Biblioteca Multimediale Marxista
Nei libri negli articoli nei saggi che scriviamo, nella richiesta
di poter lavorare per il partito c'è il tentativo tenace, qualche volta
ingenuo di essere ancora qualcosa nel mondo del partito, di contare... Eppure
sembra alle volte che anche oggi ci siano dei carcerieri e che sia ancora più
difficile che non allora essere ancora qualcuno, contare ancora qualcosa, non
essere soltanto il n. 552108 che sta scritto sulla mia tessera...
(Pietro Secchia, 1962)
"... Non ho mai, nel corso della mia vita, tenuto dei diari. Ho sempre
pensato soltanto ad agire, a lottare. Ciò che conta è la lotta...
Ma nella mia vita comincia ora un periodo nuovo in cui mi sarà progressivamente
impedito di lottare, di agire, di portare un contributo, sia pure modesto, da
una posizione dirigente... Vi è un modo di dire: occorrono nove mesi
per fare un uomo e un giorno solo per ucciderlo. No, per fare un uomo non ci
vogliono nove mesi, ci vogliono cinquant'anni, cinquant'anni di sacrifici, di
lotta, di volontà, di rinunce, di tante cose. E, quando quest'uomo è
fatto, quando crede di essere un uomo, una canaglia qualsiasi lo può
distruggere, uccidere moralmente, politicamente e fisicamente, lo può
distruggere in pochi secondi."
Sono passati sei mesi da quel giorno del luglio 1954 in cui Seniga, fuggendo
da Roma, lo ha "ucciso", distrutto in pochi minuti. Nella sua improvvisa
solitudine, Secchia scopre per la prima volta il conforto della confessione
affidata a un diario.
"...qui mi sembra che tu abbia torto perché consideri il suicidio
come una grande azione, mentre invece non lo si può considerare nient'altro
che una debolezza. Senza dubbio è più facile morire che sopportare
coraggiosamente una vita tormentata": la citazione di Goethe, dai Dolori
del giovane Werther, apre la serie dei quaderni. Comincia così, con la
tentazione del suicidio, il calvario dell'esclusione.
Una vita come quella di Secchia si risolve compiutamente solo nel rapporto con
la sua Chiesa, il Partito. È un rapporto di possesso e subordinazione:
Secchia, padrone del partito, ne è stato anche il servo fedele. Ed ora,
all'improvviso e per una colpa che egli non riconosce tale, la Chiesa-Partito
lo respinge, lo esilia. Non può concepirsi privazione più totale
di questa perdita di identità, di un ruolo sacerdotale che, se richiede
il voto di obbedienza e povertà, comporta anche il privilegio di dire
messa e quindi l'esercizio del potere.
Ormai non c'è più nulla di tutto questo per Secchia, il "vecchio"
Secchia. Ma vecchio perché, poi? Secchia ha soltanto cinquant'anni quando
è costretto ad abbandonare il suo ufficio al quarto piano delle Botteghe
Oscure: alla sua età, oggi, molti membri della Direzione del Pci vengono
considerati ancora giovani. Lui, poi, era e si considerava, se non giovane,
certo pieno di energie, di idee, di voglia e capacità di fare, decidere,
comandare. Ma ora, tutto questo è finito o, per dirla con le sue parole,
"si apre un nuovo periodo della mia attività di militante rivoluzionario".
Secchia è stato nominato segretario regionale della Lombardia, un incarico
di rilievo anche se poca cosa rispetto a quello ricoperto per tanti anni. E
i compagni che lavorano con lui, per lo meno i segretari federali e i dirigenti
più qualificati, sanno - anche se l'Unità non l'ha mai scritto
(e non lo scriverà mai) - cosa è veramente accaduto, cosa c'è
all'origine di quella retrocessione. Ci sono notizie che corrono di bocca in
bocca, cifre di cui è impossibile verificare l'attendibilità,
pettegolezzi che sconfinano nella calunnia più volgare. Secchia sa che
anche di questo parlano i compagni quando egli entra all'improvviso in una stanza
o quando, dopo una riunione, si attardano, come d'abitudine, a mangiare e bere
qualcosa insieme, prima di tornare a casa. Lo sa, ma cosa può rispondere?
Cosa può obiettare? Cosa può contrapporre? Nulla, salvo il suo
lavoro, naturalmente.
Milano è la città nella quale egli ha vissuto gli anni migliori
della sua vita, tra l'autunno del 1943 e la gloriosa primavera del 1945, la
città nella quale ha organizzato il partito e la lotta clandestina e
nella quale ha dato li via all'insurrezione armata. I dirigenti migliori li
conosce uno ad uno. Sono uomini tenaci e fedeli, quadri come lui li voleva e
li ha costruiti: molti, tra cui Alberganti, Pesce, Vergani, Vaja, Cossutta,
sono anche suoi amici personali. Dunque, bisogna riprendere il lavoro con energia,
entusiasmo, tenacia.
Pure, pare che qualcosa si sia guastato in lui; l'amarezza e il rancore gli
rendono più difficili anche i rapporti con gli altri. La sua risata allegra
si rompe ormai in toni stridenti, cattivi. "Ride come il diavolo"
commenta qualcuno. La vicenda di cui è vittima lo ossessiona, non riesce
a liberarsene.
E se anche egli riuscisse a liberarsene, c'è la stampa degli altri, la
stampa "borghese" a tornare con tenacia su quegli argomenti centellinando
indiscrezioni e diffamazioni: la cifra che Seniga ha sottratto alle casse del
partito si moltiplica per due, per tre, per dieci. E diviene così grossa
da non apparire più nemmeno credibile e da alimentare altre congetture:
come mai il partito era in possesso di una somma così rilevante? Si torna
a parlare dunque, non soltanto dei finanziamenti segreti dei sovietici, dei
rubli trasformati in dollari, ma anche del famoso "oro di Dongo",
del tesoro di Mussolini e della Repubblica di Salò che si favoleggiava
fosse caduto in mano ai partigiani delle Brigate Garibaldi. E si torna ad insinuare
che tra Secchia e Seniga ci fossero stati rapporti molto "particolari",
un'infamia che, in quell'epoca e in quel partito, poteva distruggere un uomo
in auge, e figuriamoci un uomo che aveva già subìto quei colpi.
Quando Secchia si presenta all'attivo dei militanti milanesi per assumere il
nuovo incarico, non può far finta di ignorare ciò che di lui si
scrive e si sussurra: "Se i giornali borghesi mi attaccano" dice nel
suo discorso "è segno che sono preoccupati di questa decisione che
il partito ha preso di rafforzare la direzione politica in Lombardia e Milano".
