Biblioteca Multimediale Marxista
Sono consapevole della gravità dei miei errori che denotano che ho lavorato
con estrema leggerezza. Mi rendo conto che questo significa non saper dirigere.
Ringrazio i compagni della Direzione del partito che mi hanno aiutato a scorgere
in modo completo e in tutta la loro gravità i miei errori...
(dalla lettera di Pietro Secchia alla Direzione del Pci, 7 gennaio 1955)
Già, dove andremo a finire? Che senso ha, protesta Secchia, parlare della
"distruzione della civiltà" in termini tra religioso e umanitario
come non esistessero schieramenti di campo, divisioni di classe, l'imperialismo
da una parte e dall'altra il socialismo? Secchia è contrario a questa
impostazione di Togliatti e ironizza anche sul fatto che egli l'ha annunciata
con un'ipocrita: "Compagni, un intervento breve vorrei fare..." "Ma
che intervento breve" dice ai suoi intimi "questo è un cambiamento
bello e buono della nostra politica! Che facciamo, i predicatori? Gli apostoli?
I missionari?" Brontola come sempre e alimenta i brontolii degli altri.
E poi, aggiunge Secchia, con quale diritto Togliatti sconvolge, senza essersi
consultato con nessuno, l'impostazione precedente? E così che si rispettano
i principi della "Direzione collettiva" ai quali tutti formalmente
si dichiarano fedeli?
Anche nelle federazioni l'appello ai cattolici di Togliatti provoca discussioni
e resistenze, ma la nuova linea viene alla fine approvata da tutti sia pure
con qualche strizzata d'occhio. Chi non l'approva invece è il Pcus che
con un discorso di Molotov la critica esplicitamente. Ma in Italia di quel discorso
giunge solo una pallida eco. L'Unità non ne dà notizia e i comunisti
italiani lo ignorano. Non lo ignora però Togliatti anche se si guarda
bene dal tenerne conto. O meglio ne tiene conto nel senso che gli appare chiaro
che, ancora una volta, nel dibattito interno del Pci, Mosca si schiera con Secchia.
Un motivo di più per prepararne la successione.
Bisogna, per questo, far presto. L'andamento dei Congressi provinciali segna
infatti qualche smarrimento. A Napoli si registra addirittura un'opposizione
di tipo "secchiano". Un giovane, Guido Piegari, biologo di valore,
se ne fa portavoce alla vigilia del Congresso, attaccando le più recenti
posizioni di Togliatti sui problemi internazionali, irridendo al "meridionalismo
del Pci, concessione al salveminismo", sostenendo con vigore la necessità
di un "ritorno in fabbrica" luogo privilegiato della lotta di classe
e della battaglia comunista. C'è Secchia dietro Piegari? Probabilmente
no. Ma l'episodio napoletano suona per Togliatti come un segno del disorientamento
e del malessere che c'è nel partito e che potrebbe trovare in Secchia,
alla prossima Conferenza di Organizzazione, un definitivo punto di riferimento.
Togliatti decide così di intervenire personalmente al Congresso della
Federazione napoletana per ribadire da lì quella linea "democratico-popolare"
e meridionali sta di cui Amendola era il più qualificato esponente. Ribadite
in quella sede le sue tesi, la sera della conclusione del Congresso va a cena
proprio da Amendola che da poco si era installato in una nuova casa al Vomero,
con una terrazza dalla quale si godeva una vista eccezionale, da Punta Campanella
ad Ischia.
La sera è tiepida, piena di profumi; Germaine, mentre porta in tavola
la cena invita Togliatti, nel suo italiano pieno di inflessioni francesi, a
tralasciare per un attimo i discorsi politici e ad ammirare il paesaggio. Togliatti
dà un'occhiata distratta al mare, poi, rivolto a Germaine scherza: "State
attenti a non affezionarvi troppo a questa casa; nel nostro mestiere bisogna
essere pronti a fare le valigie". La povera Germaine che "questo mestiere"
lo conosce da tempo, rimane di sasso, ma non chiede spiegazioni. La sera però,
riferendo il colloquio a Giorgio commenta: "Per fortuna non ho ancora messo
le tendine... Mi sembra chiaro che ce ne dobbiamo andare via". (40)
L'andar via significava, era chiaro, andare a Roma. A far cosa? Qualche idea
o meglio qualche ambizione Amendola l'aveva, ma non ne aveva parlato con nessuno,
né con Germaine, né con i compagni che gli erano più vicini,
come Pajetta o Alicata. La conferma del cambiamento che era una grossa promozione
per lui, ma il segno di un arretramento per un altro gli giunge un paio di settimane
dopo quando, a Roma, Togliatti gli annuncia, con aria sbrigativa, che avrebbe
dovuto occuparsi della preparazione della Conferenza di Organizzazione. La proposta
era sorprendente anche se andava nella direzione sperata da Amendola. La responsabilità
della Conferenza infatti spettava a pieno titolo a Secchia e a lui soltanto.
Ad Amendola che gli fa quest'osservazione, Togliatti replica: "Secchia
è d'accordo e ti aiuterà".
Secchia in realtà non era affatto d'accordo. La decisione di Togliatti
era giunta sotto forma di una proposta, un po' ambigua, alla fine di una riunione
di Direzione nella quale si discuteva di altro. "A proposito" propose
Togliatti raccogliendo le carte sparse sul tavolo "sarebbe bene che al
prossimo Comitato Centrale fosse qualche altro a riferire sull'andamento dei
Congressi provinciali. Che ne diresti di Amendola?" Lì per lì
Secchia non ebbe la forza di opporsi. Gli sembrò quasi di non aver capito
bene, o forse sì, aveva capito: era il solito modo un po' subdolo di
Togliatti di dire e non dire, di scavare il terreno sotto i piedi all'avversario.
Ma, d'altra parte, Secchia si sentiva sicuro di sé: era lui il titolare
della Commissione d'Organizzazione, era lui il vicesegretario. Se Amendola avesse
fatto il prossimo rapporto al Comitato Centrale questo non sarebbe stato poi
così grave; lui, Secchia, avrebbe provveduto a rimettere le cose a posto,
se Giorgio si fosse spostato troppo a destra. Alla fine della riunione, Togliatti,
proprio sulla porta, gli si avvicinò: "Non te l'hai mica a male,
vero?" gli chiese "ho proposto Amendola perché ho avuto l'impressione
che tu non avessi troppa voglia di farlo, quel rapporto. E poi, è bene
cominciare a incaricare qualche volta anche altri compagni". Secchia assentì.
Strane cose accaddero in quelle prime settimane di giugno al quarto e al quinto
piano delle Botteghe Oscure. Un giorno D'Onofrio chiamò Secchia e con
fare misterioso lo avvertì che da un attento esame del fascicolo di Seniga
risultava che egli aveva avuto, in Svizzera, troppo frequenti contatti con il
colonnello Mac Caffery, esponente dei servizi inglesi in Europa. Questi contatti
effettivamente, Seniga li aveva avuti, nell'ottobre del 1944, a Berna, ma per
incarico del comando delle Brigate Garibaldi. Secchia lo fece notare a D'Onofrio,
che non sembrò del tutto rassicurato. La cosa assai singolare era però
che di questi contatti con Mac Caffery Seniga non aveva mai fatto mistero. Perché
dunque proprio ora D'Onofrio sollevava il problema? Brutto segno, bruttissimo
segno.
