Biblioteca Multimediale Marxista
Le giovani comuniste dovranno prendere esempio dalla partigiana sovietica
Zoya Kosmodeminskaja o da Maria Goretti…
(Enrico Berlinguer in un discorso nel 1945 alle ragazze comuniste)
La ragazzona che il 14 luglio del 1948 si è gettata,
gridando, su Togliatti sanguinante sul selciato di Via della Missione e che,
durante la sua permanenza in ospedale, è stata tenuta cautamente in disparte
di fronte a Rita Montagnana, moglie legittima, è destinata ad avere una
grande importanza non solo nella vita di Togliatti, ma anche nel contrasto di
questi con Secchia.
Togliatti ha visto la Jotti, la prima volta, nel Transatlantico di Montecitorio
dove la giovane è approdata, subito dopo il 2 giugno del 1946, come deputata
di Reggio Emilia. Tra le undici deputate comuniste ci sono Teresa Noce, Adele
Bei, Elettra Pollastrini, Rita Montagnana, vecchie militanti che hanno conosciuto
l'esilio, il campo di concentramento, il carcere fascista, il confino; ma ci
sono anche alcune giovani: Teresa Mattei, una ragazza di ottima famiglia fiorentina,
intelligente e inquieta, e Nilde Jotti, figlia di un ferroviere socialista di
Reggio Emilia, dall'aspetto fiorente e sereno.
"Chi è quella deputata?, chiede Togliatti a Emmanuele Rocco, allora
giovane resocontista dell'Unità a Montecitorio. Rocco li presenta e li
invita a prendere il caffè alla buvette.
La Jotti si è laureata in lettere e filosofia all'Università Cattolica
di Milano. Da bambina ha studiato dalle monache: "Meglio i preti che i
fascisti..." aveva deciso il padre ferroviere, organizzatore sindacale
che aveva conosciuto, prima della marcia su Roma, più di un'aggressione
delle squadracce. Così Nilde cresce cattolica,
seriamente cattolica, all'interno di una famiglia laica, tanto laica che padre
e madre si erano sposati solo in municipio. Se le suore insegnano alla bambina,
oltre a leggere e scrivere, anche catechismo e religione, il padre le trasmette
i suoi valori: la fiducia negli uomini, nella lotta, nel progresso. Due insegnamenti,
quello delle monache e quello del padre ferroviere, ugualmente severi e ugualmente
seguiti. Che la vita fosse una cosa seria, da dedicare alla ricerca del bene
e del giusto, la bambina di Reggio Emilia lo impara tanto presto che oggi non
saprebbe dire se glielo insegnarono prima il padre e la madre o le suore o,
infine, i comunisti. Il padre morì quando Nilde aveva quattordici anni,
e solo grazie a una borsa di studio per orfani di ferrovieri, la ragazza poté
continuare gli studi scegliendo la Cattolica di Milano dove si guadagnò
una laurea, ma perse la fede.
"Fu proprio studiando la dottrina cattolica, le prove della veridicità
dei Vangeli che il dubbio s'insinuò nella mia mente. Al "credo perché
assurdo" la mia anima oppose un no. È bello, certo, paradossalmente
poetico, ma io sono razionale. Mi rifiutai. Nella mia vita del resto ho sempre
rifiutato l'irrazionale." (29)
Quando torna a Reggio Emilia, laureata, è già scoppiata la guerra.
C'è un gruppo di giovani comunisti nella sua città tra i quali
Vaido Magnani, cugino di Nilde, che si danno da fare e cercano proseliti. Per
la Jotti questo è il primo contatto con l'antifascismo militante, ma
non ancora un impegno di lotta. Questo verrà poi, quando, durante l'occupazione
tedesca, entrerà in contatto con i Gruppi di Difesa della Donna, un'organizzazione
clandestina antifascista animata dal Pci. E, per i comunisti di Reggio, un partito
fatto soprattutto di braccianti, mezzadri e mondine, fu quasi naturale - dopo
la Liberazione - candidare questa giovane professoressa prima al Consiglio Comunale
e poi alla Costituente. I dirigenti della federazione di Reggio erano sicuri
che la ragazza si sarebbe fatta onore, a Roma. E se ne farà infatti quando,
entrata a far parte della Commissione dei 75, incaricata di elaborare la nuova
Costituzione Italiana, rivelerà subito grande sensibilità ai problemi
giuridici e un notevole acume politico.
