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Tutte le arti hanno prodotto le loro meraviglie, ma l'arte
di governare non ha prodotto che mostri...
Saint Just, discorso alla Convenzione, 13 nov. 1792
Il trasferimento di Togliatti a Mosca, deciso all'unanimità
dalla Direzione del Pci su richiesta di Stalin e, formalmente solo rinviato
di qualche mese, viene semplicemente cancellato, ignorato, dimenticato. Togliatti
tornato a Roma non ne parla con nessuno dei compagni dirigenti. E nessuno di
questi ne parla con lui.
Ma da quel momento qualcosa muta nei loro rapporti; Togliatti sa che di Secchia
non ci si può più fidare. E Secchia sa che i sovietici si fidano
sempre meno di Togliatti.
Dietro la pressante richiesta di Stalin ci sono - Secchia lo ammetterà
più tardi - anche motivazioni diverse da quelle che in quel momento furono
rese esplicite, un giudizio non tutto positivo sul lavoro del Pci in Italia,
per una sua presunta insufficiente combattività contro i preparativi
di guerra dell'imperialismo americano e una eccessiva fiducia nei metodi della
democrazia parlamentare. "Di quanti carri armati disponete per difendere
il vostro segretario?" aveva chiesto Beria nella riunione che si era svolta
al Cremlino. La domanda poteva essere interpretata come un incitamento a prepararsi
meglio per difendere il segretario e tutto il partito ma poteva anche essere
capita come una critica, ironica e sprezzante, nei confronti di un partito che
aveva scelto di affidare le sue fortune più alla politica che alle armi.
Qualcuno a Mosca, forse lo stesso Beria, aveva chiesto negli stessi giorni a
Secchia cosa sapesse dei rapporti della Jotti con rappresentanti del Vaticano.
Secchia assicura di aver risposto che a lui non risultava nulla. Ma la domanda
dei sovietici aveva chiaramente anche un altro significato, stava a dire: "Indagate
meglio, compagno Secchia, cercate di sapere di più".
È quello che Secchia si propone di fare subito, appena tornato a Roma.
E per questo chiede la collaborazione e l'aiuto di Edoardo D'Onofrio, responsabile
dell'Ufficio Quadri. Edo, comunista dalla fondazione, uomo di tutta fiducia
dei sovietici, è un vero "bolscevico" che ha trascorso la maggior
parte della sua vita di emigrato politico in Urss. Dell'operaio romano che è
stato in gioventù egli ha conservato alcuni tratti: una straordinaria
onestà, la sensibilità per i problemi della povera gente, il gusto
della grande tavolata, un certo affettuoso paternalismo nei confronti dei compagni
più giovani. A questi tratti unisce un rigore e una severità che
escludono ogni indulgenza e un'attenzione per la vita personale dei compagni
che non di rado assume connotati polizieschi.
Ogni vita, anche nelle sue pieghe più riposte, viene esaminata dall'Ufficio
Quadri con la lente d'ingrandimento, alla ricerca di una lacuna, di un punto
debole, di una tendenza intellettuale o del carattere che possa offrire o avere
offerto l'appiglio al nemico di classe. Vittime di questa sorveglianza sono
tutti non soltanto i compagni che, entrati da poco nel partito, potrebbero essere
portatori di abitudini e contatti non ortodossi, ma anche vecchi militanti:
che potrebbero scivolare nelle lusinghe della corruzione borghese o nelle trappole
del nemico.
Il "tradimento" di Magnani e Cucchi che avevano sostenuto che se l'Armata
Rossa avesse invaso l'Italia, i comunisti avrebbero dovuto battersi per l'indipendenza
del paese, accentua questo clima; diviene obbligatoria la vigilanza stretta
su coloro che con Cucchi e Magnani abbiano avuto, in passato, troppo stretti
rapporti. (34)
E tra questi, purtroppo, c'è anche Nilde Jotti che proprio da Magnani
è stata introdotta al Pci e che di Magnani è parente. Ha un bel
tagliare, la Nilde, ogni rapporto con quel suo cugino eretico di Reggio Emilia.
Secchia e D'Onofrio sono convinti che un legame tra i due continui ad esserci
e il fatto di non riuscire a individuarlo, anziché rassicurarli, accresce
i loro sospetti. Altri sospetti del resto circondano la casa di Via Arbe e coloro
che la frequentano: Massimo Caprara, da anni segretario di Togliatti, Marcella
Ferrara, segretaria di redazione di Rinascita, la rivista alla quale Togliatti
dedica gran parte della sua attività e Maurizio Ferrara, marito di Marcella
ed uno dei più brillanti giornalisti dell'Unità. Con ancora maggior
sospetto è vista l'amicizia che lega la Jotti e Togliatti alla famiglia
Rodano. Franco e Marisa sono stati, giovanissimi, tra i protagonisti della Resistenza
a Roma: Marisa, dal 1948, è deputato del Pci e dirigente dell'Udi, Franco
già fondatore del movimento dei comunisti cattolici non risulta ufficialmente
iscritto al partito. Ambedue, nonostante la scomunica che li ha colpiti nel
1949, sono legati ad ambienti vaticani. Circola, alle Botteghe Oscure, persino
la voce che un giorno Togliatti e la Jotti abbiano cenato insieme al Cardinal
Ottaviani nella villa dei Rodano sull'Appia: evento sommamente improbabile,
ma certo sommamente inquietante.