Seniga, al quale Secchia raccontò subito il colloquio, reagì sbottando
in insulti e proteste: "Cristo! D'Onofrio lo sa benissimo che rapporti
ho avuto con gli inglesi; loro non ci mandavano le armi di cui avevamo bisogno
nell'Ossola e io sono andato a chiederle e protestare per conto di Moscatelli.
Non lo sa D'Onofrio che mi sono spezzato le gambe per fare, durante la Resistenza,
quello che dovevo fare?". Il giovanotto era furibondo, minacciava di andare
lui direttamente a parlare con D'Onofrio e sembrò calmarsi soltanto quando
Secchia garantì che su quel dossier e su quei contatti nessuno sarebbe
tornato mai più. Ma Seniga continuava a protestare, indignato al sentir
mettere in discussione il suo passato: "Cristo! Mentre io facevo il partigiano
e rischiavo ogni giorno di prendermi una pallottola in pancia, D'Onofrio e Togliatti
se ne stavano sicuri a Mosca e adesso vengono a darci lezioni!". Non era
la prima volta che Nino diceva di queste cose, ma ora Secchia si allarmò
e sottovoce aggiunse: "Ma tu, queste cose, non le andrai mica a dire fuori
di qui?". Seniga alzò le spalle, senza rispondere.
Qualche giorno dopo, invece, fu Seniga ad essere chiamato da qualcuno che gli
fece leggere, in gran riservatezza, su un foglio pubblicato dai cosiddetti "magnacucchi",
un articolo contenente insinuazioni su presunte singolari abitudini sessuali
dello stesso Secchia. Indirettamente, anche Seniga finiva con l'essere oggetto
di queste insinuazioni dato che i due vivevano insieme. Questa volta toccò
a Seniga di informare Secchia dell'infamia che andava circolando sul suo conto.
Il giovanotto era fuor di sé, minacciava di andare a spaccare la faccia
non sapeva bene a chi e dove, ma insomma bisognava fare qualcosa, aggiungeva,
non si poteva subire questa vergogna. Con sorpresa, Seniga si accorse che Secchia
non reagiva con la stessa indignazione, quasi dovesse nascondere qualcosa. Alle
insistenze e alle proteste di Nino, finalmente Secchia rispose con una frase
amara: "Se è così, è già deciso".
Sembra quasi rassegnato e invece è soltanto dubbioso, incerto sul da
farsi. Ma non sono rassegnati Seniga, né gli altri compagni dell'entourage
di Secchia, né il fratello Matteo che lo incitano a reagire. "Se
Togliatti ti vuol far fuori," dicono "tu devi passare al contrattacco
e puoi farlo. Il partito conosce te e ti seguirà."
Ma Secchia o perché sottovaluta il pericolo o perché orientato
a prender tempo e dare battaglia alla ormai prossima Conferenza Nazionale, in
quelle settimane non reagisce.
Aspettare dunque. E per questo suggerisce ai suoi e a se medesimo la prudenza,
virtù preziosissima per l'uomo politico. In primo luogo, quindi, fare
buon viso a cattivo gioco, accogliere fraternamente Giorgio Amendola quando
arriva al quarto piano, con la sua figura ingombrante, la faccia gioviale, la
voce prepotente. Tutto sommato, pensa Secchia, Giorgio è incaricato soltanto
di preparare un rapporto per il Comitato Centrale, sulla base di un lavoro già
fatto, di congressi già svolti, di documenti già approvati. La
situazione, ammetterà lo stesso Amendola, era un po' anomala, ma "la
collaborazione di Secchia fu molto fraterna e non reticente, anche se io avvertivo
un certo imbarazzo degli altri compagni della sezione". (41)
Amendola lavora, per qualche settimana, in una stanza che gli è stata
assegnata proprio a fianco di quella di Secchia, legge una montagna di carte,
riunisce la Commissione di Organizzazione, discute con i segretari regionali
e si conferma nell'idea, che è la sua da tempo, che il partito è
malato di un eccesso di burocratismo venato di tendenze settarie, soffre di
una tendenza, tipica dei momenti difficili, di richiudersi in se stesso per
resistere all'attacco dell'avversario. E decide di dirlo. E lo dirà al
Comitato Centrale di metà luglio dove presenta il suo rapporto: il partito,
dice Amendola, deve rispondere all'offensiva reazionaria buttandosi "nel
sociale", far sue tutte le rivendicazioni di progresso, di civiltà,
di miglioramento, organizzare coraggiosamente nel Paese tutti gli scontenti.
E la politica che venne definita poi, talvolta con intento spregiativo "dei
mille rivoli", una politica nella quale, a detta di Secchia e dei suoi,
si smarriva ogni connotato di classe e che rischiava di ridursi a una pratica
meramente riformistica.
E Secchia infatti, intervenendo in quel Comitato Centrale lo dice. Lo dice chiaramente,
mette in guardia contro il pericolo che si faccia del puro riformismo, che si
dimentichi nella molteplicità e nel frammentarsi delle lotte e delle
rivendicazioni il senso della lotta per il socialismo che deve restare l'obiettivo
del partito. E non si risparmia nemmeno una malevola critica al Togliatti dell'appello
ai cattolici: "Va bene" dice "dare attenzione alle iniziative
per un'intesa con il mondo cattolico contro l'uso dell'atomica, ma quello che
importa adesso di più è respingere l'attacco reazionario in fabbrica..."
Le parti sembrano assegnate in modo ormai esplicito. Lui, Secchia, è
l'interprete di una linea dura del Pci, l'altro, Amendola, è il riformista..
Ma l'esito della battaglia è ancora incerto, il copione non è
tutto scritto. Secchia sa di aver già perso qualche posizione, ma non
è detto ancora che Amendola vinca la battaglia. Nella Commissione di
Organizzazione, è composta di segretari regionali e di funzionari di
altissimo grado delle Botteghe Oscure, è ancora Secchia ad avere la maggioranza.
E la stessa cosa, pensa il vicesegretario del partito, accadrà alla Conferenza
di Organizzazione.
Indiscrezioni, supposizioni, preoccupazioni filtrano dal quarto piano delle
Botteghe Oscure; il gruppo che vive e lavora con Secchia, che ha creduto in
lui sempre, vede profilarsi, con la sua, anche la propria sconfitta. Una sconfitta
delle proprie ipotesi, dei propri sogni, delle proprie speranze e il rischio
della trasformazione del partito in qualcosa di non più riconoscibile,
diverso da quello che si era voluto e preparato in tanti anni. Una vittoria
dei "borghesi" contro gli operai, una vittoria degli "opportunisti"
contro i rivoluzionari, una vittoria degli "arrivisti" contro i puri.