Lei stessa ricorderà spesso, più tardi, con piacere e con una
punta di nostalgia, il lavoro svolto in quella Commissione, "un dibattito
altissimo" dice "con uomini straordinari. Tra i cattolici c'erano
Dossetti, La Pira, Fanfani. C'era Nenni. Tra i comunisti Togliatti. Nella Commissione
lavoravo con lui. Dopo qualche settimana scoprimmo che ci eravamo innamorati".
Il primo a scoprirlo, dopo i due diretti interessati, è Armandino, il
compagno cui spetta la responsabilità di proteggere Togliatti e che quindi
lo dovrebbe accompagnare dovunque senza perderlo mai d'occhio. Ma Togliatti
si diverte a depistarlo. E, forse, qualche volta Armandino chiude un occhio:
ha avuto una vita così dura, Togliatti, che in fondo è legittimo,
è giusto che adesso tenti di recuperare un po' di tempo perduto! Se non
lo fa adesso che ha appena superato i cinquant'anni, quando volete che lo faccia?
Ma il buon senso e l'indulgenza affettuosa di Armandino non sono condivisi dai
dirigenti di un partito che è impegnato a dare di sé un'immagine
di grande rigore morale, in parte patrimonio autentico del movimento operaio
e in parte concessione alla cultura e ai sentimenti dominanti di un paese in
grande maggioranza cattolico. Per questo il Pci non ha voluto mai porre in alcun
modo il problema del divorzio, anche se si è battuto - lo ha fatto Togliatti
personalmente - perché l'indissolubilità del matrimonio non venisse
sancita nella Costituzione Repubblicana. Un partito severo, rigorista e un po'
bigotto come avrebbe potuto tollerare di avere un segretario generale se non
bigamo per lo meno adultero? E innamorato, per di più, di una ragazza
che aveva la metà dei suoi anni: ma via!
Così questa storia, che pure era una vera storia d'amore, venne per anni
tenuta nascosta come una vergogna. Ma, essendo anche Nilde un personaggio pubblico,
tener nascosta la loro storia era estremamente difficile: tuttavia così
si volle e così si fece.
Intendiamoci: anche altri compagni dirigenti, nel corso della Resistenza o subito
dopo la guerra, avevano conosciuto compagne più giovani e per loro avevano
lasciato le mogli già anziane e logorate da mille sacrifici. Ma molte
mogli accettarono questo destino (che le accomunava a mogli di altri ceti e
di altre epoche) con la stessa mite consapevolezza, con la stessa dignità
con cui avevano accettato sacrifici, privazioni, lontananze durante la lotta
clandestina.
Togliatti non ebbe questa fortuna. Rita Montagnana non si tirò da parte.
Era una donna sciatta e simpatica che aveva passato da poco la cinquantina e
portava nell'attività politica una cordialità di rapporti e una
semplicità di modi che la rendevano assai popolare tra le donne comuniste
di cui era la dirigente nazionale.
Era una militante della prima ora avendo aderito al partito a Torino nel 1921;
aveva trascorso tutti gli anni della clandestinità a fianco del marito,
in Francia e in Urss. Un fratello, Mario Montagnana, era direttore dell'Unità
di Torino; una sorella, Elena, era la moglie di Paolo Robotti. In qualche modo,
dunque, era il simbolo di un vecchio ceppo comunista che traeva le sue origini
di nobiltà in quel circolo operaio di Borgo San Paolo dove si erano formati
la maggior parte dei dirigenti del Pci.
La Jotti non poteva vantare nulla di simile. Al contrario, era un personaggio
in qualche modo estraneo alla cerchia entro la quale nel Pci si consumavano
e si potevano consumare affetti e sentimenti.
