Biblioteca Multimediale Marxista
Un marxista non può in generale ritenere anormale e demoralizzante la
guerra civile o la guerra partigiana che è una delle sue forme. Il marxismo
si pone sul terreno della lotta di classe e non su quello della pace sociale.
In certi periodi di acuta crisi economica e politica la lotta di classe si sviluppa
fino a trasformarsi in aperta guerra civile, cioè in lotta armata tra
due parti del popolo. In questi periodi il marxista ha il dovere di porsi sul
terreno della guerra civile. Ogni sua condanna morale è assolutamente
inammissibile per il marxismo...
(Lenin, "La guerra partigiana ", 30 setto 1906, ripubblicato da Pietro
Secchia in "La guerriglia in Italia", 1969)
Il rancore di cui si è per tanti anni nutrito, finalmente
si placa quando, nell'agosto del 1964, a Yalta muore Togliatti. Si spegne, con
Togliatti, quel "sorriso machiavellico e italianissimo", dal quale
egli si è sentito controllato, inseguito dovunque si trovasse. Muore
il suo avversario, l'interlocutore sfuggente al quale egli si è rivolto
nel corso del tempo ora con modestia, ora con arroganza, ora con umiltà.
E dal quale è stato sempre sconfitto.
La salma di Togliatti giunge a Ciampino, su un aereo speciale sovietico, nel
pomeriggio del 22 agosto. "Tutto è meticolosamente, direi pignolescamente
organizzato, secondo un protocollo rigoroso e un cerimoniale messo a punto dal
gruppo dominante. Vi sono uomini che furono per quarant'anni compagni di lotta
di Togliatti, che con lui diressero il partito per molti anni nelle condizioni
più dure e difficili, ma se non portano oggi i galloni dell'attuale direzione
non hanno diritto di avvicinarsi di un passo all'area riservata agli eletti...
Anche il dolore e la partecipazione devono essere pesati al bilancino, misurati
col tassametro. Le lacrime dei grandi non debbono confondersi con quelle dei
piccoli... Piccinerie e meschinità degne di una confraternita di gesuiti."
Secchia commenta i funerali con malumore (troppi i discorsi, un po' teatrale
la Pasionaria, "piatto piatto, mediocre e grigio Luigi Longo") e ne
sottolinea le "note stonate" (il ringraziamento al Papa, l'assenza
di una parola di condoglianze per Rita Montagnana pure presente). Altrettanto
stonato giudica l'eccesso di "luci, flashes, riprese fotografiche e filmate"
che accompagna l'elezione di Luigi Longo a segretario del partito. E con acidità
osserva: " Sono cominciate le sviolinature per il nuovo segretario. Se
ne illustra la personalità cercando di mettere in luce gli aspetti che
piacciono alla gente "bene" presentandolo col volto di buon padre
di famiglia, dell'uomo tollerante, tanto tollerante che aveva l'abitudine di
accompagnare ogni mattina la vecchia madre alla messa. Il che dimostrerebbe
tra l'altro che aveva tempo da perdere".
Siamo quasi alla fine dei diari. Con il rancore sembra venire meno, a poco a
poco, anche il desiderio di annotare, quell'urgenza di scrivere che gli aveva
fatto riempire, disordinatamente quaderni e quaderni di idee, di riflessioni,
di memorie. Il desiderio di annotare è stato per anni (quanti? più
di dieci, ormai; più degli anni passati in carcere!) quasi il sostitutivo
della vita reale. Adesso, morto Togliatti, con Longo segretario, la vita può
riprendere.
Forse.
Secchia ha adesso 60 anni, 61 per la precisione. Non tanti da impedirgli di
sperare in un reinserimento pieno nell'attività di partito. Sta bene
in salute. Non conosce acciacchi né cedimenti fisici. Ha conservato (o
così pensa) tutta la sua capacità di lavoro, anche se nel corso
della lunga emarginazione l'ha concentrata, affinata più nell'attività
di riflessione e ricerca che in quella, a lui: più congeniale, di direzione
e organizzazione.
Le speranze di reinserimento sono dunque legittime, tanto più che a dirigere
il partito è stato chiamato, come previsto, l'uomo cui Secchia è
stato più legato negli anni della giovinezza, dell'emigrazione, del confino,
della Resistenza. Secchia non dubita che Longo, nonostante quella dose di opportunismo
che gli ha consentito di attendere con pazienza la successione, sia rimasto
al fondo quello di sempre. Aspetta una settimana prima di mandare al vecchio
compagno di tante battaglie un messaggio di auguri; così lo può
datare, 8 settembre. E, per evitare che Longo non capisca (non si sa mai! non
è uomo di grandi finezze), rende esplicito il significato di quella data:
"Di proposito" scrive "ho lasciato trascorrere alcuni giorni.
Ti invio adesso i miei più fervidi auguri, nell'anniversario di una grande
lotta, nel giorno che segnò l'inizio della riscossa nazionale e di quella
resistenza culminata con la vittoria del 25 Aprile". Come a dire: è
da lì, da quegli avvenimenti, da quello spirito di lotta, da quell'essere
"partigiano" insomma che devi ricominciare a tessere le fila della
tua nuova attività. E in questa battaglia mi avrai al tuo fianco.
L'occasione di dimostrarlo arriva subito. A novembre, sono passati solo tre
mesi dalla morte di Togliatti, appare su Rinascita un articolo di Giorgio Amendola
destinato a fare scandalo. È l'articolo nel quale afferma che dalla critica
e dal fallimento delle due esperienze, quella della socialdemocrazia e quella
del socialismo realizzato, è possibile partire per il superamento della
scissione di Livorno e la definizione di una comune strategia del movimento
operaio europeo. Un'ipotesi, audacissima, è quella di una riunificazione
tra Pci e Psi. (49)
Dopo la morte di Togliatti direttore di Rinascita è stato nominato Giancarlo
Pajetta al quale subito Secchia si rivolge per protestare e chiedere la pubblicazione
di un suo articolo di risposta. L'articolo è già pronto, non c'è
che metterlo in pagina. Pajetta lo ascolta, cerca di minimizzare la portata
della sortita di Amendola e, alla fine, conclude: "Ho già qui una
risposta di Ledda. Se pubblico prima il tuo articolo si dirà: ecco gli
stalinisti che subito si rifanno vivi... È meglio aspettare".