E una ben povera replica, naturalmente, una ben povera spiegazione, anche se
i compagni che lo ascoltano, lo applaudono.
L'uomo è fisicamente e psicologicamente provato. E lo si vede. Alle volte
si sveglia all'improvviso, di notte, pensando a cosa farà adesso, dove
sarà Seniga; tormentandosi nella ricerca di qualche mezzo che gli consenta
di rientrare in possesso almeno dei soldi. Si immagina, nel dormiveglia, di
riuscirci e di riportarli a Roma, alle Botteghe Oscure. Ecco, questo sarebbe
forse il modo di riparare. Ma dov'è adesso Seniga? E si sorprende a chiedersi
se non sarebbe stato giusto sparargli addosso nel momento in cui si sono incontrati,
dopo la fuga del 25 luglio. Sparargli addosso o fargli sparare addosso da qualcuno...
Che follia! Nino lo aveva avvertito: "Tutto è già stato messo
al riparo e, se mi dovesse succedere qualcosa, tutto si saprà...".
Come nei sogni o negli incubi, Nino gli torna al pensiero ora irridente ora
affettuoso, indispensabile e capriccioso come un figlio, come il figlio vero
che non ha avuto, come il figlio che ti tradisce, come Bruto. E da Bruto non
ci si può difendere. Altre cose gli vengono in mente, di se medesimo
e del suo passato. Si scopre a pensare, con una vena di umana pietà,
ai compagni che egli aveva contribuito a far cacciare dal partito e che avevano
conosciuto prima di lui - e per sua responsabilità - la pena insopportabile
dell'emarginazione, dell'isolamento. Forse, dice un giorno ad Alba, non ero
tagliato per la politica, non almeno per la politica fatta di intrighi, di compromessi,
di piccole furbizie. No, pensa, io ero tagliato per altra cosa: per la battaglia
a viso aperto, per la lotta, per la rivoluzione. Potevo fare altra cosa della
mia vita? Dove ho sbagliato? Ah, si potesse tornare indietro, si potesse non
scrivere quella lettera con la quale nel 1947 si proponeva a Nino di venire
a Roma, si potesse respingere la sua collaborazione, quell'amicizia che si sarebbe
poi tramutata in tradimento! E, per quanto nella sua immaginazione sofferente
egli torni indietro, per quanto pensi e si arrovelli con la memoria, incontra
sempre a un certo punto colui che lo guarda distaccato ed ironico: Togliatti.
Secchia evita persino nei suoi diari di scriverne il nome; quasi a esorcizzarne
la presenza, si limita a indicarlo, come in un romanzo giallo, con una X.
Quel 1955 fu un anno duro, anche a Milano. Nelle maggiori fabbriche si venivano
introducendo nuovi metodi di organizzazione del lavoro che consentivano un aumento
della produzione e della produttività senza aumentare il numero degli
occupati. Erano anni di profitti crescenti e di dura repressione antioperaia.
Entrare in azienda con l'Unità in tasca poteva significare il licenziamento;
occorreva molto coraggio per presentarsi candidato, come rappresentante della
Cgil, alle elezioni per le Commissioni Interne. In questo clima soffocante,
la Cgil perse, nella primavera del 1955, la maggioranza alla Fiat. Fu una sconfitta
dolorosissima e inattesa, che obbligò non solo il sindacato ma anche
il Pci a un attento riesame della propria linea e delle proprie responsabilità.
"Sono risultati dolorosi, ma non mi hanno sorpreso" è il primo
commento di Secchia con i compagni del Comitato Regionale Lombardo. In certo
senso ha ragione. Da molto tempo egli aveva denunciato nel gruppo dirigente
del Pci il deteriorarsi della situazione nelle fabbriche, un deteriorarsi che
non poteva essere né nascosto né dimenticato dietro i successi
elettorali.. Ma non era stato ascoltato, anzi era stato indicato come un settario,
un operaista. "Per anni" sottolinea adesso "si sono lasciati
licenziare i migliori dirigenti delle Commissioni Interne, o i compagni più
influenti, senza reagire o con brevi fermate di lavoro e proteste che lasciano
il tempo che trovano. Oggi si cercano le cause degli insuccessi ma volutamente
si rimane in superficie, si finge di ignorare perché non si vogliono
vedere le cause più profondamente politiche. È una tragedia"
conclude "che purtroppo si ripete e della quale abbiamo una triste esperienza.
Prima ci si lascia battere nelle singole località, si cedono le posizioni
una ad una, si indietreggia, e poi si fa appello alla lotta quando non siamo
più in grado di darla o quanto meno quando si sono create le situazioni
meno favorevoli per darla. Nel passato, la colpa fu dei riformisti. Ed ora?".
L'interrogativo è retorico: il dito di Secchia è puntato sul gruppo
dirigente delle Botteghe Oscure. Ma l'annotazione è importante perché
rivela una costante del pensiero di Secchia, quella preoccupazione di un rinascente
fascismo, di una svolta autoritaria, di una sconfitta secca della classe operaia,
che a suo avviso Togliatti, Amendola e gli altri sottovalutano, ma che incombe
sul Paese.
"Va bene" dice "Togliatti ci ha insegnato a portare la cravatta
che sarà pure necessaria per stringere relazioni e frequentare certa
gente, ma non sarebbe più utile saper adoperare anche il manico della
pala?" Il manico della pala, simbolo della rozzezza ma anche della forza
della classe operaia. "Nel passato la colpa fu dei riformisti. Ed ora?"
Non rischia di passare, ora, il fascismo, nelle fabbriche e nel Paese per colpa
nostra, dei nostri errori, dei nostri ritardi, delle nostre indulgenze, delle
nostre civetterie (la cravatta e il doppio petto blu di Togliatti), della nostra
maledetta vocazione a stringere con tutti alleanze che assomigliano a pateracchi?
L'interrogativo è un assillo che stringe Secchia da ogni parte: la memoria
della sconfitta storica del 1922 non dà tregua e sollecita a ripensare
le forme di lotta e di organizzazione necessarie a evitare il ripetersi di quel
disastro. Per Secchia, la leva sulla quale far forza è e non può
che essere la classe operaia. Per questo egli è convinto - e non da ora
- che bisogna concentrare tutti gli sforzi del partito e degli organismi di
massa in quella direzione, nel lavoro di fabbrica, combinando insieme lotte
parziali e generali, battaglie economiche e politiche, cercando certo sempre
di stabilire rapporti unitari, ma senza farsi condizionare da questi. "Altrimenti,"
dice Secchia "finisce che ci fermiamo subito o perché non marcia
la Cisl o perché non ci stanno i socialisti."