Non veniva considerato scandaloso infatti che Arturo Colombi, a oltre quarant'anni,
si innamorasse di Nella Marcellino che ne aveva la metà perché
Nella era figlia di vecchi militanti comunisti, veniva insomma da una famiglia
di cui "ci si poteva fidare". quando Li Causi, più che cinquantenne,
si innamorerà della sua staffetta, una ragazza di diciassette anni, verrà
circondato, anche nel gruppo dirigente, da comprensione e anche da un po' di
affettuosa invidia. Giuseppina era davvero bellissima, figlia anche lei di un
operaio comunista e straordinariamente dolce, coraggiosa e soprattutto "
fidata".
Per molti Nilde non era abbastanza "fidata ". Era stata eletta, nelle
liste comuniste, il 2 giugno del 1946 come "indipendente" e non risultava
che avesse fatto la Resistenza. Sì, certo, durante la clandestinità
aveva aderito ai Gruppi di Difesa della Donna, ma non si trattava di gran cosa.
Di fronte a personaggi come Secchia e D'Onofrio non aveva da esibire nessun
titolo di lotta partigiana e questo era, allora, motivo sufficiente di preoccupazione
se non di sospetto.
E c'erano, ancora, certe abitudini di Nilde, abitudini innocenti ma tenaci alle
quali la ragazza non volle mai rinunciare: una visione della milizia politica
non totalizzante, nevrotica, cieca, che non escludeva il gusto e il piacere
di qualche spazio di vita personale. A Nilde piaceva cucinare? Nilde voleva
in casa uno scaldabagno? Nilde amava le camicette ricamate? Anche questo sembrava
a uomini come quelli che allora comandavano alle Botteghe; Oscure, un segno
di frivolezza, un residuo di "mentalità piccolo borghese",
da punire e contrastare, di cui la ragazza avrebbe dovuto emendarsi.
Ogni problema pratico per il quale Togliatti e la Jotti si rivolgevano, come
allora si usava, al partito, lungi dall'essere risolto, come si sarebbe potuto,
assai rapidamente, veniva reso più complicato, quasi per mettere alla
prova la loro resistenza nervosa.
I due si sono conosciuti da pochi mesi e già, nel novembre del 1946,
Togliatti prende carta e penna e scrive a Secchia annunciando che intende separarsi
da Rita Montagnana e che quindi, per favore, si provveda (come faceva d'abitudine
il suo ufficio) a trovare o a lui o a Rita un altro alloggio. Ma Secchia tira
le cose in lungo. La moglie tradita protesta; non ha nessuna intenzione di lasciare
la casa di Via Ferdinando di Savoia, dove finora il segretario del partito ha
vissuto, assieme a un paio di compagni della Vigilanza. Togliatti è quindi
costretto a ricorrere agli espedienti amari di tutti i mariti che "hanno
un'altra storia ". Di giorno, a Montecitorio, si incontra con Nilde, la
sera, seminando il compiacente Armandino, vanno insieme da soli a cena in qualche
trattoria romana o a spasso a Villa Borghese e al Pincio. Quando sta con Nilde
è allegro, contento, espansivo. Poi, lasciata Nilde, è costretto
a tornare a casa sua sempre più seccato, nervoso, irritato. E Secchia
che non si decide a trovargli un appartamento...
Un giorno, siamo ormai a metà del 1947 e la "storia" dura già
da un anno, Togliatti manda un'altra lettera a Secchia minacciando: "O
mi trovi casa, o me ne vado a dormire in albergo. Così non resisto..."
Oggi può apparire impossibile immaginare un Togliatti segretario del
partito che deve sollecitare dal responsabile dell'organizzazione o da quello
dell'Ufficio Quadri, il diritto a un appartamento, a un minimo di vita personale.