Come poteva sopportarsi tutto questo? Non si poteva, non si poteva. E se Secchia
non sapeva o non voleva opporsi apertamente a questa scandalosa manovra, qualcuno
dei suoi già aveva messo a punto un piano per agire al suo posto, interpretando
o credendo di interpretarne i disegni e i desideri. Pochi giorni dopo la conclusione
del Comitato Centrale, Secchia deve partire per Torino dov'è fissato
un suo comizio, per celebrare il 25 luglio, la data che ricorda la caduta di
Mussolini, nel 1943, e la sua sostituzione con Badoglio. È abitudine
di Secchia viaggiare in macchina, accompagnato dall'autista, Adelmo Poggini,
e da Seniga. Quel sabato Secchia, il figlio Vladimiro e Seniga pranzano insieme
nella casa di Monteverde mentre Adelmo per la strada già sta facendo
scaldare il motore dell'Aurelia. "Si va?" chiede Secchia piegando
il tovagliolo. Nino allontana il piatto che era rimasto pieno e si tocca lo
stomaco. Seniga soffriva da tempo d'ulcera e non c'era medicina che riuscisse
a calmargli i dolori quando arrivavano. Pietro lo sapeva. "Cos'è"
chiede "lo stomaco?" Nino annuisce. "Beh, va' a dormire"
gli consiglia indulgente Secchia "c'è sotto Adelmo. Vado con lui."
Non era la prima volta che Vladimiro e Seniga rimanevano soli in casa. I due
si volevano bene. Vladimiro ascoltava incantato le storie di guerra, di partigiani,
di tedeschi che l'altro raccontava. A un certo punto, Nino portava la mano alla
fondina e diceva: "Allora abbiamo tirato fuori la pistola e..." Il
bambino ascoltava ed esultava. I tedeschi morivano tutti, pum pum... I tedeschi
che avevano trucidato il suo papà, che avevano ammazzato tanti partigiani.
Ed ecco che arrivavano i partigiani con le pistole, i fucili e i tedeschi scappavano
o morivano tutti.
Si fece tardi. Faceva caldo. Alba non era a Roma, era andata per qualche settimana
in campagna per sottrarsi al caldo della città e per curarsi delle sue
tante malattie.
Così quella sera fu Nino a mettere a letto Vladimiro. Il giorno dopo
era domenica, e i due rimasero a letto fino a tardi, uno per pigrizia l'altro
per quel suo stomaco che continuava a dargli fastidio. Il ragazzo pranzò
con un paio di panini, in cucina; l'altro non toccò cibo. Poi all'improvviso
Giulio propose di andare al cinema. "Ti va?" Altroché se gli
andava, a Vladimiro.
Scesero a Trastevere dove, al Reale, facevano un film con Marilyn Monroe, Come
sposare un milionario. Arrivati davanti al cinema Nino cambiò idea: "Ti
pago il biglietto e ti lascio anche i soldi. Io proprio non ne ho voglia. Ti
torno a riprendere". Si accostò al botteghino, tirò fuori
le 220 lire del biglietto, chiese quando sarebbe finito lo spettacolo, accompagnò
Vladimiro fino all'ingresso in sala, lo affidò alla maschera. "Ci
vediamo dopo" lo salutò.
All'uscita non c'era nessuno ad aspettare Vladimiro.
Il ragazzo aspettò a lungo, poi pensò che qualcosa poteva essere
successo (Nino aveva sempre tante cose da fare, e così misteriose! Vladimiro
era abituato a non fare troppe domande). A pochi passi dal cinema c'erano dei
tassì. Vladimiro aveva soldi abbastanza e si fece portare a casa.
Il giorno dopo, lunedì, Secchia tornò da Torino e trovò
Vladimiro in casa, solo. "Dov'è Nino?" chiese. Il ragazzo gli
spiegò che non lo sapeva, che non lo vedeva dal giorno prima quando lo
aveva accompagnato al cinema e non era tornato a prenderlo. Secchia si rabbuiò
in viso, salì al piano di sopra dov'era il suo studio. Quando scese qualche
istante dopo barcollava. Anche il ragazzo si accorse che qualcosa doveva essere
successo. Ma rimase zitto, al suo posto. Secchia aveva capito di essere stato
rovinato.
Dalla cassaforte di Secchia e dalle altre di cui aveva le chiavi e le combinazioni,
Giulio Seniga detto Nino, l'uomo di fiducia del vicesegretario e del partito,
aveva sottratto in un colpo solo una cifra di cui non si è mai conosciuto
l'ammontare preciso (ma superiore al mezzo miliardo di allora) e alcuni documenti
riservatissimi. Al posto di quelle carte aveva lasciato una lettera. "...Ho
deciso di fare questo passo estremo al solo scopo di contribuire a richiamare
alla realtà e a maggior senso di responsabilità coloro che si
sono assunti il compito di mettersi alla testa del partito e del movimento operaio...
Non credo di aver agito alla leggera, ma sono convinto che ciò servirà
a rompere quel costume di conformismo e di omertà politica e morale che
tanto danno ha portato... Anche il tuo operato politico e personale non potevo
approvarlo."
Secchia leggeva e non capiva bene. Nino era fuggito con i soldi e i documenti.
Quanti soldi? Questo andava verificato, diceva a se stesso Secchia. Il tesoro
del partito, per ragioni di sicurezza, era stato diviso e depositato in più
di un recapito. Ma di tutti Seniga conosceva l'indirizzo, la combinazione della
cassaforte. Tra i suoi compiti non c'era stato anche quello di decidere dove
e come nascondere quel danaro? Secchia leggeva la lettera, riga dopo riga, cercando
di restare calmo, di concentrarsi. "La mia lunga osservazione politica
e umana, corroborata da tue considerazioni sulla politica del partito, sul malcostume,
l'opportunismo e la paura vigenti nei massimi organismi del partito, hanno radicato
in me la convinzione che è pure tua, che il movimento operaio italiano
è stato un'altra volta imbarcato sulla strada del fallimento. A differenza
di te io non sono convinto che ormai non ci sia più nulla da fare e che
si debba quindi restare seduti sulla riva ad aspettare che arrivino i russi..."
Secchia leggeva e sentiva crescere un dolore all'altezza dello sterno, una fitta
che si faceva man mano più profonda. Pensò: "forse è
l'infarto", e sentì questo dolore come un sollievo. Con un infarto
tutto sarebbe finito. Ma non era un infarto, era soltanto un dolore in mezzo
al petto, una fitta che diventò una sensazione di nausea che non lo abbandonò
più per alcune ore. Si sedette per riflettere meglio. Dunque, di tutte
le case Seniga conosceva l'indirizzo e la combinazione della cassaforte. I compagni,
fidatissimi, ai quali quelle somme erano state consegnate sapevano che solo
Secchia o Togliatti o Longo avevano la facoltà di ritirarle. Ma Secchia
non sperò nemmeno un attimo che qualcuno avesse potuto rifiutare di consegnare
il tutto a Seniga.
Così era avvenuto infatti. Quella domenica pomeriggio, mentre Vladimiro
stava al cinema e mentre Secchia stava facendo il suo comizio a Torino, per
ricordare il 25 luglio del 1943, lui, Seniga, aveva fatto il giro delle case
sicure con la macchina del partito lasciata poi regolarmente nel garage di Piazzale
delle Provincie. Da tutte aveva prelevato danaro e documenti. Il "passo
estremo" era compiuto. Adesso, secondo Seniga, la parola spettava a Pietro
Secchia. Ma cosa poteva dire, pubblicamente Secchia? Alla luce del sole tutto
ciò che nel corso degli anni egli aveva confidato a Seniga rischiava
di apparire niente più che pettegolezzo, recriminazione e, forse, volgarità.