In questa sottolineatura della centralità della questione operaia e nella
preoccupazione venata di catastrofismo per un risorgente pericolo fascista,
stanno gli essenziali motivi di contrasto con Giorgio Amendola. Non che questi
non valuti in tutta la sua portata la gravità dell'attacco che viene
condotto dal padronato italiano contro la classe operaia (e del resto ci sono
lì le elezioni alla Fiat per ricordarlo ad ogni momento), ma Amendola
è convinto che questo attacco può essere respinto solo con un
coinvolgi mento, nella battaglia per la democrazia, di altri gruppi sociali
e politici.
Il contrasto tra i due ormai è sempre più evidente. Ciò
che negli anni passati era sottinteso, viene adesso alla luce. Certo, nel corso
delle riunioni, Secchia non dice fino in fondo ciò che pensa di Amendola,
ma gli si contrappone senza esitare tanto costantemente quanto inutilmente,
dato che Amendola ha il sostegno pieno di Togliatti e di Longo.
E sarà proprio Longo, ormai unico vicesegretario del partito, a polemizzare
duramente con Secchia nel corso di un Comitato Centrale che, riunitosi a metà
del luglio del 1955, aveva esaminato proprio la situazione delle fabbriche.
Secchia aveva preso la parola per dire tutto ciò che pensava sull'argomento
ed era un argomento sul quale, anche come segretario regionale della Lombardia,
aveva non poche cose da dire: il movimento perde colpi, sta accumulando sconfitte,
e bisogna passare al contrattacco senza esitare. Ma Longo gli ribatte tranquillo
accusandolo di avere una visione pessimistica della realtà e una concezione
militare del movimento. "Non è vero che ci stiamo indebolendo"
replica "anzi, siamo più forti di prima. Le caserme nostre sono
piene di soldati" insiste, quasi a ricordare a Secchia che la sua sostituzione
alla Commissione d'Organizzazione non ha comportato nessun danno per il partito
che non ha perso nemmeno un iscritto. Ma è davvero questo il problema?
"Le caserme saranno piene" sussurra Secchia ad Alberganti "ma
a che serve se i soldati non si battono?"
Gli cresce dentro anche l'astio per Longo, il compagno di lotte che da quasi
trent'anni egli ha sostenuto, coperto, aiutato. Adesso lo chiama ironicamente
"il maresciallo di Fubine", che è il paese dell'astigiano dove
Longo è nato. Il "maresciallo di Fubine", secondo Secchia è
in realtà un pavido, un opportunista, uno che si piega di fronte a Togliatti
senza reagire, uno che preferisce tacere e obbedire, aspettando in silenzio
che venga il suo momento, visto che è convenuto che sarà lui,
Longo, a succedere a Togliatti quando questi vorrà, o quando inevitabilmente
dovrà uscire di scena.
Secchia ora è meno prudente di quanto non fosse quando stava al quarto
piano e dirigeva la Commissione d'Organizzazione. La sua residua vitalità
si manifesta anche in questa volontà di polemizzare, di contestare le
scelte degli altri. Ma Amendola non è meno vitale e polemico di lui:
di qui scontri, sfuriate che lasciano il segno.
Amendola glielo rimprovera direttamente: "I tuoi interventi sono sempre
agitati e carichi di polemica". Secchia reagisce: "Ma non sei stato
proprio tu a incolparmi nel passato di reticenza? Mi accusavi allora di parlare
troppo poco, di non rendere esplicita la polemica. E adesso, di cosa ti lamenti?".
Portatori di linee e culture politiche diverse, i due si scontrano, lealmente
ma duramente. Secchia insiste perché alla Cgil vada, a fianco di Di Vittorio,
Arturo Colombi, un compagno della Direzione del partito di vecchia esperienza
e provate capacità. Ma Amendola nicchia, resiste, adducendo motivi vaghi.
Poi, messo alle strette, ammette: "Colombi, con le posizioni che ha, non
può essere utilizzato in quel posto ". Le posizioni di Colombi sono
esattamente quelle di Secchia, che replica: "Porre le questioni così
significa voler portare la battaglia politica interna al limite della rottura".
E mentre Amendola cerca di chiarire il suo pensiero, Secchia incalza: "Quali
posizioni? Se tu pensi che noi siamo massimalisti e bordighiani, allora sarebbe
legittimo da parte mia usare nei tuoi confronti altri aggettivi... E tu sai
quali".
Amendola lo sa, lo sa benissimo che Secchia e i suoi quando parlano di lui ne
parlano come di un opportunista, un riformista borghese, ma la cosa più
che irritarlo lo diverte. Si diverte a sfidare costantemente gli altri alla
polemica, alla discussione, ma poi appena qualcuno lo contraddice, lo investe
di bordate polemiche di incredibile violenza. "Stai seduto su una poltrona
per cui chi discute con te rischia di apparire subito un oppositore" gli
butta in faccia Secchia un giorno con rabbia impotente. "Quando su quella
poltrona ero seduto io, tu stavi zitto."
Le parti dunque si sono rovesciate. Ora è Amendola che comanda e Secchia,
sia pure in una posizione formalmente di rilievo, è un personaggio di
secondo piano. L'ingresso in segreteria di Amendola e Pajetta ha contribuito
a spostare ancora gli equilibri nel ristretto vertice del Pci.
La cosiddetta "destalinizzazione" e le conseguenze del XX Congresso
sul Pci, determineranno un ulteriore spostamento di quegli equilibri, ma non
nel senso immaginato da Secchia.
Da tempo, da quando nel luglio del 1953 egli aveva ricevuto le prime confidenze
di Molotov sul caso Beria, Secchia sapeva che sarebbe venuto il momento in cui
il coperchio sarebbe saltato e la verità sulla "maladie" (la
follia?) di Stalin sarebbe stata portata a conoscenza del mondo. Secchia immaginava
la "destalinizzazione" come un processo necessario, graduale e ragionevole
nel corso del quale alcune regole della vita interna dei partiti comunisti sarebbero
state corrette, modificate e, forse, trasformate. La "destalinizzazione"
strisciante aveva già provocato in molti paesi dell'Europa Orientale
un ricambio dei vecchi gruppi dirigenti con la liquidazione di coloro che avevano
lavorato a lungo vicino a Stalin: non era irraggionevole quindi scommettere
su una sconfitta di Togliatti nel momento in cui tutta la verità fosse
venuta alla luce. Accadrà esattamente il contrario. Attorno ai temi sollevati
dal XX Congresso del Pcus, Secchia conduce la sua ultima battaglia contro Togliatti
e il gruppo dirigente, uscendone definitivamente sconfitto. E all'VIII Congresso
del Pci, che si tiene alla fine del 1956, il nuovo Comitato Centrale non lo
rielegge nemmeno nella Direzione.
