, presunzione che il grande figlio di Antonino pagò con risultati
così tragici. Consci dell'impossibilità di difendere la repressione
violenta delle opinioni antireligiose mediante argomenti che non giustifichino
Marco Aurelio, i nemici della libertà religiosa accettano talvolta, quando
hanno le spalle al muro, questa conseguenza e affermano, con il dott. Johnson,
che i persecutori del Cristianesimo avevano ragione che la persecuzione è
una prova cui la verità deve sottoporsi e che sempre supera, poiché
le sanzioni legali si rivelano, a lungo andare, impotenti di fronte alla verità
anche se talvolta hanno effetti benefici contro errori nocivi. È una
forma abbastanza notevole di argomentazione a favore dell'intolleranza religiosa,
e non la si può ignorare. A una teoria secondo cui la persecuzione della
verità è giustificabile perché non può in alcun
modo nuocerle, non si può imputare di essere intenzionalmente contraria
ad ammettere verità nuove; ma non se ne può lodare la generosità
nei confronti delle persone cui l'umanità ne è debitrice. Svelare
al mondo qualcosa che lo riguarda da vicino e che fino ad allora ha ignorato,
dimostrargli che ha errato in una questione essenziale di interesse temporale
o spirituale, è il maggior servizio che un uomo possa rendere ai suoi
simili e in alcuni casi, come quelli dei primi cristiani e dei riformatori,
è ritenuto dagli estimatori del dott. Johnson il dono più prezioso
che l'umanità potesse ricevere. Che gli autori di questi splendidi benefici
siano stati contraccambiati col martirio e per ricompensa siano stati trattati
come i criminali più abbietti, non è, secondo questa teoria, un
errore deplorevole, una disgrazia che gli uomini dovrebbero lamentare cospargendosi
il capo di cenere, ma uno stato di cose normale e giustificabile. Stando a questa
dottrina, chi propone una nuova verità dovrebbe farlo come chi, sotto
la legislazione dei Locresi, proponeva una nuova legge: con un cappio al collo,
pronto a essere serrato se l'assemblea dei cittadini, sentite le sue ragioni,
non avesse immediatamente accettato la sua proposta. Non si può pensare
che chi difende questo modo di trattare i benefattori attribuisca grande valore
ai benefici; e credo che una simile opinione sia condivisa quasi solamente dal
tipo di persone che pensano che delle nuove verità potevano essere desiderabili
una volta, ma che ora ne abbiamo abbastanza. Ma, in realtà, il detto
che la verità trionfa sempre sulle persecuzioni è una di quelle
gradevoli falsità che gli uomini continuano a ripetersi finché
non diventano luoghi comuni, ma che tutta l'esperienza contraddice. La storia
abbonda di casi in cui la verità è stata costretta al silenzio
dalle persecuzioni: quando non è soppressa definitivamente, può
essere rinviata di secoli. Per menzionare solo le opinioni religiose: la Riforma
esplose almeno venti volte prima di Lutero, e fu soppressa. Arnaldo da Brescia
fu soppresso. Fra Dolcino fu soppresso. Gli Albigesi furono soppressi. I Valdesi
furono soppressi. I Lollardi furono soppressi. Gli Hussiti furono soppressi.
Anche dopo Lutero, nei casi in cui si insisté nelle persecuzioni, esse
ebbero successo. In Spagna, Italia, Fiandre, Impero austriaco, il Protestantesimo
fu sradicato; e molto probabilmente avrebbe fatto la stessa fine in Inghilterra
se la regina Maria fosse vissuta o la regina Elisabetta fosse morta. Le persecuzioni
sono sempre riuscite, salvo quando gli eretici erano troppo forti per poter
essere perseguitati efficacemente. Nessuna persona ragionevole può dubitare
che il Cristianesimo avrebbe potuto essere sradicato dall'Impero romano: si
diffuse e divenne predominante perché le persecuzioni furono occasionali,
di breve durata, e separate da lunghi intervalli di propaganda quasi indisturbata.
È sentimentalismo inutile pensare che la verità semplicemente
in quanto tale abbia un qualche potere intrinseco, negato all'errore, di prevalere
contro le segrete e il rogo. Gli uomini non hanno più zelo per la verità
di quanto non ne abbiano spesso per l'errore, e un'adeguata applicazione di
sanzioni legali o anche soltanto sociali riuscirà in generale ad arrestare
la diffusione di entrambi. Il reale vantaggio della verità è che
quando un'opinione è vera la si può soffocare una, due, molte
volte, ma nel corso del tempo vi saranno in generale persone che la riscopriranno,
finché non riapparirà in circostanze che le permetteranno di sfuggire
alla persecuzione fino a quando si sarà sufficientemente consolidata
da resistere a tutti i successivi sforzi di sopprimerla. Si dirà che
oggi non mandiamo a morte chi introduce opinioni nuove: non siamo come i nostri
padri che trucidavano i profeti; innalziamo loro perfino dei mausolei. È
vero che non giustiziamo più gli eretici; è anche vero che le
sanzioni penali oltre cui il sentimento moderno probabilmente non permetterebbe
di andare, anche nei casi delle opinioni più nocive non sarebbero sufficientemente
gravi da estirparle. Ma non illudiamoci di essere già liberi dalla macchia
della persecuzione, anche solo legale. La legge prevede ancora delle pene per
le opinioni, o almeno per la loro espressione; e non ve n'è, anche oggi,
una così tale mancanza di esempi da rendere impensabile che un giorno
possano ritornare nel pieno del loro vigore. Nell'anno 1857, alla sessione estiva
delle assise della contea di Cornovaglia, un uomo la cui condotta venne dichiarata
irreprensibile sotto tutti gli aspetti ebbe la sfortuna di venire condannato
a ventun mesi di carcere per aver pronunciato, e scritto su un portone, alcune
parole che offendevano il Cristianesimo . Un mese dopo, al tribunale dell'Old
Bailey, in due diverse occasioni , due uomini furono ricusati come giurati,
e uno di essi fu volgarmente insultato dal giudice e da uno degli avvocati,
perché avevano onestamente dichiarato di non avere opinioni teologiche;
e a un terzo, straniero , per la stessa ragione fu negata giustizia contro un
ladro. Questa riparazione gli venne rifiutata in virtù della dottrina
legale secondo cui nessuno che non professi di credere in un Dio (qualunque
dio va bene) e in una vita futura può essere ammesso a testimoniare in
un'aula di giustizia, il che equivale a dichiarare queste persone dei fuorilegge,
esclusi dalla tutela dei tribunali, per cui non solo possono essere derubati
o assaliti impunemente se sono soli o se i presenti condividono le loro opinioni,
ma chiunque può essere derubato o assalito impunemente se la prova del
crimine dipende dalla loro testimonianza. La presunzione su cui si fonda tutto
ciò è che il giuramento di una persona che non crede in una vita
futura non ha valore – presunzione che indica una vasta ignoranza della
storia da parte di chi la sostiene (poiché è storicamente vero
che moltissimi non credenti di tutti i tempi sono state persone di grande integrità
e onore), e che non sarebbe condivisa da nessuno che si renda minimamente conto
di quante siano le persone di alta reputazione, per virtù o azioni, il
cui agnosticismo è ben noto, almeno a chi gli è vicino. Inoltre,
la norma è suicida e mina le sue stesse fondamenta. Con la presunzione
che gli atei devono essere dei mentitori, ammette la testimonianza di tutti
gli atei disposti a mentire, e ricusa soltanto quelli che sfidano l'ignominia
e confessano pubblicamente un'opinione detestata piuttosto che affermare il
falso. Una norma del genere, la cui assurdità rispetto allo scopo che
si propone si condanna da sola, non può essere mantenuta in vigore se
non come segno di odio, residuo di una persecuzione dotata di una specifica
particolarità: per esserne fatti oggetto va chiaramente provato che non
la si merita. La norma, e la teoria da essa implicata, non sono un insulto minore
per i credenti che per i non credenti: se chi non crede in una vita futura è
necessariamente un mentitore, ne segue che i credenti non mentono – supposto
che non mentano – soltanto per paura dell'inferno. Non offenderemo autori
e fautori di questa norma supponendo che la loro concezione della virtù
cristiana si modelli sulle loro coscienze. Questi sono, in effetti, brandelli
e resti di persecuzione e possono essere considerati non tanto indicazioni di
un'intenzione persecutoria, quanto esempi di quella frequentissima follia degli
inglesi, che li porta ad affermare con stupido piacere un principio malvagio
quando non sono più abbastanza malvagi da desiderarne veramente l'attuazione
pratica. Ma purtroppo il pubblico non può essere sicuro che la sospensione
delle peggiori forme di persecuzione legale, che dura da circa una generazione,
continui. In quest'epoca, la tranquilla routine quotidiana è scossa da
tentativi di risuscitare mali del passato altrettanto quanto da sforzi per introdurre
nuovi benefici. Ciò che attualmente viene magnificato come risveglio
della religione è sempre, per le mentalità ristrette e ignoranti,
almeno in pari misura, risveglio del fanatismo; e quando i sentimenti degli
uomini comprendono un robusto, permanente fermento di intolleranza, sempre presente
tra le classi medie del nostro paese, poco basta per spingerli a perseguitare
attivamente coloro che non hanno mai cessato di considerare meritevoli di giusta
persecuzione . Poiché è questo – cioè le opinioni
e i sentimenti che gli uomini nutrono verso chi disconosce le convinzioni che
ritengono importanti – che fa del nostro un paese in cui non vi è
libertà intellettuale. Da ormai molto tempo, l'aspetto più negativo
delle sanzioni legali è che ribadiscono il marchio d'infamia imposto
dalla società. È quest'ultimo a essere realmente efficace, tanto
che l'asserzione di opinioni bollate dalla società è in Inghilterra
molto meno comune di quanto in molti altri paesi non lo sia l'ammissione di
idee per cui si rischiano sanzioni legali. Nei confronti di tutti, salvo coloro
che la condizione economica rende indipendenti dal benvolere altrui, l'opinione
è in questo campo altrettanto efficace che la legge: non vi è
differenza tra imprigionare un uomo e impedirgli di guadagnarsi da vivere. Chi
non ha problemi di sopravvivenza e non desidera favori dal potere, da associazioni
o dal pubblico, professando apertamente qualsiasi opinione ha solo da temere
per la sua reputazione, e non è indispensabile essere eroi per sopportarne
una cattiva: sono persone per le quali non ci si può appellare ad misericordiam.
Ma, anche se oggi non infliggiamo a coloro che dissentono da noi tanto male
quanto solevamo, può darsi che il nostro trattamento dei dissenzienti
ci danneggi altrettanto quanto in passato. Socrate fu mandato a morire, ma la
filosofia socratica s'innalzò come il sole nel cielo e illuminò
l'intero firmamento intellettuale. I primi cristiani furono gettati ai leoni,
ma la chiesa cristiana crebbe come un albero nobile e frondoso, superando le
piante meno giovani e vigorose, e soffocandole nella sua ombra. La nostra intolleranza
limitata alla sfera sociale non uccide nessuno e non sradica opinioni, ma spinge
gli uomini a celarle o a evitare di impegnarsi attivamente a diffonderle. Da
noi, le opinioni eretiche non guadagnano né perdono percettibilmente
terreno in un decennio o in una generazione: non divampano mai dappertutto,
ma continuano a covare nelle ristrette cerchie di pensatori e studiosi da cui
traggono origine senza mai illuminare gli affari umani della loro luce, vera
o ingannevole che sia. Viene così mantenuto uno stato di cose secondo
alcuni molto soddisfacente perché, senza incidenti spiacevoli come multe
o arresti, lascia apparentemente indisturbate tutte le opinioni predominanti,
e nel contempo non vieta assolutamente l'esercizio della ragione ai dissenzienti
malati di pensiero. Un comodo piano per garantire la pace del mondo intellettuale,
e mantenervi più o meno la solita routine. Ma il prezzo di questa sorta
di pacificazione è il completo sacrificio del coraggio morale e intellettuale.
Una situazione in cui una vasta parte delle intelligenze più attive e
vivaci ritiene consigliabile tenere per sé i principi generali e i fondamenti
delle proprie convinzioni e, quando si rivolge al pubblico, cerca quanto più
può di comunicare le conclusioni derivate da premesse cui ha tra sé
rinunciato, non può produrre le personalità coraggiose e aperte,
gli intelletti coerenti e logici che una volta erano l'ornamento del pensiero
umano. Il tipo di uomini che si possono trovare sotto questa superficie sono
o semplici conformisti che si adeguano ai luoghi comuni, oppure opportunisti
della verità, le cui argomentazioni su ogni questione importante sono
quelle che giudicano più adatte al loro pubblico, non quelle che li hanno
convinti. Coloro che evitano questa alternativa lo fanno restringendo i propri
pensieri e interessi ad argomenti che possono essere discussi senza avventurarsi
nel campo dei principi, cioè a piccole questioni pratiche che si risolverebbero
da sole se soltanto le menti degli uomini riacquistassero vigore e ampiezza
di vedute, e che non saranno mai effettivamente risolte finché si persisterà
a sfuggire a ciò che rinvigorisce e amplia il pensiero – la libera
e audace riflessione sugli argomenti più elevati. Chi pensa che questo
silenzio degli eretici non sia un male dovrebbe innanzitutto considerare che
a causa di esso non vi è mai discussione equanime e approfondita delle
loro opinioni; e che gli eretici che non sarebbero in grado di reggerla sono
sì impossibilitati a moltiplicarsi, ma non scompaiono. Ma non sono gli
intelletti ereticali i più danneggiati dal bando imposto a ogni indagine
che non termini con le conclusioni ortodosse: il danno maggiore è per
coloro che eretici non sono, il cui intero sviluppo mentale è bloccato,
e la ragione intimorita, dalla paura dell'eresia. Chi può calcolare quanto
perde il mondo con la moltitudine di intelletti promettenti ma uniti a caratteri
deboli che non osano sviluppare alcuna linea di pensiero audace, vigorosa, indipendente,
per timore di ritrovarsi con qualcosa che potrebbe venire considerato irreligioso
o immorale? Tra essi si trovano talvolta uomini di profonda coscienza e di sottile
e raffinato intelletto, che passano la vita in ragionamenti sofistici con un'intelligenza
che non possono far tacere ed esauriscono il loro ingegno nel tentativo di riconciliare
gli impulsi della coscienza e della ragione con l'ortodossia, talvolta non riuscendovi
fino alla fine. Nessuno può essere un grande pensatore se non riconosce
che, in quanto uomo di pensiero, suo primo dovere è seguire il proprio
intelletto indipendentemente dalle conclusioni cui esso conduca. La verità
trae maggior vantaggio dagli errori di chi, con l'opportuna ricerca e preparazione,
riflette da solo, che dalle opinioni vere di coloro che le hanno solo perché
non si consentono di pensare. Non che la libertà di pensiero sia necessaria
solamente, o soprattutto, al fine di formare grandi pensatori: anzi, è
altrettanto e ancor più indispensabile per permettere agli uomini normali
di raggiungere il grado di sviluppo intellettuale di cui sono capaci. Vi sono
stati, e vi potranno ancora essere, grandi pensatori isolati in un'atmosfera
generale di schiavitù mentale; ma in essa non è mai esistito,
né esisterà mai, un popolo intellettualmente attivo. Quando un
popolo lo è temporaneamente stato, l'ha dovuto a una momentanea sospensione
dell'orrore per la speculazione eterodossa. Dove per tacita convenzione i principi
non vanno posti in dubbio e il dibattito sui massimi problemi dell'umanità
è considerato chiuso, non possiamo sperare di trovare quel livello generalmente
alto di attività mentale che ha reso così notevoli alcuni periodi
storici. Quando la discussione ha evitato gli argomenti sufficientemente vasti
e importanti da suscitare entusiasmi, l'intelletto di un popolo non è
mai stato stimolato in profondità, né è stato dato l'impulso
che eleva anche le persone intellettualmente mediocri a partecipare in qualche
misura della dignità di esseri pensanti. Un esempio di questo tipo è
stata l'Europa nell'epoca immediatamente successiva alla Riforma; un altro,
anche se limitato al Continente e alla classe colta il movimento speculativo
della seconda metà del diciottesimo secolo; un terzo, di ancor più
breve durata, il fermento intellettuale della Germania al tempo di Goethe e
Fichte. Questi periodi sono stati molto diversi per il tipo di opinioni da essi
sviluppate, ma simili perché durante tutte e tre fu spezzato il giogo
dell'autorità. In ciascuno di essi un vecchio dispotismo mentale era
stato abbattuto, e uno nuovo non ne aveva ancora preso il posto. L'impulso dato
in questi tre periodi ha fatto dell'Europa quella che è oggi: ciascun
singolo progresso del pensiero umano o delle istituzioni può essere chiaramente
ricondotto a uno di essi. Da qualche tempo tutto sembra indicare che i tre impulsi
sono ormai quasi esauriti; e non possiamo attenderci un nuovo inizio se non
riasseriamo la nostra libertà intellettuale. Passiamo ora al secondo
aspetto della nostra argomentazione, e, scartando la supposizione che alcune
opinioni comunemente accettate possano essere false, ammettiamo che siano vere
ed esaminiamo quale sia il valore dei modi secondo cui verranno probabilmente
percepite ed espresse nel caso che non se ne dibatta liberamente e apertamente
la verità. Per quanto chi è fermamente convinto di un'opinione
ammetta a malincuore la possibilità che sia falsa, dovrebbe essere stimolato
dalla considerazione che, per vera che essa sia, se non la si discute a fondo,
spesso e senza timore, finirà per essere creduta un freddo dogma, non
una verità attuale. Vi sono uomini (fortunatamente, non tanti quanto
una volta) che ritengono sufficiente che una persona approvi incondizionatamente
ciò che essi giudicano vero, anche se ignora completamente gli elementi
su cui la loro opinione si fonda e non è in grado di difenderla passabilmente
dall'obiezione più superficiale. Se costoro riescono a far imporre il
loro credo dall'autorità, pensano naturalmente che permettere di porlo
in dubbio non sia fonte di alcun vantaggio, ma anzi di qualche danno. Quando
prevalgono, rendono quasi impossibile respingere l'opinione comunemente accettata
sulla base di accurate considerazioni, anche se la si può ancora rifiutare
sconsideratamente o per ignoranza: infatti raramente si può sopprimere
completamente la discussione, e al suo primo insorgere le convinzioni prive
di solidi fondamenti tendono a crollare di fronte alla minima parvenza di argomento.
Tralasciamo tuttavia questa possibilità e supponiamo che un'opinione
sia vera, ma venga pensata come se fosse un pregiudizio, una credenza indipendente
da argomento e ad essi refrattaria: non è questo il modo in cui un essere
razionale dovrebbe possedere la verità; questo non è conoscere
la verità. In queste condizioni, la verità non è altro
che un'ennesima superstizione, associata a parole che enunciano una verità.
Se l'intelletto e il giudizio degli uomini vanno coltivati – necessità
che almeno i protestanti non negano –, le questioni migliori per esercitarli
sono quelle che riguardano l'individuo tanto da vicino da far ritenere necessario
che se ne formi un'opinione. Se nell'educazione intellettuale vi è un
fattore predominante, è sicuramente l'esame dei fondamenti delle proprie
opinioni. Qualsiasi convinzione si abbia in campi in cui è essenziale
avere una opinione corretta, si deve essere in grado di difenderla almeno contro
le obiezioni più comuni. Qualcuno potrebbe tuttavia affermare: "Insegniamo
agli uomini i fondamenti delle loro opinioni; ciò non significa che le
debbano soltanto ripetere meccanicamente perché non vengono mai contraddette.
Chi studia la geometria non si limita a imparare a memoria i teoremi, ma comprende
e studia anche le dimostrazioni; e sarebbe assurdo affermare che egli rimane
nell'ignoranza dei fondamenti delle verità geometriche perché
nessuno le nega o cerca di confutarle". Senza dubbio: e un insegnamento
del genere è sufficiente in un campo come la matematica, in cui non vi
è alcun argomento dalla parte dell'errore La peculiarità dell'evidenza
delle verità matematiche sta nel fatto che tutti gli argomenti sono da
un'unica parte: non esistono obiezioni, né risposte ad esse. Ma in ogni
campo in cui è possibile una differenza di opinioni, la verità
dipende dall'individuazione dell'equilibrio tra due gruppi di ragioni contrastanti.
Anche nella filosofia naturale è sempre possibile fornire un'altra spiegazione
degli stessi fatti: una teoria geocentrica invece di quella eliocentrica, il
flogisto invece dell'ossigeno, e bisogna dimostrare perché l'altra teoria
non può essere quella vera; e fino a quando non sia data la dimostrazione
e non sappiamo come svolgerla, non comprendiamo i fondamenti della nostra opinione.
Ma se ci volgiamo a campi infinitamente più complessi, la morale, la
religione, la politica, i rapporti sociali, e gli affari della vita, tre quarti
degli argomenti a favore di qualsiasi opinione controversa consistono nel demolire
le apparenze che ne favoriscono un'altra. Il secondo oratore dell'antichità
affermava di studiare sempre gli argomenti dell'avversario con uguale, se non
maggiore, attenzione dei propri. Il metodo che procurò a Cicerone il
successo forense va imitato da chiunque studi qualsiasi campo per giungere alla
verità. Chi conosce solo gli argomenti a proprio favore conosce poco:
può avere delle buone ragioni, che magari nessuno è mai stato
capace di confutare; ma se è altrettanto incapace di confutare le ragioni
avversarie, se neppure le conosce, non ha basi per scegliere tra le due opinioni.
In questo caso il suo atteggiamento razionale dovrebbe essere la sospensione
del giudizio; se ciò non lo soddisfa si farà guidare dall'autorità,
oppure adotterà, come fa in generale il mondo, la posizione per cui propende.
Né gli è sufficiente ascoltare le tesi degli avversari dalla bocca
dei suoi maestri, espresse con le parole di questi ultimi e accompagnate dalle
loro confutazioni. Non è questo il modo di rendere giustizia agli argomenti
opposti o di venire realmente a contatto con essi. Deve poterli udire da persone
che ne sono realmente convinte, che li difendono accanitamente e al massimo
delle loro possibilità. Deve conoscerli nella loro formulazione più
plausibile e persuasiva, e sentire l'intero peso della difficoltà che
l'opinione vera deve affrontare e demolire; altrimenti non si impadronirà
mai realmente di quella parte della verità che viene incontro all'obiezione
e la elimina. Il novantanove per cento dei cosiddetti uomini di cultura sono
in questa condizione, anche quelli in grado di sostenere elegantemente le proprie
opinioni. La loro conclusione può essere vera ma, per quel che ne sanno,
potrebbe anche essere falsa: non si sono mai messi al posto di chi pensa diversamente
da loro, considerandone le possibili argomentazioni; e di conseguenza non conoscono,
in nessuna accezione corretta del termine, la dottrina che essi stessi professano.
Non ne conoscono le parti che spiegano e giustificano il resto – le considerazioni
che mostrano come due fatti apparentemente contraddittori possano essere conciliabili,
o come tra due ragioni apparentemente di uguale forza vada scelta l'una piuttosto
che l'altra. È loro estranea tutta quella parte della verità che
fa pendere la bilancia a suo favore e determina il giudizio di chi è
perfettamente informato; essa è realmente nota soltanto a chi ha dedicato
un'attenzione uguale e imparziale alle opposte ragioni, cercando di vederle
il più chiaramente possibile. Questa disciplina è così
essenziale a una reale comprensione delle questioni morali e umane che se una
verità fondamentale non trova oppositori è indispensabile inventarli
e munirli dei più validi argomenti che il più astuto avvocato
del diavolo riesce a inventare. Supponiamo che, per controbattere la forza di
queste considerazioni, un nemico della libertà di discussione affermi
che non è necessario che tutti gli uomini conoscano e comprendano tutto
ciò che filosofi e teologi possono asserire pro o contro le reciproche
opinioni. Che gli uomini normali non hanno bisogno di essere in grado di individuare
tutte le inesattezze e gli errori di un ingegnoso oppositore; basta che ci sia
sempre qualcuno capace di controbattervi in modo da confutare tutto ciò
che potrebbe trarre in inganno gli incolti. Che dei semplici, cui siano stati
insegnati i fondamenti più evidenti delle verità che gli sono
state inculcate, possono per il resto affidarsi all'autorità e, consci
di non possedere né le conoscenze né l'ingegno necessari a risolvere
ogni possibile difficoltà, star certi che tutte quelle già affiorate
sono state, o possono essere, risolte da chi è specialmente addestrato
a questo compito. Pur accordando a questo ragionamento tutto il valore che può
avere per coloro cui non importa che si creda in una verità senza comprenderla
perfettamente, l'argomento a favore della libera discussione non ne esce in
alcun modo indebolito. Infatti persino questa dottrina ammette che gli uomini
dovrebbero avere la sicurezza razionale che a tutte le obiezioni si è
risposto in modo soddisfacente; e come si risponde se la risposta adatta non
viene formulata? Oppure, come si può sapere che è soddisfacente
se gli obiettori non hanno l'opportunità di dimostrare che non lo è?
Se non il pubblico, almeno i filosofi e i teologi deputati a risolvere le difficoltà
devono familiarizzarsi con esse, nelle loro forme più complesse; il che
non è possibile se non vengono enunciate liberamente e nella luce ad
esse più vantaggiosa. La chiesa cattolica ha un suo modo di risolvere
questo imbarazzante problema: compie una netta distinzione tra coloro cui è
permesso di adottare le sue dottrine per convinzione e chi deve accettarle sulla
fiducia. In effetti, a nessuno dei due gruppi è consentito scegliere
che cosa accettare: ma il clero, o almeno quella parte di esso che è
completamente fidata, può legittimamente e meritoriamente studiare gli
argomenti degli oppositori per poterli controbattere, e quindi può leggere
libri eretici; invece i laici non lo possono salvo che in seguito a una speciale
dispensa, difficile da ottenere. Questa disciplina riconosce che la conoscenza
degli argomenti nemici è utile ai suoi maestri, ma trova modo, coerentemente,
di negarla al resto del mondo, permettendo così all'élite una
cultura, anche se non una libertà intellettuale, superiore a quella che
permette alle masse. Con questo mezzo la chiesa riesce a conseguire il genere
di superiorità intellettuale richiesto dai suoi scopi; poiché,
anche se la cultura senza libertà non ha mai formato una mente liberale
e di ampie vedute, può formare un astuto avvocato del nisi prius. Ma
nei paesi che professano il protestantesimo questa soluzione è impossibile,
poiché i protestanti affermano, almeno in teoria, che ciascuno deve avere
la responsabilità di scegliersi la religione, e non può scaricarla
sui suoi maestri. Inoltre, al giorno d'oggi è praticamente impossibile
mantenere la popolazione incolta all'oscuro di opere che le persone colte leggono.