Nulla, nulla restava che si potesse gridare di fronte al partito, nulla, nemmeno
le critiche che pure egli stesso
aveva, nel corso degli ultimi tempi, reso più manifeste; nulla poteva
più essere detto ad alta voce. Bisognava confessare a Togliatti e a Longo:
Seniga mi ha tradito, io mi sono fatto derubare del tesoro del partito, dei
documenti più segreti.
Togliatti, Longo e D'Onofrio appresero quel giorno stesso la notizia con apparente
freddezza. Negli occhi di D'Onofrio sembrò a Secchia di leggere un represso
lampo d'ironia, come a dire "Vedi, i miei sospetti sui suoi rapporti con
i servizi inglesi non erano infondati". Eppure, anche in quei giorni, tra
la fine di luglio e gli inizi di agosto, il dubbio che Nino fosse un agente
provocatore non riuscì a penetrare Secchia e conquistarlo: un mascalzone
sì, un traditore sì, ma una spia questo no, non riuscì
a crederlo.
Il partito gli impose di non fare nulla, di aspettare. Coloro che, alle Botteghe
Oscure, seppero l'accaduto si resero conto che l'episodio era destinato a far
precipitare la situazione risolvendola definitivamente a favore del segretario.
Ma quale fosse il prezzo che Secchia avrebbe pagato, nessuno ancora lo sapeva.
Si preferì intanto prendere tempo. Togliatti, messo al corrente dell'accaduto,
non disse nulla: si limitò a scuotere la testa come rassegnato. Mario
Spallone, il medico di tutti, sbarrò gli occhi dallo stupore, se ne uscì
in un'imprecazione e buttò giù, tanto per consolare Secchia, l'idea
che forse Nino si era comportato così in un raptus dovuto alla malattia:
forse, la sua ulcera era qualcosa di assai più grave... L'ipotesi piacque
a Secchia perché giustificava in qualche modo l'imprevedibile, rovesciava
su un impazzimento delle cellule, un fatto dunque ben materiale e tuttavia incontrollabile,
la colpa o la maggior parte della colpa dell'accaduto.
Apparentemente nulla cambiò: al quarto piano, in una stanza accanto alla
sua, Amendola continuava il suo lavoro, faceva riunioni, verificava con puntiglio
da ragioniere, quante "tessere gonfiate" c'erano in ogni federazione,
tessere pagate cioè sotto l'incontenibile pressione di Secchia di raggiungere
e aumentare ogni anno l'obiettivo dell'anno precedente, ma alle quali non corrispondevano
dei veri iscritti. Un piccolo imbroglio dovuto a zelo e compiacenza, del quale
molti erano responsabili. Ma Secchia non era in grado né di obiettare
né di protestare. Partecipò regolarmente - ma sembrava un po'
un automa - alle elezioni, a Camere riunite, dei giudici della Corte Costituzionale.
Nonostante il caldo aveva fatto tornare a Roma Alba: ambedue ricorsero ripetutamente
alle cure di Mario Spallone.
Solo dopo tre settimane, a metà agosto, Secchia riuscì a stabilire
un contatto con Seniga. Telefonò a Cossutta, allora membro della segreteria
della Federazione di Milano e gli ordinò, con voce concitata: "Procurami
una macchina veloce, con il trittico" (era il contrassegno che consentiva
di viaggiare anche all'estero). Cossutta che qualcosa, anche se non tutto, aveva
saputo, si rivolse a Giangiacomo Feltrinelli, allora militante del Pci per chiedergli
una delle sue macchine, la più veloce, ma senza autista.
L'appuntamento con Seniga, prima fissato in Svizzera, si svolge poi a pochi
chilometri da Milano, a Cremona, in federazione. Con Secchia c'è il suo
autista, Adelmo Poggini, e Arnaldo Bera, un dirigente di partito che conosce
Seniga da quando era operaio all'Alfa. Seniga arriva accompagnato dai fratelli
ed è armato. Bera apre la giacca e gli dice: "Non ho nemmeno un
temperino. Butta le armi ". Ma Seniga, la sua, non la molla un momento.
Secchia si sforza di rimanere calmo, si rivolge a Seniga come a un compagno,
come a un amico. Non parla ancora dei soldi, né dei documenti. Lo invita
a ritornare al suo posto di lavoro; sarà perdonato. Gli altri dimenticheranno.
Seniga non dice né sì né no; ascolta, torvo, e Secchia
si convince di averlo convinto. Non è che il primo di una serie di colloqui
che si svolgono tra il 18 e il 20 agosto, un paio almeno a quattr'occhi, alcuni
alla presenza di altri.
Sono presenti sia Poggini che le sorelle di Seniga quando all'improvviso quest'ultimo
grida: "Allora, dillo pure che sono un ladro..." Secchia questo non
lo aveva mai detto, proprio perché, tra l'altro, era convinto di poter
rientrare in possesso del danaro. E anche questa volta non reagisce, non aggiunge
una parola, ma Seniga, che sembra in stato di esaltazione insiste: "Non
sono io il ladro, siete voi. Quelli sono soldi del partito... e voi li spendete
con le puttane". "Tu" grida rivolto a Secchia "devi venire
con noi". "Noi chi?" domanda Secchia con la sensazione di essere
vicino a scoprire la verità. "Noi, noi" risponde Nino "con
gli operai dell'Alfa Romeo, con i comunisti. Con quelli che vogliono fare ancora
la rivoluzione. E anche tu lo sai che il partito la rivoluzione non la vuole
più fare." Secchia gli parla, gli ricorda, gli spiega. Per una rivoluzione
che un giorno si farà - quando non si sa - ciò che conta è
il partito, la sua unità; non si può dividere il partito. Ognuno
ha le sue colpe, anche Togliatti certamente ha le sue, ma anche i russi dissero
a suo tempo che, al di là di un certo limite, non si doveva andare. È
vero che bisognerà correggere molte cose che nel partito non vanno; ma
per questo è necessario starci dentro, uscirne non serve a nulla. Seniga
alla fine ha gli occhi lucidi. Tutto è risolto, dunque?
Secchia ne è convinto. Il primo incontro tra i due si è svolto
a Cremona e a Cremona, per il 20 agosto, è fissato quello conclusivo.
A Seniga è morto il padre, dopo i funerali ci sarà la riconciliazione,
il ritorno all'ovile del figliol prodigo.
Mentre l'Italia tutta si appassiona e si divide sullo scandalo Montesi, uno
scandalo nel quale sono coinvolti esponenti democristiani, questori, ministri
e una ragazza della Roma borghese sedotta da un giro di danaro e droga, il vertice
del Pci consuma il suo scandalo segreto, in cui non entrano né donne,
né droga, ma danaro tanto e in cui si brucia uno dei suoi leader più
prestigiosi.
Il 20 agosto sono tutti lì attorno al morto. C'è Secchia, Bera,
Poggini, Seniga e i suoi molti parenti. Seniga ha promesso che finalmente, a
cerimonia finita, dirà dove sono i danari e i documenti, quel "bagaglio
che scotta", che si è portato appresso lasciando le Botteghe Oscure.