"Il vino nuovo" dissero allora alcuni "non può esser versato
nelle vecchie botti." "E sia" commenterà Secchia. "Anche
se tra tante botti io non ero certo la più vecchia, né avevo mai
stagionato nelle cantine di Stalin." (44)
Il dibattito che, subito dopo il XX Congresso percorre e dilania tutto il corpo
del Pci, è un dibattito disordinato, tumultuoso nel quale ognuno getta
recriminazioni e intelligenza, passione, speranze e rancori. E da lì,
dalla dolorosa distruzione del più grande mito del nostro secolo, che
comincia la faticosa "laicizzazione" del più grande partito
comunista dell'Occidente.
In quel dibattito Secchia tenta di inserire un tema relativamente nuovo e che,
negli anni a venire, tornerà ad alimentare la discussione, il tema cioè
della democrazia intesa come legittimità del dissenso nel partito e necessità
di un dibattito reale, non mistificato o gestito dall'alto. Era il tema che
egli aveva già tentato di proporre tre anni prima, nel 1953, facendosi
forte del consiglio di Molotov e che allora non gli aveva portato fortuna. Ora
la situazione gli è apparentemente più favorevole. Solo apparentemente,
però, perché ormai egli è già un emarginato e quindi
ogni sua invocazione o richiesta di più ampia democrazia finisce con
l'apparire solo strumentale, quasi un patetico tentativo di rimettersi in corsa.
Ma non c'è solo questo. Ormai la questione della democrazia viene assunta
come propria da dirigenti più giovani, come lo stesso Amendola, Pajetta,
Ingrao, Alicata, Bufalini, Giolitti, Natoli per non citarne che alcuni. E questi
propongono il tema non in astratto ma come uno degli elementi della costruzione
di quella "via italiana al socialismo" che, già enunciata nel
lontano 1945, era stata seppellita sia dalle durezze della situazione internazionale
che dalle incomprensioni e resistenze di quelle che venivano indicate allora,
con un termine volutamente generico, "vaste zone" del partito. E per
"vaste zone" si intendeva, senza nominarli, proprio i settori del
partito egemonizzati da Secchia, costantemente percorsi da umori militaristi
e da nostalgie insurrezionali. Nel dibattito sulle "colpe" di Stalin,
Togliatti finisce quindi con l'avere la meglio, proprio perché fa appello
alle forze più giovani del Pci, a quadri impazienti di assumersi le proprie
responsabilità in una guerra di movimento in cui fosse possibile strappare
vittorie risolutive anche senza aspettare la mitica e sempre meno credibile
ora X.
Il cambiamento della situazione internazionale, il miglioramento dei rapporti
tra Urss e Usa, la prospettiva di una lunga fase di " pacifica coesistenza"
rende credibile la prospettiva di una "via pacifica al socialismo"
che nei suoi presupposti politici, culturali, organizzativi è certamente
l'esatto contrario dell'ipotesi di Secchia e dei suoi. Togliatti, che aveva
più di una colpa da farsi perdonare per il periodo in cui, a Mosca, aveva
condiviso le responsabilità di Stalin come dirigente della III Internazionale,
è capace, dopo una breve esitazione, di mettersi egli stesso alla testa
di questo processo di rinnovamento che approderà, all'VIII Congresso
del Pci, al pieno, non strumentale riconoscimento della Costituzione come il
terreno più idoneo per una trasformazione in senso socialista della società
italiana.
Così una fase della storia del Pci si chiude e un'altra se ne apre: l'esito
della battaglia cui danno avvio le rivelazioni di Krusciov è esattamente
l'opposto di quello che Secchia poteva aver pensato e si conclude con la vittoria
di un Togliatti "rinnovatore", e l'emergere, attorno a lui, di un
nuovo gruppo dirigente. Un'operazione di questo tipo doveva necessariamente
confermare l'emarginazione di Secchia (e di altri personaggi a lui analoghi
dal punto di vista politico e biografico, come D'Onofrio e Scoccimarro per non
parlare che dei più noti) anche se, per ripetere le sue parole, non era
certo lui "la più vecchia delle botti né quella che più
a lungo aveva stagionato nelle cantine di Stalin ".
Contribuisce alla sua definitiva sconfitta anche la sua modestia culturale,
una prudenza che sconfina in pavidità e gli impedisce, anche in virtù
di una fortemente introiettata coscienza della disciplina di partito, di apparire
chiaramente come un leader dell'opposizione. La sua polemica segue quindi i
canali delle cosiddette " vie interne" di partito: interviene in Direzione
più che in Comitato Centrale, si affanna a scrivere lettere a Togliatti
che gli risponde con fastidio. Non prende la parola nel primo Comitato Centrale
dopo il XX Congresso e nemmeno nel Consiglio Nazionale del 3 aprile dove saranno
invece Giorgio Amendola e Giancarlo Pajetta a rompere il silenzio che su quella
vicenda Togliatti aveva rigorosamente osservato. (45)
Al Comitato Centrale di fine giugno che convoca il Congresso per la fine dell'anno
prende la parola, cimentandosi in una faticosa analisi di tipo teorico sulle
diverse vie di accesso al socialismo. "Dobbiamo spiegare" dice "in
modo molto chiaro, senza lasciar dubbi, che il passaggio dai rapporti di produzione
capitalisti al socialismo non avverrà attraverso la progressiva approvazione
di una leggina dietro l'altra, di una elezione dopo l'altra al punto che un
bel giorno ci ritroveremo in regime socialista senza nemmeno accorgercene come
se fossimo tranquillamente seduti su un treno.."
Inascoltato da Togliatti, prudente quando prende la parola in Comitato Centrale,
Secchia si sfoga la sera con il suo diario. Allora se la prende con l'opportunismo
("che si getta sul letamaio del liberalismo, ...che corre a destra e sinistra
in cerca di alleati "); recrimina sul passato ("si comincia con l'accettare
una cosa oggi un'altra domani, si ingoia il no che ci viene alle labbra, e d'un
tratto ci si trova immersi in una nuova politica, da cui tornare indietro è
impossibile" );irride a Togliatti ("che ha sempre accettato tutti
gli indirizzi che nei diversi periodi hanno avuto prima l'Internazionale Comunista
e poi il Cominform salvo a buttare poi sugli altri la responsabilità
della politica ormai superata e criticata").