È concepibile che, di fronte a questa eventualità, l'Ufficio Quadri
resti con le mani in mano? No, non è possibile. E infatti D'Onofrio decide
di procedere. È indispensabile sapere qualcosa di più, è
indispensabile sapere qualcosa che sciolga il dubbio, è urgente trovare
le prove di ciò che si suppone vero.
Per far questo, visto che i fedeli resoconti di quanti circondano Togliatti
non sono sufficienti, si ricorre a una misura radicale: viene ordinato cioè
a Leonida Roncagli, responsabile del servizio d'ordine, dì installare
nell'appartamento di Via Arbe un sistema di microfoni. Togliatti reagisce da
par suo. Non protesta né chiede spiegazioni, lascia capire tuttavia che
l'operazione non è passata inosservata. Dall'entourage di Togliatti l'avvertimento
passa all'entourage di Secchia: il fedelissimo Seniga avverte il suo capo che
qualcosa non ha funzionato e che bisogna correre ai ripari.
Dell'episodio abbiamo solo la testimonianza di Secchia, che racconta dì
essere rimasto sorpreso e indignato dell'iniziativa dì Roncagli. "Penso"
scrive Secchia "che la disposizione l'avesse avuta da chi dirigeva l'Ufficio
Quadri". Ma egli pensava evidentemente che io dovessi essere d'accordo,
anche se sarebbe stato suo dovere assicurarsene dal momento che ero io il suo
dirigente e quindi l'autorizzazione avrebbe dovuto chiederla a me. Comunque,
mi opposi recisamente e feci una severa reprimenda a Roncagli."
Roncagli era un compagno di totale fiducia, di quelli che, quando è necessario,
sanno incassare e tacere. È vero che ha avuto la disposizione da D'Onofrio,
ed è anche vero che era sicuro che D'Onofrio fosse d'accordo con Secchia,
dato che i due Uffici lavoravano, normalmente, dì conserva. Se questa
volta c'era stato, da parte dell'Ufficio Quadri, un eccesso di zelo, adesso
tocca a Roncagli pagare. Ma l'eccesso di zelo viene pagato anche da Secchia
che, nel corso della discussione con il responsabile del servizio d'ordine,
viene colpito da malore.
Secchia sì rende perfettamente conto che con questo nuovo, brutto episodio
i suoi rapporti con Togliatti, già assai deteriorati dopo la vicenda
moscovita, rischiano di guastarsi del tutto, ed è questo più che
l'episodio in sé che lo fa star male. Non sembra però trattarsi
dì cosa grave fino a quando non arriva Mario Spallone che immediatamente
diagnostica un infarto. "Riposo assoluto" ordina "riposo assoluto
per almeno due mesi." Alba che già da tempo si lamenta di una quantità
di malanni si spaventa e obbliga Pietro a prendersi finalmente cura di se medesimo.
Pietro sul momento obbedisce, ma dopo un paio di settimane ha l'impressione
di star molto meglio, è rinfrancato, riposato, ha voglia di riprendere
la solita vita e tornare in ufficio. Ma Spallone, che lo viene a controllare
un giorno sì e un giorno no, appare categorico e persino minaccioso:
" Ma lo sai cos'è un infarto?" gli dice brusco, e lo rimette
a letto di forza.
Da qualche tempo Secchia non abita più a Via Arbe, nel villinotto di
Monte Sacro che ospita anche Togliatti e Nilde. Poco dopo l'arrivo della piccola
Marisa, Nilde ha ottenuto di disporre di tutta la casa e Secchia con Alba si
è trasferito a Monteverde Nuovo, in un altro villinotto, più modesto,
tra il S. Camillo e il Forlanini. Anche la famiglia di Secchia nel frattempo
è cresciuta: con loro c'è Vladimiro, un bambino di otto anni,
orfano di un partigiano che, preso prigioniero dai fascisti, è stato
massacrato in cella. Il bambino ha vissuto per qualche anno al Biancotto, un
istituto per orfani, poi è stato adottato da Secchia. Nella casa di Monteverde
Nuovo abitano anche D'Onofrio con la moglie, e alcuni compagni della sezione
di organizzazione tra cui Nino Seniga e Fortunato Avanzati, che ha un coraggioso
passato di partigiano.
Di giorno in giorno Secchia appare sempre più irritato e impaziente.
L'ozio lo deprime. Spallone, che continua a proibirgli di tornare alle Botteghe
Oscure prima della fine della convalescenza, non gli appare convincente. E con
il passare delle settimane, nella mente dello stesso Secchia, di Seniga e di
Avanzati comincia a profilarsi un dubbio, che cioè quel malore che lo
aveva colpito a dicembre non fosse stato un vero infarto, ma qualcosa di assai
meno grave che Spallone ha drammatizzato di proposito per allontanarlo dal lavoro.
E i dubbi aumentano quando Spallone ordina al convalescente un altro periodo
di riposo, da trascorrere preferibilmente all'estero, dove sarebbe stato più
tranquillo.