Perché i maestri dell'umanità possano conoscere tutto ciò
che dovrebbero, vi deve essere libertà incondizionata di scrittura e
pubblicazione. Tuttavia, se la nociva soppressione della libertà di parola,
in una situazione in cui le opinioni comunemente accettate sono vere, si limitasse
a lasciare gli uomini nell'ignoranza dei fondamenti di queste opinioni, la si
potrebbe considerare un male intellettuale ma non morale, che non diminuisce
la validità delle opinioni in quanto elementi che influiscono sul carattere.
Nella realtà però la mancanza di discussione non solo fa dimenticare
i fondamenti di un'opinione, ma il suo stesso significato. Le parole che la
esprimono non suggeriscono più idee, o suggeriscono solo una piccola
parte di quelle che comunicavano originariamente. Al posto di un concetto vigoroso
e di una convinzione viva, restano soltanto poche frasi meccanicamente apprese;
oppure, se resta qualcosa del significato, è solo l'involucro, e la profonda
essenza si è persa. Non si studierà e mediterà mai a sufficienza
il grande capitolo della storia umana che questo fenomeno costituisce. Lo illustra
l'esperienza di quasi tutte le dottrine morali e le religioni. Per i loro fondatori,
e i loro diretti discepoli, sono tutte piene di significato e vitalità.
Il loro significato continua ad essere sentito in tutta la sua forza e anzi
diventa forse ancor più evidente finché dura la lotta per il predominio
tra la nuova dottrina o fede e le altre. Infine, o essa ha il sopravvento e
diventa l'opinione generale, oppure il suo progresso si arresta: mantiene il
terreno che si è conquistata, ma smette di espandersi. Quando uno dei
due esiti è ormai chiaro, le controversie si acquietano, e gradualmente
si spengono. La dottrina ha conquistato la sua posizione, se non di opinione
generalmente ammessa, di setta o settore di opinione consentito; i suoi seguaci
l'hanno in generale ereditata e non adottata; e le conversioni da una dottrina
all'altra, essendo ormai divenute l'eccezione, non hanno più molto posto
tra le preoccupazioni dei maestri. Questi ultimi, invece di essere come una
volta costantemente all'erta per difendersi dal mondo o per portarlo dalla propria
parte, si sono quietati e ammansiti e non ascoltano, se appena possono evitarlo,
gli argomenti contro la loro fede, né molestano i dissenzienti (se ve
ne sono) con argomenti a suo favore. Generalmente è a questo momento
che si può far risalire il declino della forza vitale di una dottrina.
Spesso sentiamo i maestri di ogni fede lamentarsi di quanto sia difficile mantenere
viva nei fedeli la percezione della verità che a parole professano, in
modo che possa penetrare i loro sentimenti e determinare realmente il loro comportamento.
Questa difficoltà non viene mai avvertita quando la fede sta lottando
per sopravvivere; in quel momento anche i più deboli comprendono e sentono
ciò per cui combattono, e la sua differenza dalle altre dottrine; e in
questa fase dell'esistenza di ogni fede si possono trovare molti adepti che
ne hanno compreso i principi fondamentali in ogni aspetto del pensiero, ne hanno
pesato e considerato tutte le conseguenze importanti, e hanno sperimentato in
se stessi l'intero effetto che la loro fede dovrebbe provocare in una mente
che ne sia completamente imbevuta. Ma quando la fede è diventata ereditaria,
ricevuta passivamente e non attivamente – quando il pensiero non è
più costretto come agli inizi a esercitare le sue forze vitali sulle
questioni con cui la sua fede lo confronta – vi è una tendenza
progressiva a dimenticarne tutto salvo le formule, o a tributarle un consenso
fiacco e torpido – come se la sua accettazione sulla fiducia dispensasse
dalla necessità di averne piena coscienza o di sperimentarla nell'esperienza
personale – finché la fede non ha quasi più rapporto con
la vita interiore dell'individuo. Allora compaiono i casi, ormai così
frequenti da costituire quasi la maggioranza, in cui la fede resta per così
dire esterna alla mente, ma la incrosta e la calcifica contro tutte le altre
influenze che si rivolgono agli aspetti più elevati della nostra natura;
e manifesta il suo potere sbarrando l'accesso a tutto ciò che è
nuovo e vivo, ma non facendo nulla per la mente e il cuore, salvo che starvi
da sentinella per tenerli vuoti. Il modo in cui dottrine intrinsecamente destinate
a esercitare il più profondo influsso sulla mente umana vi sopravvivano
come morte credenze, senza mai esprimersi nei sentimenti, nell'immaginazione
o nel pensiero, è esemplificato dall'atteggiamento della maggioranza
dei credenti verso le dottrine del Cristianesimo. Per Cristianesimo intendo
qui ciò che è definito tale da tutte le chiese e sette –
le massime e i precetti contenuti nel Nuovo Testamento, considerati sacri e
accettati come legge da tutti coloro che si dichiarano cristiani. E tuttavia
si esagera di poco o nulla se si afferma che non un cristiano su mille determina
o giudica la propria condotta personale in base a queste leggi: il criterio
cui si riferisce è la consuetudine del suo paese, della sua classe o
della sua confessione religiosa. Ha quindi, da un lato, una collezione di massime
etiche che crede gli siano state affidate da una saggezza infallibile perché
vi ispiri la propria condotta; dall'altro, un insieme di giudizi e pratiche
quotidiane che concordano in una certa misura con alcune massime, un po' meno
con altre, sono il contrario di altre ancora, e complessivamente costituiscono
un compromesso tra la fede cristiana e gli interessi e le suggestioni della
vita di questo mondo. Al primo criterio offre il suo omaggio; al secondo, la
sua reale sottomissione. Tutti i cristiani credono che beati sono i poveri e
gli umili, e coloro che il mondo perseguita; che è più facile
per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel
regno dei cieli; che non devono giudicare, se non vogliono essere giudicati;
che non dovrebbero mai giurare; che dovrebbero amare il loro prossimo come se
stessi; che se qualcuno gli prende il mantello, gli devono dare anche la veste;
che non dovrebbero pensare al domani; che se fossero perfetti dovrebbero vendere
tutto quello che hanno e darlo ai poveri. Non sono insinceri quando affermano
di credere in tutto ciò: ci credono, come si crede in ciò che
si è sempre sentito lodare e mai discutere. Ma se il credere è
inteso come convinzione viva e presente che determina la condotta umana, credono
in queste dottrine solo nella misura in cui abitualmente agiscono in base a
esse. Nella loro integrità, le dottrine servono a essere scagliate contro
gli avversari; inoltre è convenuto che le si può usare (quando
è possibile) a giustificazione di tutto ciò che si ritenga giusto
fare. Ma chiunque ricordasse ai cristiani che le loro massime richiedono un'infinità
di cose cui non hanno mai neppure pensato, otterrebbe solo di finire nel novero
di quei personaggi alquanto impopolari che pretendono di essere migliori degli
altri. Le dottrine non hanno presa sui credenti comuni – non hanno potere
sulle loro menti. I fedeli nutrono un rispetto consuetudinario per la loro formulazione,
ma non un sentimento che dalle parole si estenda alle cose che significano e
costringa la mente a prendere coscienza di queste, e a modificarle in modo che
corrispondano alla formula. Quando è questione di condotta, i cristiani
cercano il signor A e il signor B per farsi dire fino a che punto devono obbedire
a Cristo. Ora, possiamo star certi che al tempo dei primi cristiani la situazione
era ben diversa. Fosse stata come oggi, il Cristianesimo non si sarebbe trasformato
da un'oscura setta dei disprezzati ebrei nella religione dell'Impero romano.
Quando sentivano i loro nemici dire "Guardate come si amano questi cristiani"
(osservazione alquanto improbabile al giorno d'oggi), sicuramente i cristiani
avevano una percezione molto più viva del significato della loro fede
di quanto non abbiano più avuto in seguito. Ed è probabilmente
questo il motivo principale per cui oggi il Cristianesimo fa così fatica
a estendere il proprio dominio, e dopo diciotto secoli è ancora diffuso
quasi esclusivamente tra gli europei e i loro discendenti. Anche nel caso dei
credenti di stretta osservanza, che prendono molto seriamente le loro dottrine
e conferiscono a molte di esse maggiore significato di quanto venga loro generalmente
attribuito, accade comunemente che l'aspetto in loro generalmente più
attivo sia stato elaborato da Calvino, o Knox, o da qualcun altro molto più
vicino al loro carattere. Nelle loro menti i detti di Cristo coesistono passivamente,
senza quasi altri effetti che quelli causati dal semplice ascolto di parole
così miti e soavi. Indubbiamente sono molte le ragioni per cui le dottrine
che caratterizzano una setta mantengono la loro vitalità più di
quelle comuni a tutte le sette riconosciute, e per cui i maestri della religione
fanno maggiori sforzi per tenerne vivo il significato; ma una è certamente
che le dottrine caratteristiche sono le più discusse, quelle che più
spesso vanno difese da esperti oppositori. Sia i maestri che gli allievi si
addormentano al loro posto di guardia non appena il nemico è scomparso.
Altrettanto vale, in termini generali, per tutte le dottrine tradizionali –
sia quelle di saggezza ed etica pratiche che quelle più propriamente
morali o religiose. Tutte le lingue e le letterature abbondano di osservazioni
generali sulla vita, cosa è e come comportarvisi – osservazioni
che tutti conoscono, che tutti ripetono o odono con rassegnazione, che sono
accolte come truismi, e di cui tuttavia quasi tutti apprendono veramente il
significato la prima volta che un'esperienza, generalmente dolorosa, le fa diventare
una loro realtà. Quanto spesso, sotto la frustata di una disgrazia imprevista
o di una delusione, ci ritorna in mente un detto o un proverbio che abbiamo
sentito per tutta la vita, il cui significato, se solo l'avessimo capito come
lo capiamo ora, ci avrebbe risparmiato questo male. Anche di questo esistono
ragioni che non si limitano alla mancata discussione: di molte verità
non si può comprendere pienamente il significato senza esperienza personale.
Ma anche il loro significato sarebbe stato molto meglio compreso e sarebbe rimasto
molto più profondamente impresso se si fosse stati abituati a sentirlo
discutere, in positivo e in negativo, da persone che lo comprendevano. La fatale
tendenza degli uomini a smettere di pensare a una questione quando non è
più dubbia è causa di metà dei loro errori. Un autore contemporaneo
ha giustamente parlato del "profondo sonno dogmatico indotto da un'opinione
definitiva". Ma come! (ci si può chiedere), la mancanza di unanimità
è una condizione indispensabile per il vero sapere? È necessario
che una parte dell'umanità persista nell'errore perché qualcuno
si possa rendere conto della verità? Una convinzione cessa di essere
reale e vitale non appena è generalmente accettata – e una proposizione
non è mai compresa e sentita fino in fondo se non resta in qualche modo
in dubbio? Non appena gli uomini l'abbiano unanimemente accettata, una verità
gli muore dentro? Fino ad ora si è pensato che lo scopo più alto,
e il miglior effetto, di un'intelligenza affinata fosse unire sempre più
l'umanità nel riconoscimento di verità fondamentali; e l'intelligenza
esiste solo finché non ha raggiunto il suo scopo? I frutti della vittoria
si dileguano proprio perché è completa? Non affermo nulla del
genere. Col progresso umano, il numero delle dottrine che non saranno più
oggetto di dispute o dubbi aumenterà costantemente; e si può quasi
misurare il benessere degli uomini col numero e l'importanza delle verità
che sono ormai incontestate. Lo spegnersi, in una questione dopo l'altra, del
dibattito serio è un accidente necessario nel consolidamento dell'opinione
– tanto salutare nel caso di opinioni vere quanto è pericoloso
e nocivo se le opinioni sono errate. Ma anche se questo progressivo restringersi
dei limiti della diversità di opinione è necessario in entrambi
i sensi del termine – è contemporaneamente inevitabile e indispensabile
–, non siamo perciò obbligati a concludere che debba avere solo
conseguenze positive. La perdita di un aiuto così importante all'intelligente
e viva comprensione di una verità, come è quello dato dalla necessità
di chiarirla o difenderla nel contraddittorio, è una conseguenza negativa
non trascurabile all'universale riconoscimento del vero, anche se non ne supera
i benefici. Quando questo aiuto viene a mancare, confesso che vorrei che i maestri
dell'umanità ne cercassero un surrogato – uno strumento che renda
chi studia una data questione altrettanto cosciente delle sue difficoltà
che se gli venissero contestate da un oppositore teso a convertirlo. Ma, invece
di trovarne di nuovi, si perdono gli strumenti del passato. La dialettica socratica,
così magnificamente illustrata nei dialoghi di Platone, era uno strumento
analogo. Si trattava sostanzialmente di una discussione negativa delle grandi
questioni della filosofia e della vita, diretta con consumata abilità
al fine di convincere chiunque si limitasse a far suoi i luoghi comuni dell'opinione
corrente che non comprendeva la questione – che non aveva ancora attribuito
un significato preciso alle dottrine professate –, affinché, resosi
conto della sua ignoranza, si incamminasse verso una convinzione solida, fondata
sulla chiara comprensione del significato delle dottrine e dell'evidenza a loro
favore. Le discussioni scolastiche medioevali avevano uno scopo abbastanza simile:
far sl che l'allievo comprendesse la propria opinione e (per necessaria correlazione)
l'opposta, e fosse in grado di affermare i fondamenti dell'una e confutare quelli
dell'altra. Queste sfide oratorie avevano certo l'irrimediabile difetto che
le premesse cui si rifacevano derivavano dall'autorità e non dalla ragione;
e, come disciplina mentale, erano sotto ogni aspetto inferiori alla potente
dialettica che aveva formato gli intelletti dei socratici viri; ma il pensiero
moderno deve a entrambi molto più di quanto non voglia generalmente ammettere,
e l'educazione moderna non comprende alcun strumento che minimamente svolga
la funzione di questi due. Chi deriva tutta la sua istruzione da insegnanti
e libri, anche se sfugge all'incombente tentazione del nozionismo, non ha alcun
obbligo di considerare entrambi gli aspetti di una questione, che quindi raramente
sono conosciuti, persino dai filosofi; e la parte più debole di ogni
argomentazione a difesa di un'opinione è la replica agli antagonisti.
Attualmente è di moda screditare la logica negativa – quella che
individua debolezze teoriche o errori pratici senza affermare verità
positive. Questa critica negativa sarebbe certo molto insoddisfacente come punto
d'arrivo, ma come mezzo per conseguire conoscenze positive o convinzioni degne
di essere chiamate tali non sarà mai abbastanza apprezzata; e fino a
quando non se ne riprenderà l'insegnamento e l'esercizio sistematico
vi saranno pochi grandi pensatori e un basso livello intellettuale complessivo
in tutti i campi che non siano la speculazione matematica e fisica. In ogni
altro settore, non vi è nessuno le cui opinioni meritino di essere definite
sapere, a meno che altri non gli abbiano imposto, o non abbia seguito spontaneamente,
lo stesso percorso intellettuale che un'attiva controversia con degli oppositori
gli avrebbe richiesto di compiere. È quindi molto peggio che assurdo
rifiutare, quando ci si offre spontaneamente, ciò che quando manca è
così indispensabile, eppure così difficile, creare. Se vi sono
persone che negano un'opinione generalmente accettata o che la negherebbero
se la legge o il pubblico glielo permettessero, ringraziamole, ascoltiamole
a mente aperta e rallegriamoci che qualcuno faccia per nostro conto ciò
che altrimenti dovremmo fare da soli, e con fatica molto maggiore, se abbiamo
un minimo di rispetto per la certezza o la vitalità delle nostre convinzioni.
Resta ancora da menzionare una delle cause principali che rendono così
vantaggiosa la diversità di opinioni, e continueranno a farlo finché
gli uomini saranno giunti a uno stadio di progresso intellettuale da cui ora
sembrano incalcolabilmente lontani. Fino a questo punto abbiamo considerato
soltanto due possibilità: che l'opinione comunemente accettata possa
essere falsa, e qualcun'altra, di conseguenza, vera; oppure che l'opinione comune
sia vera, ma il contrasto con l'errore sia essenziale per una chiara comprensione
e una profonda percezione della sua verità. Ma vi è un terzo caso,
più frequente dei primi due: quando le dottrine contrastanti, invece
di essere una vera e l'altra falsa, contengono entrambe una parte di verità,
e l'opinione dissidente è necessaria per integrare la dottrina più
generalmente accettata con ciò che le manca. In questioni che esulano
dal dominio dei sensi, l'opinione popolare è spesso vera, ma di rado
o mai costituisce l'intera verità. Ne è una parte, grande o piccola
a seconda dei casi, ma esagerata, distorta, e isolata dalle altre verità
che dovrebbero accompagnarla e precisarla. D'altro canto, le opinioni eretiche
sono generalmente alcune di queste verità soppresse e trascurate che
spezzano i vincoli che le imprigionavano e, o cercano di riconciliarsi con la
verità contenuta nell'opinione comune, o affrontano quest'ultima come
un nemico, proclamando in modo altrettanto esclusivo di essere l'intera verità.
Fino a oggi è stato più frequente il secondo caso, poiché
tra gli uomini l'unilateralità è sempre stata la norma, la multilateralità,
l'eccezione; quindi anche nelle rivoluzioni dell'opinione una parte della verità
generalmente tramonta al sorgere di un'altra. Persino il progresso, che dovrebbe
assommarle, nella maggior parte dei casi si limita a sostituire una verità
parziale e incompleta a un'altra; e il miglioramento consiste soprattutto nel
fatto che il nuovo frammento di verità è più richiesto,
più adatto alle necessità dell'epoca di quello che sostituisce.
Dato questo carattere di parzialità dell'opinione predominante anche
quando i suoi fondamenti sono veri, ogni opinione che comprenda in una certa
misura la parte di verità omessa dall'opinione dominante, dovrebbe essere
considerata preziosa, anche se in essa si frammischiano confusamente verità
ed errore. Nessun buon giudice delle cose umane si indignerà perché
coloro che ci costringono a prendere nota di verità che altrimenti ci
sarebbero sfuggite se ne lasciano a loro volta sfuggire alcune che per noi sono
evidenti: penserà anzi che finché la verità generalmente
accettata è unilaterale, è più che in altri casi auspicabile
che anche quella impopolare abbia assertori unilaterali, come lo sono generalmente
i più energici, quelli che più riescono ad attrarre un'attenzione
riluttante su quel frammento che ai loro occhi è tutta la saggezza. Così
nel XVIII secolo quasi tutte le persone colte, e tutti gli incolti che da loro
si facevano guidare, si perdevano nell'ammirazione della cosiddetta civiltà,
delle meraviglie della scienza, della letteratura e della filosofia moderne,
e sopravvalutavano di molto la differenza tra i moderni e gli antichi, illudendosi
che fosse tutta a loro favore; nel mezzo di questo compiacimento generale, fu
estremamente salutare l'esplosione dei paradossi di Rousseau, che frantumarono
la massa compatta di questa opinione unilaterale costringendone gli elementi
a ricombinarsi in una forma migliore, arricchiti da altri fattori. Non che le
opinioni prevalenti fossero nel loro complesso più lontane dalla verità
di quelle di Rousseau; al contrario le erano più vicine: contenevano
più verità positive, e molto meno errore. Ciononostante, nella
dottrina di Rousseau era racchiusa – ed è stata trasportata fino
a noi dalla corrente dell'opinione – una notevole misura proprio di quelle
verità che mancavano all'opinione comune e che sono il sedimento rimasto
dopo l'ondata di piena La superiorità della vita semplice, l'effetto
snervante e demoralizzante dei vincoli e delle ipocrisie di una società
artificiale, sono idee che dopo Rousseau non sono più state completamente
ignorate dalle persone colte e che col tempo produrranno il loro effetto, anche
se attualmente vanno più che mai ribadite, soprattutto nei fatti –
poiché in questo campo le parole hanno quasi esaurito il loro potere.
Anche in politica è quasi un luogo comune che un partito dell'ordine
o della stabilità e un partito del progresso o delle riforme sono entrambi
elementi necessari di una vita politica sana, fino a quando uno dei due non
avrà così ampliato la sua visione delle cose da diventare un partito
ugualmente d'ordine e di progresso, che sappia distinguere ciò che va
conservato da ciò che va abolito. Ambedue questi atteggiamenti mentali
derivano la loro utilità dalle carenze dell'altro; ma è in larga
misura l'opposizione dell'altro a mantenerli entrambi nei limiti della ragione.
Se le opinioni favorevoli alla democrazia e all'aristocrazia, alla proprietà
e all'uguaglianza, alla cooperazione e alla competizione, al lusso e alla frugalità,
alla socialità e all'individualità, alla libertà e alla
disciplina, e a tutte le altre opposizioni intrinseche alla vita quotidiana,
non vengono espresse con uguale libertà e fatte rispettare con uguale
talento e energia, non vi è alcuna probabilità che i due elementi
ricevano un trattamento equo: la bilancia penderà certamente da una parte
o dall'altra. Nei grandi problemi pratici della vita, la verità è
una questione di conciliazione e combinazione di opposti, a tal punto che pochissime
menti sono abbastanza vaste e imparziali da riuscirne a dare una soluzione anche
solo parzialmente corretta, che quindi finisce col dipendere da un caotico processo
conflittuale tra opposte fazioni. In ognuna delle grandi questioni aperte che
ho elencato, se delle due opinioni ve n'è una che ha maggior diritto
non solo a essere tollerata ma a venire incoraggiata e favorita, è quella
che in un dato momento e luogo è in minoranza. Rappresenta allora gli
interessi trascurati, quegli aspetti del benessere umano che rischiano di ottenere
meno attenzione di quanta è loro dovuta. So bene che nel nostro paese
le differenze di opinione sulla maggior parte di questi argomenti sono tollerate:
vengono addotte a dimostrare con esempi accettati e molteplici l'universalità
del fatto che allo stato presente dell'intelletto umano soltanto la varietà
delle opinioni offre uguali opportunità a tutti gli aspetti della verità.
Quando si trovano persone che fanno eccezione all'apparente unanimità
del mondo su un qualsiasi argomento, anche se il mondo ha ragione, è
sempre probabile che i dissenzienti abbiano da dire a proprio favore qualcosa
che merita attenzione, e che, se tacessero, la verità perderebbe qualcosa.
Si potrebbe obiettare "Ma alcuni principi comunemente accettati, specialmente
quelli che riguardano le questioni più elevate e essenziali, sono più
che delle mezze verità. Per esempio, la morale cristiana è nel
suo campo specifico la completa verità, e chiunque predichi una morale
che se ne discosti è completamente in errore". Dato che tra tutti
i casi pratici questo è il più importante, è anche il più
adatto a controllare la validità della nostra asserzione generale. Ma
prima di stabilire che cosa sia o non sia la morale cristiana, sarebbe opportuno
decidere che cosa si intenda per morale cristiana. Se significa la morale del
Nuovo Testamento, mi chiedo come chiunque la conosca dalla lettura del testo
possa supporre che sia stata presentata, o intesa, come una dottrina morale
completa. Il Vangelo si riferisce sempre alla morale preesistente, e limita
i suoi insegnamenti agli aspetti in cui essa andava corretta e sostituita da
un'etica più aperta e elevata, che inoltre è espressa in termini
estremamente generali, spesso impossibili da interpretare letteralmente, partecipi
dell'efficacia della poesia o dell'eloquenza più che della precisione
della legislazione. Non è stato mai possibile derivarne una dottrina
etica organica senza riferirsi al Vecchio Testamento, cioè a un sistema
effettivamente molto elaborato, ma sotto molti aspetti barbaro, e concepito
soltanto per un popolo barbaro. Anche san Paolo, nemico dichiarato di questa
interpretazione giudaica della dottrina tendente a completare lo schema del
Maestro, assume una morale preesistente, cioè quella greca e romana:
e il suo insegnamento ai cristiani è in larga misura un sistema di compromesso
che giunge al punto di legittimare in apparenza la schiavitù. La morale
che viene chiamata cristiana – ma il termine dovrebbe essere "teologica"
– non è opera di Cristo o degli Apostoli, ma ha un'origine molto
posteriore, essendo stata costruita gradualmente dalla chiesa cattolica dei
primi cinque secoli; anche se moderni e protestanti non l'hanno adottata in
toto, l'hanno modificata molto meno di quanto ai si potesse aspettare. In effetti
nella maggior parte dei casi si sono accontentati di eliminare le aggiunte risalenti
al Medioevo, sostituendole con altre, variabili a seconda delle tendenze e caratteristiche
delle varie sette. Sarei l'ultimo a negare che gli uomini abbiano un grande
debito verso questa morale e i suoi primi maestri, ma non esito ad affermare
che sotto molti importanti aspetti è incompleta e unilaterale e che se
idee e sentimenti da essa non sanciti non avessero contribuito alla formazione
della società e del carattere dell'Europa, gli uomini si troverebbero
in una condizione peggiore dell'attuale. La (cosiddetta) morale cristiana ha
tutti i caratteri di una reazione; è in gran parte una protesta contro
il paganesimo. Il suo ideale è negativo piuttosto che positivo; passivo
piuttosto che attivo; è l'innocenza piuttosto che la nobiltà d'animo;
astenersi dal male piuttosto che perseguire energicamente il bene; nei suoi
precetti (è stato giustamente notato), il "non farai" predomina
eccessivamente sul "farai". Nel suo orrore della sensualità,
ha fatto dell'ascetismo un idolo che a forza di compromessi è diventato
idolo della legalità. Indica la speranza del paradiso e la minaccia dell'inferno
come motivazioni esplicite e opportune di una vita virtuosa: cade così
molto al di sotto di quanto di meglio offriva il pensiero antico, e fa quanto
è in suo potere per dare alla morale umana un carattere essenzialmente
egoista, scindendo il senso del dovere di ciascuno dagli interessi dei suoi
simili, che vanno sì consultati ma per motivi sostanzialmente egoistici.