Secchia ha già aspettato troppo. Adesso ha fretta. Va da Longo (e già
questo è un segno del cambiamento dei tempi; la porta di Togliatti per
lui era ormai sbarrata) e gli dice più o meno le stesse cose che ha detto
a Pajetta. Longo lo ascolta, legge con attenzione l'articolo che l'altro gli
ha portato. "Sono d'accordo con te" conclude nel restituirglielo,
ma gli suggerisce di togliere qualche asprezza polemica. "È il solito
opportunista" pensa dentro di sé Secchia che però accetta
le correzioni.
Mentre l'articolo dunque appare su Rinascita come risposta alla "deviazione
di destra" di Giorgio Amendola, lo stesso Secchia viene chiamato a far
parte della delegazione che parteciperà a Belgrado all'VIII Congresso
della Lega dei comunisti jugoslavi. Anche questa è una sorpresa e il
primo a sorprendersene è lo stesso Secchia. A sorprendersene e compiacersene,
naturalmente.
Che sia questo il primo segno, finalmente, che qualcosa è cambiato? L'isolamento
sta dunque per finire? Sta' attento, vecchio mio, si dice Secchia, non sperare
troppo, non ti illudere... Ma come non sperare, come non illudersi un poco quando
per tanti anni sei stato quasi dimenticato e adesso, all'improvviso, prima trovi
posto su Rinascita e poi in una delegazione a Belgrado, al massimo livello?
Da tanto tempo, povero Secchia, "non andava al di là di Pralungo
e Candelo" e adesso viene invitato a un lungo colloquio con Tito! Niente
male, niente male. Forse si ricomincia. Ricominciare significa poter tornare
a discutere, a informarsi ed essere informato, ad avere gli elementi per valutare
la situazione interna e internazionale. Ogni segno di questa possibilità
viene colto con un'attenzione che può apparire ingenua o patetica. "Pajetta"
nota Secchia "durante il viaggio in Jugoslavia si è comportato con
me con molta cordialità."
Un reinserimento pieno nella vita di partito potrebbe verificarsi già
in occasione dell'XI Congresso, il primo senza Togliatti, il primo con Longo
segretario. È un congresso duro nel quale, sullo sfondo della crisi del
centro sinistra, si scontrano a viso aperto per la prima volta nel Pci due diverse
ipotesi dello sviluppo delle lotte in Italia e due diverse concezioni della
democrazia interna del partito.
Leader della destra pragmatica e possibilista è sempre Giorgio Amendola
che, pur avendo lasciato da tempo la direzione della Commissione di Organizzazione,
resta, come resterà fino alla fine, uno dei dirigenti più prestigiosi
del Pci. Con lui ci sono non solo, Pajetta, Alicata, Bufalini, Napolitano, ma
tutti o quasi i dirigenti provinciali e regionali che lo stesso Amendola ha
promosso a suo tempo a incarichi di responsabilità. Leader della sinistra
è Pietro Ingrao; l'uomo che fu per qualche tempo il delfino di Togliatti,
attorno al quale si sono raccolti un gruppo di giovani come Reichlin, Magri,
Trentin, Rossanda.
Ciò di cui si discute è il carattere della crisi italiana, lo
stadio di sviluppo del capitalismo nazionale, la sua possibilità o meno
di integrare la nuova classe operaia. Ma si discute anche della democrazia interna
del Pci, della possibilità o meno della organizzazione di maggioranze
e minoranze, della legittimità del dissenso.
Longo è preoccupato della possibilità di una lacerazione del partito.
Sa di non avere il carisma di Togliatti, il suo prestigio, la sua autorità.
Il suo giudizio su chi lo circonda è severo: "Amendola è
avventato, improvvisatore", Pajetta "uno che pianta un mucchio di
grane ", Ingrao "è studioso, serio, ma politicamente astratto.
Lui e Amendola tendono di proposito a differenziarsi". La situazione è
così delicata che Longo decide di confidarsi con Secchia e chiedergli
aiuto. Lo chiama, gli espone le sue preoccupazioni, ma sta ben attento a non
dire una parola di troppo. "Sono in difficoltà" ammette "sai...
sono molto isolato. "Secchia vorrebbe sapere qualcosa di più, ma
Longo non si sbottona. A Secchia sembra di capire che, a certe condizioni, sarebbe
possibile un suo rientro nella Direzione del partito. Tutto rimane un po' in
sospeso.
In realtà Longo vuole evitare che Secchia si schieri con Ingrao, vuole
impedire cioè la saldatura tra la vecchia e la nuova sinistra, una saldatura
che lo lascerebbe scoperto e appiattito sulle posizioni della destra amendoliana.
Per condurre meglio la sua battaglia contro Ingrao, Longo ha bisogno del sostegno
di una parte almeno, della vecchia sinistra. E chi meglio di Secchia può
offrirgliela?
Ma Secchia non sta al gioco. E, mentre da una parte i suoi rapporti con Longo
si fanno più stretti, dall'altra non rinuncia a polemizzare con le decisioni
e le prese di posizione che non condivide. Così, al Comitato Centrale
dell'ottobre 1965, dove si discutono le tesi in preparazione del Congresso e
dove appare chiara l'opposizione di Ingrao, interviene a suo favore criticando
il metodo adottato nella polemica ("questa non è polemica, ma intimidazione,
insulto che può portare alla liquidazione politica di un compagno")
e sostenendone la linea ("in questo momento costituisce una remora, un
freno alla corsa verso l'opportunismo e la socialdemocratizzazione"). E
non esita, anche in sede congressuale ad appoggiarlo. Ciò non salva certo
Pietro Ingrao e la nuova sinistra dalla sconfitta.