"Perché non vai un po' a Mosca?" gli suggerisce Longo. Secchia
non ne ha nessuna voglia. Fiuta una trappola; teme che la sua assenza, in una
situazione italiana molto grave, finisca col far prevalere, all'interno del
partito, le posizioni più concilianti che egli ha sempre combattuto e
combatte. E il suo sospetto, che si possa profittare della convalescenza per
liquidarlo politicamente, diviene più corposo quando Longo gli fa capire
di aver già pensato a chi potrebbe sostituirlo nella carica di responsabile
dell'organizzazione, nel caso sfortunato di una sua obbligata lunga assenza.
Il candidato alla successione è Secondo Pessi, allora segretario regionale
della Liguria, un ex operaio che Longo stima molto, ma Secchia meno.
Alla fine, prevale l'opinione del medico e, anche se di malavoglia, Secchia
deve partire per l'Urss dove è ospite di quella stessa clinica di Barvika
dov'era stato ricoverato Togliatti poco più di un anno prima.
Per quasi un mese, tra aprile e maggio, Secchia, accompagnato da Alba, si riposa,
prende disciplinatamente le sue medicine, fa qualche breve passeggiata nel parco
di Barvika spingendosi fino al laghetto. E pensa che ce la deve fare, checché
ne dica Spallone, a guarire e tornare al suo lavoro: il partito in Italia ha
bisogno di lui. Una macchina nera da rappresentanza, con le solite tendine abbassate,
viene a cercarlo tre o quattro volte per portarlo a Mosca dove, al Cremlino,
lo aspettano i massimi dirigenti del Pcus per informarsi della situazione italiana,
dare consigli e direttive. Così Secchia rivede Stalin, Malenkov e, probabilmente,
anche Beria.
I giudizi dei compagni sovietici coincidono con quelli di Secchia: c'è
da qualche tempo, nel Pci, un prevalere di interesse per le vicende interne
dei partiti di governo, per le loro beghe e i loro contrasti che rischia di
alimentare illusioni nei compagni e distrarli dal loro impegno essenziale che
è la lotta di massa per la pace, contro il sempre più virulento
imperialismo americano. Bisogna stare attenti a quello che è già
stato definito all'interno del movimento operaio internazionale il "cretinismo
parlamentare", bisogna ricordarsi che le forme della democrazia borghese
non consentiranno mai un'affermazione con mezzi legali dei comunisti e della
classe operaia. Le elezioni amministrative che a maggio si svolgono in gran
parte dei comuni e delle province italiane provano che c'è, specie nel
Mezzogiorno, un'avanzata delle forze di sinistra e una perdita di voti della
Dc, soprattutto a favore dei risorgenti gruppi di destra (monarchici e fascisti).
Ma bisogna evitare che questi risultati, positivi, distraggano i compagni da
quello che è, che deve rimanere il loro fondamentale impegno. Lo ricorda
lo stesso Secchia, quando, appena tornato in Italia, può partecipare
al Comitato Centrale che si tiene nel giugno del 1952. "Negli ultimi tempi"
lamenta "ci sono state debolezze nella lotta per la pace perché
le forze popolari sono state impegnate in altre iniziative dimenticando che
nessuno degli obiettivi del movimento democratico potrà avere successo
se non riusciremo a impedire che l'Italia sia impoverita sempre più dalle
spese di guerra."
Il ritorno di Secchia da Mosca serve a imprimere un nuovo slancio al movimento
dei Partigiani della pace, che si mobilitano in una campagna a tappeto contro
l'intervento americano in Corea, una campagna che, sull'esempio di quella precedente
contro la bomba atomica, raggiungerà milioni e milioni di persone coinvolgendole
in un dibattito che non consente sfumature di giudizio: o si sta da una parte
con l'imperialismo americano feroce e assassino o si sta dall'altra parte con
i popoli vittime e oppressi.
In questa campagna di massa sono mobilitati tutti: il partito comunista e quello
socialista, i sindacati, l'Anpi, l'Udi, i giovani e, in modo istituzionale,
i Comitati dei Partigiani della Pace, un'organizzazione che vede assieme uomini
di sinistra, qualche cattolico e molti senza partito.
Pietro Secchia si occupa in prima persona, dall'ufficio al quarto piano delle
Botteghe Oscure dove è finalmente tornato, di tutti questi organismi
di massa, concepiti, secondo la tradizione terzinternazionalista, come vere
"cinghie di trasmissione" della linea e delle scelte del Pci e, in
politica estera, della linea e delle scelte dell'Urss. E non diversamente da
una "cinghia di trasmissione" viene considerato anche il partito socialista
la cui autonomia è fortemente condizionata non solo dalla durezza della
situazione internazionale, ma anche dalla sua fragilità organizzativa,
dalla mancanza di autonomia sul terreno finanziario e dalla presenza, a tutti
i livelli, di dirigenti con "la doppia tessera" che rispondono della
loro attività non solo e non tanto a Pietro Nenni, ma in primo luogo
a Pietro Secchia.