Si andrà a riprenderlo quel bagaglio, si tornerà insieme a Roma
e tutto sarà finito, come un incubo, o messo in conto, come dice Spallone,
alla malattia che buca lo stomaco e talvolta guasta il cervello.
Ma quando la bara viene alzata a spalle e prende la via del cimitero, Seniga
non guarda nemmeno dalla parte dove c'è Secchia, l'uomo al quale è
stato legato per anni da un affetto più che filiale. Circondato e quasi
protetto dai parenti, si avvia verso una macchina di fronte alla quale l'aspettano
due sconosciuti. E con loro: scompare.
Secchia passa ancora qualche ora con Bera e Poggini, in attesa. Ma invece di
Nino arriva suo fratello a dire che Nino non verrà. Aggiunge: "Erano
due anni che mio fratello pensava a questo colpo, ma non si era mai deciso a
farlo". Due anni, pensa Secchia; dunque non era stato un colpo di testa,
un'azione improvvisa e un po' folle, ma un'azione meditata, preparata, lungo
settimane e mesi, mentre ostentava amicizia, fiducia, confidenza. Ma Secchia
si attacca ancora a un filo, esilissimo, di speranza. Se è venuto il
fratello, anzi se ha mandato il fratello, è segno che vuol mantenere
ancora un legame, che non tutto è deciso. Insiste quindi anche con lui
che Nino torni: nessuno gli farà del male, tutto si può rimediare,
tutto sarà dimenticato. Il fratello ascolta, in silenzio. È anche
lui un militante del Pci. Un paio di volte ripete: "Lo so che ha fatto
male, ma è mio fratello".
A un certo punto Secchia si spazientisce; capisce che ormai la partita è
chiusa, che Seniga lo ha ingannato ancora una volta. Non c'è più
da tentare di convincerlo, di vederlo. Decide quindi, bruscamente, di tornare
a Roma. Capisce di essere rovinato, ma non immagina ancora quanto.
A Roma tuttavia egli non trova nessuno di coloro che dovrebbero giudicarlo.
Togliatti è andato a passare l'agosto a Champoluc, in Val d'Aosta, con
Nilde e Marisa. Anche Longo è in vacanza. Solo Amendola non si allontana
da Roma dal suo ufficio al quarto piano, da dove comincia a controllare tutta
l'organizzazione del partito. Secchia non sa né può opporsi a
questo graduale, silenzioso passaggio di poteri.
Qualche dirigente di periferia, di quelli che gli sono più fedeli, gli
chiede cosa sta accadendo, ma lui risponde a mezza bocca e intanto si diffondono,
nel partito e fuori del partito, notizie, voci, insinuazioni, mentre "
Pace e Libertà" una organizzazione di provocazione diretta da Luigi
Cavallo, fa affiggere manifesti con cui Secchia e Longo e Togliatti vengono
denunciati come spie dell'Urss. Nelle riunioni di partito, anche importanti
(c'è a Roma a metà settembre una riunione dei direttori delle
varie edizioni dell'Unità) del cosiddetto "caso Secchia" o
"caso Seniga" non si fa parola.
Soltanto il 15 ottobre, tre mesi dunque dopo la fuga di Seniga, la Direzione
del Pci si riunisce, finalmente, per esaminare la vicenda. Il punto in discussione
è uno solo: perché Secchia ha dato tanta fiducia a Seniga, tanta
fiducia da consentirgli l'accesso ai fondi e alle informazioni più riservate
del partito? Secchia ribatte punto per punto. Ha avuto tutto il tempo, ormai,
per preparare la sua autodifesa che, del resto, fa' perno su una verità
accertata e ben conosciuta da tutti i compagni che stanno lì, in quella
stanza. Lui, Secchia, non ha fatto né deciso nulla che non fosse a conoscenza
di Longo, l'altro vicesegretario e dello stesso Togliatti. Ma prima di ricordarlo
ascolta le accuse e le critiche che gli vengono rivolte. Il primo ad attaccarlo
è Di Vittorio: "Non avevi il diritto" dice "di tenere
Seniga a quel posto, specie dopo quello che ti aveva detto D'Onofrio".
D'Onofrio conferma: ai primi di maggio aveva avvertito Secchia degli strani
legami che il suo protetto aveva avuto in Svizzera, nel 1943, con il colonnello
Mac Caffery. Secchia lo interrompe, sfida D'Onofrio a portare elementi più
concreti di giudizio (come non sapesse che nel Pci un sospetto, un'ombra di
quel genere equivalgono già a una condanna). "Comunque" aggiunge
"anche tu sapevi gli incarichi che aveva, e non ti eri opposto."
Per adesso, in questa riunione del 15 ottobre, si parla soprattutto dei soldi.
Ognuno ha la sua da dire: non si potevano depositare in banca, investirli, consegnarli
a terzi? Secchia si guarda intorno come stupito: perché non interviene
Longo a dire quello che sa? Che cioè hanno deciso tutti insieme, in segreteria,
cosa fare di quel danaro? Perché Longo non ricorda che fu proprio lui
a sconsigliare ogni tipo di investimento, dato che Di Vittorio, a suo tempo,
per voler investire dei soldi dell'organizzazione, era rimasto del tutto fregato?
È patetica questa riunione di grandi dirigenti che, chiusi in una stanza
del secondo piano delle Botteghe Oscure, attorno a Togliatti, si affannano,
come anziani e sprovveduti padri di famiglia, a recriminare sulla perdita di
questa cifra favolosa, appunto, il "tesoro di famiglia". Sono tutte
persone straordinariamente oneste e straordinariamente ignare di problemi finanziari.
Per loro i soldi vanno ben conservati, questo è tutto. Nessuno ha mai
pensato, nemmeno per un momento, che tra loro, in quel palazzo, potesse abitare
qualcuno sensibile al fascino del danaro.
"Ti rendi conto" viene chiesto a Secchia "dell'entità
del danno finanziario che è stato inferto al partito?" Certo che
Secchia lo sa, ma siccome di quei soldi conosce anche la provenienza, pensa
che non sarà impossibile far coprire il buco dai compagni sovietici.
Il problema non è questo o non è solo questo; il problema vero
sono i documenti.
Di questi, per ora, nessuno parla. Ma Scoccimarro che nei confronti di Secchia
ha una vecchia ruggine che risale ai tempi della Resistenza, è il primo
ad avanzare un altro tipo di osservazioni, che poi, nelle settimane a venire
costituiranno il principale capo di accusa nei confronti del vicesegretario:
"Sei stato leggero. Seniga non doveva avere accesso ai documenti. Questo
non lo aveva deciso nessuno. E, a parte i documenti, è vero che Seniga
ha saputo, da te, particolari della vita interna del partito che dovevano rimanere
segreti. Questo è contrario a tutto il nostro costume".
Secchia tace e incassa. Sa di aver commesso qualche leggerezza, di essersi troppe
volte confidato con Nino, come con un figlio, un amico, un fratello. Ma sa benissimo
che anche Togliatti confida, a Marcella e Maurizio Ferrara, a Massimo Caprara
e a Mario Spallone ben più di quello che sarebbe concesso e prudente.