"Siamo abbastanza isolati" commenta Secchia a conclusione del Congresso
e in questo plurale sembrano comprendersi i vecchi settari e i giovani ingraiani,
i vecchi stalinisti e i giovani neo-leninisti. "Ci tengono dentro perché
sentono che fuori del Comitato Centrale daremmo più fastidio." Una
nuova sconfitta insomma, ma questa volta subìta in campo aperto, quindi
persino con qualche grandezza e soddisfazione, non più nell'isolamento
e nell'umiliazione, ma nel contatto vivificante con altri compagni, altre idee,
altre prospettive. Questo contatto, che a Secchia mancava da tanto tempo, gli
fa dire persino che "il Congresso è andato abbastanza bene",
giudizio davvero singolare vista la sua conclusione, che vede l'ingresso in
Direzione di uomini come Chiaromonte, Di Giulio, Fanti, Galluzzi, Natta e Pecchioli
e un ridimensionamento pesante della vecchia e della nuova sinistra (una parte
della quale, due anni dopo, darà vita al Manifesto e sarà espulsa
dal partito).
Ma è l'odore della battaglia che è piaciuto al vecchio combattente,
che gli ha ridato il gusto dello scontro politico vero. E allora, poco importa
che Longo sembri prigioniero della destra, che la sinistra sia stata sconfitta.
Secchia non si dà per vinto, pensa che nel partito c'è ancora
da fare, che la crisi politica in corso, il deteriorarsi evidente del centro
sinistra con i cedimenti del Psi ai ricatti di Moro, sarà alla fine più
convincente del dibattito congressuale. Alla fine Longo capirà. Nel paese
già molto si muove e tutto ciò che si muove indica che nelle fabbriche
è finita l'epoca della passività e sta maturando una vigorosa
spinta verso sinistra.
I rapporti tra Longo e Secchia continuano così, obliqui e nervosi, tra
qualche scivolamento nostalgico del primo e qualche diffidenza da parte del
secondo. Ma intanto Longo interviene a favore di Matteo, il fratello di Pietro,
da tempo senza lavoro: personalmente si dà da fare perché Matteo
ottenga almeno una modesta pensione dal partito, un segno di stima e riconoscimento
al quale può attribuirsi persino qualche significato politico. Poi Longo
manda a chiamare Secchia, gli chiede di intervenire nel dibattito in corso,
su Rinascita, sui venti anni dalla proclamazione della Repubblica e in un momento
di abbandono gli confida: "Se non la scriviamo noi la storia del partito
comunista, finisce che la scrivono gli altri..." Che tenti di riallacciare
il filo di un vecchio discorso interrotto? O si tratta soltanto di una "furbizia
da monferrino"? Ancora una volta comunque Secchia è disposto, sia
pure con qualche riserva mentale, a dare credito al segretario. Per quanto gli
risulta, del resto, anche i sovietici, nonostante gli sbandamenti revisionistici
dei documenti ufficiali, hanno ancora fiducia in Longo; ed anche questo è
un fatto che Secchia non può non valutare in tutta la sua importanza,
in una fase in cui, a livello internazionale, la situazione appare torbida,
aperta a pericoli di guerra e di colpi di Stato.
Nell'aprile del 1967 i colonnelli stroncano la democrazia ad Atene e prendono
il potere. I marines combattono in Vietnam. In Italia operano indisturbati gruppi
eversivi di destra collegati più o meno apertamente con ambienti di Madrid,
Lisbona ed Atene. Lo scandalo Sifar rivela che i servizi segreti italiani sono
profondamente inquinati, trasformati in una sorta di polizia segreta al servizio
di alcuni gruppi della Dc. Prima una coraggiosa campagna di stampa, poi i lavori
di una commissione parlamentare d'inchiesta portano alla luce una inquietante
realtà e provano l'esistenza di un vero piano eversivo che, approntato
dal generale De Lorenzo, capo del Sifar, avrebbe dovuto scattare nell'estate
del 1964: erano già pronti elenchi di uomini politici da arrestare, campi
di prigionia in cui rinchiuderli, proclami da trasmettere al paese. Dunque,
il colpo di Stato era già stato studiato nei dettagli. Chi garantisce
che anche ora e in una situazione politica più tesa un nuovo colpo di
Stato non sia in preparazione? E il Pci è in grado di rispondere, e come,
a questo pericolo?
"Il movimento democratico greco" dice Secchia nel Comitato, Centrale
del luglio 1967 "si è fatto cogliere di sorpresa, in pigiama, dal
colpo di stato dei colonnelli. Ma ritengo che l'errore più grave non
è stato quello di lasciarsi prendere personalmente in casa; l'errore
più grave commesso dal movimento della sinistra democratica è
stato quello di essersi fatto sorprendere dagli avvenimenti, di non aver saputo
prendere l'iniziativa in tempo, di aver, avuto troppa fiducia nella legalità
democratica, di aver dimenticato che il pericolo fascista è sempre presente
in un mondo dove, l'imperialismo, con tutte le sue forze economiche e militari,
attenta permanentemente alla libertà dei popoli e della pace."
Non è solo Secchia a nutrire questa preoccupazione. La battaglia politico-giornalistica
e poi i lavori della Commissione d'Inchiesta sullo scandalo Sifar rendono più
diffusa la coscienza di questo pericolo nello stesso momento in cui ne rendono
più difficile la realizzazione. Sono i mesi nei quali comincia a cambiare
il clima politico nelle Università, dove finora la destra era stata maggioranza.
Non siamo ancora alle manifestazioni che assumeranno, l'anno successivo, carattere
di movimento impetuoso, ma chi abbia l'occhio e l'orecchio accorto non può
non percepire che anche nel mondo studentesco qualcosa sta cambiando. Cambia
qualcosa anche nelle fabbriche dove avanza un processo solo apparentemente contraddittorio:
mentre Cgil, Cisl e Uil cominciano a porsi il problema dell'unità sindacale
che avrà, negli anni successivi, sbocchi concreti, cominciano a formarsi
nelle più grandi aziende del Nord gruppetti di estrema sinistra che non
si riconoscono nel sindacato.