È essenzialmente una dottrina dell'ubbidienza passiva; inculca lo spirito
di sottomissione a tutte le autorità costituite; e mentre sostiene che
non bisogna in effetti ubbidire attivamente quando ordinano ciò che la
religione vieta, afferma che neppure però si deve resistere, e ancor
meno ribellarsi, qualunque torto ci facciano. E mentre nella morale delle migliori
nazioni pagane il dovere verso lo Stato ha un peso persino sproporzionato e
tale da violare la giusta libertà dell'individuo, nell'etica cristiana
pura questo grande campo di doveri riceve scarsissima attenzione o menzione.
È nel Corano, non nel Nuovo Testamento, che leggiamo la massima: "Un
governante che investa di una carica un uomo quando nei suoi domini ve n'è
un altro a essa più idoneo pecca contro Dio e contro lo Stato".
Quel minimo di riconoscimento che il concetto di obbligo verso i cittadini ha
nella morale moderna deriva da fonti greche e romane, non cristiane; e ugualmente,
anche nella morale privata, i concetti di magnanimità, nobiltà
d'animo, dignità personale, persino di senso dell'onore, risalgono alla
parte puramente umana della nostra educazione, non a quella religiosa, e non
si sarebbero mai potuti sviluppare da criteri etici che riconoscono esplicitamente
un unico valore, l'obbedienza. Sarei l'ultimo a sostenere che questi difetti
sono necessariamente inerenti all'etica cristiana, indipendentemente dal modo
in cui è concepita, o che i molti requisiti di una dottrina morale completa
che non possiede siano con essa inconciliabili: e ancor meno lo insinuerei sulla
base dei precetti e delle dottrine propri di Cristo. Credo che i detti di Cristo
siano esattamente ciò che, da quanto sappiamo, egli intendeva fossero;
che non siano inconciliabili con nessuno dei requisiti di una morale completa;
che tutto ciò che nobilita l'etica possa esservi ricondotto senza dover
sforzarne il linguaggio più di quanto abbiano fatto tutti coloro che
hanno cercato di dedurne qualsiasi sistema di norme pratiche. Ma è del
tutto coerente credere anche che contengano, e originariamente intendevano contenere,
solo parte della verità; che molti elementi essenziali della morale più
elevata sono tra le cose di cui non si occupano, né intendevano occuparsi,
i detti del fondatore del Cristianesimo giunti fino a noi; che tali elementi
sono stati completamente esclusi dal sistema etico costruito sulla base di questi
detti dalla chiesa cristiana. Stando così le cose, ritengo un grave errore
persistere a cercare nella dottrina cristiana quella norma completa per la nostra
vita che il suo Autore voleva riaffermare e far valere, ma solo in parte delineare
con le sue parole. Credo inoltre che questa ottusa teoria stia diventando gravemente
dannosa nella pratica, in particolare nella formazione e istruzione morale che
tante persone benintenzionate stanno oggi cercando con grandi sforzi di favorire.
Temo molto che il tentativo di formare intelletto e sentimenti secondo una tipologia
esclusivamente religiosa che respinge quei criteri laici (li chiamiamo così
in mancanza di termini migliori) che fino a oggi hanno coesistito e collaborato
con l'etica cristiana in un mutuo scambio spirituale, darà, anzi dà
già, come risultato, dei caratteri bassi, abietti e servili che, per
quanto sottomessi a ciò che ritengono la Volontà Suprema, sono
incapaci di comprendere o di apprezzare il concetto di Bene Supremo. Credo che
se si vuole la rigenerazione morale dell'umanità, etiche diverse da quelle
di derivazione esclusivamente cristiana debbano coesistere con la morale cristiana;
e che il sistema cristiano non costituisca un'eccezione alla regola secondo
cui in uno stadio imperfetto dello sviluppo intellettuale umano gli interessi
della verità esigono la presenza di opinioni diverse. Non è necessario
che gli uomini, smettendo di ignorare le verità morali non contenute
nella dottrina cristiana, ignorino alcuna di quelle che contiene. Ignoranze
o pregiudizi del genere sono sempre e incondizionatamente un male, che però
non possiamo sperare di evitare sempre e dobbiamo considerare il prezzo di un
bene inestimabile. Si deve protestare contro la pretesa esclusiva di una parte
della verità a essere considerata la verità intera; e, se chi
protesta per reazione diventa a sua volta ingiusto, questa unilateralità,
come l'altra, può essere deplorata ma va tollerata. Se i cristiani vogliono
insegnare ai pagani a essere giusti verso il Cristianesimo, devono essere giusti
verso il paganesimo. Non giova alla verità il tentativo di occultare
il fatto, noto a chiunque abbia una minima conoscenza della storia della letteratura,
che una buona parte degli insegnamenti morali più nobili e validi è
dovuta non solo a uomini che ignoravano la fede cristiana, ma a uomini che la
conoscevano e la rifiutavano. Non pretendo che l'esercizio più incondizionato
della libertà di enunciare tutte le opinioni possibili possa por fine
ai mali del settarismo religioso o filosofico. Ogni verità propugnata
da uomini di mentalità ristretta sarà certamente asserita, inculcata,
e persino applicata come se al mondo non ne esistesse altra, o comunque non
ne esistesse alcuna che possa limitarla o precisarla. Riconosco che la più
libera discussione non cura la tendenza di tutte le opinioni a diventare settarie,
e anzi spesso la acuisce e esacerba; la verità che si sarebbe dovuta
vedere ma non si è vista viene rifiutata tanto più violentemente
perché è asserita da persone considerate oppositori. Ma non è
tanto sul sostenitore appassionato, quanto sul testimone più calmo e
disinteressato che questo contrasto di opinioni opera un effetto salutare. Il
male più temibile non è il violento conflitto tra parti diverse
della verità, ma la silenziosa soppressione di una sua metà; finché
la gente è costretta ad ascoltare le due opinioni opposte c'è
sempre speranza; è quando ne ascolta una sola che gli errori si cristallizzano
in pregiudizi, e la verità stessa cessa di avere effetto perché
l'esagerazione la rende falsa. E poiché poche qualità mentali
sono più rare della facoltà che permette di giudicare intelligentemente
tra due visioni contrapposte di una questione, di cui una sola ha un difensore,
le probabilità di vittoria della verità sono proporzionali alla
misura in cui ciascun suo aspetto, ciascuna opinione che ne esprima una pur
minima parte, non solo trova chi la difende, ma viene attivamente difesa e ascoltata.
Abbiamo quindi riconosciuto la necessità, ai fini del benessere mentale
dell'umanità (da cui dipende ogni altra forma di benessere), della libertà
di opinione e della libertà di espressione, per quattro distinte ragioni
che ora ricapitoleremo brevemente: In primo luogo, ogni opinione costretta al
silenzio può, per quanto possiamo sapere con certezza, essere vera. Negarlo
significa presumere di essere infallibili. In secondo luogo, anche se l'opinione
repressa è un errore, può contenere, e molto spesso contiene,
una parte di verità; e poiché l'opinione generale o prevalente
su qualsiasi questione è raramente, o mai, l'intera verità, è
soltanto mediante lo scontro tra opinioni opposte che il resto della verità
ha una probabilità di emergere. In terzo luogo, anche se l'opinione comunemente
accettata è non solo vera ma costituisce l'intera verità, se non
si permette che sia, e se in effetti non è, vigorosamente e accanitamente
contestata, la maggior parte dei suoi seguaci l'accetterà come se fosse
un pregiudizio, con scarsa comprensione e percezione dei suoi fondamenti razionali.
Non solo, ma, quarto, il significato stesso della dottrina rischierà
di affievolirsi o svanire, e perderà il suo effetto vitale sul carattere
e il comportamento degli uomini: come dogma, diventerà un'asserzione
puramente formale e priva di efficacia benefica, e costituirà un ingombro
e un ostacolo allo sviluppo di qualsiasi convinzione, reale e veramente sentita,
derivante dal ragionamento o dall'esperienza personale. Prima di abbandonare
la questione della libertà di opinione, è bene dedicare qualche
parola a chi afferma che la libera espressione di tutte le opinioni va consentita
a condizione che si discuta educatamente, senza oltrepassare i limiti della
moderazione. Vi sarebbero molte ragioni per sostenere che è impossibile
definire questi presunti limiti: poiché se il criterio di definizione
è l'offesa a coloro le cui opinioni vengono attaccate, ritengo per esperienza
che essi si offendano ogni volta che l'attacco è vigoroso e va a segno,
e che ogni oppositore che li incalzi e renda loro difficile replicare sembri
smodato se ha idee chiare e le difende. Ma questa considerazione, anche se importante
sotto l'aspetto pratico, rientra in un'obiezione più fondamentale. Senza
dubbio il modo in cui si asserisce un'opinione, anche se vera, può essere
molto sgradevole e venire giustamente e severamente riprovato. Ma in questa
sfera le scorrettezze principali sono di tale natura che è quasi impossibile
dimostrarle, a meno che chi le commetta non si tradisca accidentalmente. Le
scorrettezze più gravi sono: argomentare per sofismi, nascondere fatti
o argomenti, esporre la questione in modo inesatto, o travisare l'opinione avversa.
Ma questi atti di slealtà vengono così continuamente commessi
in perfetta buona fede, anche nelle forme più gravi, da persone che non
sono considerate – per molti altri aspetti giustificatamente – ignoranti
o incompetenti, che di rado si può dichiarare fondatamente e in piena
coscienza che la deformazione della verità in questione è moralmente
riprovevole; ancor più è impensabile che la legge interferisca
in controversie riguardanti scorrettezze di questo tipo. Per quanto concerne
ciò che comunemente si intende per discussione smodata – invettive,
sarcasmi, attacchi personali e così via – la denuncia di questi
mezzi riceverebbe più simpatie se si proponesse di vietarne l'impiego
a entrambi i contendenti: ma ciò che si vuole evitare è che vengano
usati contro l'opinione dominante; contro quella minoritaria non solo possono
essere impiegati senza attirare la disapprovazione generale, ma spesso chi li
usa viene lodato per il suo onesto zelo e la sua giusta indignazione. E tuttavia
i danni derivanti dall'uso di tali mezzi sono maggiori quando i bersagli sono
relativamente indifesi; e ogni tipo di vantaggio sleale derivante da questo
stile di argomentazione è quasi esclusivamente un vantaggio per l'opinione
comunemente accettata. In una polemica, la peggiore scorrettezza di questo genere
consiste nel bollare gli oppositori come malvagi e immorali. Coloro che sostengono
qualsiasi opinione impopolare sono particolarmente esposti a simili calunnie,
perché in generale sono pochi e privi d'influenza e a nessuno, salvo
che a loro, interessa particolarmente che venga loro resa giustizia. Ma quest'arma
è, per la sua stessa natura, negata a coloro che attaccano un'opinione
dominante: non possono correre il rischio di usarla e, comunque, se la impiegassero,
si limiterebbe a ritorcersi contro la loro causa. In generale, le opinioni minoritarie
possono sperare di essere ascoltate solo usando un linguaggio studiatamente
moderato e evitando con ogni cura di offendere inutilmente chiunque, pena la
perdita di terreno a ogni minima deviazione da questa linea; mentre, impiegato
dal lato dell'opinione prevalente, il vituperio più scatenato è
un deterrente reale, che distoglie la gente dal professare opinioni non conformiste
e dall'ascoltare chi le professa. Di conseguenza, ai fini della verità
e della giustizia, è molto più importante che venga represso questo
secondo tipo di invettiva; e per esempio, se la scelta si ponesse, sarebbe molto
più necessario scoraggiare gli attacchi calunniosi al paganesimo che
alla religione cristiana. È comunque ovvio che non è compito della
legge o dell'autorità scoraggiare nessuno dei due, mentre l'opinione
dovrebbe, caso per caso, pronunciarsi sulla base delle circostanze specifiche
– condannando chiunque, da qualunque parte stia, il cui modo di argomentare
manifesti insincerità, malignità, fanatismo o sentimenti di intolleranza;
ma non deducendo queste pecche dall'opinione di chi viene giudicato, anche se
è opposta alla nostra; e lodando, come merita, chiunque, da qualunque
parte stia, sia così sereno da vedere, e così onesto da descrivere,
i suoi oppositori e le loro opinioni come sono in realtà, senza esagerazioni
che li discreditino e menzionando tutti gli elementi che sono o possono essere
a loro favore. Questa è la vera morale del dibattito pubblico: e anche
se spesso viene violata, sono lieto di pensare che molti polemisti la rispettano
in larga misura, e molti di più si sforzano coscienziosamente di rispettarla.
III DELL'INDIVIDUALITA' COME ELEMENTO
Abbiamo stabilito le ragioni che rendono imperativo che gli uomini siano liberi
di formarsi le loro opinioni e di esprimerle senza riserve; e stabilito anche
quali sono le sventurate conseguenze per la natura intellettuale dell'uomo,
e attraverso di essa per quella morale, se questa libertà non viene concessa
o affermata nonostante i divieti. Consideriamo ora se le stesse ragioni non
richiedono che gli uomini siano liberi di agire secondo le proprie opinioni
– di applicarle nella loro vita senza essere ostacolati, fisicamente o
moralmente, dai loro simili, purché lo facciano a loro esclusivo rischio
e pericolo. Quest'ultima condizione è ovviamente indispensabile. Nessuno
pretende che le azioni debbano essere libere quanto le opinioni. Al contrario,
anche le opinioni perdono la loro immunità quando le circostanze in cui
vengono espresse sono tali da rendere tale espressione un'istigazione esplicita
a un atto delittuoso. L'opinione che i mercanti di grano sono degli affamatori
dei poveri, o che la proprietà privata è un furto, non dovrebbe
essere molestata se viene semplicemente diffusa per mezzo della stampa, ma può
incorrere in una giusta punizione se viene proferita di fronte a una folla eccitata
riunitasi davanti alla casa di un mercante di grano, o viene esibita tra la
stessa folla sotto forma di cartello. Gli atti di qualunque tipo che senza causa
giustificata danneggino altri possono essere controllati, e nei casi più
importanti devono assolutamente esserlo, dai sentimenti a essi sfavorevoli,
e, quando sia necessario, dall'intervento attivo degli uomini. La libertà
dell'individuo deve avere questo limite: l'individuo non deve creare fastidi
agli altri. Ma se evita di molestare gli altri nelle loro attività, e
si limita a agire secondo le proprie inclinazioni e il proprio giudizio nell'ambito
che lo riguarda, le stesse ragioni che dimostrano che l'opinione deve essere
libera provano anche che gli si deve consentire, senza molestarlo, di mettere
in pratica le proprie opinioni a proprie spese. Gli uomini non sono infallibili;
le loro verità sono per la maggior parte delle mezze verità; l'unanimità,
a meno che non sia il risultato del più completo e libero confronto di
opinioni opposte, non è auspicabile, e la diversità non sarà
un male ma un bene fino a quando gli uomini non saranno molto più capaci
di riconoscere tutti gli aspetti della verità: questi principi sono applicabili
alle azioni altrettanto che alle opinioni. Come è utile che fino a quando
l'umanità non sarà perfetta vi siano differenze d'opinione, così
lo è che vi siano differenti esperimenti di vita; che le diverse personalità
siano lasciate libere di esprimersi, purché gli altri non ne vengano
danneggiati; e che la validità di modi di vivere diversi sia verificata
nella pratica quando lo si voglia. In breve, è auspicabile che l'individualità
sia libera di affermarsi nella sfera che non riguarda direttamente gli altri.
Quando la norma di condotta non è il carattere individuale ma le tradizioni
o le consuetudini degli altri, viene a mancare uno dei principali elementi della
felicità umana, e l'elemento sicuramente principale del progresso individuale
e sociale. La difficoltà maggiore che si incontra nell'affermazione di
questo principio non risiede nella determinazione dei mezzi necessari per raggiungere
un fine riconosciuto, ma nell'indifferenza generale nei confronti del fine stesso.
Se la gente si rendesse conto che il libero sviluppo dell'individualità
è uno degli elementi fondamentali del bene comune; che non solo è
connesso a tutto ciò che viene designato da termini come civiltà,
istruzione, educazione, cultura, ma è di per se stesso parte e condizione
necessaria di tutte queste cose, non vi sarebbe il pericolo che la libertà
venisse sottovalutata, e la definizione dei confini tra essa e il controllo
sociale non presenterebbe enormi difficoltà. Ma il male è che
comunemente il valore intrinseco della spontaneità individuale –
il fatto che è di per se stessa degna di considerazione – è
a malapena riconosciuto. I più, soddisfatti della vita così come
è (perché sono loro a renderla così come è) non
riescono a capire perché non debba andar bene a tutti; e, ciò
che più conta, la spontaneità non fa parte dell'ideale della maggioranza
dei riformatori morali e sociali, ed è anzi guardata con sospetto, come
un ostacolo fastidioso e forse ribelle all'accettazione generale di ciò
che essi giudicano più opportuno per l'umanità. Poche persone
al di fuori della Germania riescono a comprendere il significato della dottrina
a cui Wilhelm von Humboldt, studioso e uomo politico così eminente, dedicò
un trattato – che "il fine dell'uomo, o ciò che è prescritto
dai dettati eterni o immutabili della ragione, non suggerito da desideri vaghi
e passeggeri, è il più elevato e armonioso sviluppo dei suoi poteri
in un'unità completa e coerente"; che quindi, lo scopo "a cui
ciascun essere umano deve costantemente tendere i suoi sforzi, e su cui debbono
sempre concentrarsi coloro che cercano di esercitare un influsso sui propri
simili, è l'individualità del potere e dello sviluppo"; che
ciò richiede due elementi, "la libertà, e la varietà
delle situazioni"; e che dalla loro unione nascono "il vigore individuale
e la molteplice diversità", che si combinano nella "àoriginalit
". Tuttavia, per quanto poco gli uomini siano abituati a dottrine come
quella di von Humboldt, e per quanto possano sorprendersi del valore che attribuisce
all'individualità, la questione può soltanto essere questione
di grado: nessuno pensa che la migliore condotta possibile sia di non fare assolutamente
altro che copiarsi a vicenda. Nessuno affermerebbe che gli uomini non dovrebbero
esprimere in alcuna misura il proprio giudizio o il proprio carattere individuale
nel loro modo di vivere e nella condotta dei loro affari. D'altra parte, sarebbe
assurdo pretendere che gli uomini debbano vivere come se prima che venissero
al mondo tutto fosse stato completamente ignoto; come se l'esperienza non avesse
ancora indicato in una certa misura che un dato modo di vivere o di comportarsi
è preferibile a un altro. Nessuno nega che da giovani gli uomini debbano
essere educati e addestrati a conoscere i risultati accertati dall'esperienza
umana e a trarne vantaggio. Ma è privilegio, e giusta condizione, dell'uomo,
una volta giunto alla pienezza delle sue facoltà, usare e interpretare
l'esperienza a modo suo. Tocca a lui determinare in quale misura l'esperienza
già acquisita sia opportunamente applicabile alle proprie circostanze
e al proprio carattere. Le tradizioni e i costumi di altri uomini mostrano,
in una certa misura, ciò che la loro esperienza ha loro insegnato: sono
prove indiziarie, e in quanto tali vanno rispettate. Ma, innanzitutto, la loro
esperienza può essere troppo limitata, o possono non averla interpretata
correttamente. In secondo luogo, la loro interpretazione può essere corretta
ma non adattarsi alle esigenze di un dato individuo. In terzo luogo, anche se
queste consuetudini sono sia positive in quanto tali sia adatte al caso particolare,
tuttavia il conformarsi semplicemente alla consuetudine in quanto tale non educa
o sviluppa nell'individuo le qualità che sono patrimonio caratteristico
di un essere umano. Facoltà umane quali la percezione, il giudizio, il
discernimento, l'attività mentale, e persino la preferenza morale, si
esercitano soltanto nelle scelte. Chi fa qualcosa perché è l'usanza
non opera una scelta, né impara a discernere o a desiderare ciò
che è meglio. I poteri mentali e morali, come quelli muscolari, si sviluppano
soltanto con l'uso. Facendo qualcosa soltanto perché gli altri la fanno
non si esercitano queste facoltà, non più che credendo a qualcosa
solo perché altri ci credono. Se i fondamenti su cui si basa un'opinione
non convincono completamente la ragione individuale, quest'ultima non può
essere rafforzata e anzi spesso viene indebolita dalla sua adozione. Analogamente
se le motivazioni di un atto non sono consone ai sentimenti e al carattere di
un individuo (in casi che non coinvolgano gli affetti, o i diritti altrui),
compierlo contribuirà a renderli inerti e torpidi invece che attivi e
energici. Chi permette al mondo, o alla parte di esso in cui egli vive, di scegliergli
la vita non ha bisogno di altre facoltà che di quella dell'imitazione
scimmiesca. Che si sceglie la vita esercita tutte le sue facoltà. Deve
usare l'osservazione per vedere, il ragionamento e il giudizio per prevedere,
l'attività per raccogliere gli elementi decisionali, il discernimento
per decidere, e, una volta presa deliberatamente la decisione, la fermezza e
il controllo di sé per attenervisi. E queste qualità gli servono,
e le esercita, esattamente nella misura in cui determina la propria condotta
secondo il proprio giudizio e i propri sentimenti. Può accadere che finisca
su una buona strada, e non gli accada nulla di male, senza che faccia nulla
di tutto ciò. Ma quale sarà il suo valore relativo in quanto essere
umano? Non sono soltanto le azioni degli uomini a essere realmente importanti,
ma anche i generi di uomini che le compiono. Tra le opere umane che la vita
giustamente si sforza di perfezionare e rendere più belle, la prima in
ordine d'importanza è sicuramente l'uomo stesso. Supponendo che fosse
possibile fare costruire le case, coltivare il grano, combattere le battaglie,
dibattere le cause, e persino erigere le chiese e recitare le preghiere, da
macchine – da automi di apparenza umana –, si perderebbe molto sostituendole
agli uomini e alle donne che vivono oggi nelle regioni più civilizzate
del mondo e che pure sono certamente soltanto poveri esempi di ciò che
la natura può produrre e produrrà in futuro. La natura umana non
è una macchina da costruire secondo un modello e da regolare perché
compia esattamente il lavoro assegnatole, ma un albero, che ha bisogno di crescere
e svilupparsi in ogni direzione, secondo le tendenze delle forze interiori che
lo rendono una creatura vivente. Probabilmente tutti ammetteranno che è
auspicabile che gli uomini esercitino il loro intelletto, e che adeguarsi con
intelligenza alle usanze, e persino talvolta discostarsene intelligentemente,
è meglio che aderirvi ciecamente e meccanicamente. In una certa misura
si ammette che il nostro intelletto spetta a noi; ma non vi è la medesima
disposizione a ammettere che anche i nostri desideri e impulsi sono di nostra
competenza, o che avere impulsi propri, forti o deboli che siano, possa costituire
altro che un pericolo e una tentazione. E tuttavia desideri e impulsi sono parte
di un perfetto essere umano altrettanto quanto le sue convinzioni e le restrizioni
cui è sottoposto; e gli impulsi vigorosi sono pericolosi solo in una
situazione di squilibrio, quando un gruppo di intenzioni e tendenze si sviluppa
e si rafforza mentre altre, che dovrebbero essere altrettanto presenti, restano
deboli e inattive. Non è perché i loro desideri sono vigorosi
che gli uomini agiscono male; è perché le loro coscienze sono
deboli. Non vi è una connessione naturale tra vigore di impulsi e debolezza
di coscienza: la connessione naturale è l'inversa. Affermare che i desideri
e i sentimenti di un indviduo sono più forti e variati di quelli di un
altro significa semplicemente che ha una maggiore disponibilità di materie
prime della natura umana, e quindi è capace, forse di maggiore male,
ma certamente di maggior bene. I forti impulsi non sono che un altro nome dell'energia.
L'energia può essere impiegata a fini cattivi; ma da una natura energica
può venire maggior bene che da una indolente e apatica. Gli uomini più
naturalmente dotati di sentimenti sono sempre quelli i cui sentimenti, se coltivati,
possono diventare i più forti. Le stesse profonde sensibilità
che rendono vividi e poderosi gli impulsi personali sono anche la fonte da cui
originano il più appassionato amore per la virtù e il più
severo autocontrollo. È coltivandole che la società contemporaneamente
compie il suo dovere e protegge i suoi interessi, non rifiutando la stoffa di
cui sono fatti gli eroi perché non sa come farli. Di una persona i cui
desideri e impulsi siano i suoi – siano l'espressione della sua personale
natura, sviluppata e modificata dalla sua cultura – si dice che possiede
un carattere; una persona i cui desideri e impulsi non siano suoi non ha più
carattere di quanto ne abbia una macchina a vapore. Se, oltre a essere suoi,
i suoi impulsi sono vigorosi e sono guidati da una forte volontà, egli
ha un carattere energico. Chiunque pensi che l'individualità di desideri
e impulsi non vada incoraggiata a esprimersi deve ritenere che la società
non ha bisogno di spiriti forti – non è migliore se molti dei suoi
membri hanno molto carattere – e che non è auspicabile un alto
livello medio di energia in generale. In alcuni stadi iniziali della società,
queste forze potevano essere, ed erano, troppo superiori al potere di disciplinarle
e controllarle a disposizione della società. Vi è stata un'epoca
in cui l'elemento di spontaneità e individualità era eccessivo,
e il principio sociale dovette lottare duramente contro di esso. A quei tempi
la difficoltà consisteva nell'indurre uomini fisicamente o mentalmente
vigorosi a obbedire a qualsiasi norma che gli richiedesse di controllare i propri
impulsi. Per superare questa difficoltà, la legge e la disciplina, come
nel caso della lotta dei papi contro gli imperatori, affermarono il loro potere
sull'uomo nel suo complesso, pretendendo di controllarne l'intera vita per controllarne
il carattere, che la società non era riuscita a vincolare in alcun altro
modo. Ma oggi la società ha senza dubbio prevalso sull'individualità;
e il periodo che minaccia la natura umana non è l'eccesso, ma la carenza
di impulsi e preferenze individuali. La situazione è molto cambiata da
quando le passioni di chi era più forte, per posizione sociale o per
doti personali, erano in una condizione di rivolta permanente contro la legge
e l'ordine, e rendevano necessario incatenarle rigorosamente per permettere
a chi si trovava nel loro raggio d'azione di godere di un minimo di sicurezza.