Tutti, lì dentro, hanno certamente trasgredito qualche volta alla feroce
regola che impone che un dirigente comunista non abbia un amico. Ma Secchia
per ora questo non può dirlo. Significherebbe rompere, stupidamente;
rivelare i propri risentimenti e coalizzare tutti contro di sé. Si limita
quindi a difendersi: "Tutto quello che ho fatto voi lo sapevate e comunque
ero sempre d'accordo con Longo e con Togliatti. Non mi credete? O volete che
vuoti il sacco?". L'interrogativo nasconde, o sembra nascondere, una minaccia.
A questo punto la discussione si tronca e si forma una piccola commissione,
di cui fanno parte Spano Colombi e Negarville, con il compito di esaminare più
dettagliatamente il caso e riferirne subito in direzione.
La commissione convoca Secchia. "Cosa significa vuotare il sacco?"
gli viene chiesto. "Stai attento a non cadere nella provocazione. Qui siamo
fra compagni e nessuno intende farti un processo né condannarti, ma ci
sono cose che vanno chiarite, responsabilità che vanno individuate. Non
ti puoi nascondere dietro il fatto che Togliatti e Longo sapevano tutto. Tra
te e Seniga si. erano stabiliti rapporti di cui nessuno poteva essere a conoscenza.
E questa la tua responsabilità. E poi, stando sempre con lui, come hai
fatto a non renderti conto del suo temperamento? Adesso ci dici che è
un pazzo, un nevrotico, una canaglia. Ma è possibile che tu abbia dato
la tua fiducia, e la nostra anche, a un personaggio di questo tipo? Quindi l'errore
l'hai commesso tu e l'hai fatto commettere a tutti noi..." Alla fine, davanti
a quei tre compagni sereni e ragionevoli, Secchia riconosce le sue responsabilità:
è vero, è stato leggero, imprudente, si è fidato troppo.
Ed è disposto a riconoscerlo anche di fronte alla Direzione che si riunisce
subito dopo.
Togliatti, alla fine, si dimostra longanime: "Per adesso, basta. Forse
è meglio che il compagno Secchia si prenda un periodo di riposo. Poi
ridiscuteremo di tutto".
Secchia non è uno sciocco. Che significa prendersi un periodo di riposo?
Per quanto tempo? Perché? Preferirebbe che della cosa si finisse di discutere
adesso, subito.. Ha l'impressione che né Colombi, né Negarville,
né Spano gli siano ostili. Ma la decisione della Direzione è quella:
bisogna aspettare ancora. E nel frattempo egli deve sparire. Il periodo di riposo
si rivela così per quello che in effetti è: una sospensione, se
non dal partito, dal lavoro che ormai, dal Comitato Centrale di luglio e poi
da quel maledetto giorno della fuga di Seniga., sta già passando sotto
il controllo di Giorgio Amendola.
Alla proposta di questo nuovo periodo di riposo, Secchia oppone riserve e chiede
spiegazioni: dove deve andare? Cosa deve fare? Longo gli risponde proponendogli
un viaggio in Urss "dove", aggiunge "potrai avere anche dei colloqui
con compagni sovietici, capire meglio che cosa sta succedendo lì".
Ma Secchia non ci sta; capisce che l'aiuto dei sovietici, di cui pure non dubita,
non solo non potrebbe salvarlo dall'attacco che gli viene rivolto qui in Italia,
dai suoi, ma addirittura potrebbe rendere più difficile la sua situazione.
Che senso avrebbe andare a Mosca per alcuni mesi e in un periodo, per di più,
in cui anche quel gruppo dirigente appare diviso e lacerato da contrasti? No,
l'Urss no. Secchia ha addirittura l'impressione che la proposta possa nascondere
un trucco. È vero che non sono più i tempi di Stalin, ma cosa
succederebbe se una volta arrivato a Mosca lo trattenessero più del dovuto?
Longo alza le spalle a questa obiezione e butta lì una proposta: "Perché,
allora, non vai per un po' in Svizzera?".
Secchia protesta indignato. Ha l'impressione che lo si voglia addirittura prendere
in giro: non è in Svizzera infatti che si pensa sia fuggito Seniga con
i milioni? Alla fine Longo taglia corto: "Va' un po' dove ti pare, basta
che per un po' non ti fai vedere". E Secchia, di rimando: "Perché?
A Roma vi do fastidio?". "Sì," gli fa Longo secco "qui
per adesso dai fastidio". "Ma che diranno i compagni" balbetta
alla fine Secchia "quando nel corso della preparazione della Conferenza
non sentiranno mai fare nemmeno il mio nome?" Longo alza le spalle indifferente.
In realtà Secchia non sa dove andare. Non può andare nel suo ufficio
e, stando a casa, gli sembra di impazzire: Alba sta peggio del solito e Vladimiro
chiede, di tanto in tanto, quando tornerà Nino. A dare un mano a Secchia
provvederà Mario Spallone che, oltre che medico, è una sorta di
provvidenziale deus ex machina delle situazioni più difficili. Mario
vede che Secchia è depresso, quasi allucinato, si rende conto che bisogna
obbligarlo al riposo e se lo porta con sé in un paesino vicino Avezzano,
Lecce dei Marsi, dove ha una casa. E una casa adatta per l'estate e adesso siamo
alla fine di ottobre, autunno a Roma, ma quasi inverno nella Marsica. Mario
Spallone fa sistemare alcune stufe al piano terra della casa di Lecce e in camera
da letto.
Lì, in isolamento totale, con la moglie Alba e il figlio Vladimiro, Secchia
passa alcune settimane, fino alla fine di novembre. Formalmente è ancora
responsabile della Commissione di Organizzazione e vicesegretario del partito.
Ufficialmente il partito ignora ancora cosa è successo. Più o
meno a metà novembre Davide Lajolo che partecipa a una riunione dei direttori
dell'Unità a Roma, infastidito e incuriosito dalle tante voci che girano,
chiede a Longo se è vero quello che si dice nei corridoi delle Botteghe
Oscure, che Secchia cioè avrebbe già scritto una lettera a Togliatti
ammettendo almeno una parte delle sue responsabilità, e che Togliatti
non gli avrebbe nemmeno risposto. Longo guarda Lajolo freddamente: "Una
lettera di Secchia? Che lettera? Non ne so proprio niente..." (42)
La lettera in realtà per adesso non c'è. Ci sarà tra breve
in assenza di Secchia l'indagine è andata avanti, ma non se n'è
occupata più la piccola commissione composta da Colombi, Spano e Negarville,
bensì una commissione che, diretta da Scoccimarro, ha allargato di molto,
come vuole Togliatti, la ricerca delle responsabilità, passando dal fatto
specifico alle cause che lo hanno determinato e da queste agli errori politici
che vi sono sottintesi. Scoccimarro ha convocato, uno ad uno, tutti i collaboratori
di Secchia e poi i segretari regionali e gli uomini dell'apparato che con Secchia
hanno avuto, in momenti diversi, contrasti o polemiche. La conclusione cui la
commissione è giunta e la sentenza che emette, in assenza dell'imputato,
è quanto mai severa. La segreteria, massimo organo del partito, di cui
fanno parte Togliatti, Longo, D'Onofrio e lo stesso Scoccimarro, la ratifica
il 17 novembre.