Secchia è attento ai tre processi in corso: pericolo del colpo di Stato,
crescita del movimento studentesco e nascita di gruppi di sinistra nelle fabbriche,
forse particolarmente attento al primo. Egli è da sempre convinto che
il Msi costituisce un reale pericolo; conosce meglio di altri le sue diramazioni
paramilitari e paralegali, ne sospetta i collegamenti con una parte non trascurabile
degli apparati dello Stato. Il pericolo, come si vedrà ben presto, è
reale; le sue preoccupazioni non sono frutto dell'allarmata fantasia di un vecchio
combattente. Il Pci reagisce a questo pericolo con una serie di atti politici,
moltiplicando le manifestazioni antifasciste, promuovendo iniziative unitarie.
Ma quando, in concomitanza con lo scoppio della guerra in Medio Oriente e grazie
a indiscrezioni giunte dal Viminale, dovrebbe scattare un cosiddetto "piano
di emergenza", allora si rivela clamorosamente tutta la impreparazione
tecnica del Pci. In altri tempi, quando Secchia aveva il suo ufficio al quarto
piano delle Botteghe Oscure, tutto era pronto per quella temuta ma prevista
eventualità: rifugi sicuri per i dirigenti, sia a Roma che alla periferia,
notevoli somme di danaro a loro disposizione, indirizzi insospettabili in Italia
e recapiti all'estero, documenti. E adesso?
Adesso, per quell'eccesso di fiducia nella legalità democratica, che
Secchia rimproverava a Togliatti e che è passato in eredità ai
suoi successori, non c'è più nulla di tutto questo. L'ipotesi
del passaggio rapido e necessario alla clandestinità si colloca ormai
fuori dell'orizzonte politico del Pci. I compagni della Segreteria non dispongono
più né di "guardie del corpo", né di recapiti
sicuri, né di fondi di riserva. Se un colpo di Stato si verificasse insomma,
essi sarebbero i primi a venire arrestati, nelle loro tranquille case borghesi,
né potrebbero opporre resistenza. E la stessa sorte toccherebbe a tutto
il quadro dirigente del partito.
Secchia giudica una follia questo affidarsi bonario ai meccanismi della democrazia
borghese, questa rinuncia, un po' voluta e un po' frutto di sciatteria, ad ogni
strumento di autodifesa. Una follia, perché il pericolo del fascismo
e del colpo di Stato è sempre presente e tanto più concreto, dal
momento che un sistema di alleanze internazionali, di cui il nostro paese fa
parte, ha consentito l'installazione di basi Nato in Italia e, di fatto, il
controllo del nostro esercito e dei nostri servizi di sicurezza da parte degli
Usa.
La strada dell'autodifesa e l'ipotesi del passaggio rapido alla clandestinità
viene fatta propria invece da alcuni dei vari gruppi e gruppetti che si vanno
aggregando nelle Università e nelle fabbriche, alla sinistra del Pci
e in aspra polemica con le sue scelte. Sono gruppi e gruppetti che, anche in
virtù di un singolare convergere di spinte internazionali, avranno, a
cavallo dei primi anni 70, una straordinaria espansione in termini numerici
e di capacità di iniziativa e di consenso.
L'incontro con questo movimento nelle sue varie forme è l'ultimo grande
incontro della vita di Secchia, l'ultima sua passione, segreta e divorante come
tutte le passioni senili, quella in cui egli consuma le ultime riserve di vitalità
e di energia intellettuale.
Finalmente, dopo tanti anni di silenzio e di assenza in cui la classe operaia
è stata costretta a giocare in difesa, ricompaiono sulla scena d'Italia
giovani operai e studenti mossi da speranze e obiettivi ben diversi da quelli
del Pci, impegnati in forme di lotta più audaci e spregiudicate. Fioriscono,
sulla bocca di quei giovani, che invadono le strade sventolando striscioni e
bandiere rosse, parole nuove e insieme antichissime sulle quali era calato da
tempo un velo di silenzio. Le stesse parole fioriscono sui muri delle Università
occupate, sui ta-ze-bao che gli studenti reinventano a somiglianza delle Guardie
Rosse cinesi. È come una lunga collera che esplode, una lunga umiliazione
che si riscatta. È mai possibile? Si torna a invocare la Rivoluzione...
L'amata che Secchia ha aspettato per anni potrebbe dunque giungere ora, quando
egli è già vecchio e stanco e incredulo? Forse è possibile.
Da anni vecchi comandanti partigiani, ormai emarginati dalla vita politica attiva,
ridotti a pure funzioni di rappresentanza in occasione delle celebrazioni del
25 Aprile, cercavano di tanto in tanto, Secchia per sussurrargli quella parola.
Ma ora, da qualche tempo, l'invocazione risuona apertamente sulle piazze e c'è
qualcuno: giovane autorevole e deciso che dice a Secchia: "forse oggi si
può". E' Giangiacomo Feltrinelli, l'editore che dopo anni di militanza
comunista ha rotto ogni rapporto con l'Urss e con il Pci dopo aver pubblicato
a tradimento l'edizione Italiana del Dottor Zivago di Pasternak. Questa clamorosa
rottura ufficiale non gli ha impedito, tuttavia, di mantenere e moltiplicare
i suoi rapporti con i movimenti rivoluzionari dell'America Latina, con Cuba
e persino, curiosamente, con la Cecoslovacchia dove dispone di più di
un recapito. ..
Singolare personaggio, in bilico tra passione terzomondista, gusto dell'avventura
e dell'intrigo internazionale, Feltrinelli ha continuato a frequentare con assiduità
Pietro Secchia. Lo va spesso a trovare nella sua casa oltre l'Aurelia, a Roma.
Arriva più spesso in treno che in aereo e, poiché preferisce evitare
il tassì, va a prenderlo alla stazione Marcello Forte, uomo di fiducia
di Secchia, un po' autista, un po' segretario e un po' guardia del corpo, che
lo porta subito in Via Vettori. Lì i due si chiudono a parlare a lungo
per ore intere. Si scambiano giudizi, preoccupazioni, progetti. Secchia è
impegnato, da tempo, in un lavoro di ricerca sulla storia del Pci che Feltrinelli
si è impegnato a pubblicare. Ma l'attività di storico non lo assorbe
totalmente.