In questa subordinazione di tutto e di tutti a Secchia c'è anche qualche
aspetto positivo; non solo un regolare ancorché modesto afflusso di fondi
che, amministrati con saggezza, permetteva a tutte queste organizzazioni di
massa di vivere e di moltiplicare iniziative, ma anche la coscienza non sgradevole
di far parte di un grande movimento e di poter usufruire delle sue attrezzature
complessive e dei suoi quadri. Funzionari di partito, uomini e donne passano,
al centro e alla periferia, dal lavoro di partito agli organismi di massa e
viceversa sulla base di valutazioni e criteri di promozione che nascono nelle
commissioni quadri e nelle commissioni di organizzazione del Pci. Il termine
"autonomia" era ancora di là da venire. Ciò comportava
un certo appiattimento sulle stesse parole d'ordine da parte dei vari movimenti,
ma non impediva una grande attenzione per la particolarità di ogni categoria
e ceto, per lo "specifico" come allora si usava dire di ogni gruppo
sociale. Ma lo "specifico" attorno al quale organizzare donne uomini
giovani era soltanto il punto di partenza, l'occasione o il pretesto da cui
partire per quella mobilitazione generale che era sempre in qualche modo la
prefigurazione della conquista del Palazzo d'Inverno.
In quella fine del 1952, in quell'inizio di 1953, il Palazzo d'Inverno che il
Pci e i suoi alleati si propongono di conquistare in Italia è puramente
e semplicemente il sistema elettorale proporzionale. La Dc, che ha visto dal
1948 in poi diminuire pericolosamente i suoi consensi, ha messo in cantiere
una legge che prevede un "premio di maggioranza" per quel partito
o quel gruppo di partiti che, collegati, raggiungano il 50% più uno dei
voti. La battaglia contro la nuova legge maggioritaria che i comunisti chiamano,
e ben presto tutta l'Italia chiamerà, "legge-truffa" è
quindi una tipica battaglia democratica. I comunisti gettano in questa battaglia
tutto il loro peso, il peso delle organizzazioni di massa da loro controllate
e il peso dei partiti che, a loro alleati, vedono giustamente come una jattura
la possibilità che la Dc conquisti, con questo accorgimento elettorale,
un'altra volta la maggioranza assoluta.
Anche in questa occasione si manifesta un divario tra Togliatti e Secchia. Un
comunicato della Direzione del Pci del gennaio del 1953 definisce il carattere
della battaglia: con la nuova legge, afferma, "le sorti della democrazia
sono in pericolo", occorre quindi "moltiplicare il lavoro e lo sforzo
per far capire al popolo intero quanto è seria la minaccia che grava
sulla società italiana". Ma, mentre Togliatti pensa che con una
grande battaglia politico-parlamentare si deve riuscire a incidere anche sullo
schieramento delle forze politiche intermedie, Secchia pensa soprattutto a una
mobilitazione di massa: scioperi, manifestazioni di strada, scontri con la polizia.
In realtà, sarà la combinazione di questi due elementi a determinare
il successo della battaglia. Ma anche questa combinazione di elementi o il loro
reciproco dosaggio non è un fatto meccanico. Secchia tira da una parte
e Togliatti da un'altra e di rado i due sono d'accordo.
Lo scontro più aspro tra i due ha luogo il 29 marzo, domenica delle Palme.
La legge è stata appena approvata al Senato in un clima di così
patente illegalità che il verbale di quella seduta non verrà mai
firmato dal segretario generale del Senato.
Appena terminata la seduta, Secchia si precipita a Monte Sacro, a casa di Togliatti.
Già vi erano state nel gruppo dirigente del Pci divergenze su come portare
avanti la lotta, Secchia chiedeva, quasi pretendeva, la proclamazione dello
sciopero generale, ma Di Vittorio nicchiava restio a impegnare direttamente
la Cgil nello scontro politico. E Togliatti non prendeva posizione riparandosi
dietro le argomentazioni di Di Vittorio. Ma adesso, di fronte al sopruso commesso
da Ruini, presidente del Senato, Secchia non ha più dubbi. E a Togliatti
annuncia, con aria concitata: "Noi non metteremo più piede in Senato,
se Ruini non si dimette". E Togliatti, di rimando: "Bravo, e poi che
facciamo? La guerra civile?"
Stanno insieme nel giardino della villa di Via Arbe. A pochi passi di distanza
c'è Seniga con un altro compagno della vigilanza. Secchia alza la voce:
"No, non faremo la guerra civile, ma se ascoltiamo te non facciamo mai
niente". "Va bene" taglia corto Togliatti "ne riparliamo
stasera."
La sera, è il 29 marzo, viene riunita la Direzione e in quella sede è
Secchia che ha la meglio. Al riluttante Di Vittorio viene strappato l'impegno
a far proclamare dalla Cgil lo sciopero generale di 24 ore e l'Unità
esce, il giorno dopo, con il titolo "Via Ruini, l'indegno!". Lo sciopero,
l'ultimo sciopero politico proclamato dalla Cgil riesce, ricorda Secchia, "abbastanza
bene, ma senza l'imponenza, l'ampiezza e lo scatto del 14 luglio". Ruini
tuttavia non tornerà più in Senato. Le Camere vengono sciolte
pochi giorni dopo e le elezioni indette per il 7 giugno.
La campagna elettorale del Pci raccoglie grandi consensi. Mentre Secchia si
affanna a sottolineare il carattere "di classe", Togliatti si affanna
a cercare alleanze anche le più eterodosse e in questo l'aiuta Giancarlo
Pajetta, responsabile della Stampa e Propaganda che inventa e organizza liste
di ogni tipo, purché valgano a sottrarre voti alla Dc e ai suoi alleati.