"La responsabilità di Pietro Secchia" dice questo documento
"non sta soltanto in errori di natura tecnica (violazione delle norme cospirative
circa il modo di organizzare gli archivi e accedere ad essi, modo di conservare
documenti e chiavi)... la sua responsabilità consiste soprattutto nell'aver
violato criteri e metodi di lavoro fondamentali nei suoi rapporti con Nino Seniga
il quale era di fatto il suo collaboratore più stretto per tutta una
serie di attività. Secchia ha tollerato che rapporti di amicizia personale
e di familiarità si sostituissero, tra lui e Seniga, ai rapporti normali
di collaborazione e direzione politica; ha tollerato che Seniga venisse sottratto
a un serio controllo organizzativo e politico e prendesse nell'apparato una
posizione tale che impediva l'esercizio di questo controllo."
Fin qui siamo a leggerezze, colpe gravi che non investono ancora l'orientamento
politico, tema delicatissimo cui è dedicata la seconda parte del documento.
È colpa di Secchia se in Seniga, e probabilmente anche in altri dei suoi
collaboratori" si è creata "sulla base di informazioni errate
e di pettegolezzi, una artificiale e falsa contrapposizione tra Secchia stesso
e gli altri dirigenti del partito, in modo che minava l'unità del centro
dirigente". E' un'accusa molto grave: minare, minacciare, insidiare l'unità
del partito è colpa che non consente assoluzione. II vicesegretario del
Pci non solo dunque si è comportato in modo leggero dando fiducia ad
un uomo che si sarebbe rivelato un "traditore", ma, confidandogli
cose che dovevano rimanere segrete, ha consentito che maturassero, nel Seniga
stesso, "opinioni politiche errate, in contrasto con la linea del partito
e che, radicandosi, hanno portato il Seniga a una posizione di aperta ostilità
e diffamazione". II giudizio che viene dato di Seniga, come si vede, è
ambiguo. Nemmeno in questo documento interno egli viene denunciato come una
spia o un provocatore; viene indicato piuttosto come un ingenuo, un debole,
uno sprovveduto, mosso al tradimento da posizioni politiche errate che
il suo più diretto dirigente aveva tollerato persino con benevolenza.
Come unica attenuante a favore di Secchia si ricordava l'eccessivo carico di
lavoro che su di lui gravava ma ciò non valeva certo a diminuirne la
colpa. E, del resto, non era ben nota a tutti la volontà, di Secchia
di accentrare nelle proprie mani il massimo di responsabilità e di potere?
La condanna politica di Secchia, nel documento del 17 novembre, è esplicita
e senza appello. Egli ha manifestato "spirito di tolleranza e di conciliazione
opportunistica con posizioni di aperta ostilità al partito e ai suoi
dirigenti": ovvio quindi, anche se non è detto, che non potesse
più ricoprire il suo incarico.
Questo documento, che non fu mal reso pubblico, viene portato a conoscenza di
Secchia solo due settimane dopo la sua approvazione, a Lecce dei Marsi. Egli
non si attendeva certo indulgenza, ma nemmeno forse un così duro, definitivo
giudizio. Tuttavia, essendogli stato chiesto un atto formale di autocritica,
egli spera ancora di poter salvare almeno una parte della sua storia personale,
del suo passato. Con quel documento in tasca Secchia torna a Roma. Si chiude
in casa e scrive la prima di tre lettere drammatiche al partito. Vale la pena
di esaminarle una per una.
La prima è del 10 dicembre. Colui che è stato fino a pochi mesi
prima l'uomo più potente del Pci si piega alla volontà del suo
partito, ammette i suoi errori, accetta i giudizi "per quanto pesanti e
duri" espressi a suo carico, ma non rinuncia ancora a qualche guizzo di
dignità, alla difesa del suo lavoro e del suo passato. Non rinuncia,
sembra di capire, nemmeno a un richiamo alla responsabilità collettiva,
un richiamo che può suonare quasi una velata minaccia nel momento in
cui sottolinea "che oggi più che mai, di fronte all'offensiva anticomunista
in corso... è necessario la massima unità e coesione di tutto
il partito, in particolar modo del suo centro dirigente". E, alla ricerca
di uno straccio almeno di riconoscimento, aggiunge: "Sottoposto personalmente
da mesi ad una pesante azione diffamatoria e ricattatoria, ho sopportato ogni
cosa senza perdere la testa con senso di responsabilità, avendo esclusivamente
di mira l'interesse del partito". Almeno di questo, egli sembra chiedere,
dovrete darmi atto! Nella seconda parte della lettera ricorda "il lavoro
svolto per la realizzazione della linea politica del partito e alla cui elaborazione,
nei limiti delle mie modeste forze, ho cercato sempre di portare, assieme agli
altri compagni, il mio contributo. I miei scritti, i miei discorsi, la mia attività
pratica di ogni giorno stanno a testimoniare che ho sempre lavorato in modo
conseguente per la realizzazione della linea politica del partito e per l'applicazione
delle direttive dei suoi organismi dirigenti e del compagno Togliatti, al quale
con i fatti e nell'attività concreta, di fronte a tutto il partito, ho
dimostrato sempre la mia piena fiducia".
E prosegue: "Si possono interrogare segretari regionali, segretari federali,
tutti i compagni con i quali avevo rapporti di attività e non si troverà
uno solo che possa sostenere che io abbia tenuto con lui o con chicchessia un
discorso, una conversazione che non fossero in armonia con la linea politica
del partito e del suo centro dirigente. Ciò che io penso sulle questioni
politiche, organizzative sul. nostro lavoro sui nostri metodi di direzione sta
scritto in decine di documenti ufficiali del partito, in risoluzioni, articoli,
discorsi ed in ogni caso dev'essere esposto da me e ricavato dal mio lavoro
e non può essere supposto sulla base delle diffamazioni, delle porcherie,
delle cretinerie e delle manovre ricattatorie di un traditore..."
Più che un'autocritica, questa prima lettera di Secchia sembra un'autodifesa,
una rivendicazione dignitosa del proprio operato che si accompagna a un'ammissione
altrettanto dignitosa del proprio errore ("aver considerato onesto, fedele
al partito e alla classe operaia un avventuriero che, con un'osservazione più
attenta e vigilante, avrei dovuto scoprire per un nemico del partito".)
Ma il tono della lettera e le sue ammissioni di responsabilità Sono ben
al di qua di quello che pretendono Togliatti e la Direzione del partito. E infatti
questo primo testo viene seccamente respinto e Secchia viene invitato ad una
autocritica più accurata. Cosa che farà, un mese dopo, il 4 gennaio
del 1955 modificando il primitivo testo in modo tuttavia non essenziale.
Questa seconda lettera viene sottoposta, il 7 gennaio, ad una discussione collettiva
alla quale è ammesso anche Secchia.
L'accusa che in quella sede gli viene rivolta è assai diversa da quella
iniziale, persino da quella così pesante contenuta nel documento del
novembre: lì lo si accusava di aver stabilito rapporti di amicizia personale
e di familiarità con Seniga, di aver tollerato che attorno a lui si esprimessero
opinioni, giudizi e pettegolezzi su Togliatti e il gruppo dirigente in violazione
del tradizionale costume comunista; oggi lo si accusa di non essere d'accordo
con la linea politica del partito, di avere organizzato, all'insaputa del gruppo
dirigente, una rete di "suoi" uomini pronti a rispondere a lui anziché
agli organismi ufficiali.