Nel 1967 ha fatto qualche viaggio all'estero: poco dopo la guerra dei sei giorni,
è stato in Egitto assieme a Giancarlo Pajetta e Luca Pavolini. Dal colloquio
con Nasser è uscito vieppiù convinto della necessità e
della urgenza di organizzarsi per contrastare la eventualità di un golpe.
È stato proprio Nasser a raccontare ai compagni italiani che, in occasione
del colpo di Stato dei colonnelli in Grecia, Tito lo aveva ammonito: "E
adesso, a chi toccherà? A voi, a me, o agli italiani?". Più
o meno nello stesso periodo Feltrinelli è stato in Sud America, è
stato fermato, arrestato e poi espulso dalla Bolivia. Sud America e Medio Oriente
sono le due zone calde del mondo, da dove sembra voler partire una nuova ondata
di forti battaglie antimperialiste. Chi dei giovani studenti e operai in lotta
non si sente un po' feddayn, un po' vietcong o un po' tupamaro?
Il tono della campagna elettorale del 1968 risente di questo clima di tensione.
Nello stesso collegio di Biella, che elegge Secchia, viene presentato dal Pci
Francesco Moranino, il comandante che, dopo aver subìto una dura condanna
per fatti connessi alla lotta partigiana, era stato costretto ad emigrare a
Praga ed ora, graziato dal Presidente Saragat, era tornato in Italia.
Rieletto senatore, Secchia non ha dubbi sul fatto che verrà nominato
nuovamente vicepresidente dell'Assemblea, carica che occupa dal 1963. Invece
il Pci cambia candidato. La decisione viene presa alle Botteghe Oscure a sua
insaputa e gli viene comunicata all'ultimo minuto, quando già Fanfani
si era complimentato con lui per l'incarico. A Secchia non resta dunque che
sgomberare in fretta le sue carte dall'ufficio di Palazzo Madama; in virtù
di questo "sgarbo", i suoi rapporti con la Segreteria del Pci si fanno
peggiori e più rari.
Mantiene però un suo filo diretto con Longo, il solito legame contraddittorio
tessuto di speranze e delusioni, di confidenze e sospetti. Come Secchia anche
Longo è particolarmente sensibile a ciò che si muove nel mondo
dei giovani, più disposto all'indulgenza o alla comprensione di eccessi
ed errori inevitabili nel corso di un impetuoso movimento che è pur sempre
l'espressione di una spinta a sinistra. In questo spirito Longo, poche settimane
prima del 19 maggio 1968 riceve nel suo ufficio alle Botteghe Oscure Oreste
Scalzone, uno degli esponenti più noti del movimento studentesco romano.
Di questo incontro, che non è una trovata elettorale, ma la prova di
un'attenzione particolare al movimento, Rinascita pubblica un dettagliato ed
ampio resoconto. Nessuno ignora nel partito che Amendola è assai critico
nei confronti di questa iniziativa del segretario e Secchia, che lo sa, gli
scrive per confermargli, in questa occasione, la sua completa solidarietà
e lamentare le oscillazioni, esitazioni e diffidenze del Pci di fronte a quello
che "è un movimento di classe e di generazioni quale non si aveva
da cinquant'anni". In polemica con Amendola Secchia scrive: "Non è
pensabile di fronte a un movimento rivoluzionario di tanta importanza"
prendersela con "le esagerazioni più estremistiche e anarcoidi.
La rivoluzione non si è mai fatta nell'ordine. Anche per quanto riguarda
le forme di lotta... non si può, da un lato, preparare le masse a condurre
forti lotte economiche e politiche, a impegnare una lotta più decisa
contro la Nato e il Patto Atlantico, a saper fronteggiare eventuali tentativi
di colpo di stato e dall'altro lato, sparare a zero contro i giovani che sanno
affrontare la polizia, che si allenano alle lotte più dure..."
Che i giovani affrontassero con coraggio la polizia era indubbio: le lotte di
piazza tendevano ad assumere un carattere sempre più aspro, gli scontri
tra manifestanti e forze dell'ordine si trasformavano in qualche caso, come
accadde a Valle Giulia a Roma, in vere e proprie battaglie, sia pure condotte
ad armi impari. Ma la Rivoluzione, per dirla con Secchia, non si è mai
fatta nell'ordine, o meglio, per dirla con Mao, "non è un pranzo
di gala".
Il rapporto con Longo, quasi l'unico filo ormai che tiene legato Secchia al
Pci, conosce bruschi scarti pendolari. L'attenzione e la simpatia con cui Longo
guarda all'esplodere del movimento giovanile sembra promettere al Pci una stagione
di sinistra e questo riapre il cuore di Secchia alla speranza. Ma subito dopo,
proprio nell'estate di quell'anno, i carri armati sovietici entrano a Praga.
Si ripete dopo dodici anni la tragedia già vissuta dall'Ungheria, il
soffocamento cioè da parte del Grande Fratello di un processo di rinnovamento
che nasce all'interno di un Paese socialista. Questa volta il Pci, con alla
testa Longo, reagisce in modo assai più coraggioso di quanto non avesse
fatto nel 1956. Per la prima volta, in un documento della Direzione, si legge
la condanna dell'Urss, l'aperta dissociazione dal suo operato.
Secchia accetta solo formalmente la posizione assunta dalla Direzione e poi
dal C.C. Non si sente abbastanza forte da contrastarla apertamente, ma tenta
di ridurne la portata riproponendo quella che egli ritiene la sostanza vera,
il nocciolo del problema. Come si colloca cioè il Pci nello schieramento
internazionale, quale dei due campi sceglie, riconosce come proprio? L'interrogativo
è lecito anche dopo l'intervento sovietico a Praga, un fatto certo drammatico,
ma che non inevitabilmente deve modificare una collocazione storica del Pci.