Servono a questo scopo persino i socialisti della Unione Socialista di Magnani
e Cucchi (sì, proprio quelli che due anni prima erano stati definiti
i "pidocchi nella criniera di un nobile cavallo"), serviranno anche
i liberali di Corbino o i monarchi ci o i fascisti dissidenti.
Anche nei discorsi elettorali, si può leggere una differenziazione tra
Secchia e Togliatti. In questi c'è sempre un più attento richiamo
alle forze intermedie, una maggiore sensibilità per le distinzioni in
cui si esprime il dominio di classe; in Secchia c'è sempre una maggiore
semplificazione dei contrasti, una visione aggressiva e manichea che non consente
sfumature: da una parte il proletariato, dall'altra la borghesia e il nulla
in mezzo.
Il gusto tutto politico di Togliatti per le soluzioni e le tappe intermedie,
viene giudicato con estrema severità da Secchia; le sue esitazioni -
e quelle di Di Vittorio - di fronte alla eventualità dello sciopero generale
politico vengono considerate poco meno che un tradimento. "E una vecchia
storia" confida Secchia a coloro che gli sono più vicini. "Appena
si scende sul terreno della lotta di massa, Togliatti cosa fa? Tenta di limitarla,
di contenerla, di raffreddarla." Queste cose Secchia non le dice soltanto
agli amici, vecchi partigiani come Moscatelli e Pesce o vecchi compagni di lotta
clandestina come Chini, Valli, Cicalini, Fedeli; le dice ormai sempre più
frequentemente anche a segretari regionali e provinciali.
"Questo" brontola senza mai nominarlo "la rivoluzione l'ha già
messa in un cassetto..."
I suoi lo ascoltano e sono d'accordo. Tutti operai, hanno sempre giudicato con
fastidio certe abitudini di Togliatti, della Jotti e della loro piccola corte
al "secondo piano", certe civetterie del segretario del partito che,
anziché andare nelle fabbriche a parlare con gli operai, si impegna in
partite di fioretto con giornalisti e intellettuali sulla interpretazione di
qualche sonetto del Trecento. Non sono solo notazioni di costume, sono anche
contrasti politici, che si riveleranno via via più netti.
La legge-truffa, il 7 giugno, non scatta. E questo è un colpo durissimo
per la Dc e i suoi alleati, soprattutto per Saragat che era convinto di ottenere,
per il suo partito, un successo clamoroso. Ma "il destino cinico e baro",
come ebbe a dire lo stesso Saragat, lo aveva tradito. Ora, tutti i giochi si
riaprono, secondo Togliatti, attento come sempre alle possibilità di
una manovra politica duttile. Le richieste che Togliatti avanza, nel suo primo
colloquio con De Gasperi il 4 luglio di quell'anno, appaiono molto moderate:
il leader del Pci chiede alcune iniziative in politica estera e, in politica
interna, la fine della discriminazione e una legge che dia efficacia giuridica
ai contratti di lavoro. Per il resto, avverte, "quando si chiederà
un voto che favorisca il lavoro e l'occupazione, si avrà certo l'appoggio
dei comunisti". (35)
Ma il successo elettorale non sana i contrasti all'interno del Pci; al contrario,
li rende più espliciti e gli avvenimenti politici successivi non fanno
che rendere più evidente la controversia. Dopo la caduta di De Gasperi
e un tentativo di Piccioni che fallisce per il rifiuto dei socialdemocratici
di partecipare alla coalizione, Pella riesce a formare un monocolore democristiano
che egli stesso definisce "a carattere transitorio fin quando non si realizzi
una chiarificazione politica". Il discorso con cui Peli a si presenta alle
Camere è di tono assai prudente e Togliatti dimostra di apprezzarlo.
"Abbiamo ascoltato" dice "una dichiarazione governativa senza
il disgustoso attacco anticomunista cui ci aveva abituato De Gasperi."
Nenni va oltre: "Dal fanatismo teologico di De Gasperi" commenta "siamo
passati ad una impostazione di sapore giolittiano".
Ma Secchia non è di questo parere. Prima al Senato e poi in un comizio,
a Cagliari, ammonisce a non lasciarsi ingannare da mutamenti solo formali. Ciò
che conta, ricorda, è la condizione della classe operaia "il cui
salario è diminuito in termini reali dall'anteguerra"; il nostro
compito, dice, è solo quello di organizzare la lotta di massa contro
il governo e le classi dirigenti senza farsi sedurre o distrarre da giochi di
vertice.
Il contrasto tra quello che dice Togliatti e quello che dice Secchia comincia
ormai ad apparire comprensibile non solo ai compagni che vivono nel palazzo
delle Botteghe Oscure, ma anche tra i dirigenti periferici più attenti.
Come si fa a non notare il ripetuto appello di Secchia alle "mani callose";
il suo costante richiamo alla classe operaia come protagonista delle lotte;
la sua non velata polemica contro le illusioni parlamentari; il suo invito ad
andare, coraggiosamente, più avanti?