Nella nostra epoca, tutti, dalla più elevata alla più infima classe
sociale, vivono come se fossero sotto lo sguardo di un censore ostile e tremendo.
Non soltanto nelle questioni che riguardano gli altri, ma anche in quelle che
riguardano soltanto loro, l'individuo o la famiglia non si chiedono "Che
cosa preferisco?" oppure "Che cosa si addice al mio carattere e alle
mie inclinazioni?", o "Che cosa permetterebbe alle mie qualità
migliori e più elevate di esprimersi e di crescere rigogliosamente?":
si chiedono "Che cosa si addice alla mia posizione?", "Come si
comportano abitualmente le persone della mia condizione economica e sociale?"
o (peggio ancora) "Come si comportano abitualmente le persone di condizioni
economiche e sociali superiori alle mie?". Non voglio dire che scelgono
la consuetudine invece di ciò che si addice alle loro inclinazioni: non
hanno inclinazioni che non siano per la consuetudine. Così la stessa
mente si piega sotto il giogo: persino negli svaghi, gli uomini pensano prima
di tutto a conformarsi; gli piace stare tra la folla; esercitano la scelta solo
tra cose e pratiche comuni; sfuggono l'originalità del gusto e l'eccentricità
di comportamento come fuggono il crimine, finché a forza di non seguire
la propria natura non hanno più natura propria; le loro facoltà
umane deperiscono e si inaridiscono; diventano incapaci di desideri vigorosi
e di piaceri naturali, e generalmente sono privi di opinioni e sentimenti autonomamente
sviluppati, o che possano chiamare propri. È questa dunque la condizione
auspicabile della natura umana? Lo è, stando alla teoria calvinista.
Per essa, la grande colpa è l'autonomia della volontà. Tutto il
bene di cui è capace l'umanità si riassume nell'obbedienza. Non
c'è scelta; si deve agire in un certo modo, e non altrimenti: "Tutto
ciò che non è dovere è peccato". Poiché la
natura umana è radicalmente corrotta, nessuno è redento finché
la sua non viene uccisa. Per chi crede in questa teoria dell'esistenza, schiacciare
ed eliminare tutte le facoltà, capacità e sensibilità umane
non è un male: la sola capacità di cui l'uomo ha bisogno è
quella di arrendersi alla volontà di Dio; e se usa qualunque sua facoltà
per uno scopo che non sia l'attuazione più efficace di questa presunta
volontà, meglio sarebbe che non l'avesse. Questa è la teoria del
Calvinismo; essa è condivisa da molti che non si considerano calvinisti
in una formulazione più moderata, consistente in un'interpretazione meno
ascetica del supposto volere divino, secondo cui gli uomini dovrebbero soddisfare
alcune loro inclinazioni, naturalmente non nel modo che preferiscono ma nell'obbedienza,
cioè in un modo prescritto dall'autorità e quindi, per necessità
del caso, identico per tutti. Attualmente esiste, sotto forme insidiose di questo
genere, una forte tendenza favorevole a questa ristretta visione dell'esistenza,
e al genere di personalità tormentata e piena di pregiudizi da essa favorita.
Senza dubbio molti pensano in tutta sincerità che degli uomini così
bloccati e rimpiccioliti siano ciò che il loro Creatore intendeva che
fossero, esattamente come molti altri ritengono che gli alberi siano molto più
belli potati, o modellati in forma di animali, che così come natura li
ha fatti. Ma se la convinzione che l'uomo sia stato creato da un Essere buono
fa parte integrante della religione, è più coerente con essa pensare
che Egli ha dato agli uomini tutte le loro facoltà perché siano
coltivate e sviluppate, non sradicate e bruciate, e che si compiace ad ogni
passo delle sue creature verso la concezione ideale in esse incarnata, a ogni
aumento di ogni loro capacità di comprensione, di azione o di gioia.
Vi è un ideale di perfezione umana diverso da quello di Calvino: una
concezione secondo cui l'umanità è stata dotata della sua natura
per altri fini che per rinnegarla. L'"affermazione di sé" dei
pagani è una componente del valore dell'uomo, altrettanto quanto la "negazione
di sé dei cristiani ". Vi è un ideale greco di sviluppo di
se stessi, che si fonde con l'ideale platonico e cristiano del controllo di
se stessi ma non ne viene sostituito. Forse è meglio essere un John Knox
che un Alcibiade, ma è sicuramente meglio essere un Pericle che uno dei
due; né un Pericle, se esistesse oggi, sarebbe privo delle qualità
di John Knox. Non è stemperando nell'uniformità tutte le caratteristiche
individuali, ma coltivandole e facendo appello ad esse entro i limiti imposti
dai diritti e dagli interessi altrui, che gli uomini diventano nobili e magnifici
esempi di vita; e poiché le opere partecipano del carattere di chi le
compie, mediante lo stesso processo anche la vita umana si arricchisce, si diversifica
e si anima, fornendo maggiore stimolo ai pensieri e sentimenti più elevati,
e rafforzando il legame che unisce ciascun individuo alla sua stirpe, perché
la rende infinitamente più degna di appartenervi. Proporzionalmente allo
sviluppo della propria individualità ciascuno acquista maggior valore
ai propri occhi, e quindi può aver maggior valore per gli altri. L'esistenza
individuale è più piena, e quando le singole unità sono
più vitali lo è anche la massa che compongono. Non si può
fare a meno di esercitare la repressione, nella misura necessaria a impedire
agli esemplari umani più forti di violare i diritti altrui; ma ciò
viene ampiamente compensato anche dal punto di vista dello sviluppo umano. I
mezzi di svilupparsi che l'individuo perde quando gli viene impedito di soddisfare
le sue inclinazioni a danno di altri sono generalmente ottenuti a spese altrui.
E anche per l'individuo stesso vi è una completa compensazione, sotto
forma di un migliore sviluppo dell'aspetto sociale della sua natura, reso possibile
dai vincoli imposti a quello egoistico. Il fatto di essere vincolati a rigide
norme di giustizia per il bene altrui sviluppa i sentimenti e le capacità
che portano a compierlo. Ma venire repressi in campi che non riguardano il benessere
degli altri, soltanto a causa della loro disapprovazione, non sviluppa nulla
di valido, salvo eventualmente quella forza di carattere che si esplica nella
resistenza alle costrizioni e che, se prende il sopravvento, intorpidisce e
affievolisce l'intera personalità. Perché la natura di ciascuno
abbia ogni opportunità di esplicarsi, è essenziale che sia consentito
a persone diverse di condurre vite diverse. Il valore che ogni periodo storico
ha acquisito tra i posteri è direttamente proporzionale alla libertà
che sotto questo aspetto ha concesso a chi vi è vissuto. Persino il dispotismo
non arriva a produrre i peggiori effetti di cui è capace se ammette l'esistenza
dell'individualità; e tutto ciò che la sopprime è dispotismo,
comunque lo si chiami, e indipendentemente dal fatto che sostenga di voler far
rispettare la volontà divina o i comandi degli uomini. Avendo detto che
l'individualità coincide con il progresso, e che solo la sua coltivazione
produce, o può produrre, esseri umani compiutamente sviluppati, potrei
concludere qui; poiché la maggiore e più esplicita lode che si
possa fare di uno stato di cose è dire che aiuta gli uomini a realizzarsi
al meglio delle loro possibilità; e affermare che glielo impedisce o
li ostacola è la peggiore condanna. Tuttavia non vi è dubbio che
queste considerazioni non basteranno a convincere coloro che più hanno
bisogno di esserlo; e quindi è necessario dimostrare che lo sviluppo
di alcuni ha una certa utilità anche per chi non si sviluppa –
mostrare cioè a coloro che non desiderano la libertà e non se
ne servirebbero che possono essere ricompensati in modo a loro comprensibile
se permettono ad altri di farne uso indisturbati. Innanzitutto direi loro che
avrebbero forse la possibilità di imparare qualcosa dagli altri. Nessuno
negherà che nella vita l'originalità è preziosa. C'è
sempre bisogno di gente che non solo scopra verità nuove e mostri che
quelle che una volta erano delle verità non lo sono più, ma anche
inizi attività nuove e dia esempio di comportamento più illuminato
e di maggiore sensibilità e razionalità di vita. Quest'asserzione
è difficilmente confutabile da chiunque non creda che il mondo abbia
già raggiunto la completa perfezione. È vero che non tutti sono
capaci di esercitare questo ruolo benefico; rispetto al totale degli uomini,
sono pochi coloro i cui esperimenti, se adottati dagli altri, potrebbero rivelarsi
migliori della pratica consolidata: ma sono il sale della terra; senza di loro
la vita ristagnerebbe. Non soltanto sono loro a introdurre le novità
positive, ma anche a conservare quanto di positivo già esiste. Se non
ci fosse più nulla di nuovo da realizzare, l'intelletto umano cesserebbe
forse di essere necessario? Sarebbe un buon motivo per dimenticare le ragioni
per cui si fanno le cose che già si conoscono, e farle come bestie e
non come esseri umani? Anche le convinzioni e le pratiche migliori hanno una
tendenza fin troppo grande a degenerare nel meccanico; e se non si succedessero
persone la cui incessante originalità impedisce che queste convinzioni
o pratiche perdano la loro ragione di essere e diventino mere tradizioni, questo
complesso di cose morte non resisterebbe al minimo scontro con qualsiasi cosa
che sia realmente viva, e non ci sarebbe motivo che la civiltà non perisca,
come è avvenuto nel caso dell'Impero di Bisanzio. È vero che le
persone di genio sono una piccola minoranza e probabilmente lo saranno sempre;
ma perché vi siano è necessario conservare il terreno in cui crescono.
Il genio può respirare liberamente soltanto in un'atmosfera di libertà.
Le persone di genio sono, per definizione, più individualiste di chiunque
altro – quindi meno capaci di adeguarsi senza dolorose deformazioni a
uno dei pochi modelli che la società offre ai suoi membri per risparmiare
loro il fastidio di formarsi il proprio carattere. Se, per timore, esse permettono
che le si costringa entro un modello, e rinunciano a espandere quella parte
di sé che esso comprime, la società non trarrà alcun beneficio
dal loro genio. Se hanno un carattere forte e spezzano i loro legami, diventano
bersaglio della società che non è riuscita a ridurle alla banalità,
e vengono solennemente bollate come "agitati", "stravaganti",
eccetera – atteggiamento analogo a quello di chi protesti perché
il Niagara non scorre placido tra le sue sponde come i canali olandesi. Insisto
quindi vigorosamente sull'importanza del genio e la necessità di permettergli
di esplicarsi liberamente, sia nel pensiero sia nella pratica, rendendomi ben
conto che nessuno mi contraddirà in teoria, ma sapendo che la questione
non importa quasi a nessuno. La gente pensa che il genio sia una gran bella
cosa se permette di scrivere magnifiche poesie o di dipingere quadri. Ma, del
genio nel suo vero senso di originalità di pensiero e di azione, anche
se nessuno dice che non va ammirato, quasi tutti tra sé pensano di poter
fare benissimo a meno. Purtroppo è un atteggiamento così naturale
che non stupisce neppure. L'originalità è l'unica cosa di cui
coloro che originali non sono non possono comprendere l'utilità. Non
vedono a che cosa gli serva: e come potrebbero? Se lo potessero, non si tratterebbe
più di originalità. Il primo servizio che l'originalità
può rendere a questo tipo di persone è aprirgli gli occhi: quando
li avessero completamente aperti, avrebbero la possibilità di essere
a loro volta originali. Nel frattempo, e ricordando che c'è stata sempre
una prima volta e che tutto ciò che di buono vi è al mondo è
frutto dell'originalità, gli uomini dovrebbero essere abbastanza modesti
da credere che essa ha ancora un ruolo da svolgere, e convincersi che quanto
meno ne sentono la mancanza tanto più ne hanno bisogno. La semplice verità
è che, indipendentemente dagli omaggi tributati a parole o anche nei
fatti alla superiorità intellettuale, reale o presunta, la tendenza generale
del mondo è al predominio della mediocrità. Nell'antichità,
nel Medioevo, e, in misura decrescente, durante la lunga transizione dal feudalesimo
alla società odierna, l'individuo costituiva un potere a sé; e
se aveva grandi talenti o una posizione sociale elevata era un potere considerevole.
Oggi gli individui si perdono nella folla. In politica, dire che governa l'opinione
pubblica è quasi una banalità. Il solo potere che meriti di essere
chiamato tale è quello delle masse, e dei governi finché si rendono
espressione delle tendenze e degli istinti delle masse. Questo è altrettanto
vero nei rapporti morali e sociali privati che nelle transazioni pubbliche.
Coloro la cui opinione viene chiamata opinione pubblica non sono sempre lo stesso
pubblico: in America sono l'intera popolazione bianca; in Inghilterra sono principalmente
la classe media. Ma in tutti i casi si tratta di una massa, cioè della
mediocrità collettiva. E, novità ancora maggiore, oggi le masse
non ricevono più le loro opinioni dalle gerarchie ecclesiastiche e statali,
da capi visibili, o dai libri. Chi pensa per loro conto sono uomini molto simili
a loro, che li arringano o parlano a loro nome, sull'impulso del momento, attraverso
i giornali. Non mi sto lamentando. Non affermo che il basso livello intellettuale
dell'umanità consentirebbe, in genere, qualcosa di meglio. Ma ciò
non toglie che il governo della mediocrità sia un governo mediocre. Nessun
governo democratico o di un'aristocrazia numerosa si è mai sollevato
al di sopra della mediocrità – né poteva farlo –,
né nei suoi atti politici né nelle opinioni, qualità e
stile intellettuali che favoriva; fanno eccezione alcuni capi supremi. Molti
si sono lasciati guidare (e ciò ha sempre coinciso con i loro periodi
migliori) dai consigli e dall'influenza di una persona più dotata, e
hanno trasmesso le loro esperienze a una o a poche persone. Tutto ciò
che è saggio e nobile viene iniziato, e deve esserlo, da individui: generalmente
da uno solo. L'onore e il merito dell'uomo medio stanno nel fatto che è
capace di seguire questa iniziativa; che può reagire interiormente alla
saggezza e alla nobiltà, e vi può essere portato coscientemente.
Non sto facendo l'elogio di quel tipo di "culto dell'eroe" che approva
l'uomo forte e di genio che si impadronisce con la forza del governo del mondo
e costringe quest'ultimo a obbedirgli suo malgrado. Un uomo del genere può
solo chiedere la libertà di indicare la via: il potere di costringere
gli altri a seguirla non solo è incompatibile con la libertà e
lo sviluppo di tutto il resto, ma corrompe lo stesso uomo forte. A quanto pare,
tuttavia, ora che le opinioni di masse di gente semplicemente media sono diventate
o stanno diventando il potere dominante dappertutto, il contrappeso che corregge
la tendenza dovrebbe essere la sempre più accentuata individualità
dei pensatori più elevati. È proprio in queste circostanze che
gli individui eccezionali, invece di venirne dissuasi, dovrebbero essere incoraggiati
ad agire in modo differente dalle masse. In altri tempi ciò non implicava
benefici, salvo nel caso in cui le loro attività non fossero solo diverse,
ma anche migliori. Nella nostra epoca, il semplice esempio di anticonformismo,
il mero rifiuto di piegarsi alla consuetudine, è di per se stesso un
servigio all'umanità. Proprio perché la tirannia dell'opinione
è tale da rendere riprovevole l'eccentricità, per infrangere l'oppressione
è auspicabile che gli uomini siano eccentrici. Nei periodi in cui la
forza di carattere era frequente, lo era sempre anche l'eccentricità;
e la sua presenza in una società è generalmente stata proporzionale
a quella del genio, del vigore intellettuale e del coraggio morale. Il fatto
che oggi così pochi osano essere eccentrici indica quanto siamo in pericolo.
Ho affermato che è importante che vi sia la più ampia libertà
di svolgere ogni attività inconsueta, affinché col tempo emergano
chiaramente quelle che meritano di diventare consuetudini. Ma l'indipendenza
nell'azione e l'indifferenza nei confronti della tradizione non vanno incoraggiate
soltanto perché offrono la possibilità di tracciare vie migliori,
e indicare consuetudini più degne di essere generalmente adottate; né
sono soltanto le persone di intelletto nettamente superiore ad avere giusto
diritto a vivere a loro modo. Non vi è ragione alcuna perché tutta
l'esistenza umana si articoli secondo uno o pochi schemi. Se una persona è
dotata di un minimo tollerabile di buon senso e esperienza, il suo modo di formare
la propria esistenza è il migliore, non perché lo sia di per se
stesso, ma perché è il suo. Gli esseri umani non sono come le
pecore: e persino le pecore non sono tutte identiche. Un uomo non può
comprarsi un cappotto o delle scarpe che gli vadano bene se non gli vengono
fatti su misura o non ha a sua disposizione un intero magazzino per sceglierli;
è forse più facile trovargli una vita che un cappotto su misura,
oppure gli uomini sono più simili nella loro intera conformazione fisica
e spirituale che nella forma dei loro piedi? Anche se fossero diversi soltanto
nei gusti, questa sarebbe una ragione sufficiente per non cercare di uniformarli
tutti allo stesso modello. Ma persone diverse richiedono anche condizioni diverse
di sviluppo spirituale; e non possono vivere tutte in salute nello stesso clima
morale più di quanto tutte le piante non possano coesistere salubremente
nella stessa atmosfera e clima fisici. Gli stessi fattori che favoriscono lo
sviluppo della natura più elevata di una persona ostacolano quello di
un'altra. Lo stesso modo di vivere è per l'uno sano e stimolante e ne
favorisce al massimo la capacità di agire e di godersi la vita, mentre
per un altro costituisce un peso intollerabile che paralizza o annienta tutta
la sua vita interiore. Gli uomini sono così diversi nei loro motivi di
gioia, nelle sensibilità al dolore, nel modo e nei mezzi, fisici e morali,
in cui li esplicano, che se non esiste una corrispondente diversità nei
loro modi di vivere non ottengono la felicità che spetta loro né
sviluppano la statura intellettuale, morale e estetica di cui la loro natura
è capace. Perché allora la tolleranza, intesa come sentimento
pubblico, dovrebbe limitarsi ai gusti e ai modi di vita che strappano il consenso
semplicemente a causa della massa dei propri seguaci? La diversità non
è mai totalmente disconosciuta (salvo che in qualche ordine monastico);
a una persona può senza infamia piacere o no il canottaggio, il fumo,
la musica, l'esercizio atletico, gli scacchi, le carte o lo studio, perché
sia coloro a cui piacciono queste attività sia quelli a cui dispiacciono
sono troppo numerosi per poter essere ridotti al silenzio. Ma l'uomo, e ancor
più la donna, che possono essere accusati o di fare "quel che nessuno
fa" o di fare "quel che fanno tutti" sono oggetto di altrettanto
disprezzo che se avessero commesso un grave crimine morale. La gente ha bisogno
di un titolo nobiliare, o di un altro segno di rango, o di essere tenuta in
considerazione da persone socialmente elevate, per potersi permettere in una
certa misura il lusso di fare ciò che gli piace senza danno per la reputazione.
In una certa misura, ripeto: poiché chiunque si permetta di oltrepassarla
rischia più che dei commenti sprezzanti – rischia l'internamento
in manicomio e il sequestro delle sue proprietà, che finiscono ai parenti
. La tendenza attuale dell'opinione pubblica presenta una caratteristica particolarmente
adatta a renderla intollerante di qualsiasi spiccata dimostrazione di individualità.
La media degli uomini è moderata, non solo nell'intelletto ma nelle inclinazioni;
non hanno gusti o desideri abbastanza forti da spingerli ad azioni insolite,
e di conseguenza non capiscono chi li ha, e lo classificano tra le persone squilibrate
e smodate, a cui sono abituati a sentirsi superiori. Basta combinare questo
fenomeno, che è generale, con l'ulteriore ipotesi che si formi un forte
movimento moralista e il risultato è facilmente prevedibile. Oggi siamo
in presenza di un movimento di questo genere; i comportamenti si sono molto
uniformati e gli eccessi vengono scoraggiati con decisione; e aleggia uno spirito
filantropico che non trova per esercitarsi campo più invitante del miglioramento
della moralità e della prudenza dei nostri simili. Queste tendenze attuali
fanno sì che il pubblico sia più disposto di quanto non lo fosse
in generale nel passato a prescrivere norme generali di condotta e a sforzarsi
di far conformare tutti al criterio comunemente accettato. E questo criterio,
esplicito o tacito, è non desiderare fortemente nulla. Il suo ideale
di carattere è la mancanza di qualunque carattere spiccato – è
storpiare, comprimendola come il piede di una nobildonna cinese, qualsiasi parte
della natura umana che si distingua dalle altre e tenda a rendere l'individuo
nettamente dissimile dall'umanità comune. Come solitamente avviene nel
caso di ideali che escludono la metà di ciò che è complessivamente
auspicabile, il criterio odierno produce solo un'imitazione scadente dell'altra
metà. Invece di grandi energie guidate da una ragione vigorosa, e profondi
sentimenti fortemente controllati da una volontà cosciente, produce sentimenti
e energie deboli, che quindi possono mantenersi esteriormente conformi alla
norma senza alcuna forza di volontà o di intelletto. Le personalità
energiche stanno già diventando rare in ogni campo. Nel nostro paese
l'energia non ha quasi altro sfogo che gli affari, che in effetti ne impegnano
ancora una quantità notevole. Il poco che resta è speso in qualche
passatempo, che può essere utile e persino filantropico, ma è
sempre una cosa sola, generalmente di piccole dimensioni. Ormai la grandezza
dell'Inghilterra è tutta collettiva; individualmente piccoli, sembriamo
capaci di grandi cose solo in virtù della nostra abitudine ad associarci;
e di questo i nostri filantropi morali e religiosi sono perfettamente soddisfatti.
Ma furono uomini di altro stampo a fare dell'Inghilterra quello che è
stata; e uomini di altro stampo ci vorranno per evitarne il declino. Ovunque
il dispotismo della consuetudine si erge a ostacolo del progresso umano, ed
è in costante antagonismo con quella disposizione a tendere verso qualcosa
che sia migliore dell'abitudine, chiamata a seconda delle circostanze, spirito
di libertà o di progresso o di innovazione. Lo spirito di progresso non
è sempre spirito di libertà, perché può cercare
di imporre a un popolo dei mutamenti indesiderati; e, nella misura in cui oppone
resistenza a questi tentativi, lo spirito della libertà può allearsi
localmente e temporaneamente con chi si oppone al progresso; ma la libertà
è l'unico fattore infallibile e permanente di progresso, poiché
fa sì che i potenziali centri indipendenti di irradiamento del progresso
siano tanti quanti gli individui. Tuttavia, il principio progressivo, sia sotto
forma di amore per la libertà sia di amore del nuovo, è antagonistico
alla consuetudine, poiché implica inevitabilmente l'emancipazione dal
suo giogo; e il conflitto tra i due è il motivo conduttore della storia
umana. A stretto rigor di termini, la maggior parte del mondo non ha storia,
perché il dispotismo della consuetudine vi è totale: è
il caso di tutto l'Oriente. In esso la consuetudine è in tutti i campi
il criterio ultimo; giustizia e diritto significano conformità alle usanze;
a nessuno che non sia un tiranno inebriato di potere viene in mente di opporsi
all'argomento della tradizione. E ne vediamo i risultati. Quei paesi devono
aver posseduto, a suo tempo, dell'originalità; non sono nati popolosi,
colti, e versati in molte arti della vita; lo sono diventati con le loro forze,
e allora erano le nazioni più grandi e potenti del mondo. Che cosa sono
oggi? Sudditi o dipendenti di tribù i cui antenati vagavano nelle foreste
quando i loro avevano magnifici palazzi e splendidi templi, ma obbedivano in
parte alla consuetudine, in parte al desiderio di libertà e progresso.
A quanto pare, un popolo può progredire per un certo periodo, e poi fermarsi:
quando si ferma? Quando cessa di possedere l'individualità. Se un simile
mutamento si verificasse nelle nazioni d'Europa, non prenderebbe esattamente
la stessa forma: il dispotismo delle usanze che le minaccia non è precisamente
la staticità. Mette al bando la singolarità, ma non preclude il
mutamento, purché tutti cambino insieme. Abbiamo abbandonato il modo
di vestire dei nostri padri. Ci dobbiamo ancora vestire tutti allo stesso modo,
ma la moda può cambiare una o due volte all'anno. Quindi facciamo sì
che ogni eventuale mutamento sia fine a se stesso, e non origini da un'esigenza
di bellezza o di comodità: poiché l'identico concetto di bellezza
e comodità non potrebbe afferrare simultaneamente tutto il mondo a un
dato momento, né sarebbe simultaneamente respinto da tutti in un altro.
Ma siamo progressivi, oltre che mutevoli: inventiamo continuamente nuovi strumenti
meccanici, e li teniamo fino a quando non li sostituiamo con altri migliori;
cerchiamo zelantemente di migliorare la politica, l'educazione e perfino la
morale, anche se in quest'ultimo campo il nostro concetto di miglioramento consiste
soprattutto nel persuadere o costringere gli altri a essere buoni quanto noi.
Non è al progresso che obiettiamo; al contrario, ci illudiamo di essere
il popolo più progressivo che sia mai esistito. È l'individualità
che combattiamo: se riuscissimo a renderci tutti uguali penseremmo di aver fatto
meraviglie, dimenticando che la differenza tra due persone è generalmente
il primo elemento che richiama l'attenzione di entrambe alla propria imperfezione
e all'altrui superiorità, o alla possibilità di produrre qualcosa
migliore di entrambe combinando i meriti rispettivi. Ci ammonisca l'esempio
della Cina – nazione di grande talento e, sotto certi aspetti, persino
di grande saggezza, che ha avuto la rara fortuna di ricevere all'inizio della
sua storia un complesso di usanze e consuetudini particolarmente buone, opera
in una certa misura di uomini cui anche gli europei più illuminati devono
concedere, pur entro certi limiti, il primato nella saggezza e nella filosofia.
Colpisce inoltre la qualità e l'efficacia del meccanismo usato dai cinesi
per trasmettere, nella misura del possibile, la loro migliore cultura a tutti
i membri della comunità, e far sì che coloro che più ne
erano imbevuti ricoprissero le cariche più importanti. Ci si sarebbe
aspettati che la Cina scoprisse il segreto del progresso umano e si mantenesse
costantemente alla testa del movimento di innovazione mondiale. Invece, sono
diventati statici – lo sono rimasti per migliaia d'anni, e se mai riusciranno
a migliorare, dovrà essere ad opera di stranieri. Sono riusciti al di
là di ogni aspettativa in ciò a cui tendono così industriosamente
i filantropi inglesi – a formare un popolo tutto uguale, i cui pensieri
e le cui azioni sono guidati dalle stesse massime e norme: ed eccone i risultati.