Così lo intende almeno Secchia. Essenziale rimane, egli dice al C.C.
del 17 ottobre, il carattere dei rispettivi blocchi, "la loro profonda
differenza come natura e come obiettivi". Da una parte cioè c'è
il blocco imperialista e l'obbligo per il Pci di un'azione che porti l'Italia
fuori dal Patto Atlantico e dalla Nato, dall'altra c'è il blocco dei
Paesi socialisti "che devono fare anche una politica di potenza in quanto
serve per mantenere la pace, per lo sviluppo del socialismo, per dare solidarietà
concreta ai popoli che lottano per la loro indipendenza ". Il punto vero
è di sapere e tener fermo "da quale parte noi siamo" e, su
questo, non sono possibili né dubbi né incertezze: "la nostra
scelta fondamentale è già fatta: noi siamo dalla parte dell'Unione
Sovietica, dei Paesi socialisti e dei movimenti rivoluzionari che in tutto il
mondo lottano contro il nemico comune: l'imperialismo". E, se nonostante
tutti gli sforzi, dovesse scoppiare una guerra mondiale? Anche in questo caso,
tanto più in questo caso, non sono consentiti dubbi, né incertezze
e annebbiamenti di prospettiva. "Noi come comunisti non possiamo avere
una posizione di disimpegno. Proprio perché certi pericoli incombono,
noi non dobbiamo fare nulla che possa domani offuscare quella che deve essere
la scelta dei comunisti, del partito comunista e del movimento operaio e internazionalista."
La prospettiva dunque, per Secchia, risiede ancora e sempre in quel "domani",
nel momento della scelta che farà seguito allo scoppio della guerra e
alla sua trasformazione in guerra civile; risiede ancora e sempre in quell'ora
X alla quale prepararsi. E prepararsi come? Intensificando la lotta contro la
Nato e le basi militari americane, allargando il fronte dello schieramento per
la pace; e contro l'imperialismo, vigilando contro i tentativi di colpo di Stato
della destra.
L'antifascismo e la Resistenza costituiscono, assieme all'antimperialismo, un
punto di riferimento essenziale per tutto il movimento giovanile. Antifascismo
e Resistenza sono per la miriade di gruppi, di sigle di piccoli e grandi movimenti
che sorgono e si affermano in quegli anni due momenti della storia italiana
di cui è lecito forzare il significato cercandovi giustificazione ed
avallo alle battaglie attuali. Su questo versante sono possibili malintesi ed
equivoci, ma anche strumentalizzazioni.
Da anni Secchia si dedica a una ricerca storica che ha evidenti connessioni
con il dibattito politico. La prima opera, cui ha collaborato anche Frassati,
è una ricerca sui rapporti tra gli Alleati e la Resistenza. Subito dopo,
sempre nelle edizioni di Feltrinelli, esce uno smilzo, ma prezioso volumetto
contenente una cronistoria del 25 Aprile; poi, nel marzo del 1969, un testo
che ha ben più che un valore storico e che segna probabilmente il massimo
di collaborazione, non soltanto intellettuale, tra il vecchio dirigente comunista
e il giovane Feltrinelli.
La guerriglia in Italia, raccolta di istruzioni dettagliate per la guerriglia
in montagna e in città, si apre con brevi testi di D'Orgivalle, Mazzini
e Garibaldi e si conclude con uno scritto di Lenin sulla guerra partigiana,
o meglio sulla lotta armata come strumento del movimento operaio. Le istruzioni
per la guerriglia sono quelle che, a suo tempo, nel 1944 e 1945, erano state
impartite alle Brigate partigiane e ai Gap. Si va da testi più organici
e complessivi (Elementi di tattica partigiana, Sintesi di tattica della guerriglia
e decalogo del partigiano) a testi più immediatamente prescrittivi e
pratici (Direttive tecniche per il sabotaggio, Esempi di imboscata, Sabotaggio
delle linee di comunicazione).
Sarebbe davvero troppo ingenuo pensare che quelle direttive del Comando Generale
del Corpo Volontari della Libertà avessero in quel momento solo il valore
di un documento d'archivio. È fin troppo facile immaginare con che animo
quelle direttive venissero lette dai tanti giovani studenti ed operai che in
quei mesi percorrevano le strade delle più grandi città d'Italia
inneggiando alla prossima Rivoluzione. Leggiamo soltanto questo passaggio tratto
da una circolare del Comando Regionale Militare Veneto del Cvl del giugno del
1944:
" Distruzione di piloni. Far saltare di preferenza i piloni delle linee
ad alta tensione, operazione più facile e assai efficace. Servirsi sempre
di gelatina, tritolo o plastico. Mettere la polvere in tubo flessibile che abbia
pressappoco la circonferenza del pilone che si voglia abbattere e poi collocarlo
sul pilone stesso all'altezza di tre o quattro metri in modo da ottenere, più
facilmente la sua caduta una volta spezzato. Se si mettesse l'esplosivo all'altezza
stessa del pilone, si rischierebbe di vederlo restare in piedi anche se la troncatura
riuscisse perfetta. Scegliere sempre il pilone che si vuole abbattere o in una
curva della linea o in un cumulo in modo che, nella caduta del pilone, il filo,
prendendo la linea diretta, si allunghi e tocchi più facilmente il suolo...
". (50)
In appendice viene pubblicato un testo di Lenin del 1906 in cui si esalta la
lotta armata in sprezzante polemica con coloro che la criticano come una forma
di "qualunquismo, anarchismo, terrorismo". "La lotta armata"
scrive Lenin " persegue due diversi obiettivi: innanzi tutto essa mira
a uccidere singole persone, ufficiali e subalterni dell'esercito e della polizia;
in secondo luogo si propone di confiscare somme di danaro appartenenti sia al
Governo, sia a privati. Una certa aliquota delle somme confiscate viene destinata
al partito e la parte restante specificatamente all'armamento e alla preparazione
della insurrezione e al mantenimento di coloro che conducono questa lotta...
Il diffondersi della lotta partigiana, il suo legame con l'inasprimento della
crisi, non solo economica, ma anche politica sono incontestabili. Il vecchio
terrorismo russo era opera di intellettuali cospiratori: oggi la lotta partigiana
viene condotta di regola dall'operaio militante o semplicemente dall'operaio
disoccupato... Nell'epoca della guerra civile l'ideale del partito del proletariato
è il partito combattente: ciò è assolutamente incontestabile.
Bisogna dedurne che si deve imparare a combattere e basta."