Ma tutto questo è ben lungi dal costituire una linea o una proposta politica.
E infatti, a fronte dei polemici, in qualche caso drammatici interventi di molti
delegati, colpisce il tono mediocre del discorso di Secchia all'VIII Congresso.
Dopo il rituale (ma non obbligatorio) riconoscimento della giustezza delle analisi
contenute nel discorso di Togliatti, Secchia si intrattiene a lungo sulla necessità
di un'azione unitaria tra comunisti e socialisti (che dalle rivelazioni del
XX Congresso avevano tratto occasione per accelerare la loro presa di distanza
dal Pci), per poi rivolgere un paternalistico appello agli intellettuali ("non
tutti imbrancati nelle manifestazioni di odio e di provocazione anticomunista
scatenate dalle forze più reazionarie, clericali e fasciste del nostro
Paese").
A chi gli chiede conto del perché di un intervento così fiacco,
risponde: "Non potevo fare diversamente; un atteggiamento di battaglia
mi avrebbe portato a rompere. La mia influenza è ancora tale che certe
cose dette da me assumono un significato che da loro viene definito gravissimo".
Autogiustificazione? Puro e semplice errore di sopravvalutazione di se medesimo?
È possibile. L'intervento di Secchia, atteso con curiosità, cade
nella più assoluta indifferenza. Qualche contrasto scoppia invece il
17 dicembre nella riunione del Comitato Centrale che deve eleggere la nuova
Direzione. Solo nove tra i membri del CC si dichiarano contrari all'esclusione
di Secchia dalla nuova Direzione del partito. Sono Alberganti, Bera, Brambilla,
Sclavo, Parini, Vergani, Bonazzi, Robotti e Montagnana. Gli altri approvano
tranquillamente una decisione che era più o meno scontata, quasi la riprova
che una fase della storia del Pci si chiudeva e un'altra cominciava.
La decisione è stata anticipata a Secchia da Longo che lo ha fermato
in corridoio qualche minuto prima della riunione del Comitato Centrale. Secchia
non reagisce. Longo di fronte al suo silenzio crede necessario dargli almeno
una spiegazione: "Sai" aggiunge "in Comitato elettorale sono
state sollevate nei tuoi confronti alcune questioni; i tuoi errori nell'affare
Seniga, le tue resistenze ad assimilare l'attuale linea politica del partito..."
Secchia ha solo la forza di chiedere come stupito: "Seniga? Ma quando finirà
questa storia?". E Longo: "Direi che a questo punto è finita".
Dieci giorni dopo i due si rivedono nell'ufficio di Longo alle Botteghe Oscure.
E chiaro che, non essendo più nella Direzione del partito, Secchia non
potrà più dirigere il Comitato Regionale della Lombardia. Si tratta
quindi di trovargli un altro lavoro; nella nuova Segreteria se n'è parlato
con qualche fastidio. "Ma non potrebbe occuparsi del suo collegio e starsene
tranquillo?" ha detto qualcuno. E stato Longo a questo punto a proporre
di richiamare Secchia a Roma per incaricarlo delle attività editoriali
del partito: un compito quanto mai vago e formale visto che delle stesse cose
si occupava già da tempo con autorità e competenza Amerigo Terenzio
Comunque, un posto, un lavoro, un ufficio bisognava trovarglielo e così
si decise.
Secchia viene quindi convocato da Longo che gli illustra la proposta della Segreteria,
senza molti dettagli. Ma Secchia, pur sapendo che non poteva che accettare,
insiste nel chiedere il senso di quel lavoro: "Insomma devo considerarmi
un uomo politico o un impiegato?". Longo alza le spalle quasi la domanda
non fosse degna di risposta. Secchia continua, sottovoce, quasi parlando a se
stesso: "Una prospettiva nella vita bisogna averla...". "Ma che
prospettiva e prospettiva" lo interrompe Longo "cerca di far bene
questo lavoro e alle prospettive non ci pensare più. "
Due settimane dopo, ai primi del 1957 ,Secchia viene insediato nel suo nuovo
ufficio. Tutti i suoi collaboratori sanno che l'ex vicesegretario non gode né
di poteri né di competenza. Intorno a lui si crea subito un'atmosfera
carica di ironia, di piccole cattiverie, qualcuno assicura che per risparmiare
carta "Secchia ha proposto di fare un giornale con sette pagine, anziché
otto".
Ma è comunque un ufficio, con una segretaria, una macchina, un autista.
Un ufficio, una segretaria, una macchina, un autista non sono il potere ma solo
la sua apparenza esterna, pallido involucro senza sostanza, che presuppone tuttavia,
come il potere vero, riunioni, risoluzioni, circolari. Un ufficio, una segretaria,
un autista sono gli elementi costitutivi di una identità che in mancanza
di questi non avrebbe più punti di riferimento.
L'incarico conta poco, e tuttavia egli ci si misura con impegno, con quella
che egli stesso chiamava "tenacia di montanaro". Cerca di ritagliarsi
un suo spazio, tra Terenzi, Alicata, Pajetta e Donini che delle questioni editoriali
si occupano da tempo. Si tratta, per di più, d'una materia che comincia
a diventare scottante. Qualche scricchiolio nella impalcatura un po' faraonica
che regge il sistema dei quotidiani del Pci e delle sue edizioni, si comincia
a sentire, ma non è certo Secchia l'uomo che può trovare le soluzioni
e imporle. Si dà da fare, ma con scarso successo.