Il moderno dominio della pubblica opinione è, in forma disorganizzata,
ciò che il sistema educativo e politico cinese è in forma organizzata;
e se l'individualità non riuscirà a farsi valere contro questo
giogo, l'Europa, nonostante il suo nobile passato e il suo proclamato Cristianesimo,
tenderà a diventare un'altra Cina. Che cosa ha finora risparmiato all'Europa
questa sorte? Che cosa ha reso le nazioni europee un settore dell'umanità
che si evolve e non resta statico? Nessuna loro intrinseca superiorità
– che, quando esiste, è un effetto e non una causa –, ma
piuttosto la notevole diversità di caratteri e culture. Individui, classi
e nazioni sono stati estremamente diversi gli uni dagli altri: hanno tracciato
una gran quantità di vie, che portavano tutte a qualcosa di valido; e
anche se in ogni epoca chi percorreva vie diverse non tollerava gli altri, e
avrebbe giudicato ottima cosa costringerli tutti a seguire la sua strada, i
tentativi reciproci di impedire il progresso altrui hanno raramente avuto un
successo definitivo, e a lungo andare tutti hanno avuto la possibilità
di recepire i risultati positivi altrui. A mio giudizio, l'Europa deve a questa
pluralità di percorsi tutto il suo sviluppo progressivo e multiforme;
ma è una dote che si sta già riducendo in misura considerevole.
L'Europa sta decisamente avanzando verso l'ideale cinese di rendere tutti gli
uomini uguali. Il signor de Tocqueville, nella sua ultima importante opera,
osserva che i francesi di oggi si rassomigliano molto di più di quelli
anche solo della generazione precedente. Un inglese potrebbe dire lo stesso,
e a molto maggior ragione. In un passo già citato, Wilhelm von Humboldt
indica due condizioni necessarie allo sviluppo umano – perché necessarie
per differenziare gli uomini –, la libertà e la varietà
di situazioni. In questo paese, la seconda condizione svanisce ogni giorno di
più. Le circostanze in cui vivono classi e individui diversi, e che ne
formano i caratteri, diventano di giorno in giorno più simili. Una volta,
strati sociali, comunità locali, mestieri e professioni diversi vivevano
in quelli che potevano essere definiti mondi diversi; oggi il mondo è
in buona misura lo stesso per tutti. Relativamente parlando, oggi la gente legge
le stesse cose, ascolta le stesse cose, vede le stesse cose, va negli stessi
posti, spera e teme le stesse cose, ha le stesse libertà, gli stessi
diritti, e le stesse possibilità di farli valere. Per quanto siano grandi
le differenze che ancora sussistono tra gli uomini, non sono nulla in confronto
a quelle che sono scomparse. E il processo di assimilazione continua: lo favoriscono
tutti i mutamenti politici di questo periodo, che tendono senza eccezione a
innalzare chi sta in basso e viceversa. Lo favorisce ogni estensione dell'istruzione,
perché essa sottopone tutti a influenze comuni e li pone in contatto
con il complesso delle conoscenze e dei sentimenti generali. Lo favorisce il
miglioramento delle comunicazioni, che pone in contatto gli abitanti di località
distanti tra loro e incoraggia rapidi e frequenti spostamenti di residenza da
un posto all'altro. Lo favorisce l'espansione del commercio e dell'industria
manifatturiera, che diffonde sempre più ampiamente i benefici materiali
e offre alla competizione generale anche i più elevati oggetti di ambizione,
per cui il desiderio di ascendere nella società non caratterizza più
una classe particolare, ma tutte. Un fattore che ancor più di questi
appena elencati favorisce la generale somiglianza degli uomini è l'influenza,
ormai consolidata in questo e altri paesi dell'opinione pubblica sullo Stato.
Col graduale livellamento delle varie distinzioni sociali che permettevano a
chi si barricava dietro di esse di ignorare l'opinione delle masse; con la progressiva
sparizione dalle menti degli uomini politici dell'idea stessa di opporsi alla
volontà pubblica, nei casi in cui la si conosca con certezza, il nonconformismo
perde qualsiasi sostegno sociale. Scompare cioè qualsiasi consistente
potere sociale che, essendo di per se stesso contrario al dominio della massa,
sia interessato ad assumersi la protezione di opinioni e tendenze diverse da
quelle del grande pubblico. La combinazione di queste cause forma una tale massa
di influenze ostili all'individualità che è difficile immaginare
come essa riuscirà a sopravvivere. Incontrerà difficoltà
sempre maggiori se non si riesce a farne comprendere il valore alla parte più
intelligente del pubblico – a fargli capire che la diversità è
positiva, anche se non è sempre migliore e talvolta può sembrare
peggiore di ciò che è comunemente accettato. Se i diritti dell'individualità
devono essere fatti valere, questo è il momento, quando manca ancora
molto perché l'assimilazione forzata sia completa. È solo resistendo
fin dall'inizio che si possono sconfiggere gli abusi. La pretesa che tutti si
rassomiglino cresce quanto più la si nutre: se si aspetta a resistere
fino a quando la vita non sarà quasi completamente ridotta a un tipo
uniforme, ogni deviazione da esso finirà coll'essere considerata empia,
immorale, persino mostruosa e contro natura. Gli uomini diventano rapidamente
incapaci di concepire la diversità quando per qualche tempo si sono disabituati
a vederla.
IV DEI LIMITI ALL'AUTORITA' DELLA SOCIETA' SULL'INDIVIDUO
Qual è allora il giusto limite alla sovranità dell'individuo su
se stesso? Dove comincia l'autorità della società? Quanto della
vita umana spetta all'individualità e quanto alla società? Ciascuna
riceverà la parte che le spetta se le viene attribuito ciò che
la riguarda più direttamente. All'individualità dovrebbe appartenere
la sfera che interessa principalmente l'individuo; alla società, quella
che interessa principalmente la società. Anche se la società non
si fonda su un contratto, e sarebbe inutile inventarne uno per dedurne degli
obblighi sociali, chiunque riceva la sua protezione deve ripagare il beneficio,
e il fatto di vivere in società rende indispensabile che ciascuno sia
obbligato a osservare una certa linea di condotta nei confronti degli altri.
Questa condotta consiste, in primo luogo, nel non danneggiare gli interessi
reciproci, o meglio certi interessi che, per esplicita disposizione di legge
o per tacito accordo, dovrebbero essere considerati diritti; e, secondo, nel
sostenere la propria parte (da determinarsi in base a principi equi) di fatiche
e sacrifici necessari per difendere la società o i suoi membri da danni
e molestie. La società ha il diritto di far valere a tutti i costi queste
condizioni nei confronti di coloro che tentano di non adempiervi. Né
questo è tutto ciò che la società può fare. Gli
atti di un individuo possono arrecare danno ad altri o non tenere in giusta
considerazione il loro benessere, senza giungere al punto di violare alcuno
dei loro diritti costituiti. In questo caso il colpevole può essere giustamente
condannato dall'opinione, ma non dalla legge. Non appena qualsiasi aspetto della
condotta di un individuo diventa pregiudiziale degli interessi altrui, ricade
sotto la giurisdizione della società, e ci si può chiedere se
questa interferenza giovi o meno al benessere generale. Ma tale questione non
si pone in alcun modo quando la condotta di un individuo coinvolge soltanto
i suoi interessi, o coinvolge quelli di altre persone consenzienti (tutti essendo
maggiorenni e dotati di normali facoltà mentali). In tutti questi casi,
vi dovrebbe essere piena libertà, legale e sociale, di compiere l'atto
e subirne le conseguenze. Sarebbe un grave malinteso supporre che si tratti
di una dottrina ispirata a egoistica indifferenza, secondo la quale la vita
di ciascuno non è affare degli altri e gli uomini non devono preoccuparsi
del benessere reciproco, a meno che non vi siano coinvolti i loro interessi.
Al contrario, gli sforzi disinteressati per il bene altrui non vanno diminuiti,
ma grandemente aumentati. Ma la benevolenza disinteressata può persuadere
gli uomini a compiere il proprio bene senza far uso di sferze o flagelli, letterali
o metaforici che siano. Sono l'ultimo a sottovalutare le virtù verso
se stessi: per importanza sono seconde, se lo sono, soltanto a quelle sociali.
Tocca all'educazione coltivarle entrambe: ma anche l'educazione opera con la
convinzione e la persuasione oltre che con la costrizione, e solo mediante le
prime due, finito il periodo educativo dovrebbero essere insegnate le virtù
verso se stessi. Gli uomini hanno il dovere reciproco di aiutarsi a distinguere
il bene dal male, e incoraggiarsi a scegliere il primo e evitare il secondo.
Dovrebbero sempre stimolarsi vicendevolmente a esercitare maggiormente le facoltà
più elevate e a dirigere sentimenti e azioni verso scopi e pensieri saggi
e non insensati, nobilitanti e non degradanti. Ma nessuno, e nessun gruppo,
è autorizzato a dire a un adulto che per il suo bene non può fare
della sua vita quel che sceglie di farne. Ciascuno è la persona maggiormente
interessata al proprio benessere; L'interesse che chiunque altro può
avervi, salvo che in casi di profondi legami personali, è minimo in confronto
al suo; L'interesse che la società ha per lui in quanto individuo (cioè
eccezion fatta per la sua condotta verso gli altri) è scarsissimo e del
tutto indiretto, e inoltre l'uomo o la donna più ordinari hanno mezzi
di conoscere i propri sentimenti e la propria condizione incommensurabilmente
superiori a quelli di cui può disporre chiunque altro. L'interferenza
della società in ciò che riguarda solo l'individuo al fine di
prevaricarne giudizio e intenzioni, si fonda per forza su presupposizioni generiche,
che possono essere completamente sbagliate, e che, anche se giuste, hanno buone
probabilità di essere applicate erroneamente ai casi specifici da persone
che non ne conoscono le circostanze né più né meno di qualunque
altro osservatore esterno. È quindi in questo settore delle attività
umane che l'individualità trova il suo giusto campo d'azione. Nel comportamento
reciproco degli uomini, è necessario che le norme generali vengano sostanzialmente
rispettate, perché gli altri sappiano che cosa aspettarsi da una determinata
situazione; ma, nelle questioni che riguardano solo il singolo, la spontaneità
individuale di ciascuno ha diritto a esercitarsi liberamente. Gli altri possono
proporgli, o persino imporgli, delle considerazioni che lo aiutino nel giudizio,
o delle esortazioni che ne rafforzino la volontà; ma è lui il
giudice ultimo. Tutti gli errori che può commettere ignorando consigli
e ammonimenti saranno un male infinitamente inferiore a quello di lasciarsi
costringere da altri a fare ciò che essi ritengono il suo bene. Non voglio
dire che i sentimenti con cui gli altri considerano una persona non debbano
essere influenzati in alcun modo dal suo comportamento nella sfera di azioni
che riguardano solo lui stesso. Non è possibile, né auspicabile.
Se la persona è ricca di qualità che favoriscono il suo benessere,
è degna d'ammirazione perché è più vicina alla perfezione
ideale della natura umana. Se ne è grossolanamente carente, provocherà
un sentimento opposto all'ammirazione. Vi è un certo livello di follia,
e un livello di ciò che può essere chiamato (anche se la terminologia
presta il fianco a obiezioni) bassezza o depravazione di gusti, che, anche se
non può giustificare che si nuoccia alla persona che lo manifesta, la
rende inevitabilmente e giustamente oggetto di disgusto o, in casi estremi,
persino di disprezzo: chi non provasse questi sentimenti non avrebbe le qualità
opposte in misura sufficiente. Pur non facendo torto a nessuno, una persona
può comportarsi in modo da costringerci a giudicarla uno stupido o un
essere inferiore, e a provare nei suoi confronti un certo tipo di sentimenti.
Poiché la persona non li gradirebbe, le rendiamo un favore avvertendola
in anticipo di questa e di ogni altra conseguenza spiacevole cui si espone col
suo comportamento. Sarebbe in effetti opportuno che questo tipo di servigio
fosse molto più frequente di quanto non permetta la normale buona educazione,
e che si potesse onestamente far notare a chiunque che secondo noi sta sbagliando
senza essere considerati maleducati o presuntuosi. Abbiamo inoltre diritto,
sotto varie forme, ad agire in base alla nostra opinione negativa di qualcuno,
non per opprimerne l'individualità, ma esercitando la nostra. Per esempio,
non siamo obbligati a cercare la sua compagnia; abbiamo il diritto di evitarlo
(non però ostentatamente), perché è nostro diritto scegliere
la compagnia che più ci piace. Abbiamo il diritto, e può essere
nostro dovere, di mettere altre persone in guardia contro di lui, se pensiamo
che il suo esempio o la sua conversazione possano avere effetti dannosi su chi
lo frequenta. Possiamo fare favori – che non siano obbligatori –
ad altri invece che a lui, a cui invece dobbiamo quelli che possono migliorarlo.
Con queste svariate modalità si può punire molto severamente un
individuo per colpe che direttamente riguardano soltanto lui; egli però
subisce gli effetti di queste punizioni solo nella misura in cui sono le conseguenze
naturali, e per così dire spontanee, delle sue colpe, non perché
gli vengano inflitte espressamente per punirlo. Una persona sconsiderata, ostinata,
presuntuosa; che non può vivere senza grandi ricchezze; che è
incapace di autocontrollo; che persegue piaceri da animale ai danni di quelli
morali e intellettuali, deve aspettarsi di perdere la stima altrui e di essere
considerata con sentimenti meno favorevoli, ma non ha diritto di lamentarsene,
a meno che non abbia dei meriti sociali e quindi abbia diritto a una speciale
considerazione, non intaccata dai suoi demeriti verso se stesso. La mia tesi
è che le sole sanzioni a cui un individuo può essere legittimamente
sottoposto per quella parte della sua condotta e del suo carattere che lo riguarda
esclusivamente e non tocca gli interessi di chi abbia rapporti con lui, sono
quelle strettamente inscindibili dal giudizio sfavorevole altrui. Gli atti che
danneggino altre persone vanno trattati in modo completamente diverso. Violare
i diritti altrui, causare agli altri danni o perdite non giustificati dai propri
diritti, ingannarli con falsità e doppiezze, approfittare ingiustamente
o ingenerosamente di loro, anche evitare egoisticamente di difenderli: sono
tutte azioni che meritano la riprovazione morale e, nei casi più gravi,
il castigo. E non solo gli atti, ma anche le inclinazioni che li provocano sono
realmente immorali e meritano la disapprovazione, che può giungere all'abominio.
La crudeltà d'animo, la malizia e il malanimo, la passione più
antisociale e odiosa, l'invidia, la dissimulazione e l'insincerità, l'irascibilità
per motivi insufficienti, il risentimento sproporzionato alla causa, la passione
del dispotismo, il desiderio di accaparrarsi più di quanto si meriti
(la pleonexía dei greci), l'orgoglio che si soddisfa nell'avvilimento
altrui, l'egoismo che considera i propri interessi più importanti di
qualsiasi altra cosa, e decide tutte le questioni dubbie a proprio favore: questi
sono vizi morali, elementi malvagi e odiosi del carattere, diversi in questo
dalle colpe verso di sé menzionate più sopra, che non sono immoralità
in senso stretto e che, per quanto portate all'estremo, non costituiscono malvagità.
Possono essere segni della più completa follia, o mancanza di dignità
e di rispetto di sé, ma sono passibili di riprovazione morale solo quando
implicano un'infrazione al dovere, che ciascuno ha nei confronti degli altri,
di badare a se stesso. I cosiddetti doveri verso di sé non sono socialmente
obbligatori, a meno che le circostanze non li rendano contemporaneamente doveri
verso gli altri. Il termine "dovere verso se stessi", quando non significa
semplicemente "prudenza", significa o rispetto di sé o sviluppo
di sé, entrambe cose di cui nessuno deve rendere conto ai suoi simili,
perché non coinvolgono gli interessi dell'umanità. La distinzione
tra la perdita dell'altrui stima, in cui si può giustamente incorrere
per mancanza di prudenza o dignità personale, e la riprovazione che si
merita se si ledono i diritti altrui, non è puramente nominale. Fa molta
differenza, nei termini sia dell'atteggiamento che del comportamento che teniamo
nei suoi confronti, che qualcuno ci offenda in qualcosa che riteniamo di avere
il diritto di controllare o invece in qualcosa in cui sappiamo di non averlo.
Se la persona ci infastidisce, possiamo esprimerle la nostra antipatia, ed evitarla,
come evitiamo tutto ciò che ci infastidisce; ma non ci sentiremo in obbligo
di rovinarle l'esistenza. Terremo in considerazione il fatto che sconta già,
o sconterà, tutti i suoi errori; proprio perché si rovina da sola
la vita, sprecandola, non desidereremo rovinargliela ulteriormente: invece di
punirla, cercheremo piuttosto di alleviarle la punizione mostrandole come evitare
o rimediare ai mali che la sua condotta tende a causarle. Nei suoi confronti
possiamo provare pietà, forse antipatia, ma non ira o risentimento. Non
la tratteremo come un nemico della società; al massimo ci riterremo giustificati
ad abbandonarla a se stessa, ma potremmo interferire benevolmente mostrando
interesse o preoccupazione per lei. Ben altrimenti accade se un individuo ha
violato le norme necessarie alla protezione, individuale o collettiva, dei suoi
simili. Le conseguenze negative dei suoi atti non ricadono allora su di lui,
ma sugli altri; e la società, in quanto protettrice di tutti i suoi membri,
deve rifarsi su di lui, deve farlo soffrire all'esplicito scopo di punirlo,
e deve assicurarsi che la punizione sia sufficientemente severa. In un caso
l'individuo è imputato di fronte al nostro tribunale, e siamo chiamati
non solo a giudicarlo ma anche, in un modo o nell'altro, a eseguire la nostra
sentenza; nell'altro, non è nostro compito infliggergli sofferenze, salvo
quelle che possono incidentalmente derivare dal nostro esercizio, nella condotta
dei nostri affari, della stessa libertà che consentiamo a lui nei suoi.
Molti rifiuteranno questa distinzione tra la parte della vita di un uomo che
riguarda soltanto lui e quella che riguarda gli altri. Come può (si potrebbe
domandare) essere indifferente agli altri un qualsiasi aspetto del comportamento
di un membro della società? Nessuno è completamente isolato; è
impossibile arrecare un danno serio o permanente a se stessi senza che il male
si estenda almeno fino a chi ci è più vicino, e spesso molto oltre.
Se un uomo lede le sue proprietà, danneggia chi direttamente o indirettamente
ne traeva sostentamento, e generalmente diminuisce in maggiore o minore misura
le risorse complessive della comunità. Se deteriora le sue facoltà
fisiche o mentali, non solo fa del male a coloro la cui felicità dipendeva,
in misura minore o maggiore, da lui, ma si pone nell'incapacità di rendere
i servigi di cui è in generale debitore ai suoi simili, e talvolta diventa
un peso per il loro affetto e la loro benevolenza. Se questo comportamento fosse
molto frequente, sarebbe più rovinoso per il bene comune di quasi ogni
altro crimine possibile. Infine (si potrebbe dire), anche se una persona non
danneggia direttamente altri con i suoi vizi o follie, tuttavia è dannosa
con l'esempio, e dovrebbe essere costretta a controllarsi per il bene di chi
potrebbe essere corrotto o ingannato dall'osservazione, diretta o indiretta,
della sua condotta. E (si potrebbe aggiungere), anche se le conseguenze del
comportamento di un individuo vizioso o sconsiderato potessero venire limitate
a lui, può la società abbandonare a se stessi coloro che non sono
manifestamente in grado di badarsi? Se, per ammissione comune, i bambini e i
minori vanno protetti da se stessi, la società non è forse ugualmente
obbligata a proteggere adulti che sono ugualmente incapaci di controllarsi?
Se il gioco d'azzardo, l'ubriachezza, l'incontinenza, la pigrizia o la sporcizia
sono altrettanto nocivi alla felicità e contrari al progresso che la
maggior parte degli atti vietati dalla legge, perché (ci si potrebbe
chiedere) la legge non dovrebbe cercare di reprimerli, nella misura in cui ciò
è possibile e socialmente utile? E, per supplire alle inevitabili imperfezioni
della legge, non dovrebbe l'opinione pubblica almeno organizzare una poderosa
polizia contro questi vizi e colpire con rigide pene sociali coloro che notoriamente
li praticano? Qui non si tratta (si potrebbe asserire) di reprimere l'individualità
o di impedire che vengano tentati nuovi e originali esperimenti di vita. Le
sole cose che si cerca di impedire sono state giudicate e condannate dall'alba
del mondo ai nostri giorni – e l'esperienza le ha dimostrate inutili o
dannose per l'individualità di chiunque. Ci deve essere un periodo –
espresso in termini di tempo o di quantità di esperienze – trascorso
il quale una verità morale o pratica può essere data per acquisita:
e ciò al solo scopo di impedire a generazione dopo generazione di precipitare
nello stesso baratro che è stato fatale a quelle che l'hanno preceduta.
Ammetto incondizionatamente che il male fatto a noi stessi può colpire
gravemente, sia negli affetti sia negli interessi, le persone che ci sono strettamente
legate e, in misura minore, la società in generale. Quando una condotta
di questo tipo porta a violare un impegno distinto e preciso verso una o più
persone, il caso non è classificabile come danno verso se stessi e diventa
passibile di disapprovazione morale in senso stretto. Se per esempio un uomo,
per intemperanza o stravaganza, diventa insolvente, o, avendo assunto la responsabilità
morale di una famiglia, diventa per cause analoghe incapace di mantenerla o
di educarla, viene meritatamente riprovato e può essere giustamente punito;
ma per l'inadempienza al dovere verso la famiglia o i creditori, non per la
stravaganza. Se le risorse loro destinate fossero state loro negate per essere
investite nel modo più oculato possibile, la colpevolezza morale sarebbe
stata identica. George Barnwell ammazzò suo zio per dare dei soldi alla
sua amante, ma se l'avesse ucciso per iniziare un'attività commerciale
sarebbe stato ugualmente impiccato. Ancora, nel caso frequente di uomini che
causano dolore alle loro famiglie per le loro cattive abitudini, essi meritano
rimprovero perché sono crudeli o ingrati; ma potrebbero meritarne altrettanto
coltivando abitudini di per sé non viziose, che pure fanno soffrire coloro
con cui vivono, o chi per legami personali dipende da loro per il proprio benessere.
Chiunque non tenga nella considerazione che generalmente è loro dovuta
gli interessi e i sentimenti altrui, senza essere costretto a ciò da
un dovere più alto o giustificato da un'ammissibile preferenza per sé,
è degno di disapprovazione morale per questo comportamento, ma non per
le sue cause né per gli errori che possono averlo indirettamente provocato,
e che riguardano solo lui. Analogamente, chi con il suo comportamento verso
di sé si renda incapace di compiere un preciso dovere verso il pubblico
è colpevole di un reato sociale. Nessuno dovrebbe essere punito semplicemente
perché è ubriaco; ma un soldato o un poliziotto dovrebbero essere
puniti per ubriachezza in servizio. In breve, in presenza di un preciso danno,
o di un preciso rischio di danno, per il pubblico o per un individuo, il caso
esula dalla sfera della libertà e rientra in quella della moralità
o della legge. Ma, per quanto concerne il danno puramente contingente o, come
lo si può chiamare, costruttivo che un individuo causa alla società
con una condotta che non infranga alcun dovere specifico verso il pubblico,
né leda percettibilmente alcuna persona precisa salvo l'individuo stesso,
si tratta di un fastidio che la società può permettersi di sopportare,
negli interessi di un bene maggiore, la libertà umana. Se degli adulti
devono proprio essere puniti perché non si occupano abbastanza bene di
se stessi, preferirei che lo fossero per il loro bene, non con il pretesto di
impedire loro di danneggiare le proprie facoltà o con la scusa di rendere
alla società benefici cui essa non pretende di aver diritto. Ma non posso
consentire a una discussione in cui si dà per scontato che la società
non avrebbe mezzo alcuno di elevare i suoi membri più deboli al livello
normale di condotta razionale, salvo quello di aspettare che commettano qualcosa
di irrazionale e poi punirli, legalmente o moralmente. La società ha
avuto potere assoluto su di essi durante tutta la prima parte della loro esistenza:
ha avuto tutto il periodo dell'infanzia e dell'adolescenza per cercare di renderli
capaci di condurre razionalmente la propria vita. La generazione di oggi è
signora e padrona sia dell'educazione sia di tutte le condizioni di vita della
generazione di domani: in effetti, non può farla diventare perfettamente
saggia e buona, perché è essa stessa così deplorevolmente
priva di saggezza e bontà; e, in certi casi, i suoi maggiori sforzi non
sempre sono i più riusciti; ma nel complesso è perfettamente in
grado di formare una nuova generazione altrettanto buona, anzi un poco migliore.
Se la società lascia che un numero considerevole dei suoi membri, pur
crescendo fisicamente, resti bambino e incapace di essere influenzato dalla
considerazione razionale di motivi non immediatamente percepibili, può
incolpare solo se stessa. Ha a disposizione non solo tutti i poteri dell'educazione,
ma anche il predominio che l'autorità di un'opinione comune esercita
sempre sulle menti meno in grado di giudicare da sole, e inoltre è aiutata
dalle punizioni naturali che non possono non abbattersi su coloro che incorrono
nel disgusto o nel disprezzo del prossimo: che la società non pretenda
di aver bisogno, oltre che di questo armamentario, anche del potere di emanare
e far rispettare ordini riguardanti questioni personali dei singoli, le quali,
stando a qualsiasi principio legale o politico, andrebbero decise da chi deve
sopportarne le conseguenze. E niente scredita e frustra i migliori metodi di
influire sulla condotta umana più del ricorso ai peggiori. Se tra coloro
che la società cerca di costringere alla prudenza e alla temperanza vi
è qualcuno della stoffa di cui sono fatti i caratteri indipendenti e
vigorosi, si ribellerà infallibilmente al giogo. Nessuna persona del
genere penserà mai che gli altri hanno diritto di controllarlo nei suoi
affari, come invece lo hanno di impedirgli di disturbare i loro; perciò,
sfidare questa autorità usurpata, facendo ostentatamente l'esatto contrario
di ciò che comanda, come accadde all'epoca di Carlo II con la moda della
volgarità che subentrò alla fanatica intolleranza morale dei puritani,
finisce facilmente coll'essere considerato segno di uno spirito coraggioso.