Quasi il significato di queste affermazioni non fosse già di per sé
chiarissimo (e assolutizzato in una lettura volutamente priva dei suoi riferimenti
storici), Secchia si preoccupa di mettere in rilievo queste ed altre frasi dello
stesso tono, utilizzando il corsivo (la sottolineatura è arbitraria dato
che non risulta nel testo originale di Lenin).
E' impossibile pensare che Secchia non si rendesse conto della incidenza pratica,
politicamente e organizzativamente rilevante, di queste "istruzioni di
guerriglia", trasmesse con passione pedagogica analoga a quella che ispirava
le pagine del vecchio Quaderno dell'Attivista. A queste indicazioni e a quel
testo di Lenin si richiameranno quanti, in quegli anni, andavano imboccando
la tragica strada del terrorismo, come premessa e detonatore di una più
vasta lotta armata di massa.
Tra i protagonisti di questa scelta c'è Feltrinelli, che già da
un paio d'anni cerca contatti, promuove organizzazioni clandestine ed azioni
più o meno clamorose, acquista e attrezza recapiti segreti, , sostiene
finanziariamente gruppi e pubblicazioni che si collocano sull'incerto crinale
tra legalità e illegalità. C'è in Feltrinelli un'avventatezza,
una nevrosi, un'impazienza che Secchia non condivide del tutto. Ma i due sembrano
animati anche da una stessa passione, dominati dagli stessi incubi. Giangiacomo
sembra voler dimostrare al vecchio dirigente comunista che anche lui sarà
capace di fare quello che Secchia ha fatto durante la Resistenza, quando lui
aveva solo quindici anni. Ambedue vogliono a modo loro riguadagnare il tempo
perduto: Feltrinelli, facendo il partigiano quando non ce ne sono più
le condizioni, Secchia consegnando, al più giovane e a coloro che lo
seguono, i tesori della sua esperienza partigiana e i sogni che lo avevano animato
fin dal 1928. Il terreno è scivoloso, il rischio è grande.
Il punto di partenza da cui muove questa trama, la legittimazione del gioco
pericoloso sta, per l'uno come per l'altro, nella coscienza della inevitabilità,
quasi nell'attesa, del colpo di Stato. Di qui deriva la necessità e l'urgenza
di organizzare preventivamente una risposta adeguata, la macchina in grado di
scattare al momento giusto.
Feltrinelli era pressante, affettuoso, preoccupato. Secchia era convinto che
gli americani non avrebbero tollerato a lungo la crescita del movimento democratico
in Italia e che, ben presto, anche per ragioni di politica internazionale, si
sarebbe avuto un tentativo di mettere fuori legge il Pci e i sindacati. E sapeva
anche che il Pci, in quanto tale, non aveva più gli strumenti, le attrezzature,
lo spirito per reagire adeguatamente. Tutto era stato ormai smantellato: tipografie,
depositi di armi, centri radiotrasmittenti, recapiti clandestini. Tutto quindi
andava ricostituito daccapo, da soli, senza il Pci.
Per i soldi non esistono problemi. Feltrinelli ne ha in abbondanza. Ed anche
le armi si possono trovare, con i soldi e i legami internazionali di Giangiacomo,
mentre Secchia mette a disposizione la sua esperienza, i suoi rapporti mai interrotti
con i comandanti partigiani delle varie zone: debbono anch'essi tenersi pronti,
sapere che il golpe può scattare da un momento all'altro e non deve trovarli
impreparati, "in pigiama" come aveva trovato i dirigenti del movimento
popolare in Grecia. Secchia condivide tutte le preoccupazioni di Feltrinelli,
ma non tutte le sue decisioni, certamente non quella di darsi alla clandestinità,
decisione che il giovane editore prende ai primi del dicembre del 1969, subito
dopo essere stato interrogato dal giudice Amati in relazione ad alcuni attentati
alla Fiera di Milano della primavera, per i quali erano stati incriminati due
suoi amici, i coniugi Corradini.
Quando, il 12 dicembre 1969, scoppiano a Milano le bombe nella Banca dell'Agricoltura,
a Piazza Fontana, Feltrinelli è a Vienna. Non ha un attimo di dubbio:
questo è il segnale, la vigilia immediata del colpo di Stato. Prende
una macchina e, senza fermarsi un attimo, guida fino a Borgosesia, dove vive
Cino Moscatelli. Gli entra in casa stravolto, gli spiega che è il momento
di muoversi, che ci sono masse di giovani disposte a rispondere a una sua parola
d'ordine, all'invito alla battaglia. Le armi? Si strapperanno al nemico, come
durante la guerra partigiana. I capi? Lui, lo stesso Moscatelli, avrebbe dovuto
essere uno dei comandanti di questa nuova Resistenza, cosi come era stato uno
dei capi di quella contro fascisti e tedeschi nel 1944-45. L'importante è
muoversi presto, per primi; il Pci, o una parte almeno, avrebbe seguito questo
esempio. Moscatelli lo ascolta turbato. Feltrinelli è in uno stato di
evidente sovreccitazione; gli sembra un po' farneticante. Che sia un provocatore?
Gentilmente, ma fermamente, il vecchio comandante partigiano mette alla porta
il candidato guerrigliero. Questi risale in macchina e punta su Genova. Stravolto
dalla stanchezza e dalla tensione arriva a casa di Giovan Battista Lazagna,
un altro partigiano ancora dirigente dell'Anpi e iscritto al' Pci, con il quale
ha, da anni, un rapporto di collaborazione. "Non vorrai mettermi alla porta
anche tu?" gli dice. Lazagna non lo mette alla porta, lo ascolta, e lo
mette a dormire. Da allora Feltrinelli gira l'Italia con documenti falsi. Di
quando in quando va a trovare anche Secchia a Roma, gli chiede consigli, gli
sottopone le sue analisi e, intanto, incoraggia e sostiene la ricerca e il lavoro
di storico dell'altro.
Secchia lo ascolta. Nella primavera del 1970 scrive per il Calendario del Popolo
un articolo intitolato "Lenin e la scienza militare, in cui ribadisce ancora,
come aveva già fatto con il volumetto nell'anno precedente, l'importanza
dello studio delle questioni militari per il movimento operaio.