Se si tiene presente la tradizionale prudenza di Secchia, non si può
non avere l'impressione che qualcosa sia accaduto che lo sollecita a rendere
più chiara la differenza tra la sua impostazione e quella del segretario
del partito, quel contrasto che volutamente era stato diplomatizzato negli anni
precedenti. Qualcosa, in effetti, è accaduto. Non in Italia ma a Mosca.
È successo che ai primi di marzo di quell'anno è morto Stalin:
un avvenimento che ha colpito il mondo intero e che anche i comunisti italiani
hanno sofferto come una drammatica perdita, un venir meno di consolidate certezze.
Il sentimento generale fu di smarrimento, quasi di incredulità: Stalin
non poteva morire.
E invece era morto. E con la sua morte certamente si sarebbero avviati anche
in Urss cambiamenti non irrilevanti. Chi se ne rese conto, per primo, nel gruppo
dirigente del Pci? Forse Togliatti che, andato, a Mosca per i funerali, non
poté non notare alcuni particolari significativi. Il fatto, ad esempio,
che il giorno successivo alle esequie, già le delegazioni straniere venissero
invitate a uno spettacolo al Bolscioi riuscì incredibile, quasi scandaloso
per Amendola, ma Togliatti era certamente in grado di dare anche a quella stranezza
protocollare un significato politico. Poche settimane dopo venne annunciata,
con grande clamore, la scarcerazione dei medici ebrei che erano stati arrestati
all'inizio dell'anno sotto l'imputazione di aver tentato di assassinare Stalin:
una vicenda certo oscura, ma nella quale Togliatti era in grado di leggere,
meglio e più di altri, il segno di un cambiamento imminente.
Ma in che direzione andasse quel cambiamento, quali sarebbero stati gli uomini
che sarebbero usciti vincitori da quei contrasti, chi insomma avrebbe veramente
raccolto la successione: ecco un problema che nemmeno Togliatti era in grado
di risolvere. Per questo, non restava che aspettare; gli interrogativi sarebbero
stati sciolti abbastanza rapidamente.
Secchia, che non è andato a Mosca per i funerali perché impegnato,
proprio in quelle giornate, nella battaglia parlamentare in Senato contro la
legge-truffa, sarà il primo a conoscere nei dettagli i particolari della
lotta in corso in Urss. All'inizio di luglio infatti giunge alle Botteghe Oscure
una richiesta: è bene che un compagno molto autorevole vada subito a
Mosca per comunicazioni importanti. Si decide che vada Secchia, e Secchia, accompagnato
da Seniga, come ormai era consuetudine, parte.
Il viaggio si svolge in due tappe. La prima è Praga, dove un aereo sovietico
verrà a prelevare il dirigente del Pci. Ma questa volta, racconta Seniga,
l'aereo si fece aspettare per quasi dodici ore. I due erano soli, nervosi, in
albergo, senza notizie. "Chissà cosa sta succedendo a Mosca,"
confidò Secchia "chissà che lotta si sarà scatenata
tra polizia ed esercito." (36)
Le cose stavano più o meno come Secchia immaginava: una lotta furibonda
si era scatenata al Cremlino tra la polizia di Beria, e il partito e l'esercito
rappresentati da Krusciov e Zukov. E Beria era stato sconfitto.
A Mosca ci fu la rivelazione. Qualcosa mormorò Sceveliaghin che, come
il solito, era venuto a prendere Secchia alla scaletta dell'aereo. Ma il resoconto
delle nefandezze di Beria stava tutto scritto in una serie di documenti che
al vicesegretario del Pci vennero concessi in lettura, con la tassativa raccomandazione,
o meglio ordine, di non prendere appunti. Secchia dovrà leggere questo
materiale e poi, tornato a Roma, riferirne al partito, a memoria, senza che
ne resti traccia scritta. Secchia però, per una volta, disobbedisce.
E con l'aiuto, o meglio la complicità di Sceveliaghin, mette in bella
copia, nella sua scrittura chiara e ordinata, il testo di quelle accuse e poi
stende quasi un verbale del colloquio che avrà con Malenkov, Molotov
e Krusciov.
I documenti dati in lettura dai sovietici a Secchia avrebbero dovuto provare
che Beria era stato sempre un agente dell'imperialismo straniero e che, dopo
la morte di Stalin, aveva cercato di impadronirsi del potere assoluto: per questo
Beria è stato smascherato e arrestato, e sarà quanto prima processato.
C'è qualcosa di sconvolgente e insieme di falso in quei documenti, e
Secchia ne resta colpito. Che Beria, l'uomo che ha comandato per anni la polizia
segreta dell'Urss, l'uomo più potente dopo Stalin fosse un agente segreto
degli americani o dei giapponesi non è cosa credibile.. E suona grottesca
l'accusa, che pure gli è stata rivolta di aver intrattenuto, o di tentare
di intrattenere, rapporti con i "traditori", jugoslavi, dal momento
che contemporaneamente i nuovi dirigenti del Cremlino comunicano a Secchia la
loro decisione di riallacciare i rapporti con la Jugoslavia di Tito. Perché
dunque l'operazione diplomatica disegnata da Malenkov e Molotov sarebbe prova
di tradimento quando proposta da Beria?
Ma a Mosca non c'è l'abitudine di fare domande, né di dare risposte.