Secchia si rende conto, in questa riunione del 7 gennaio, di essere ormai completamente
solo. Nemmeno uno dei suoi vecchi compagni è disposto a spendere una
parola a sua difesa; anche coloro che in altre occasioni hanno espresso dubbi,
esitazioni, malessere di fronte a certe improvvise iniziative di Togliatti,
adesso tacciono. Solo lui, Secchia, è l'accusato. Gli altri, tutti gli
altri, sono trasformati in giudici. Qui non è più questione di
soldi (come amministrarli, dove nasconderli...) né di eccesso di fiducia
nei confronti di Seniga (cosa gli hai detto, cosa ti ha detto...), no, ora è
di altro che si parla, della sua fedeltà al partito, del suo passato,
della sua lealtà. E Secchia capisce, fin dalle prime battute del processo,
che per lui non è più possibile salvezza. È condannato.
Mentre ascolta i capi d'accusa e si appresta a rispondere, più per stare
alle regole del gioco che perché creda utile una difesa, Secchia rivede
con lucidità altri processi ai quali ha partecipato, non come imputato,
ma come giudice: il processo contro "i tre" (Tresso, Leonetti, Ravazzoli),
che a Parigi nel 1929 con il suo voto decisivo erano stati cacciati dal partito
e liquidati come traditori; il processo di Ventotene che nel 1939 aveva condannato
Terracini al più spietato isolamento, a quelle che Terracini aveva definito
"fraterne persecuzioni" (43). Gli tornano alla memoria quei processi
non sotto altra luce (che egli è ben convinto di aver avuto nell'un caso
e nell'altro ragione), ma invece come procedimenti ben noti di cui utilizzare
passaggi e meccanismi. L'imputato, pensa Secchia, non deve precludersi nessuna
via d'uscita.
I "tre" e poi Terracini si erano contrapposti orgogliosamente al tribunale
del partito, non avevano ammesso le loro responsabilità, non avevano
dichiarato la loro disponibilità a ricredersi e correggersi. Lui non
commetterà lo stesso errore. Egli deve sopravvivere, sopravvivere beninteso
politicamente. Deve, quindi, concedere quel tanto che è inevitabile,
indispensabile, obbligatorio per poter avere ancora diritto di cittadinanza
nel partito, per poter continuare a lavorare.
Ciò che gli viene richiesto come autocritica è assai più
di quanto egli sembrasse all'inizio disposto a concedere. Di qui il drammatico
dibattito nella riunione di Direzione del 7 gennaio, riunione di cui conosciamo,
finora, solo il testo di una sua dichiarazione finale, in pochi foglietti dattiloscritti.
Accusato ormai apertamente di non condividere le posizioni del partito, egli
ricorda di "aver precisato sempre il suo pensiero nelle forme e nei modi
che sono oggi abituali ". E, a più precise contestazioni, risponde:
"Riconosco che nella seconda metà del 1947 ho avuto seri dubbi non
soltanto su talune questioni, ma sulla linea politica nel suo complesso ed ebbi
il timore che quelli (i sovietici, N.d.R.) non conoscessero la reale situazione
italiana. Esposi quei dubbi nella forma più franca... Abbiamo iniziato
allora a fare il salto e scelta l'altra linea. Non c'era e non c'è che
da continuare, seppure è evidente che non si può dimenticare,
un comunista anzi deve pensarci sempre, tanto più che è la situazione
stessa che ci fa pensare... E poi: è giusto che non ci si pensi più?
Che vi siano dei compagni giovani che non ci pensano mai? Che neppure sul terreno
della propaganda e dell'educazione noi non poniamo più il problema della
conquista del potere da parte dei lavoratori?".
La Rivoluzione, preparata, sognata, attesa come una donna che si ama, ad ogni
momento dietro l'angolo e ad ogni momento in fuga, lontana, irraggiungibile.
Ma è giusto che non ci si pensi più, magari in silenzio, magari
in segreto? È giusto che non ci si prepari più al giorno in cui
l'amata verrà, è giusto che non si lasci almeno socchiusa la porta
per il giorno in cui lei potrà bussare?
Non c'è traccia delle sue obiezioni, né delle sue riserve nel
testo ultimo della lettera di autocritica che finalmente verrà accettata
dalla Direzione. È una lettera balbettante e umiliata, una abdicazione
totale alla sua dignità e alle sue idee.
"Sono consapevole della gravità dei miei errori che denotano che
ho lavorato con estrema leggerezza, con bonomia, con mancanza di vigilanza...
Mi rendo conto che questo non significa saper dirigere... Ringrazio i compagni
della Direzione del partito che, dimostrandomi la loro fiducia, mi hanno aiutato
a scorgere in modo completo e in tutta la loro gravità i miei errori.
Vorrei che una sola cosa si tenesse presente e sulla quale non vi fossero dubbi
di sorta: il mio incondizionato attaccamento e la mia fedeltà al partito...
I compagni della Direzione possono avere certezza del mio fermo impegno a superare
nel posto di lavoro che mi si vorrà affidare, con lo studio e l'attività
pratica... quei difetti che hanno reso possibili i miei errori. "
In cambio di questa lettera Secchia ottiene di rimanere membro della Direzione.
È, probabilmente, un compromesso o meglio come tale è vissuto
da Secchia: tutto sommato ha appena 51 anni e un capitale straordinario di prestigio,
di capacità di lavoro, di intelligenza politica. Può ancora farcela.
Il partito nel suo complesso non sa ancora nulla di tutta questa vicenda. A
conclusione della Conferenza di Organizzazione, il 18 gennaio, verrà
comunicato che il compagno Pietro Secchia "è stato designato a ricoprire
il posto di segretario regionale del partito per la Lombardia". Nessuno
chiese spiegazioni e nessuno ne diede.
Pietro Secchia raccolse le sue carte, lasciò la casa di Monteverde e,
con Alba e Vladimiro, partì per Milano.
Giorgio Amendola si insediò al quarto piano, come responsabile della
Commissione di Organizzazione, nella stessa stanza che era stata di Pietro Secchia.
Incassata nel muro, simbolo del potere finanziario dell'ex vicesegretario del
partito, c'era una cassaforte alla quale egli poteva accedere liberamente. Giorgio
Amendola, prendendo possesso della stanza, la fece subito smontare: del resto
ormai era vuota. Una sorte analoga toccò pian piano a quello che era
rimasto delle strutture approntate dalla Commissione di Vigilanza per il giorno
in cui il Pci fosse stato gettato di nuovo nell'illegalità. Appartamenti,
ville, casali vennero venduti. Gli indirizzi dei recapiti clandestini vennero
dimenticati. Armi ormai non ce n'erano più: secondo dati del ministero
degli Interni tra il 1946 e il 1953 erano stati scoperti 173 cannoni, 719 mortai,
35.000 fucili mitragliatori, 37.000 pistole e rivoltelle, 250.000 bombe a mano,
309 radio trasmittenti.