Come non leggere in quell'articolo un altro segno, un avallo a quanti, nell'area
dell'estrema sinistra, teorizzano la necessità della lotta armata? Si
giunge qui al limite estremo oltre il quale si può scivolare nell'invito
alla ricostituzione di un partito illegale. Ma lo stesso articolo può
apparire anche come lo sfruttamento estremo della legalità da parte di
una organizzazione illegale già esistente L'ambiguità di Secchia
è evidente e alle Botteghe Oscure si giudica che egli stia davvero passando
il segno. Viene chiamato a rapporto e gli si chiede di chiarire la sua posizione.
Egli lo fa in termini tali da accrescere preoccupazioni e sospetti.
"Non sono certo dell'opinione che si possa condurre oggi la lotta armata"
dice, ma sottolinea quell'oggi insistendo sul fatto che; non si può,
né si deve escludere che, per il domani, questa prospettiva si ponga.
Il ragionamento è quello noto: la situazione è seria, il nemico
si rafforza all'interno e all'esterno, la situazione ci potrebbe far trovare
di fronte a una repressione in grande stile, di fronte a un colpo di Stato.
E allora? Si trasforma da accusato in accusatore: "Vi rendete conto"
dice "che, di fronte ad una eventualità di questo tipo il partito
si troverebbe del tutto impreparato, senza un orientamento che gli consenta
di rispondere con efficacia? (51)
"Rispondere con efficacia" significa sempre, per Secchia, rispondere
con le armi. La sua domanda: "com'è preparato il partito?"
è, in realtà, un'accusa: significa che il partito non è
preparato perché al vertice non si vuole nemmeno prendere in considerazione
questa eventualità.
Alle Botteghe Oscure non sanno bene che fare. Prendere nei suoi confronti un
nuovo provvedimento? Questo rischia solo di riaprire un vecchia ferita e di
dare una nuova popolarità a Secchia e alle sue posizioni. Secchia, dal
canto suo, vuoi rimanere nel partito; ciò che gli interessa è
continuare a scrivere e dire - da iscritto al partito - le cose che vuole arrivino
ai giovani. Da una parte e dall'altra insomma non si intende arrivare alla rottura,
ma non si rinuncia alla polemica, per quanto interna, e, qualche volta, ai bruschi
richiami. Così continua una sorta di lungo tiro alla fune.
Secchia è ancora, e sarà fino alla fine della sua vita, uno degli
esponenti più autorevoli dell'Anpi. In nome dell'antifascismo, gruppi
e gruppetti tentano di coinvolgere l'organizzazione degli ex partigiani nelle
loro iniziative chiedendone almeno la solidarietà concreta quando avvengono
scontri con la polizia, con conseguenti arresti e processi. Secchia si adopera
in questo senso ma Boldrini, che è presidente dell'Anpi, è ben
deciso a rifiutare ogni copertura e solidarietà ad azioni che non siano
promosse o controllate dall'organizzazione. Secchia insiste ripetutamente, ma
non riesce a fargli cambiare posizione.
Alba muore il 17 luglio del 1970. La sua lunga malattia aveva rinsaldato i rapporti
tra i due. Secchia l'aveva assistita pazientemente, affettuosamente per molti
mesi. Vladimiro era già sposato e quindi in casa erano rimasti loro due
soli: si tenevano compagnia. La morte di Alba incide profondamente su Secchia,
ne rende aspra e senza conforto la solitudine. Anche il suo umore muta.
Dal 1965 ha intrapreso, assieme a un giovane editore, Enzo Nizza, un'opera destinata
a occupargli degli anni.
Nizza è un ex partigiano toscano che ha lavorato per molti anni nel settore
editoriale del Pci. Adesso sta tentando di mettersi in proprio; e ha coinvolto
Secchia in un progetto ambiziosissimo: la stesura di una Enciclopedia dell'Antifascismo
e della Resistenza in molti volumi. Ma il lavoro, cui Secchia si dedica con
entusiasmo, è più faticoso del previsto e procede a rilento anche
per le difficoltà dell'editore che ha molto slancio e passione, ma mezzi
modesti. Nizza insomma è un editore che fa fronte a fatica ai suoi impegni,
Secchia invece pretende puntualità sia nei pagamenti, che nella uscita
dei volumi. Da una parte e dall'altra ci sono rimproveri e recriminazioni, contestazioni
sul numero delle cartelle e delle voci, sulle garanzie assunte e non mantenute.
"Se continua così la pianto..." scrive spesso Secchia e Nizza
lo rassicura con l'indulgenza affettuosa che si riserva spesso ai vecchi: "Ti
prego di non arrabbiarti perché la vita è breve e poi perché
sai che le tue arrabbiature mi demoralizzano ".
Quelle che erano le qualità di Secchia negli anni della giovinezza e
della maturità si stanno volgendo ormai nella loro caricatura: la precisione,
l'attenzione, il gusto per il controllo del lavoro e per le cose ben fatte si
volgono in pignoleria, in una cura eccessiva dei dettagli, in una inclinazione
alla protesta ripetuta fino alla lamentela. Sembra molto preoccupato dei soldi
"adesso che non ho più nemmeno l'indennità come vice presidente
del Senato", e Nizza, bonario, lo richiama a "quello spirito di reciproca
fiducia che deve costituire, non solo la base del nostro rapporto di lavoro,
ma di un'amicizia che si basa su idee comuni". Anche Nizza, infatti, sta
con un piede dentro al partito e un piede fuori. Le loro lettere rimandano a
qualcosa che non è del tutto chiaro, che sottintende una trama di discussioni
e iniziative politiche che non vengono rese del tutto esplicite.
"In primo luogo" gli scrive Nizza nel dicembre del 1971 "vista
la tua insistente domanda circa i miei propositi o decisioni, ti dico subito
che non ho preso alcuna decisione né ritengo di poterla prendere tanto
in fretta, improvvisamente o alla leggera , (proprio ieri ho rinnovato la tessera).
Sono sempre stato un po' lento di comprendonio e qualche volta si parla con
un amico più che altro allo scopo di vagliare quale effetto fanno, una
volta esteriorizzate, certe idee che si stanno rimuginando. Del resto, decisioni
di un certo tipo avvengono per gradi..."