E Secchia non è certo in grado - nessuno lo sarebbe stato - di obiettare
alcunché.
Dopo aver letto i documenti, Secchia viene introdotto al Cremlino al cospetto
di Malenkov, Molotov e Krusciov. "Quest'ultimo non parla, ma si vede che
conta" dirà Secchia. Parlano invece Molotov e Malenkov che ribadiscono
con cupa determinazione le accuse a Beria, informano che nel corso degli ultimi
anni della vita di Stalin le norme della cosiddetta "legalità socialista"
non erano più state rispettate; solo Stalin decideva tutto, e non decideva
sempre il meglio. Così il partito per volontà di Stalin e dello
stesso Beria aveva cominciato a deviare verso un "vero e proprio culto
della personalità ".
Secchia esce sconvolto e preoccupato dalla lettura dei documenti e dal colloquio
che ha avuto con i nuovi dirigenti del Cremlino. Molotov, salutandolo, gli raccomanda:
"La Direzione dev'essere collettiva; non commettete gli errori che abbiamo
commesso noi per questo complesso d'inferiorità davanti al grande capo,
per il culto della personalità".
Secchia è molto sensibile a questa raccomandazione. E veto, anche lui,
Secchia, soffre di una sorta di complesso d'inferiorità di fronte a Togliatti.
Ma questo è un errore, un'abitudine sbagliata da cui bisogna liberarsi.
E torna a Roma convinto che in qualche modo, ancora non sa bene come, si dovrà
dare battaglia.
A maggior ragione Seniga condivide l'opinione dei sovietici. Tutte le critiche
che, a mezza bocca, venivano fatte da Secchia nel passato nei confronti di Togliatti
sembrano ora acquistare legittimità. Se ha sbagliato Stalin, se è
possibile criticare Stalin perché non dovrebbe essere possibile criticare
apertamente anche Togliatti? Se Stalin si era sovrapposto al partito ignorandone
la volontà collettiva, perché non deve essere possibile, anzi
doveroso, ricondurre Togliatti al rispetto della volontà del Pci? Se
i compagni sovietici si accingono a denunciare il cosiddetto "culto della
personalità", perché non si dovrebbe anche in Italia denunciare
il "culto della personalità" alimentato attorno alla figura
di Togliatti?
Carico di questi interrogativi, Secchia ritorna a Roma. Ma a Roma subito Togliatti
gli spiega che non è il caso di informare la Direzione del partito di
quanto è accaduto a Mosca o meglio sarà opportuno informarla,
ma con cautela, restando molto sulle generali. Chi vorrà capire, capirà.
Non c'è bisogno di scendere nei dettagli (che sono anche dettagli orripilanti;
sembra infatti che Beria non sia stato tratto in arresto, come hanno detto i
compagni sovietici, ma sia stato ucciso, seduta stante, al Cremlino nel corso
di una riunione). E il Comitato Centrale? Il Comitato Centrale non saprà
assolutamente nulla o, per lo meno, nulla di più di quanto i compagni
non potranno immaginare leggendo gli articoli che, sull'argomento, appariranno
sull'Unità e su Rinascita.
E articoli ne usciranno molti in quella seconda metà di luglio del 1953
sul tema della liquidazione di Beria e della necessità della direzione
collettiva. Viene pubblicato, a puntate, un saggio della rivista teorica di
Mosca, il Kommunist. Vengono pubblicate le motivazioni fornite dalla Pravda
sull'espulsione di Beria dal Pcus e il suo deferimento alla Corte Suprema. Cos'ha
da dire su questi avvenimenti il Pci? La Direzione viene convocata per il 17
luglio, ascolta una relazione di Secchia e poi, con un comunicato, esprime "pieno
consenso e completa solidarietà" con le decisioni prese a Mosca.
Sono Secchia e D'Onofrio coloro che promuovono nel partito italiano una campagna
sul caso Beria, una campagna che deve servire, come aveva suggerito Molotov,
a ristabilire il metodo della direzione collettiva e a contrastare il culto
della personalità. D'Onofrio ne parla, per la prima volta, a un attivo
delle sezioni romane e Secchia ne scrive su Rinascita traendo dal caso una serie
di conclusioni politiche. Sentiamole. "Guai a ritenere la pacifica coesistenza
tra paesi capitalistici e socialisti come un dato di fatto già esistente.
La storia ci insegna che nessuna classe ha mai ceduto volontariamente il potere...
E dimostrato che più le classi sfruttatrici perdono terreno, tanto più
la resistenza diventa accanita feroce e disperata... li tradimento di Beria,
che balza apertamente agli occhi di ogni persona in buona fede, fu possibile
perché venne meno il principio supremo della. Direzione del partito comunista,
che è il principio della direzione collettiva. Le decisioni individuali
del dirigente comunista, anche se si tratta di una grande, forte personalità,
sono quasi sempre unilaterali..." (37)
Chi vuol capire, capisca. Queste annotazioni di Secchia sono scritte facendo
riferimento all'Urss, ma non potrebbero essere lette anche in chiave italiana?
Da poco, alla fine di marzo, Togliatti ha compiuto sessant'anni e anche il Pci
ha pagato il suo tributo al culto del Capo. Gli scritti di Secchia e di D'Onofrio
sembrano aver di mira anche questo costume, questo stile che dalla Terza Internazionale
e dall'Urss è stato importato, sia pure con qualche attenuazione, nel
nostro paese.