E quanto poco conti ormai, il vecchio Secchia, appare evidente a tutti quando
su Rinascita verrà pubblicata, nel settembre del 1957, una novelletta
di taglio melvilliano con la quale Maurizio Ferrara ricostruiva, con grande
gusto dell'ironia ma certo con pochissimo rispetto per l'ex vicesegretario,
le vicende interne del Pci. L'occasione era stata data a Ferrara da una analoga
novelletta che Italo Calvino aveva affidato a Città Futura, un giornale
di comunisti in odore di eresia, novelletta con la quale lo scrittore irrideva
alla politica del Pci, una stagione di Gran Bonaccia per uomini che erano partiti
per andare a caccia di balene. Ferrara che legge il testo di Calvino mentre
sta in vacanza a Capri, si diverte a ricostruire sotto forma di metafora, e
nello stesso linguaggio, la storia recente del Pci, la baleniera che porta il
nome "Speranza", e che, dopo avere ripulito i mari dei pirati neri,
guidati da Testa di Morto, muove alla conquista della Balena Bianca. La novella,
intitolata "La Gran Caccia alle Antille," è ironicamente firmata
Little Blad (traduzione letterale inglese di Calvino, ma tutti vi riconoscono
naturalmente la penna di Maurizio). Dopo avere, dunque, battuto il fascismo,
simbolizzato dai " pirati neri", la Speranza cade in mano del capostivatore
(nel quale è facile identificare Pietro Secchia) e dei suoi "che
guardano bramosi alle case della riva: ora tocca a noi ghignavano". Ma
mentre il capostivatore mette mano al cannone, "vedemmo a un tratto il
Vecchio salire sul cassero; era disarmato e con sul naso gli occhiali di quando
alla domenica ci leggeva i Salmi sul castello di poppa. Fratelli, disse con
voce ferma, levatevi dalla testa idee sinistre. Davanti a noi non vi sono case
da assediare ma pascoli acquatici dove soffia ancora libera la Balena Bianca.
Il suo olio darà vita e sorriso per l'eternità ai patiti figli
delle Antille. Riponete archibugi e spingarde, impugnate il rampone, la Grande
Caccia è aperta". Ma il contrasto tra il vecchio-Togliatti e il
capostivatore-Secchia continua. "Ci fu del buio, Iddio mi fulmini perché
il capostivatore non la mandò giù. Lì per lì tacque;
poi cominciò a navigare di sotto, come il luccio di scoglio. E spiava,
mugugnava, concertava con certi suoi una specie di sottocomando, invertiva nottetempo
la rotta. Finché gli altri non si seccarono e al primo approdo senza
far chiasso lo sbarcarono..."
E così via.
Era un divertimento personale di Ferrara, che venne poi fatto leggere a Antonello
Trombadori, allora direttore del Contemporaneo. Antonello ci rise un po' su,
e gliela restituì.
Ci si divertì moltissimo, a leggerla, Togliatti, che la volle pubblicare
su Rinascita. Così, sotto forma di metafora, per la prima volta i comunisti
seppero da una pubblicazione ufficiale del Pci, che Secchia, il capostivatore
della Speranza era stato buttato fuori dalla Commissione di Organizzazione e
dalla Direzione "perché navigava di sotto come luccio di scoglio
e spiava, mugugnava, concertava con certi suoi una specie di sottocomando, invertiva
nottetempo la rotta..."
In un guizzo di dignità, Secchia reagisce all'insulto, non pubblicamente
però - la convenzione che fuori del partito nulla si debba sapere è
per lui una religione - ma con una lettera che manda allo stesso Togliatti.
"Non si è mai visto né un esercito né tanto meno un
partito rivoluzionario con una storia eroica come quella che ha il nostro, permettere
che si insultino i suoi militanti solo perché sono diventati anziani
ed hanno perso nel corso di quelle lotte alle quali hanno dato tutto se stessi..."
In poche righe sprezzanti Togliatti liquida il vecchio avversario: "La
tua lettera mi ha fatto cascare dalle nuvole... Nel pezzo di Rinascita non vi
è nulla di personale contro nessun compagno ma unicamente un'allusiva
indicazione a vicende interne del nostro partito... Non si tratta né
di una direttiva (di andare a caccia di balene) né di una storia; non
vi si tratta né di vecchi né di nuovi compagni, ma come ti ripeto,
di una satirica allusione, fatta per prendere in giro con le stesse armi, chi
aveva preso in giro noi. Gli sfoghi della tua lettera sulla "storia eroica"
etc. non ci hanno proprio niente a che fare. Anche gli "eroi" qualche
volta si mettono a ridere.(46)
Eppure, anche dopo essere stato esposto al dileggio dei compagni, Secchia tace:
la sua protesta è ancora e sempre affidata all'interno, ai canali dell'organizzazione,
agli archivi che a loro volta l'affideranno alla Storia.
Alla Storia con l'S maiuscola. E ai sovietici. A Mosca non si vede di buon occhio
questa rapidissima, troppo rapida e troppo entusiastica accettazione da parte
del Pci dei temi del XX Congresso, una accettazione che rischia di diventare
- forse è già diventata - interpretazione autonoma e non del tutto
ortodossa delle parole d'ordine e delle aperture che da lì sono state
proclamate. Mosca ormai dopo la morte di Stalin non è più quel
monolito compatto che era stato per tanti anni. Mosca significa Krusciov, certamente,
con le sue rozze impazienze e volontà riformatrici ma significa anche
le prudenze di Molotov, le sue resistenze a rimettere in discussione i tradizionali
modi di funzionamento del partito e del sistema produttivo sovietico. A metà
del 1957 una prima fase della lotta politica in corso a Mosca si risolve con
la sconfitta di Molotov e i suoi. Il Pci, si limita a prendere atto di quanto
accade al Cremlino, ma Secchia annota amaramente "per alcuni giorni i giornali
sovietici conducono un'aspra campagna contro Molotov, Malenkov, Kaganovic e
Scepilov, accusandoli di essersi opposti alla linea del XX Congresso e di aver
svolto un'azione antipartito, i quattro non sono stati arrestati, non sono stati
impiegati contro di loro i metodi della repressione poliziesca, ma non si può
dire che si siano adottati metodi democratici... il metodo staliniano continua
nel modo in cui si cerca di creare il disprezzo verso coloro che sono rimasti
in minoranza"
I rapporti tra comunisti italiani e sovietici cominciano a conoscere allora
le tensioni e i ravvicinamenti, le polemiche e le riserve, che porteranno, dopo
venticinque anni, a quello che verrà chiamato "lo strappo".
La strada è lunga e tortuosa, ma nei passaggi e nei momenti più
difficili ci sarà sempre Secchia, nel Pci, a difendere le ragioni dell'unità
contro quelle della differenziazione, le ragioni della solidarietà contro
quelle dell'autonomia, le ragioni dell'ortodossia contro quelle del revisionismo.
Se nulla di ciò che sappiamo ci permette di dire che Secchia assolse
questo ruolo per incarico di Mosca, molti elementi concorrono a provare che
egli mantenne sempre rapporti stretti e in qualche modo privilegiati con la
dirigenza sovietica. Ci sono più tracce di questo rapporto privilegiato
anche nel suo diario ed è possibile che Secchia abbia voluto lasciarle,
queste tracce, a futura memoria, come a dire: "io non ero solo".