Quanto alla necessità, menzionata in precedenza, di proteggere la società
dal cattivo esempio dato dai viziosi o da chi è troppo indulgente con
se stesso, è vero che il cattivo esempio può avere effetti dannosi,
specialmente nel caso di chi faccia un torto ad altri e resti impunito. Ma qui
stiamo parlando di comportamenti che, mentre non danneggiano gli altri, si presume
siano gravemente dannosi a chi li tiene; e non vedo come coloro che li ritengono
tali possano non pensare che, nel complesso, l'esempio finisce coll'essere più
salutare che dannoso, poiché mostra il comportamento ma anche le sue
conseguenze, che, se lo si biasima a ragione, si devono supporre nella maggior
parte dei casi penose o degradanti. Ma l'argomento più forte contro l'interferenza
del pubblico nella condotta puramente individuale è che, quando si verifica,
si verifica con ogni probabilità sia nei modi sbagliati che nel posto
sbagliato. Nelle questioni di moralità sociale, di doveri nei confronti
degli altri, L'opinione del pubblico, cioè della stragrande maggioranza,
è più spesso giusta che sbagliata, poiché si tratta soltanto
di giudicare sui propri interessi, su come verrebbero coinvolti da un dato comportamento,
se venisse consentito. Ma l'opinione di una simile maggioranza, imposta come
legge a una minoranza, in questioni di condotta strettamente individuale ha
uguali probabilità di essere giusta o sbagliata, perché nel migliore
di questi casi opinione pubblica significa l'opinione di alcuni su che cosa
sia bene o male per altri, e molto spesso non significa neanche questo –
il pubblico, con la più perfetta indifferenza, ignora i sentimenti o
le esigenze di coloro di cui biasima la condotta, e pensa solo alla propria
preferenza. Molti considerano lesiva dei propri interessi qualsiasi condotta
che loro dispiaccia, e se ne risentono come di un oltraggio ai loro sentimenti;
simili a quel bigotto che, accusato di disprezzare i sentimenti religiosi degli
altri, ha ribattuto che sono loro a disprezzare i suoi persistendo nel loro
abominevole culto o credo. Ma non sono sullo stesso piano ciò che uno
pensa della propria opinione e ciò che ne pensa un altro che la considera
un'offesa, come non lo sono il desiderio di un ladro di rubare una borsa e il
desiderio del legittimo proprietario di tenersela. E i gusti di un individuo
sono una sua questione personale, quanto la sua opinione o la sua borsa. È
facile immaginare un pubblico ideale che lasci indisturbata la libertà
e la scelta individuale in tutte le questioni dubbie, e si limiti a chiedere
agli individui di evitare comportamenti che l'esperienza universale ha condannato.
Ma dove si è mai visto un pubblico che imponesse limiti del genere alla
propria facoltà di censura? O quando mai il pubblico si preoccupa dell'esperienza
universale? Nelle sue interferenze con la condotta individuale pensa raramente
ad altro che alla mostruosità di agire o pensare diversamente da lui;
e questo criterio di giudizio, lievemente camuffato, viene presentato agli uomini
come il dettame della religione e della filosofia dai nove decimi dei moralisti
e pensatori, i quali insegnano che le cose sono giuste perché sono giuste;
perché sentiamo che lo sono. Ci dicono di cercare nelle nostre menti
e nei nostri cuori le norme di condotta per noi e per tutti gli altri. Cos'altro
può fare chi è parte del pubblico, se non seguire le istruzioni
e rendere le proprie concezioni personali del bene e del male, se sono tollerabilmente
unanimi, obbligatorie per tutto il mondo? Questo male non esiste soltanto in
teoria; e ci si potrebbe forse aspettare che io specifichi i casi in cui il
pubblico contemporaneo del nostro paese conferisce impropriamente veste legale
alle sue preferenze. Non sto scrivendo un saggio sulle aberrazioni dell'odierno
sentimento morale: è un argomento troppo vasto per discuterlo incidentalmente,
a fini illustrativi. Tuttavia si rendono necessari degli esempi per dimostrare
che il principio da me affermato è di notevole importanza pratica, e
che non sto cercando di erigere difese contro mali immaginari. E non è
difficile dimostrare, con abbondanza di esempi, che l'ampliamento del raggio
d'azione di quella che può essere chiamata polizia morale fino a farle
ledere la libertà individuale più indiscutibilmente legittima
è una delle più universali propensioni umane. Consideriamo come
primo caso le antipatie nei confronti di coloro la cui sola colpa è che,
avendo opinioni religiose diverse dalle nostre, non praticano le nostre osservanze
religiose, in particolare le astinenze. Per citare un esempio alquanto banale,
ciò che più eccita l'odio dei musulmani nei confronti della fede
e della pratica cristiane è il fatto che i cristiani mangiano carne di
maiale. Pochi sono gli atti per cui cristiani e europei provano un disgusto
più sincero di quello dei musulmani per questo particolare modo di sfamarsi.
Innanzitutto è una trasgressione alla loro religione, ma ciò non
spiega affatto la violenza o il tipo della loro ripugnanza; infatti anche il
vino è loro vietato dalla religione, e tutti i musulmani considerano
il bere peccaminoso, ma non disgustoso. La loro avversione per la carne della
"bestia immonda" è al contrario analoga a quella dell'antipatia
istintiva che l'idea di sporcizia, una volta che sia stata profondamente assimilata,
sembra sempre suscitare anche in persone le cui abitudini sono tutt'altro che
scrupolosamente pulite, e di cui è notevole esempio il sentimento dell'impurità
religiosa, così forte negli indù. Supponiamo ora che in un popolo
a maggioranza maomettana venga proibito a tutti di mangiare carne di maiale
entro i confini del paese: non sarebbe una novità per i paesi musulmani
. Si tratterebbe di un esercizio legittimo dell'autorità morale della
pubblica opinione, oppure sarebbe illegittimo, e perché? Per questa gente
la pratica è davvero rivoltante: e inoltre pensano sinceramente che sia
vietata e aborrita dalla Divinità. Né questa proibizione potrebbe
essere condannata in quanto persecuzione religiosa: potrà avere origini
religiose, ma non è una persecuzione, perché non c'è religione
che comandi di mangiare carne di maiale. La sola base difendibile su cui condannarla
sarebbe che il pubblico non ha diritto di interferire nei gusti personali e
nelle questioni strettamente individuali. Per venire più vicino a noi:
la maggioranza degli spagnoli considera grossolanamente empio, massimamente
ingiurioso dell'Essere Supremo, adorarlo in modo diverso da quello cattolico
romano; e in Spagna ogni altro culto pubblico è vietato. I popoli di
tutta l'Europa meridionale considerano un clero che non pratica il celibato
non soltanto irreligioso, ma impuro, indecente, volgare e disgustoso. Che cosa
pensano i protestanti di questi sentimenti perfettamente sinceri, e del tentativo
di farli rispettare anche da chi non è cattolico? E tuttavia, se gli
uomini possono giustificatamente interferire nella loro reciproca libertà
anche in questioni che non riguardano gli interessi altrui, in base a quale
principio si possono coerentemente escludere questi casi? O chi può biasimare
gente che desidera sopprimere ciò che considera uno scandalo al cospetto
di Dio e degli uomini? Gli argomenti a favore della proibizione di tutto ciò
che è considerato immoralità individuale sono identici a quelli
usati per giustificare la soppressione di certe pratiche religiose da coloro
che le considerano empie; e, a meno che non vogliamo adottare la logica dei
persecutori, e sostenere che dobbiamo perseguitare altre persone perché
abbiamo ragione, mentre loro non devono perseguitare noi perché hanno
torto, dobbiamo guardarci dall'ammettere un principio la cui applicazione nei
nostri confronti considereremmo grossolanamente ingiusta. Si potrebbe obiettare,
anche se a torto, che i casi precedenti si riferiscono a situazioni impossibili
tra noi, dato che non è probabile che l'opinione di questo paese costringa
tutti a non mangiare carne o interferisca nella libertà della gente di
praticare un culto, e di sposarsi o di non sposarsi a seconda delle proprie
fedi o inclinazioni. Il prossimo esempio tuttavia si riferisce a una interferenza
nella libertà che costituisce un pericolo ancora attuale. In ogni situazione
in cui sono stati sufficientemente potenti – per esempio nella Nuova Inghilterra
o in Gran Bretagna ai tempi di Cromwell –, i puritani hanno cercato, con
considerevole successo, di sopprimere tutti i divertimenti pubblici e quasi
tutti quelli privati: in particolare la musica, la danza, i giochi pubblici
o le altre riunioni a fini ricreativi, e il teatro. Ancor oggi vi sono in questo
paese vasti gruppi i cui ideali morali e religiosi condannano questi svaghi;
e dato che queste persone appartengono soprattutto alla classe media, che nelle
attuali condizioni politiche e sociali del Regno costituisce il potere dominante,
non è affatto impossibile che prima o poi ottengano la maggioranza in
parlamento. Al resto della comunità farà piacere che quegli svaghi
che gli saranno consentiti siano regolamentati dai sentimenti morali e religiosi
dei calvinisti e metodisti più severi? Non auspicherà, in modo
alquanto perentorio, che questi pii e invadenti membri della società
badino ai fatti propri? È esattamente quel che si dovrebbe dire a qualsiasi
governo o pubblico che pretendono che nessuno si diverta in un modo da loro
ritenuto sbagliato. Ma se in linea di principio si ammette questa pretesa, non
si può ragionevolmente chiedere che non venga attuata secondo i voleri
della maggioranza, o comunque di chi detiene il potere in un dato paese; e dobbiamo
essere pronti a conformarci alla concezione di comunità cristiana che
avevano i primi coloni della Nuova Inghilterra, nel caso che una confessione
religiosa simile alla loro riesca a riguadagnare il terreno perduto, come hanno
spesso fatto religioni che erano ritenute in declino. Immaginiamo un'altra situazione,
forse più probabile di quest'ultima. Tutti concordano nell'affermare
che il mondo moderno presenta una forte tendenza verso una costituzione democratica
della società, accompagnata o meno da istituzioni politiche popolari.
Si afferma anche che, nel paese in cui questa tendenza è più compiutamente
realizzata – in cui società e governo sono più democratici,
cioè gli Stati Uniti –, il sentimento della maggioranza, che non
gradisce alcuna ostentazione di uno stile di vita più brillante o costoso
di quello che può sperare di emulare, funziona con discreta efficacia
da legge suntuaria, e che in molte parti dell'Unione una persona con un reddito
molto elevato trova veramente difficile spenderlo senza incorrere nella disapprovazione
popolare. Anche se affermazioni del genere sono senza dubbio molto esagerate,
la situazione da esse descritta è un risultato, non solo concepibile
e possibile, ma probabile, della combinazione del sentimento democratico con
la nozione secondo cui il pubblico ha diritto di veto sul modo in cui gli individui
spendono i loro redditi. Supponiamo inoltre che le opinioni socialiste si diffondano
considerevolmente: ogni proprietà che non sia minima o ogni reddito che
non derivi dal lavoro manuale rischiano di diventare un'infamia agli occhi della
maggioranza. Opinioni in linea di principio simili a questa predominano già
nella classe dei lavoratori manuali, e opprimono pesantemente coloro che principalmente
si riferiscono a esse – vale a dire, i membri di quella classe. È
ben noto che gli operai inefficienti che in molti rami dell'industria costituiscono
la maggioranza, sono decisamente dell'opinione che essi dovrebbero essere pagati
quanto quelli efficienti, e che a nessuno dovrebbe essere consentito, mediante
il cottimo o altre forme, di guadagnare più di altri che non sono altrettanto
abili o operosi. E impiegano una polizia morale, che talvolta diventa fisica,
per far sì che gli operai più abili non ricevano una maggiore
remunerazione per un migliore servizio, e che i datori di lavoro non la concedano.
Se il pubblico ha una qualsiasi giurisdizione sulle questioni private, non vedo
perché questa gente debba avere torto, o perché si debbano criticare
le persone direttamente in rapporto con uno specifico individuo se rivendicano
sulla condotta individuale di quest'ultimo la stessa autorità che il
pubblico nel suo complesso rivendica su tutti i singoli individui. Ma, tralasciando
i casi ipotetici, al giorno d'oggi si verificano effettivamente grossolane violazioni
della libertà privata, ne vengono minacciate, con probabilità
di successo, di più gravi, e viene apertamente sostenuto il diritto incondizionato
del pubblico non solo a vietare per legge tutto ciò che ritiene sbagliato,
ma a proibire, per colpire quelli che considera errori, una serie di attività
che, per sua stessa ammissione, sono innocue. Con la scusa di prevenire l'intemperanza,
è stato vietato per legge alla popolazione di una colonia inglese, e
di quasi metà degli Stati Uniti, di far uso di bevande fermentate, salvo
che per fini medicinali; la proibizione della loro vendita è in effetti,
come era intesa essere, proibizione del loro uso. E anche se l'impossibilità
di farla rispettare in pratica ha fatto sì che questa legge venisse abrogata
in parecchi stati che l'avevano adottata, ivi compreso il Maine, da cui prende
nome, nel nostro paese molti filantropi dichiarati hanno iniziato, e proseguono
con notevole zelo, a far propaganda in favore dell'adozione di un provvedimento
analogo. L'associazione, o "Alleanza", come si autodefinisce, costituita
a questo scopo ha ricevuto una certa notorietà in seguito alla pubblicazione
di una corrispondenza tra il suo segretario e uno dei pochissimi uomini pubblici
inglesi che ritengono che le opinioni di un politico debbano fondarsi su principî.
Le lettere di Lord Stanley aumenteranno certamente le speranze già riposte
in lui da coloro che sanno quanto siano purtroppo rare, nella vita politica,
le qualità già manifestatesi in qualche suo intervento pubblico.
Il segretario dell'Alleanza, che "deplorerebbe profondamente il riconoscimento
di qualsiasi principio che potrebbe essere travisato in modo tale da giustificare
fanatismi e persecuzioni", intende ribadire la "spessa e invalicabile
barriera" che separa principi del genere da quelli dell'associazione. "Tutte
le questioni relative al pensiero, all'opinione, alla coscienza, mi sembrano",
afferma, "al di fuori della sfera della legislazione; tutto ciò
che è invece attinente a atti, abitudini, rapporti sociali – che
è soggetto solo a un potere discrezionale spettante allo Stato e non
all'individuo – dentro di essa". Non viene menzionata una terza classe,
diversa da entrambe, cioè quella degli atti e delle abitudini che non
sono sociali ma individuali: anche se, sicuramente, è ad essa che appartiene
l'atto di bere liquori fermentati. Tuttavia, vendere liquori fermentati è
commercio, e il commercio è un atto sociale. Ma la violazione contro
cui protestiamo non è della libertà del venditore, ma di quella
del compratore e consumatore; poiché lo Stato potrebbe benissimo vietargli
di bere vino, dal momento che gli rende espressamente impossibile ottenerlo.
Tuttavia, il segretario sostiene: "Affermo, come cittadino, il mio diritto
a un intervento legislativo in ogni caso in cui i miei diritti sociali siano
violati dall'atto sociale di un altro". Ed ecco la definizione di questi
"diritti sociali": "Se c'è qualcosa che viola i miei diritti
sociali è certamente il commercio di bevande alcooliche. Distrugge il
mio diritto fondamentale alla sicurezza, creando e stimolando costantemente
il disordine sociale. Viola il mio diritto all'uguaglianza, derivando profitto
dalla creazione di un'indigenza sostentata dalle tasse che pago. Ostacola il
mio diritto a un libero sviluppo morale e intellettuale, circondando di pericoli
il mio cammino e indebolendo e demoralizzando la società da cui ho diritto
di pretendere mutuo soccorso e appoggio". Probabilmente nessuno ha mai
enunciato distintamente qualcosa di simile a questa teoria dei "diritti
sociali", che equivale a quanto segue: è diritto sociale assoluto
di ciascun individuo che ciascun altro individuo si comporti sotto ogni aspetto
esattamente come dovrebbe comportarsi; inoltre, chiunque non ottemperi nei minimi
dettagli a quanto sopra viola il mio diritto sociale e mi autorizza a esigere
che il motivo della mia lagnanza venga eliminato per legge. Un principio così
mostruoso è molto più pericoloso di qualsiasi singola interferenza
nella libertà; non vi è violazione della libertà che esso
non giustifichi; non riconosce alcun diritto ad alcuna libertà, salvo
forse quella di avere opinioni in segreto, senza rivelarle a nessuno poiché
nell'attimo in cui un'opinione che considero nociva viene proferita, viola tutti
i "diritti sociali" che l'Alleanza mi conferisce. La dottrina attribuisce
a tutti gli uomini un interesse acquisito nella reciproca perfezione morale,
intellettuale e persino fisica, definita da ciascuno secondo i propri criteri.
Un altro importante esempio di interferenza illegittima nella giusta libertà
dell'individuo, e non semplicemente minacciata ma ormai da molto realizzata
con successo, è la legislazione riguardante le domeniche. Senza dubbio,
astenersi dall'abituale attività quotidiana nella misura in cui lo permettono
le esigenze della vita, è una consuetudine altamente benefica, anche
se non è sotto alcun aspetto un obbligo religioso, salvo che per gli
ebrei. E, nella misura in cui questa consuetudine non può essere rispettata
senza il consenso generale di chi lavora, dato che se alcuni lavorano anche
altri possono trovarsi costretti a lavorare, può essere consentito e
giusto che la legge garantisca l'osservanza reciproca del riposo, sospendendo
le principali attività lavorative in un dato giorno. Ma questa giustificazione,
fondata sull'interesse diretto di tutti al rispetto dell'usanza da parte di
ciascuno, non vale per le occupazioni indipendenti cui si può voler dedicare
il proprio tempo libero, né, in alcun modo, per le restrizioni legali
imposte agli svaghi. È vero che lo svago di alcuni è il lavoro
di altri; ma il divertimento, per non dire l'utile ricreazione, di molti vale
la fatica di pochi, purché l'abbiano liberamente scelta. Gli operai hanno
perfettamente ragione a pensare che, se tutti lavorassero la domenica, il lavoro
di sette giorni riceverebbe il salario di sei; ma se la attività lavorative
sono per la gran maggioranza sospese, i pochi che devono continuare a lavorare
per il divertimento altrui ricevono un aumento proporzionale dei guadagni; e,
se preferiscono il tempo libero all'emolumento, non sono obbligati a svolgere
quel particolare lavoro. Volendo migliorare ulteriormente la situazione, si
può stabilire per consuetudine un giorno di vacanza settimanale per chi
lavora la domenica. Quindi, le restrizioni ai divertimenti domenicali possono
giustificarsi solo sostenendo che sono contrari al dettato religioso –
motivo di legislazione, questo, contro cui non si protesterà mai abbastanza.
"Deorum injuriae Diis curae". Resta da provare che la società,
o qualunque suo funzionario, ha ricevuto dall'alto l'incarico di vendicare ogni
presunta offesa all'Onnipotente che non sia anche un torto verso i nostri simili.
Il concetto secondo cui è dovere di ognuno che gli altri siano religiosi
è stato alla base di tutte le persecuzioni religiose, e, una volta accettato
le giustifica pienamente. Anche se il sentimento che traspare dai ripetuti tentativi
di fermare le ferrovie o di tenere chiusi i musei la domenica, e così
via, non ha la crudeltà dei vecchi persecutori, l'atteggiamento mentale
che esso indica è fondamentalmente lo stesso. È la determinazione
a non tollerare che altri facciano ciò che è permesso dalla loro
religione, perché non è permesso da quella del persecutore. È
la convinzione che Dio non solo aborre le azioni del miscredente, ma non ci
considererà innocenti se lo lasciamo in pace. Non posso evitare di aggiungere
a questi esempi dello scarso conto in cui la libertà umana è abitualmente
tenuta, il linguaggio apertamente persecutorio cui indulge la stampa di questo
paese quando si sente investita della missione di occuparsi del fenomeno del
Mormonismo. Molto si potrebbe dire sul fatto, imprevisto e istruttivo, che centinaia
di migliaia di persone credano a una pretesa nuova rivelazione e alla religione
fondata su di essa – frutto di evidente impostura, neppure sostenuta dal
prestigio o dalle straordinarie qualità del suo fondatore –, che
è diventata la base di una società, nell'epoca dei giornali, delle
ferrovie e del telegrafo. Ciò che ci interessa in questa sede è
che questa religione, come altre migliori di essa, ha i suoi martiri; che il
suo profeta e fondatore fu linciato a causa dei suoi insegnamenti; che altri
suoi aderenti persero la vita a causa della stessa violenza scatenata; che i
Mormoni furono espulsi a forza, in massa, dal paese in cui erano nati, e, ora
che sono stati confinati in un rifugio solitario nel mezzo di un deserto, molti
abitanti di questo paese dichiarano apertamente che sarebbe giusto (ma è
scomodo) mandare una spedizione che li costringa a forza a uniformarsi alle
opinioni altrui. L'aspetto della dottrina mormone che maggiormente provoca avversione
e scatena un'insolita intolleranza religiosa è il permesso di praticare
la poligamia; che, anche se consentita a musulmani, indù e cinesi, sembra
suscitare un'implacabile animosità se praticata da persone che parlano
inglese e si dichiarano una sorta di cristiani. Nessuno disapprova più
di me quest'istituzione mormone; tra l'altro anche perché, lungi dal
rappresentare un'espressione del principio della libertà, lo viola direttamente,
poiché non fa che ribadire le catene di una metà della comunità
e emancipare l'altra dalla reciprocità dell'impegno nei suoi confronti.
Eppure, va ricordato che le donne coinvolte in questo tipo di rapporto –
che possono esserne considerate la parte lesa – l'accettano altrettanto
volontariamente che qualsiasi altra forma di matrimonio: e ciò, per quanto
sembri sorprendente, trova spiegazione nelle opinioni e nelle usanze comuni
che, insegnando alle donne che il matrimonio è la sola cosa che conti,
fanno sì che molte preferiscano essere una moglie insieme a parecchie
altre piuttosto di non esserlo del tutto. Agli altri paesi non viene chiesto
di riconoscere queste unioni, né di esimere dal rispetto della legge
alcun loro cittadino a causa della sua fede mormone. Ma quando i dissenzienti
hanno concesso agli altrui sentimenti ostili ben più di quanto fosse
giusto esigere da loro; quando hanno abbandonato i paesi che rifiutavano le
loro dottrine e si sono stabiliti in un remoto angolo della terra, che hanno
colonizzato e reso abitabile, è difficile comprendere in base a quali
principi, salvo quelli della tirannide, si possa loro impedire di viverci secondo
le leggi che preferiscono, purché non commettano atti di aggressione
contro altre nazioni e lascino a chi non è soddisfatto del loro modo
di vivere la perfetta libertà di andarsene. Un autore recente, e sotto
certi aspetti di considerevole merito, propone (per usare le sue parole), non
una crociata, ma una civilizzata contro questa comunità poligamica per
porre termine a quello che gli pare un arretramento della civiltà. Pare
anche a me, ma non mi risulta che una comunità abbia il diritto di costringere
un'altra a essere civilizzata. Purché le vittime di una legge iniqua
non invochino l'aiuto di altre comunità, non possono ammettere che persone
del tutto estranee intervengano e esigano che si ponga fine a una situazione,
di cui tutti i diretti interessati sembrano soddisfatti, perché dà
scandalo a gente lontana migliaia di miglia e senza alcun titolo o motivo per
interferire. Mandino dei missionari, se ne hanno voglia; e si oppongano con
ogni mezzo leale (tra cui non è compreso ridurre al silenzio i predicatori)
al progresso di simili dottrine nel loro paese. Se la civiltà ha sconfitto
la barbarie che dominava il mondo, non è lecito professare il timore
che la barbarie, dopo essere stata largamente debellata, risorga e sconfigga
la civiltà. Una civiltà che può soccombere in questo modo
al nemico che ha già battuto in precedenza deve essere prima arrivata
a un tale punto di degenerazione, che né i suoi sacerdoti e maestri designati
né chiunque altro hanno la capacità, o la voglia, di difenderla.
Se le cose stanno così, prima una tale civiltà riceve l'ordine
di andarsene meglio è: può solo continuare a peggiorare finché
(come accadde all'Impero d'Occidente) dei barbari vigorosi non la distruggano
e la rigenerino.
V APPLICAZIONI
I principî enunciati nelle pagine precedenti devono costituire la base
generale di una discussione più particolareggiata, prima che si possa
tentarne una coerente applicazione a tutti i vari settori della politica e della
morale con buone probabilità di successo. Le poche osservazioni che mi
accingo a fare su alcune questioni particolari hanno lo scopo di illustrare
i principî piuttosto che di svilupparne le conseguenze. Non presento tanto
delle applicazioni quanto degli esempi di applicazione, che possono servire
a chiarire meglio significato e limiti delle due proposizioni che insieme costituiscono
l'intera dottrina esposta in questo saggio, e a fornire dei criteri decisionali
per i casi in cui si sia in dubbio se applicare l'una o l'altra. Le proposizioni
sono, in primo luogo, che l'individuo non deve rendere conto alla società
delle proprie azioni nella misura in cui esse non riguardano gli interessi di
altri che lui stesso. Se lo ritengono necessario per il bene proprio, gli altri
possono consigliare, istruire, persuadere o evitare l'individuo in questione;
queste sono le sole misure mediante le quali la società può giustificatamente
esprimere la propria avversione o disapprovazione. In secondo luogo, l'individuo
deve rendere conto delle azioni che possano pregiudicare gli interessi altrui,
e può essere sottoposto a punizioni sociali o legali se la società
ritiene le une o le altre necessarie per proteggersi. Innanzitutto, non si deve
in alcun modo presumere che poiché soltanto il danno, o la probabilità
di danno, agli altrui interessi può giustificare l'interferenza della
società, esso la giustifichi sempre. In molti casi un individuo cercando
di conseguire un fine legittimo, causa per necessità, e quindi legittimamente,
sofferenza o perdite ad altri, oppure si impadronisce di un bene che altri speravano
ragionevolmente di ottenere. Queste contrapposizioni tra interessi individuali
sono spesso dovute a istituzioni sociali insoddisfacenti, ma sono inevitabili
finché esistono queste ultime; e alcune sarebbero inevitabili con qualsiasi
istituzione. Chiunque abbia successo in una professione sovraffollata o in un
esame competitivo, chiunque sia preferito a un altro in una competizione per
un oggetto che entrambi desiderano, trae vantaggio dall'insuccesso di altri,
dalle loro fatiche sprecate e dalla loro delusione. Ma, per ammissione comune,
è meglio per gli interessi generali dell'umanità che gli uomini
perseguano i loro scopi senza darsi pensiero di questo genere di conseguenze.