Il discorso sulla democrazia nel partito si intreccia in quei mesi tra la fine
del 1953 e l'inizio del 1954 con un dibattito già in corso nel partito
sui limiti della vittoria del 7 giugno. È una ben misera vittoria, insiste
Secchia, quella che ha portato a un monocolore democristiano che si regge sul
consenso dei monarchici. Il governo Pella si è presentato in Parlamento
con toni diversi dai precedenti governi democristiani ma porta avanti la stessa
politica. E le cose non sono cambiate affatto, né nel Paese né
nelle fabbriche dove anzi si sta dispiegando, nei confronti delle libertà
sindacali, un'offensiva senza precedenti. Eccoli qui dunque i limiti di una
concezione di tipo democraticistico della lotta politica! Eccoli qui i limiti
di una concezione tutta parlamentare della lotta di classe!
Sono temi, problemi, dubbi, delusioni, incertezze che circolano largamente nel
Pci in quei mesi. Non tutti certo immotivati. La situazione politica appare,
dopo la clamorosa vittoria del 7 giugno, singolarmente chiusa, stagnante, priva
di prospettive. La Dc si lecca le ferite, ma continua a governare. Allo slancio
dei mesi precedenti subentra tra le fila della sinistra il disagio, l'amarezza.
È in questo periodo che Secchia ripropone con forza una sua ipotesi di
sfondamento sul fronte delle lotte di massa, facendo leva sul malcontento reale
della classe operaia. La preparazione della Conferenza d'Organizzazione, convocata
per il 1954, può costituire l'occasione di una ridefinizione complessiva
della linea politica e organizzativa del Pci, forse di un cambiamento del suo
gruppo dirigente.
Il problema della destalinizzazione è aperto anche nei Paesi dell'Est:
dovunque viene avviato in quel periodo un processo di revisione dal quale escono
penalizzati i vecchi gruppi dirigenti, i segretari di partito dell'epoca staliniana.
Perché, pensa Secchia, non dovrebbe accadere qualcosa di analogo anche
in Italia? Togliatti è, dopo tutto, del gruppo dirigente del Pci, colui
che ha avuto certamente un rapporto più stretto e continuativo con Stalin.
Non è insensato pensare che, se il processo di destalinizzazione andrà
avanti finirà col travolgere tutti coloro che, nella fase dell'Internazionale,
sono stati i più stretti collaboratori del dittatore. Su questa ipotesi
Secchia gioca le sue carte.
Ma non ha fatto i conti con l'intelligenza politica di Togliatti. Anche il segretario
del Pci si rende conto che qualcosa sta cambiando a livello internazionale.
Ma mentre Secchia punta in qualche modo sull'irrigidimento e la chiusura, lui,
Togliatti, punta come sempre a un'iniziativa di grande slancio ed apertura verso
l'esterno. Ancora una volta i due si trovano, obiettivamente, su due versanti
opposti.
Secchia ha in mano il partito ed è sicuro di poterlo mobilitare, nel
corso della preparazione della Conferenza di Organizzazione, per una rettifica
della linea politica. Togliatti pensa invece a una iniziativa politica clamorosa
che trascini il partito fuori dall'incertezza in cui si trova e fuori dalla
influenza di Secchia. E se questi punta, per vincere la sua battaglia, sugli
oscuri ma fedelissimi responsabili dell'Organizzazione, Togliatti punta invece
su alcuni giovani e brillanti dirigenti che da tempo attendono un po' scalpitanti
un riconoscimento più pieno delle loro capacità. Li ha già
individuati, uno per uno. Ad alcuni di loro ha già fatto capire che presto
potranno entrare nel vertice più ristretto e autorevole del Pci, la Segreteria.
Quando decide di dare battaglia, Togliatti lo fa da par suo. E riunito, nella
seconda settimana di aprile del 1954, il Comitato Centrale per discutere della
preparazione della Conferenza, una assemblea dunque di routine, aperta da un
modesto rapporto di Longo. Ma quando prende la parola Togliatti il clima cambia:
ci si rende subito conto che il suo intervento è di quelli destinati
a segnare un punto di svolta. Si tratta infatti di un discorso nel quale il
problema della lotta per la pace viene proposto in termini del tutto nuovi,
avanzando la tesi che una guerra atomica porterebbe non alla vittoria di uno
schieramento sull'altro, ma alla distruzione pura e semplice della civiltà
che gli uomini hanno creato nel corso dei secoli. "Questa" dice Togliatti
"è la sola cosa che ha valore nel mondo e che deve a ogni costo
essere salvata." Qual è allora il compito dei comunisti? E quello
di trovare un accordo con il mondo cattolico per salvare insieme tutta l'umanità.
(38)
L'irritazione di Secchia è palese ed egli non fa nulla per nasconderla:
" Quando Togliatti", racconta Amendola "affermò che in
una guerra atomica non ci sarebbero stati né vincitori né vinti,
Secchia accanto a me al tavolo della presidenza scattò e borbottò:
"Prima parlavamo di classe, poi di patria, adesso siamo arrivati a umanità.
Dove andremo a finire ?" (39)