Il suo lavoro di responsabile della Commissione editoriale gli consente, o richiede,
frequenti viaggi in Urss e in altri paesi dell'Europa Orientale. Come gran parte
del vecchio gruppo dirigente del Pci, Secchia ama passare in Urss o in un altro
paese socialista anche le sue vacanze estive (Giorgio Amendola rifiutò
sempre, cocciutamente questo privilegio). Viaggi di lavoro e periodi di riposo
servono anche a scambi di opinioni e giudizi, in una situazione in cui le controversie,
all'interno del movimento comunista internazionale, si fanno più acute.
Per sanarle o limitarne le conseguenze vengono convocate, nel giro di pochi
anni, per iniziativa sovietica, ben due Conferenze Mondiali dei partiti comunisti,
una alla fine del 1957 (a un anno appena dalla disgraziata invasione dell'Ungheria),
l'altra nel 1960 (quando ormai lo scontro con la Cina è vicino alle sue
ultime conseguenze). In ambedue i casi le Conferenze si chiudono con un accordo
puramente di facciata; in ambedue i casi i rappresentanti del Pci esprimono,
pubblicamente, le loro riserve; in ambedue i casi Secchia coglie l'occasione
per confermare invece il valore dell'unità del movimento internazionale
e sottolineare la condanna che da quei documenti viene, puntuale, alla pratica
del revisionismo.
Nel 1957 Secchia e a Mosca proprio alla vigilia della riunione della Conferenza
Internazionale; parla con alcuni dirigenti sovietici e raccomanda prudenza.
Annota sul suo diario gli incontri e il senso di quei colloqui, ma non i nomi
dei suoi interlocutori. "La delegazione italiana a Mosca" commenta
poi "ha presentato emendamenti assieme ai polacchi, ha sostenuto massima
autonomia, dichiarandosi contraria ad eventuali proposte di ricostituire l'Inforbureau
o qualcosa di simile. Non una parola sulla funzione dell'Urss. La nostra delegazione
è stata vivacemente attaccata da Duclos. Senza dubbio i francesi non
hanno parlato solo di loro iniziativa."
La annotazione ci anticipa la traccia dell'intervento che Secchia pronuncerà
al Comitato Centrale di dicembre, per criticare l'atteggiamento della delegazione
italiana a Mosca. A Togliatti che aveva sottolineato la necessità di
un alto grado di autonomia dei singoli partiti comunisti, Secchia replica che
"noi comunisti concepiamo l'autonomia dei partiti cui apparteniamo nel
quadro dell'unità e della solidarietà del movimento comunista
e operaio internazionale".
Sarebbe lecito porsi per Secchia lo stesso malizioso interrogativo con cui egli
aveva commentato l'intervento di Duclos: parlava proprio soltanto di sua iniziativa
o qualcuno aveva suggerito tono e contenuto dell'intervento? È per lo
meno singolare che Secchia annoti nel suo diario: "Togliatti mi ha ignorato,
ma sono tutti neri. Io ho inviato copia del mio intervento all'Ufficio di Segreteria
perché venga messa agli atti". (47)
Il contrasto tra Secchia e il gruppo dirigente del Pci, limitato finora alla
conduzione delle lotte nel paese, si approfondisce e acquista sempre maggior
spessore nel momento in cui investe le questioni internazionali e il ruolo dell'Urss
nel movimento comunista. Per Secchia è inconcepibile abbandonare - come
di fatto pian piano il Pci farà - il termine e la nozione stessa di "partito
e paese guida".
Si confida con lui Mehmet Shehu, uno dei più stretti collaboratori di
Enver Hoxa, quando nell'ottobre del 1960 passerà da lì Roma per
raggiungere Tirana che, nel conflitto tra Krusciov e Mao si va schierando con
quest'ultimo in nome della salvaguardia della purezza rivoluzionaria. Siamo
alla vigilia della nuova Conferenza Mondiale dei partiti comunisti, convocata
per dicembre a Mosca. "Anche se soli" assicura Shehu "diremo
chiaramente tutto ciò che pensiamo della politica di Krusciov e dei diversi
partiti comunisti, di una politica revisionista che non può non portare
al cedimento e nella capitolazione." E conclude: "parleremo anche
per voi". Che intendeva Mehmet Shehu per "voi"? Non certamente
i comunisti italiani (per i quali avrebbero parlato, a Mosca, Luigi Longo e
Berlinguer). Intendeva il solo Secchia o non si riferiva invece anche ad altri,
a coloro cioè che, all'interno del Pci, non si riconoscevano più
nelle posizioni della Segreteria? È l'interpretazione più ragionevole.
La Conferenza di Mosca, detta anche la Conferenza degli 81, per il numero dei
partiti che vi partecipano, segna un'altra tappa del tortuoso processo di sganciamento
del Pci dalla tutela sovietica. La delegazione rende esplicite, con un documento
scritto, le sue riserve al metodo ed alle affermazioni contenute nella dichiarazione
finale della Conferenza, Mario Alicata scrive su Rinascita che nel movimento
comunista internazionale non esiste ormai più "né centro
né testa", Ma Secchia polemizza apertamente con lui in Comitato
Centrale: "il partito dell'Urss è stato e continua ad essere"
dice "l'avanguardia universalmente riconosciuta del movimento internazionale".
Sulla necessità di difendere e confermare questo ruolo, Secchia, non
ha dubbi nemmeno quando, nel novembre del 1961, il Comitato Centrale si riunisce
per discutere del XXII Congresso del Pcus, che in quanto a denuncia di nefandezze
staliniane, fu forse più spietato dello stesso XX Congresso. È
il Comitato Centrale in cui Robotti rivela finalmente la vicenda del suo arresto
e delle sue torture ad opera della polizia staliniana, in cui si solleva il
problema della sparizione di centinaia di profughi antifascisti italiani; morti
nei lager in Siberia di fame e di freddo assieme a centinaia di migliaia, forse
milioni di cittadini sovietici. (48) È il Comitato Centrale in cui vacilla
l'autorità di Togliatti. Robotti, tra l'altro è suo cognato e
non è più credibile che di queste vicende atroci egli non sapesse
nulla, come dal 1956 aveva ripetutamente affermato.
I più giovani pongono per la prima volta in quel Comitato Centrale problemi
che oggi, a distanza di venti anni, sono ancora attuali: il carattere della
pianificazione sovietica, l'insufficiente partecipazione dei cittadini alla
gestione del potere, il carattere autoritario del sistema.