In altre parole, la società non concede ai contendenti sconfitti alcun
diritto, legale o morale, all'immunità da questo tipo di sofferenze,
e si ritiene in dovere di interferire solo quando il successo è stato
conseguito con mezzi non ammissibili dall'interesse generale cioè l'inganno,
la slealtà, o la forza. Ancora, il commercio è un atto sociale.
Chiunque venda un genere di beni al pubblico compie un atto che coinvolge gli
interessi di altri e della società in generale; e quindi la sua condotta
rientra in linea di principio sotto la giurisdizione sociale; di conseguenza,
un tempo era considerato dovere dei governi fissare i prezzi e regolamentare
i processi di fabbricazione in tutti i casi ritenuti di una certa rilevanza.
Ma ora si è giunti a riconoscere, anche se solo dopo una lunga lotta,
che sia il prezzo sia la qualità delle merci sono garantiti più
efficacemente lasciando perfettamente liberi produttori e venditori, con il
solo vincolo della uguale libertà per gli acquirenti di rifornirsi dove
preferiscano. Questa è la cosiddetta dottrina del "libero scambio"
che ha fondamenti diversi da quelli del principio della libertà individuale
enunciato in questo saggio, anche se con essi coerenti. Le restrizioni al commercio,
o alla produzione a fini commerciali, sono in effetti dei vincoli; e ogni vincolo,
in quanto tale, è un male; ma i vincoli in questione riguardano solo
quella parte del comportamento il cui controllo rientra nella competenza della
società, e sono erronei solo perché non producono effettivamente
i risultati che da essi si intende ottenere. Poiché il principio della
libertà individuale non è coinvolto nella dottrina del libero
scambio, non lo è neppure nella maggior parte delle questioni che ne
riguardano i limiti, come per esempio il grado di controllo pubblico ammissibile
per prevenire le frodi e le adulterazioni; o quali precauzioni igieniche o misure
per proteggere chi svolga lavori pericolosi debbano essere imposte ai datori
di lavoro. Questi problemi implicano considerazioni concernenti la libertà
solo nella misura in cui lasciare gli uomini a se stessi è sempre meglio,
caeteris paribus, che controllarli; ma in linea di principio è innegabile
che li si possa legittimamente controllare a questi fini. D'altro canto, vi
sono questioni riguardanti l'interferenza nel commercio che sono essenzialmente
questioni di libertà, come la legge del Maine, cui si è già
accennato; il divieto di importazione dell'oppio in Cina; le limitazioni alla
vendita di sostanze tossiche – in breve, tutti i casi in cui scopo dell'interferenza
è rendere difficile o impossibile procurarsi una data merce. Questi interventi
sono opinabili non in quanto violazioni della libertà del produttore
o del venditore, ma dell'acquirente. Uno di questi esempi, la vendita di sostanze
tossiche, pone un nuovo problema: i giusti limiti di quelle che possono essere
chiamate le funzioni di polizia – cioè in che misura si possa legittimamente
violare la libertà per prevenire delitti o incidenti. Una delle funzioni
indiscusse dei governi è prendere precauzioni contro il crimine prima
che venga commesso, oltre che scoprirlo e punirlo dopo. Tuttavia, della funzione
preventiva del governo si può abusare a danno della libertà molto
più facilmente che di quella punitiva; poiché non vi è
quasi alcun aspetto della legittima libertà d'azione di un individuo
che non potrebbe essere descritto, e in modo plausibile, come creazione di condizioni
favorevoli a qualche forma di azione criminosa. Ciononostante, se un'autorità
pubblica, o anche un privato, constata che qualcuno è chiaramente in
procinto di commettere un reato non è costretto a fare da spettatore
passivo fino al compimento del reato, ma può intervenire per prevenirlo.
Se i veleni non fossero mai comprati o usati per scopi diversi dall'omicidio,
sarebbe giusto vietarne la fabbricazione e la vendita. Tuttavia possono essere
usati a scopi innocui e persino utili, e le restrizioni non possono essere imposte
in un caso senza essere operative nell'altro. Ancora, è giusto compito
dell'autorità pubblica prevenire gli incidenti: se un pubblico ufficiale,
o chiunque altro, vede una persona che sta per attraversare un ponte che è
stato dichiarato pericolante e non ha il tempo di avvertirla del pericolo, la
può afferrare e bloccare, senza per ciò violarne realmente la
libertà: poiché essa consiste nel fare ciò che si vuole,
e la persona in questione non vuole cadere nel fiume. Tuttavia, quando non vi
è certezza ma solo pericolo di danno, nessuno, salvo il diretto interessato,
può giudicare se il motivo che lo induce a correre il rischio è
sufficiente: quindi in questo caso (a meno che si tratti di un bambino, di un
malato mentale, o comunque di una persona in stato di alterazione o distrazione
tali da non permettere il pieno uso dell'intelletto) dovrebbe, a mio parere,
soltanto essere avvertito del pericolo; non impedito con la forza di esporvisi.
Considerazioni analoghe, applicate a questioni come la vendita di sostanze tossiche,
ci possono permettere di decidere quali possibili modalità di controllo
siano o meno contrarie al principio. Per esempio, una precauzione come porre
sulla sostanza un'etichetta che ne indichi la pericolosità può
essere attuata senza violare la libertà; l'acquirente non può
non voler sapere che la merce in suo possesso ha delle proprietà venefiche.
Ma esigere in ogni caso un certificato medico renderebbe talvolta impossibile,
e sempre costoso, procurarsi il prodotto per scopi legittimi. La sola modalità
che a mio avviso possa ostacolare l'impiego di queste sostanze a fini criminosi,
senza violazioni rilevanti della libertà di chi le desideri per altri
scopi, consiste nel creare quello che Bentham chiama, con felice terminologia,
"accertamento preventivo": tutti ne conoscono degli esempi, nei contratti.
È abituale e giusto che, quando si stipula un contratto, la legge richieda
come condizione della sua attuazione l'osservanza di certe formalità,
come firme, attestazioni di testimoni, e così via, in modo che in caso
di successive controversie vi siano prove che il contratto è stato realmente
stipulato, in circostanze che lo rendono legalmente valido sotto tutti gli aspetti;
ciò impedisce efficacemente i contratti fittizi, o quelli stipulati in
circostanze che, se conosciute, li invaliderebbero. Delle precauzioni di carattere
analogo potrebbero essere applicate alla vendita di merci utilizzabili a fini
criminosi. Per esempio, al venditore potrebbe essere fatto obbligo di registrare
il momento esatto della vendita, il nome e l'indirizzo dell'acquirente, l'esatta
qualità e quantità venduta, di chiedere lo scopo dell'acquisto
e di trascrivere la risposta. Quando non vi fosse ricetta medica, potrebbe essere
richiesta la presenza di un terzo per far comprendere all'acquirente l'importanza
dell'atto, nel caso successivamente vi fosse ragione di ritenere che la merce
sia stata adibita a fini criminosi. Questa regolamentazione non costituirebbe
generalmente un ostacolo rilevante all'acquisto, ma diminuirebbe considerevolmente
le possibilità di usare impunemente la sostanza a fini illegali. Il diritto
intrinseco della società a evitare i reati contro di sé, mediante
precauzioni preventive, indica ovvi limiti alla proposizione secondo cui non
si può legittimamente interferire in modo preventivo o punitivo in una
cattiva condotta che riguardi solo chi la tiene. Per esempio normalmente l'ubriachezza
non dovrebbe essere oggetto di interferenze legali, ma riterrei perfettamente
legittimo che una persona colpevole di un atto di violenza verso altri commesso
in stato d'ebbrezza sia sottoposta a uno speciale vincolo legale: se viene nuovamente
sorpresa in stato di ubriachezza è punibile, e se, ubriaca, commette
un reato, la pena per esso prevista deve essere inasprita. Per una persona che
l'alcool rende aggressiva, ubriacarsi è un reato verso gli altri. Analogamente,
l'ozio, salvo nei casi in cui l'ozioso sia mantenuto a spese pubbliche o l'inattività
costituisca una violazione contrattuale, non può essere oggetto di provvedimenti
legali senza tirannide; ma se, per ozio o per ogni altra causa evitabile, un
individuo non compie i suoi doveri legali verso altri – per esempio, non
mantiene i propri figli –, non è tirannide costringerlo a adempiere
ai suoi obblighi mediante il lavoro coatto se non sono possibili altri mezzi.
Inoltre, vi sono molti atti che, poiché danneggiano direttamente solo
chi li compie, non dovrebbero essere vietati dalla legge, ma che compiuti in
pubblico costituiscono un'infrazione delle buone maniere e quindi, rientrando
nella categoria dei reati contro gli altri, possono essere giustamente vietati.
Di questo tipo sono i reati contro la decenza, su cui non è necessario
soffermarci, perché hanno solo un legame indiretto con la questione che
ci interessa; e comunque l'obiezione all'essere compiuti in pubblico è
altrettanto fondata nel caso di molti atti di per sé non riprovevoli,
né presunti tali. Vi è un'altra questione cui bisogna trovare
una risposta coerente con i principi che abbiamo enunciato. Si considerino i
casi di comportamenti personali considerati riprovevoli, ma che la società,
per rispetto della libertà, non può né prevenire né
punire perché il male che ne risulta direttamente ricade solo su chi
li compie; dei terzi sono ugualmente liberi di consigliare o incoraggiare lo
stesso atto che un singolo individuo è libero di fare? È una questione
non priva di difficoltà. Il caso di una persona che inciti un'altra a
compiere un'azione non è, a stretto rigor di termini, un caso di condotta
che riguarda solo se stessi. Offrire consigli o incentivi a un altro è
un atto sociale, e quindi si può supporre che, come ogni azione che riguardi
gli altri, sia sottoposto a controllo sociale. Ma un'ulteriore riflessione modifica
la prima opinione, mostrando che, anche se il caso non rientra a stretto rigor
di termini nella definizione di libertà individuale, tuttavia valgono
per esso le ragioni su cui si fonda il principio della libertà individuale.
Se si deve permettere agli uomini di agire come meglio credono e a proprio rischio
in tutto ciò che li riguarda esclusivamente, allora devono essere ugualmente
liberi di consultarsi reciprocamente su ciò che sia meglio fare, di scambiarsi
opinioni, di dare e ricevere suggerimenti. Deve essere permesso consigliare
di fare ciò che è permesso fare. La questione è dubbia
solo quando l'istigatore trae un vantaggio personale dai suoi consigli, quando
la sua occupazione, a fini di sostentamento o di guadagno pecuniario, consiste
nel favorire ciò che la società e lo Stato considerano un male.
Allora in effetti si introduce un nuovo fattore di complicazione – l'esistenza
di classi di individui il cui interesse si contrappone a ciò che viene
considerato il bene comune, e il cui modo di vivere si fonda sulla contrapposizione
a esso. In questo caso è o non è legittimo interferire? Per esempio,
la fornicazione deve essere tollerata, e così pure il gioco; ma un individuo
deve essere libero di fare il ruffiano, o di tenere una bisca? È uno
di quei casi che si collocano precisamente sulla linea di demarcazione tra i
due principî, e non è immediatamente palese a quale dei due vada
ricondotto. Vi sono argomenti a favore di entrambi. Per la tolleranza, si può
sostenere che il fatto di svolgere qualsiasi attività e di trarre dalla
sua pratica sostentamento o profitto non può rendere criminoso ciò
che altrimenti sarebbe consentito; che lo specifico atto dovrebbe coerentemente
essere sempre lecito o sempre illecito; che se i principî che abbiamo
finora difeso sono veri, non è compito della società, in quanto
tale, decidere se qualcosa di competenza esclusivamente individuale sia giusto
o sbagliato; che la società non può andar al di là della
dissuasione, e che si deve essere altrettanto liberi di persuadere che di dissuadere.
A ciò si può controbattere che, anche se lo Stato o il pubblico
non hanno diritto di decidere d'autorità, a fini repressivi o punitivi,
che una data condotta riguardante solo gli interessi dell'individuo è
buona o cattiva, nel caso la considerino cattiva sono pienamente giustificati
a presumere che si tratta di una questione quanto meno opinabile: in base a
questa presunzione, non possono agire erroneamente se tentano di neutralizzare
l'influsso di incitamenti che non sono disinteressati, di istigatori che non
possono essere imparziali, perché sono direttamente e personalmente interessati
a un tipo di soluzione, che è quella che lo Stato ritiene sbagliata,
e che per loro stessa ammissione favoriscono esclusivamente a fini personali.
Si potrebbe sostenere che non vi è sacrificio del bene, che nulla si
perde, se una situazione viene regolamentata in modo che gli individui compiano
la propria scelta, giusta o sbagliata, autonomamente, il più possibile
liberi dalle seduzioni di persone che ne stimolano le inclinazioni a propri
fini interessati. Così (si potrebbe dire), anche se la normativa riguardante
il gioco illegale è del tutto indifendibile – anche se tutti dovrebbero
essere liberi di giocare a casa propria o altrui, o in qualsiasi luogo di ritrovo
creato dai loro contributi finanziari e aperto solo ai membri e ai loro ospiti
–, tuttavia le bische pubbliche non dovrebbero essere consentite. È
vero che la loro proibizione non ha mai realmente efficacia e che, indipendentemente
dalla quantità di poteri tirannici concessa alla polizia, le bische possono
sempre continuare a esistere sotto altro nome; ma le si può costringere
a svolgere la loro attività in una certa atmosfera di segretezza e mistero,
in modo che solo chi le cerca attivamente ne conosca l'esistenza; e la società
non dovrebbe mirare più che a questo. Sono argomentazioni di peso considerevole.
Non mi arrischierò a decidere se siano sufficienti a giustificare l'anomalia
morale di punire il complice mentre il colpevole principale è (e deve
essere) lasciato in libertà; di multare o incarcerare il ruffiano ma
non il fornicatore, il tenutario della bisca, ma non il giocatore. Ancor meno
si dovrebbe interferire, per ragioni analoghe, nelle operazioni di compravendita.
Di quasi ogni merce comprata e venduta si può fare uso eccessivo, e i
venditori hanno un interesse pecuniario a incoraggiare l'eccesso; ma non si
può fondare su ciò alcuna argomentazione a favore, per esempio,
della legge del Maine, perché i commercianti di alcolici, anche se interessati
a che se ne faccia abuso, sono indispensabili ai fini dell'uso legittimo dell'alcool.
Tuttavia, l'interesse di questi commercianti a favorire l'intemperanza è
un male reale, che giustifica lo Stato a imporre restrizioni e richiedere garanzie
che, in assenza di questa giustificazione, sarebbero violazioni della libertà
legittima. Un'ulteriore questione è se lo Stato, pur permettendola, debba
ciononostante scoraggiare una condotta che ritiene contraria agli interessi
di chi la tiene; se per esempio debba prendere misure per rendere più
costosi i mezzi dell'ubriachezza, o rendere più difficile il procurarseli,
limitandone il numero dei punti di vendita. Come molte altre questioni pratiche,
anche questa richiede molte distinzioni. Tassare gli alcolici al solo fine di
renderne più difficile l'acquisto differisce solo per gradi dal proibirli
del tutto, e sarebbe giustificabile solo se lo fosse il divieto. Ogni aumento
di prezzo è una proibizione per coloro i cui mezzi non consentono la
nuova spesa; e per coloro che se la possono permettere, è una punizione
per la soddisfazione di quel loro particolare gusto. La loro scelta di piaceri
e il loro modo di spendere il proprio reddito, una volta soddisfatti gli obblighi
morali e legali verso lo Stato e verso i singoli, sono affari loro, che devono
dipendere dal loro giudizio. Di primo acchito si direbbe che queste considerazioni
condannino la scelta degli alcolici come speciale oggetto di tassazione fiscale.
Ma va ricordato che la tassazione fiscale è assolutamente inevitabile;
che nella gran parte dei paesi è necessario che essa sia per buona parte
indiretta; che quindi lo Stato non può non imporre penalità, che
per alcuni possono risultare proibitive, sull'uso di alcuni articoli di consumo.
È di conseguenza dovere dello Stato considerare, nella sua politica delle
imposte, di quali merci i consumatori possano più facilmente fare a meno;
e, a fortiori, scegliere preferenzialmente quelle di cui ritiene l'uso, salvo
che in quantità molto moderate, effettivamente dannoso. Quindi la tassazione
degli alcolici fino al livello a cui produca il massimo gettito (nell'ipotesi
che lo Stato necessiti di tutte le entrate che ne può derivare) non solo
è ammissibile, ma va approvata. La questione di rendere la vendita di
queste merci un privilegio più o meno esclusivo ha risposte diverse a
seconda degli scopi cui intende adempiere la restrizione. Tutti i locali pubblici
necessitano di controllo da parte della polizia, in particolare quelli che spacciano
alcolici perché vi si possono spesso verificare reati contro la società.
Quindi è opportuno limitare la licenza di vendere questi merci (almeno
per il consumo immediato) a persone di rispettabilità nota o garantita;
regolamentare gli orari di apertura e chiusura nel modo più consono alla
pubblica sorveglianza, e ritirare la licenza se si verificano ripetutamente
violazioni dell'ordine pubblico per connivenza o incapacità del gestore
del locale, o se lo spaccio diventa un luogo d'ideazione e preparazione di reati.
Non ritengo che, in linea di principio, sia giustificabile qualunque altra restrizione.
Per esempio, la limitazione del numero dei locali di spaccio di alcoolici, espressamente
allo scopo di rendervi più difficile l'accesso e di limitare le occasioni
di tentazione, non solo causa un disagio a tutti soltanto perché alcuni
potrebbero abusare dei locali in questione, ma è degna solo di una società
in cui le classi lavoratrici sono dichiaratamente trattate come bambini o selvaggi,
e sottoposte a una educazione repressiva che le prepari a essere ammesse in
futuro ai privilegi della libertà. Non è questo il principio in
base al quale si afferma di governare le classi lavoratrici in un paese libero;
e nessuno che dia alla libertà il suo giusto valore può approvare
questo modo di governarle, a meno che non siano falliti tutti gli sforzi di
educarle e governarle come uomini liberi, e sia stato definitivamente provato
che possono soltanto essere governate come bambini. La semplice enunciazione
dell'alternativa mostra quanto sia assurdo supporre che questi sforzi siano
stati compiuti in uno qualsiasi dei casi che qui ci interessano. È solo
perché le istituzioni di questo paese sono una massa di incoerenze che
nella pratica vengono ammessi questi fenomeni di dispotismo, chiamato anche
paternalismo, mentre la libertà generale della nostra costituzione impedisce
l'esercizio del controllo necessario a dare a certe restrizioni un pur minimo
valore di educazione morale. All'inizio di questo saggio si era affermato che
la libertà dell'individuo in questioni che riguardano lui solo implica
una corrispondente libertà per qualsiasi numero di individui di regolare
per mutuo consenso questioni che li riguardano nel loro complesso, e non riguardano
altri. Questo problema non presenta difficoltà fino a quando la volontà
di tutti gli interessati resta immutata; ma poiché potrebbe mutare, spesso
essi devono, anche in questioni che riguardano solo loro, contrarre degli impegni
reciproci; e in questo caso è generalmente giusto che questi impegni
vengano mantenuti. Tuttavia, questa regola generale ha delle eccezioni, presenti
probabilmente nelle leggi di tutti i paesi. Non solo gli individui non sono
vincolati da impegni che violino i diritti di terzi, ma talvolta viene considerata
ragione sufficiente per esimerli dall'impegno il fatto che sia loro dannoso.
Per esempio, in questo e nella maggior parte degli altri paesi civilizzati un
impegno per cui una persona si venda, o permetta di essere venduta, come schiavo
sarebbe privo di valore legale, e né la legge né l'opinione consentirebbero
che fosse rispettato. La ragione per limitare così il potere dell'individuo
di disporre volontariamente della propria vita è evidente, e questo caso
estremo la mostra con chiarezza. Il motivo per non interferire, salvo quando
altri siano coinvolti, negli atti volontari di un individuo è il rispetto
della sua libertà: la sua scelta volontaria prova che ciò che
sceglie è per lui desiderabile, o perlomeno sopportabile, e nel complesso
è più opportuno per il suo bene permettergli di trovare da solo
i mezzi di conseguirlo. Ma vendendosi come schiavo, abdica alla sua libertà:
rinuncia a ogni suo uso posteriore all'atto di vendersi. Quindi contraddice,
con la sua stessa azione, proprio lo scopo che giustifica il permesso che ha
di disporre di se stesso. Non è più libero, e appunto per questo
si trova in una posizione che vanifica la presunzione che egli vi possa restare
volontariamente. Il principio della libertà non può ammettere
che si sia liberi di non essere liberi: non è libertà potersi
privare della libertà. Queste ragioni, la cui efficacia è così
evidente in questo caso particolare, hanno chiaramente un'applicabilità
ben più ampia; tuttavia vengono limitate in ogni campo dalle esigenze
della vita, che continuamente richiedono non certo che rinunciamo alla nostra
libertà ma che consentiamo a una serie di sue limitazioni. Tuttavia,
il principio che richiede l'incondizionata libertà d'azione in tutto
ciò che riguarda solo l'agente, implica che due persone che abbiano preso
un impegno reciproco e non riguardante terzi siano libere di esimersi vicendevolmente
dal rispettarlo; e, indipendentemente da questa esenzione volontaria, probabilmente
non esistono contratti o impegni – salvo quelli riguardanti danaro o suoi
equivalenti – di cui si possa sostenere che non vi dovrebbe essere alcuna
libertà di rescinderli. Il barone Wilhelm von Humboldt, nell'eccellente
saggio che ho già citato, afferma che gli impegni riguardanti rapporti
o servizi personali non dovrebbero mai essere legalmente vincolanti oltre un
periodo limitato di tempo; e che il più importante di essi, il matrimonio,
avendo la particolarità che i suoi scopi sono negati se i sentimenti
di entrambi i contraenti non sono in armonia, non dovrebbe richiedere altro
che la deliberata volontà di una delle due parti per essere disciolto.
Questo argomento è troppo importante e complicato per essere discusso
in un inciso, e vi accenno soltanto a fini esemplificativi. Se la concisione
e la generalità della sua argomentazione non avessero costretto il barone
Humboldt a enunciare le sue conclusioni in proposito senza poterne discutere
le premesse, avrebbe senza dubbio riconosciuto che la questione non può
essere decisa su basi così semplici come quelle cui egli si limita. Quando
qualcuno o con una promessa esplicita o con la sua condotta, ha incoraggiato
un'altra persona a ritenere con sicurezza che egli continuerà a agire
in un certo modo – e quindi l'ha portata a formarsi delle aspettative,
a fare dei piani, e a impegnare una qualsiasi parte del suo progetto di vita
in questa supposizione –, si è creato una serie di nuovi obblighi
morali nei confronti dell'altra, obblighi che possono successivamente venire
annullati, ma non ignorati. E inoltre, se il rapporto tra i due contraenti ha
dato origine a conseguenze per altre persone; se ha posto dei terzi in una posizione
particolare, o, come nel caso del matrimonio, li ha addirittura fatti esistere,
vengono a crearsi degli obblighi da entrambe le parti verso queste terze persone
– obblighi il cui adempimento, o comunque le cui modalità di adempimento,
non possono non essere grandemente influenzati dalla continuazione o dalla cessazione
del rapporto tra i due contraenti originari. Non ne segue, né del resto
lo posso ammettere, che questi obblighi si estendano a richiedere l'adempimento
a tutti i costi del contratto, a danno della felicità della parte riluttante:
ma costituiscono per necessità un elemento del problema; e anche se,
come sostiene von Humboldt, non dovessero influire sulla libertà legale
dei contraenti di dichiararsi sciolti dall'impegno (e anch'io ritengo che non
dovrebbero influire molto), necessariamente hanno una grande importanza in termini
di libertà morale. Una persona ha l'obbligo di prendere in considerazione
tutte queste circostanze prima di decidersi a un passo che può coinvolgere
degli interessi altrui di tale importanza; e se non dà loro il giusto
peso è moralmente responsabile dell'errore. Ho svolto queste ovvie osservazioni
per illustrare meglio il principio generale della libertà, e non perché
siano affatto necessarie nella questione specifica del matrimonio, che anzi
viene normalmente discussa come se gli interessi dei bambini fossero tutto,
e quelli degli adulti non esistessero. Ho già notato che, a causa dell'assenza
di principi generalmente accettati, la libertà viene spesso concessa
quando dovrebbe essere negata, e viceversa; e uno dei casi in cui il sentimento
libertario è più forte nell'Europa moderna è, a mio parere,
interpretato in modo del tutto erroneo. Un individuo dovrebbe essere libero
di agire come gli piace in ciò che lo riguarda, ma non di comportarsi
come gli piace quando agisce per conto di un'altra persona, col pretesto che
gli affari di quest'ultima sono i suoi. Lo Stato, rispettando la libertà
di ciascuno in ciò che lo riguarda specificamente, deve mantenere un
vigile controllo sull'esercizio del potere che permette che gli individui detengano
su altre persone. Questo obbligo statale è quasi completamente ignorato
nel caso dei rapporti familiari che, data la loro diretta influenza sulla felicità
umana, sono più importanti di tutti gli altri insieme. È inutile
dilungarsi in questa sede sul potere quasi dispotico dei mariti sulle mogli,
sia perché per eliminare completamente questo male basta che le mogli
abbiano uguali diritti e vengano protette dalla legge come chiunque altro; sia
perché, in questo campo, i difensori dell'ingiustizia costituita non
si appellano alla libertà ma si proclamano apertamente sostenitori della
forza. È nel caso dei bambini che delle malintese nozioni di libertà
ostacolano realmente lo Stato nell'adempimento dei suoi doveri. Si penserebbe
quasi che i figli di un uomo siano ritenuti letteralmente, e non metaforicamente,
una sua parte, tanto l'opinione pubblica è insofferente della pur minima
interferenza legale nell'assoluto e esclusivo controllo paterno sui figli, più
insofferente che di quasi ogni interferenza con la propria libertà d'azione:
a tal punto la generalità degli uomini stima la libertà meno del
potere. Consideriamo per esempio il caso dell'educazione. Non è quasi
ovvio l'assioma che lo Stato dovrebbe esigere e imporre l'educazione, fino a
un certo livello, di ogni essere umano che sia nato suo cittadino? E tuttavia,
chi non ha paura di riconoscere e affermare questa verità? Quasi nessuno
negherà, in effetti, che uno dei doveri più sacri dei genitori
(o, secondo la legge e il costume odierni, del padre) è, avendo fatto
venire al mondo un essere umano, dargli un educazione che lo ponga in grado
di svolgere nella vita la sua parte verso se stesso e gli altri. Ma mentre si
dichiara all'unanimità che questo è dovere del padre, quasi nessuno,
in questo paese, tollererà che si dica che il padre va obbligato a compierlo.
Invece di essere tenuto a compiere qualsiasi sforzo o sacrificio per assicurare
una educazione a suo figlio, può scegliere se accettarla o meno quando
viene fornita gratis! Non si ammette ancora che far venire al mondo un bambino
senza avere ragionevoli prospettive di potere non solo procurargli alimentoper
il corpo, ma istruzione e esercizio per la mente, e un crimine morale, sia contro
la sfortunata prole che contro la società; né che se non si adempie
a quest'obbligo, dovrebbe adempiervi lo Stato, nella misura del possibile a
spese del genitore. Se venisse finalmente riconosciuto il dovere di attuare
l'istruzione universale, avrebbero fine le controversie su che cosa e come lo
Stato dovrebbe insegnare, che attualmente trasformano la questione in un semplice
terreno di scontro tra sette e partiti, in cui il tempo e gli sforzi che dovrebbero
essere impegnati nell'educazione sono sprecati a litigare su di essa. Se il
governo si decidesse a esigere che ogni bambino riceva una buona istruzione,
potrebbe evitarsi il disturbo di fornirla: potrebbe lasciare ai genitori il
compito di trovare l'educazione dove e come preferiscono, e limitarsi a pagare
le tasse scolastiche dei bambini delle classi più povere, e a coprire
tutte le spese scolastiche di quelli che sono completamente privi di mezzi.
Le obiezioni che vengono giustamente mosse all'educazione di Stato non si applicano
alla proposta che lo Stato renda obbligatoria l'istruzione, ma che si prenda
carico di dirigerla; che è una questione completamente diversa. Sono
il primo a deplorare che l'intera istruzione, o qualsiasi sua parte, sia affidata
allo Stato: tutto ciò che si è affermato sull'importanza dell'individualità
del carattere e della diversità di opinioni e comportamenti implica,
con la stessa incommensurabile importanza, la diversità di educazione.
Un'educazione di Stato generalizzata non è altro che un sistema per modellare
gli uomini tutti uguali; e poiché il modello è quello gradito
al potere dominante – sia esso il monarca, il clero, l'aristocrazia, la
maggioranza dei contemporanei – quanto più è efficace e
ha successo, tanto maggiore è il dispotismo che instaura sulla mente,
e che per tendenza naturale porta a quello sul corpo. Un'educazione istituita
e fondata dallo Stato dovrebbe essere, tutt'al più, un esperimento in
competizione con molti altri, condotto come esempio e stimolo che contribuisca
a mantenere un certo livello qualitativo generale. Soltanto quando la società
in generale è a uno stadio così arretrato che non sarebbe in grado
di crearsi istituzioni educative adeguate se lo Stato non se ne assumesse il
compito, il governo può, scegliendo tra due mali il minore, incaricarsi
della gestione di scuole e università, come potrebbe fondare delle società
per azioni se l'iniziativa privata del paese non fosse abbastanza sviluppata
da intraprendere grandi attività industriali in generale se un paese
contiene un numero sufficiente di persone qualificate a svolgere la funzione
educativa sotto il patrocinio dello Stato, esse sono disposte e in grado di
fornire un'educazione altrettanto buona su basi volontarie, purché sia
loro garantita la remunerazione da una legge che renda obbligatoria l'istruzione,
insieme con sovvenzioni statali agli allievi non in grado di affrontare le spese
scolastiche. Gli strumenti per attuare a legge non potrebbero essere altro che
esami pubblici, estesi a tutti i bambini a partire dall'infanzia. Si potrebbe
fissare un'età in cui è obbligatorio un esame che stabilisca se
un bambino sa leggere. Se il bambino si rivela analfabeta, il padre, a meno
che non presenti adeguate giustificazioni, potrebbe essere punito con una lieve
ammenda – pagabile se necessario, con prestazioni d'opera – e il
bambino potrebbe essere mandato a scuola a sue spese. Una volta all'anno l'esame
andrebbe ripetuto, su una gamma di argomenti gradatamente ampliata, in modo
da rendere virtualmente obbligatorio per tutti acquisire e, ciò che è
più, mantenere un certo minimo di cultura generale. Oltre ad esso, dovrebbero
esistere esami volontari su tutte le materie, che conferiscano un certificato
a chiunque dia prova di un certo livello di conoscenze. Per evitare che lo Stato
eserciti per questa via un'indebita influenza sull'opinione, le conoscenze necessarie
per superare un esame (a parte quelle puramente strumentali, come le lingue
e il loro impiego) dovrebbero anche ai livelli più elevati, limitarsi
esclusivamente ai fatti e alla scienza positiva. Gli esami riguardanti religione,
politica o altri argomenti controversi non dovrebbero vertere sulla verità
o falsità delle varie opinioni, ma sul fatto che date opinioni sono sostenute,
in base a date argomentazioni, da dati autori, scuole o chiese. Con questo sistema,
la nuova generazione si troverebbe in una posizione non peggiore di quella attuale
rispetto a tutte le verità controverse: i giovani crescerebbero anglicani
o dissenzienti come crescono ora, e lo Stato si limiterebbe a renderli anglicani
o dissenzienti istruiti. Nulla impedirebbe loro di studiare la religione, se
così desiderano i loro genitori, nelle medesime scuole in cui imparano
altre cose. Tutti i tentativi da parte dello Stato di influenzare le conclusioni
che i cittadini possono raggiungere su argomenti controversi costituiscono un
male; ma lo Stato non commette alcuna interferenza indebita offrendosi di accertare
e certificare che un individuo possiede la cultura necessaria a rendere degne
di attenzione le sue conclusioni su un qualsiasi argomento. Uno studente di
filosofia trarrebbe vantaggio dall'essere in grado di affrontare un esame sia
su Locke sia su Kant, indipendentemente dal fatto che condivida le idee dell'uno,
dell'altro o di nessuno dei due; e non vi è ragione di obiettare al fatto
che un ateo venga esaminato sulle prove dell'esistenza di Dio, purché
non si esiga che professi di credervi. Tuttavia ritengo che gli esami ai livelli
più elevati dovrebbero essere completamente volontari: i governi avrebbero
un potere troppo pericoloso se fosse loro permesso di escludere chiunque da
una professione, ivi compreso l'insegnamento, sostenendo che è privo
dei requisiti necessari; e ritengo, con Wilhelm von Humboldt, che le lauree
o altri certificati pubblici di qualità scientifiche o professionali
dovrebbero essere conferiti a chiunque si presenti agli esami e li superi, ma
non dovrebbero costituire un vantaggio rispetto a chi ne è privo, salvo
per l'eventuale importanza attribuita dalla pubblica opinione a quanto attestano.
Non è solo nella questione dell'istruzione che delle malintese nozioni
di libertà impediscono che vengano riconosciuti gli obblighi morali dei
genitori, e venga loro imposto di rispettare quelli legali, mentre invece è
sempre giusto far rispettare i primi, e in molti casi anche i secondi. Lo stesso
fatto di causare l'esistenza di un essere umano è una delle azioni che
comportano più responsabilità nell'intero arco della vita umana.
Assumersi questa responsabilità – dare una vita che può
essere una sciagura o una fortuna –, senza che l'essere che riceve la
vita abbia almeno le normali probabilità di condurre un'esistenza desiderabile
è un delitto contro di lui. E in un paese che è sovrappopolato
o minaccia di diventarlo, produrre bambini in un numero che non sia molto limitato
con l'effetto di diminuire il compenso del lavoro a causa della loro concorrenza,
è un grave reato contro tutti coloro che vivono dei frutti del loro lavoro.
Le leggi che in molti paesi del Continente vietano il matrimonio se le parti
contraenti non possono dimostrare di avere i mezzi sufficienti a mantenere una
famiglia, non esulano dai poteri legittimi dello Stato; e, indipendentemente
dalla loro maggiore o minore efficacia (che generalmente varia a seconda delle
condizioni e dei sentimenti del paese) non sono criticabili come violazioni
della libertà. Sono interferenze statali per vietare un atto nocivo –
un atto lesivo di altri, che dovrebbe essere condannato e bollato dalla società,
anche nei casi in cui non si giudichi opportuno infliggere anche una punizione
legale. E tuttavia le comuni concezioni della libertà, che così
spesso accettano supinamente le vere violazioni della libertà dell'individuo
in ciò che è di sua esclusiva competenza, rifiuterebbero ogni
tentativo di controllarne le inclinazioni quando indulgervi può portare
a una vita di infelicità e depravazione per genitori e figli, con molteplici
mali per chiunque sia sufficientemente vicino da subirne le conseguenze. Quando
confrontiamo lo strano rispetto che gli uomini hanno per la libertà con
lo strano disprezzo che hanno per essa, potremmo pensare che un uomo ha un diritto
inalienabile a far del male agli altri, e assolutamente nessuno a far quel che
gli piace senza dar dolori a nessuno. Ho lasciato per ultimo un vasto gruppo
di questioni riguardanti le interferenze da parte del governo, che, anche se
strettamente collegate all'argomento di questo saggio, a rigor di termini non
ne fanno parte. Sono dei casi in cui le ragioni contrarie all'interferenza non
si fondano sul principio di libertà: la questione non è di porre
delle restrizioni alle azioni degli individui, ma di aiutarli; ci si chiede
se il governo debba compiere, o far compiere, degli atti a loro beneficio invece
di lasciarli fare ai cittadini stessi, individualmente o in associazioni volontarie.
Le obiezioni all'interferenza governativa, che non costituisca violazione della
libertà, possono essere di tre tipi: Il primo è quando l'azione
da compiere ha probabilità di essere compiuta meglio da singoli individui
che dal governo. In generale, nessuno è tanto adatto a condurre degli
affari, o a decidere come o da chi vadano condotti, quanto coloro che vi hanno
un interesse personale. Questo principio condanna le interferenze, un tempo
tanto comuni, del potere legislativo o di funzionari governativi nelle normali
attività dell'industria e del commercio. Ma questo aspetto della questione
è già stato sufficientemente approfondito dagli studiosi di economia
politica, e non è particolarmente collegato ai principi di questo saggio.
La seconda obiezione è più strettamente connessa al nostro problema.
In molti casi, anche se i singoli individui non sono mediamente in grado di
svolgere una data attività altrettanto bene che dei funzionari governativi,
è tuttavia auspicabile che essa sia svolta da loro invece che dal governo,
come mezzo di educazione intellettuale come un modo di rafforzare le proprie
facoltà attive, esercitare il proprio giudizio, e acquisire una certa
conoscenza e familiarità con le questioni di cui si devono così
occupare. Questo è il principale, anche se non l'unico, argomento a favore
delle giurie popolari (salvo che nei processi politici); di istituzioni locali
e municipali libere e popolari; della gestione di iniziative industriali e filantropiche
da parte di associazioni volontarie. Non sono delle questioni di libertà
– problema cui sono collegate solo da remote tendenze – ma di sviluppo.
Non è questa la sede per trattare di queste attività in quanto
componenti dell'educazione nazionale, anzi in quanto addestramento specifico
dei singoli cittadini, aspetto pratico della loro educazione politica di uomini
liberi, che li fa uscire dalla ristretta cerchia dell'individualismo personale
e familiare e li abitua a comprendere gli interessi comuni e a organizzare iniziative
comuni – a agire per motivi pubblici e semipubblici, e ispirare la propria
condotta a fini che li unificano invece di isolarli l'uno dall'altro. Senza
queste abitudini e questi poteri, una libera costituzione non può essere
attuata né conservata, come mostra fin troppo spesso la natura transitoria
della libertà politica nei paesi in cui essa non si fonda su una base
sufficiente di libertà locali. La gestione delle questioni puramente
locali da parte degli abitanti, e delle grandi iniziative industriali da parte
dell'insieme di coloro che volontariamente ne forniscono il supporto finanziario,
è inoltre auspicabile per tutti i vantaggi che questo saggio ha indicato
come propri dell'individualità dello sviluppo e della varietà
dei modi di agire. Le attività governative tendono ad essere uguali dappertutto;
i singoli e le associazioni volontarie invece danno origine a una varietà
di esperimenti e a un'infinita diversità di esperienze. Lo Stato può
rendersi utile trasformandosi in deposito centrale, e in attivo diffusore, delle
esperienze risultanti da molti tentativi diversi: suo compito è far sì
che ogni sperimentatore tragga profitto dagli esperimenti altrui, invece di
tollerare soltanto i propri. La terza e più valida ragione per limitare
l'interferenza dello Stato è la grande sciagura costituita da un'inutile
estensione del suo potere. Ciascuna funzione che viene ad aggiungersi a quelle
che il governo già svolge, amplia il suo campo di influenza sulla speranza
e sul timore umani, e trasforma sempre più gli individui più attivi
e ambiziosi in parassiti del governo, o di qualche partito che aspiri a diventarlo.
Se strade, ferrovie, banche, assicurazioni, grandi società per azioni,
università e opere benefiche fossero tutte delle branche del governo;
se inoltre le amministrazioni municipali e locali, con tutte le loro attuali
competenze, diventassero dipartimenti dell'amministrazione centrale; se i dipendenti
di tutte queste aziende e istituzioni fossero nominati e pagati dal governo
e si rivolgessero a esso per ogni miglioramento della loro qualità di
vita, tutta la libertà di stampa e tutta la democraticità del
potere legislativo non renderebbero questo o alcun altro paese libero se non
di nome. E il male sarebbe tanto maggiore quanto più efficientemente
e scientificamente fosse costruita la macchina amministrativa – quanto
più abili e raffinati fossero i metodi di ottenere che vi lavorino le
persone più qualificate ed esperte. In Inghilterra è stato recentemente
proposto che tutti i funzionari civili dello Stato vengano scelti mediante esami
pubblici, in modo da selezionare per questi impieghi le persone più intelligenti
e colte che il paese offra: e molto è stato detto e scritto a favore
e contro questa proposta. Uno degli argomenti su cui hanno più insistito
i suoi oppositori è che l'impiego permanente di funzionario statale non
offre prospettive di reddito e carriera sufficienti da attrarre i talenti migliori,
che saranno sempre in grado di trovare carriere più allettanti nelle
libere professioni o al servizio di compagnie o di altri enti pubblici. Non
sarebbe stato sorprendente se questa argomentazione fosse stata usata dai fautori
della proposta per controbattere l'obiezione principale da essa suscitata: sorprende
invece che la usino gli oppositori. Quella che viene avanzata vigorosamente
come critica è la valvola di sicurezza del sistema. Se tutti i migliori
talenti del paese potessero effettivamente essere convinti a servire lo Stato,
la proposta in questione potrebbe a buon diritto suscitare un senso di disagio.
Se ogni aspetto delle attività sociali che richiede capacità organizzative,
o di ampia comprensione e sintesi, fosse nelle mani del governo, e se gli incarichi
governativi fossero tutti ricoperti dalle persone più capaci, tutta la
cultura più approfondita e l'intelligenza più sperimentata del
paese – eccezion fatta per gli intelletti puramente speculativi –
sarebbe concentrata in una folta burocrazia, che diventerebbe l'unico punto
di riferimento del resto della comunità per qualsiasi questione. Le masse
si rivolgerebbero a essa per essere dirette e guidate in ogni loro attività
e i più capaci e ambiziosi per ottenere avanzamento personale. Essere
ammessi nelle fila di questa burocrazia, e successivamente farvi carriera, diventerebbero
le due uniche ambizioni. In un regime del genere, non solo il pubblico esterno
alla burocrazia non sarebbe in grado, per mancanza di esperienza pratica diretta,
di criticarne o controllarne l'attività, ma anche se, per accidenti del
dispotismo o funzionamento naturale delle istituzioni popolari, salissero al
potere dei governanti o un governante con intenzioni riformatrici, non si potrebbe
effettuare alcuna riforma che andasse contro gli interessi della burocrazia.
Questa è la malinconica condizione dell'Impero russo, stando alle descrizioni
di coloro che hanno avuto sufficienti opportunità di osservarlo. Lo stesso
zar è impotente contro la burocrazia: può mandare qualsiasi burocrate
in Siberia, ma non può governare senza di loro, o contro la loro volontà;
hanno il tacito veto su ogni suo ordine, semplicemente perché possono
rifiutarsi di eseguirlo. In paesi di civiltà più avanzata e di
spirito più insurrezionale, i cittadini, abituati a che lo Stato faccia
tutto in vece loro, o almeno a chiedere sempre allo Stato non solo il permesso
di far qualcosa ma anche come farla, naturalmente lo giudicano responsabile
di qualsiasi disgrazia loro accada, e quando i mali superano i limiti della
loro pazienza si ribellano al governo facendo la cosiddetta rivoluzione; con
la quale qualcun altro, investito o no della legittima autorità dalla
nazione, balza al posto di comando, impartisce i suoi ordini alla burocrazia,
e tutto continua quasi come prima: la burocrazia resta immutata, e nessuno è
capace di prenderne il posto. Un popolo abituato a gestire direttamente i propri
affari offre uno spettacolo ben diverso. In Francia, dove gran parte della popolazione
ha fatto il servizio militare e molti hanno avuto il grado almeno di sottufficiali,
ogni insurrezione popolare comprende diverse persone in grado di assumerne la
guida e di improvvisare un piano ragionevole d'azione. Ciò che i francesi
sono nelle questioni militari, lo sono gli americani in ogni genere di affari
civili; se privato del governo, qualsiasi gruppo di americani è in grado
di improvvisarne uno e di svolgerne i compiti, come del resto qualsiasi altra
attività, con un sufficiente grado di intelligenza, ordine e decisione.
Questo è ciò che dovrebbe essere ogni popolo libero; e un popolo
capace di questo è certo di restare libero; non si lascerà mai
rendere schiavo da un uomo o da un gruppo di uomini perché sono in grado
di impadronirsi delle redini dell'amministrazione centrale e di usarle. Nessuna
burocrazia può sperare di costringere un popolo come questo a sottomettersi
o a fare ciò che non desidera. Ma nei paesi in cui tutto è svolto
tramite la burocrazia, non è possibile fare assolutamente nulla cui essa
sia realmente contraria. La costituzione di paesi di quest'ultimo tipo è
l'organizzazione delle esperienze e delle capacità pratiche della nazione
in un'entità disciplinata la cui funzione è governare il resto
del paese. Quanto più perfetta è l'organizzazione, quanto più
riesce a attrarre e a educare ai propri fini le persone più capaci provenienti
da ogni strato della comunità, tanto più completa è la
schiavitù per tutti, compresi i membri della burocrazia; poiché
i governanti sono altrettanto schiavi della loro disciplina e organizzazione
quanto sono schiavi i governati. Un mandarino cinese è strumento e creatura
del dispotismo tanto quanto il più umile contadino. Un singolo gesuita
è schiavo del suo ordine fino all'abiezione, anche se I ordine stesso
esiste in virtù del potere collettivo e dell'importanza dei suoi membri.
Non va inoltre dimenticato che l'assorbimento di tutte le maggiori capacità
di un paese nell'entità che lo governa e presto o tardi fatale per l'attività
mentale e l'evoluzione dell'entità stessa. Strettamente interdipendenti
operanti un sistema che, come tutti i sistemi, funziona necessariamente in larga
misura grazie a regole fisse –, i funzionari sono costantemente tentati
di cedere all'indolenza della routine o, se talvolta abbandonano la monotonia
del loro lavoro, di lanciarsi in qualche iniziativa informe e poco meditata
che ha colpito la fantasia di un membro importante della gerarchia; e il solo
ostacolo a queste tendenze strettamente connesse anche se apparentemente opposte,
il solo stimolo che può mantenere ad alti livelli le capacità
dell'entità complessiva, è l'essere sottoposti all'attento vaglio
critico di gruppi ad essa esterni e di uguale capacità. È quindi
indispensabile che, indipendentemente dal governo, esistano le possibilità
e i mezzi di formare queste capacità e di fornire loro le opportunità
e l'esperienza necessarie per giudicare correttamente i grandi problemi pratici.
Se vogliamo avere dei funzionari abili e efficienti – soprattutto capaci
di generare innovazioni e disposti a accettarle –, se non vogliamo che
la nostra burocrazia degeneri in una pedantocrazia, l'entità burocratica
non deve inglobare tutte le occupazioni che formano e sviluppano le facoltà
necessarie al governo degli uomini. Determinare il punto in cui il danno, così
grave per la libertà e il progresso umani, comincia, o meglio comincia
a prevalere sui benefici derivanti dall'applicazione collettiva della forza
della società, guidata dai suoi capi riconosciuti, al fine di eliminare
gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento del bene comune; ottenere
tutti i possibili vantaggi della centralizzazione del potere e dell'intelligenza
senza incanalare una parte troppo grande delle attività complessive nell'ambito
governativo; questo è uno dei problemi più difficili e complessi
posti dall'arte del governare. È in larga misura una questione di particolari,
in cui vanno tenute presenti molte e diverse considerazioni e non si possono
stabilire regole assolute. Ma ritengo che il principio pratico che garantisce
la sicurezza, l'ideale da non perdere di vista, il criterio su cui valutare
tutti i sistemi per superare queste difficoltà, può essere espresso
in questi termini: la massima disseminazione di potere che non vada a scapito
dell'efficienza, e la massima centralizzazione, e diffusione dal centro, dell'informazione.
Per esempio, nell'amministrazione municipale vi sarebbe – come negli stati
della Nuova Inghilterra – una distribuzione molto dettagliata tra funzionari
diversi, scelti dagli abitanti locali, di tutte le questioni che non possono
essere risolte per il meglio da chi vi è direttamente interessato; ma
inoltre in ogni dipartimento dell'amministrazione locale vi sarebbe una sovrintendenza
centrale, che costituisce come una branca del governo nazionale. Essa concentrerebbe,
come un punto focale, tutta la varietà di informazioni e esperienze tratte
dall'operato di quella specifica branca amministrativa in tutto il paese, da
qualunque analoga esperienza di paesi stranieri, e dai principi generali della
scienza della politica. Questo organo centrale dovrebbe aver diritto a conoscere
ogni aspetto di tutte le attività, e suo compito specifico sarebbe porre
le conoscenze acquisite dall'esperienza di una località a disposizione
delle altre. Esente dai piccoli pregiudizi e dalla ristrettezza di vedute locali,
grazie alla sua posizione superiore e all'ampiezza della sua sfera di osservazione,
il suo parere sarebbe naturalmente molto autorevole; ma il suo potere reale,
in quanto istituzione permanente, dovrebbe a mio parere essere limitato, obbligando
i suoi funzionari locali ad attenersi alle disposizioni di legge. In tutte le
questioni non previste dalla normativa generale, essi sarebbero liberi di agire
secondo il loro giudizio, e ne risponderebbero agli elettori. Sarebbero legalmente
responsabili delle infrazioni alle norme stabilite dal potere legislativo. L'autorità
amministrativa centrale si limiterebbe a vegliare sulla loro attuazione, e se
non venissero applicate adeguatamente potrebbe appellarsi, a seconda dei casi,
ai tribunali per far rispettare la legge, o agli elettori per allontanare i
funzionari che ne avessero tradito lo spirito. Di questo tipo è, nella
sua impostazione generale, la sovrintendenza centrale che la commissione per
la legge di assistenza ai poveri dovrebbe esercitare sugli amministratori della
tassa assistenziale in tutto il paese. Tutti i poteri che la commissione ha
esercitato oltre questo limite erano giusti, e necessari nei casi specifici
per combattere radicate consuetudini di cattiva amministrazione in questioni
che interessano profondamente non solo le località specifiche ma l'intera
comunità. Nessuna località ha infatti il diritto morale di rendersi,
per incapacità amministrativa, un covo di pauperismo, che necessariamente
si estende ad altre e danneggia le condizioni morali e fisiche dell'intera comunità
lavoratrice. I poteri di costrizione amministrativa e di legislazione ad essa
subordinata conferiti alla commissione per la legge assistenziale (che purtroppo,
a causa dell'atteggiamento dell'opinione pubblica, sono pochissimo esercitati),
anche se perfettamente giustificati in un caso di primario interesse nazionale,
sarebbero totalmente sproporzionati per la sovrintendenza di interessi puramente
locali. Ma un organo centrale di informazione e istruzione ad uso di tutte le
località sarebbe altrettanto utile in tutti i dipartimenti dell'amministrazione
pubblica. Un governo non svolgerà mai abbastanza attività di questo
genere, che non ostacolano, ma aiutano e stimolano le iniziative e lo sviluppo
individuali. I mali cominciano quando il governo, invece di fare appello alle
attività e ai poteri di singoli e di associazioni, si sostituisce a essi;
quando, invece di informare, consigliare, e talvolta denunciare, impone dei
vincoli, o ordina loro di tenersi in disparte e agisce in loro vece. A lungo
termine, il valore di uno Stato è il valore degli individui che lo compongono;
e uno Stato che agli interessi del loro sviluppo e miglioramento intellettuale
antepone una capacità amministrativa lievemente maggiore, o quella sua
parvenza conferita dalla pratica minuta; uno Stato che rimpicciolisce i suoi
uomini perché possano essere strumenti più docili nelle sue mani,
anche se a fini benefici, scoprirà che con dei piccoli uomini non si
possono compiere cose veramente grandi; e che la perfezione meccanica cui ha
tutto sacrificato alla fine non gli servirà a nulla, perché mancherà
la forza vitale che, per far funzionare meglio la macchina, ha preferito bandire.