Amendola, in un intervento che ha toni di alta drammaticità, rivendica
la pubblicità del dibattito sia a livello internazionale, sia all'interno
del Pci, fino alla formazione aperta sui vari problemi di maggioranze e minoranze.
"Eccolo" commenta beffardo Secchia "l'avanguardista del rinnovamento."
Molti chiedono, anche con toni concitati, la convocazione di un Congresso straordinario,
richiesta che verrà subito respinta da Togliatti che giudica gli interventi,
compreso quello di Amendola, superficiali ed emotivi.
La preoccupazione essenziale dei "vecchi" compagni, di fronte all'offensiva
di Amendola e dei più giovani dirigenti emersa dal dibattito sta proprio
nella eventualità, che essi giudicano una sciagura, di una rottura con
l'Urss. Cosa si può fare contro questo pericolo che ridurrebbe il Pci
al rango di un partito socialdemocratico? È quello che Scoccimarro, presidente
della Commissione Centrale di Controllo, va a chiedere in quei giorni a Secchia
facendo appello a una comunanza di ideali e di principi che la disgraziata vicenda
della fuga di Seniga ha soltanto interrotta. Scoccimarro, propone intanto un
minimo di lavoro di collegamento, tra i "vecchi", sia al centro che
alla periferia. Per questo ha già preparato una lista di compagni che
sarebbero disponibili per un'attività di questo tipo; lui, Secchia, che
ne dice? Sembra di capire, dal tono del colloquio, che Scoccimarro offra proprio
a lui, Secchia, la direzione di un'attività di corrente che raccolga
le forze ancora disponibili, nel Pci, a combattere una battaglia contro le preponderanti
tendenze revisioniste.
Secchia lo lascia parlare. Ascolta un po' compiaciuto e un po' diffidente. Scoccimarro
lui lo conosce bene; sa che è un velleitario, uno che adesso brontola
contro Togliatti ma che Togliatti riesce ad ammansire con una parola o una promessa.
E chi lo garantisce poi che anche questo colloquio, questo incontro, questa
singolare offerta non costituisca, in realtà, un'altra trappola che gli
viene tesa? Forse Scoccimarro gli offre un elenco di "compagni fidati"
disponibili a un lavoro di corrente solo per sapere se lui, Secchia, ne ha una
analoga in qualche suo cassetto... No, la proposta di Scoccimarro non lo convince.
E mentre quello parla infervorandosi sempre più nel suo discorso, Secchia
pensa: "Eccolo qui a chiedermi aiuto... adesso vieni a dirmi queste cose,
ma quando ero io sul braciere, sei stato il primo a dare una mano a Togliatti
per la mia rovina. E non lo sapevi, non lo sapevate tutti che a questo si sarebbe
arrivati? Che si voleva distruggere me per portare il partito al cedimento?"
Scoccimarro parla, e non sospetta i pensieri che stanno nella testa dell'altro.
"Allora, ci stai?" chiede alla fine. Secchia scuote la testa.
Scoccimarro... cosa conta, del resto, Scoccimarro? Più utile sarebbe
un serio aggancio con Longo, se egli non fosse divenuto così sfuggente...
Perennemente oscillante tra residue speranze di battaglie interne e rassegnazione
alla propria condizione minoritaria, Secchia continua ad occuparsi, senza grande
successo, della attività editoriale del partito, mentre intensifica un'attività
di ricerca storica intesa non come mero ripiegamento ma come intervento, sia
pure di tipo diverso, nel dibattito politico che percorre il partito e le zone
che gli sono vicine.
E intanto mantiene i contatti con i suoi amici sovietici e albanesi che gli
mandano in anteprima documenti che altrimenti non, conoscerebbe o conoscerebbe
in ritardo: si tratti delle lettere che si scambiano, nella primavera del 1962,
cinesi e sovietici, o dei testi integrali di articoli che compaiono a Mosca
e a Pechino e di cui l'Unità e Rinascita danno solo scarni riassunti.
Un paio di mesi prima del X Congresso del Pci, nell'ottobre del 1962, una delegazione
di dirigenti sovietici, capeggiata da Ponomariov, visita l'Italia. Il loro giudizio
sull'attività e l'orientamento del Pci è assai negativo: "La
base" dice Ponomariov "è buona, ma i gruppi dirigenti interpretano
la linea in senso revisionista; si parla troppo della via pacifica, e allora,
che si farà se la borghesia spingerà in un'altra direzione? Il
Pci è ormai largamente inquinato dal socialdemocraticismo, sta perdendo
le caratteristiche del partito rivoluzionario, per diventare un partito puramente
elettorale". È proprio quello che pensa e dice Secchia.
Al Congresso, un paio di mesi dopo, Ponomariov è di nuovo a Roma come
capo della delegazione sovietica, e questa volta appare molto soddisfatto del
rigore con cui, prima Togliatti e poi altri dirigenti di primo piano, attaccano
le tesi cinesi. Secchia però al Congresso non prende la parola: "Se
avessi parlato avrei al massimo potuto fare delle critiche marginali, qualche
ricamo. In questo momento, data la situazione internazionale (Urss-Cina)...
era assai meglio che io (dal momento che non potevo disapprovare) non mi compromettessi
con un intervento di approvazione. La base non avrebbe compreso alcune critiche
marginali o delle allusioni per iniziati; un mio intervento del genere non sarebbe
affatto servito ad aiutare e orientare la base: o parlare chiaro oppure tacere.
Il silenzio è assai più significativo e sarà senza dubbio
interpretato, da chi è politicamente attivo, come una non adesione!".
Il nuovo Comitato Centrale procede a un ampio ricambio dei dirigenti delle sezioni
di lavoro: all'Organizzazione va Macaluso, alla Propaganda Romagnoli, alla Cultura
Rossanda, agli Enti locali Alinovi. Natta e Berlinguer entrano in Segreteria.
E la promozione della seconda generazione del Pci, una generazione che non ha
conosciuto gli anni della clandestinità, e, in qualche caso, nemmeno
quelli della Resistenza. Dopo cinque anni anche Secchia deve lasciare il suo
incarico di responsabile della sezione editoriale. Questa volta la decisione
gli viene comunicata non da Longo, ma da Pietro Ingrao, che gli spiega che la
sezione editoriale è ormai una sezione essenzialmente di tipo amministrativo
nella quale non vale la pena di utilizzare un personaggio politico com'è
lui.
"Insomma, l'infiorata la seppe far bene" commenta Secchia che a questo
punto non ha più nemmeno quell'ufficio, quella segretaria, quell'autista
che costituivano finora la parvenza del potere.