Ma allora era così e in queste cose erano uomini come Secchia e D'Onofrio
che decidevano, per Togliatti non diversamente che per altri membri della direzione,
o per un segretario di federazione. La regola durissima secondo cui il partito
aveva diritto e dovere di conoscenza e decisione anche sulla vita privata dei
dirigenti era uguale per tutti. Qui non c'è per Togliatti nessun privilegio,
semmai anzi qualche difficoltà in più.
Finisce che Togliatti, non avendo più voglia di andare in Via Ferdinando
di Savoia e non avendo ancora diritto a un appartamento, si arrangia a dormire
all'ultimo piano delle Botteghe Oscure, dove Nilde può raggiungerlo facilmente.
L'appartamento, composto di due stanzette, arredate con squallidi mobili d'ufficio,
è una mansarda. Il tetto è coperto di catrame e il caldo d'estate
è insopportabile. Nilde non si adatterà mai a pensare che questa
possa essere la sua casa, la "loro" casa e lascerà sempre la
valigia aperta sul pavimento a ricordare, a se stessa e a lui, che quella è
una soluzione provvisoria. In quelle due stanze, soffocanti per il caldo e la
quasi segregazione, Nilde passerà, subito dopo il 14 luglio e l'attentato,
alcune delle settimane più amare della sua vita.
Poi, finalmente, un giorno Togliatti avverte la Jotti: "Ho saputo che il
partito ha comperato una casa a Monte Sacro con un pezzetto di giardino intorno...
Potremmo andare a stare lì. Vai a parlare con Secchia. Digli che potrebbe
venire ad abitare lì anche lui, noi al primo piano e lui al secondo".
La Jotti ci va. Senza timidezza, con molta fermezza ripete al vice segretario
del partito le cose che egli già sa. Non è più possibile
vivere in Via delle Botteghe Oscure, Togliatti ha saputo che c'è una
casa libera a Monte Sacro e, infine, "perché non verrebbe anche
lui ad abitare lì?" Probabilmente è proprio quest'ultima
proposta che convince Secchia. Abitando insieme sarà più facile
vigilare su Togliatti e, insieme, controllarlo.
Il trasloco, dunque, si fa. Al piano di sotto abitano Togliatti e la Jotti,
al piano di sopra Secchia e Alba. È una mezza convivenza. E questa mezza
convivenza, alla quale è spesso associato Seniga, facendosi sempre più
occhiuta, diventa anche sempre meno sopportabile. Seniga, in nome della "vigilanza"
decide di tutto: è lui che sceglie la donna di servizio, l'autista, l'accompagnatore.
Ed è sottinteso che donna di servizio, autista ed accompagnatore dovranno
riferire a lui tutto: chi vede Togliatti, con chi si incontra persino cosa si
è detto in macchina. E una "vigilanza" insopportabile per la
lotti che ignorava le regole spietate della vita clandestina, ma anche per Togliatti
che, conoscendole bene, aveva sperato di poterle dimenticare o comunque di non
dovervi più sottostare.
E invece no. Di mese in mese, di anno in anno, man mano che il legame tra i
due si rivela per quello che è, un legame tenace duraturo profondo, crescono
la diffidenza e il sospetto di Secchia e di D'Onofrio. Non c'è più
soltanto la necessità di difendere l'immagine pubblica del segretario
del partito, la necessità di tenere nascosta una "relazione"
con una donna troppo giovane, troppo vistosa, e non dotata di un passato sufficientemente
eroico. C'è, a questo punto, qualcosa di più e di più pericoloso.
La ragazza non aveva forse militato, in gioventù, nell'Azione Cattolica?
E non aveva compiuto i suoi studi, guarda caso, all'Università Cattolica
di Milano? Tutte queste cose, la giovane deputata le aveva, naturalmente, già
"confessate" in una di quelle autobiografie molto dettagliate che
all'epoca erano il biglietto d'ingresso obbligatorio per chi entrava nell'attività
del partito. Ma ora questa sua autobiografia veniva letta e riletta dall'Ufficio
Quadri come a capire meglio, tra le righe, se potesse nascondere qualche segreto,
se da lì si potesse dipanare qualche filo che portasse fino al nemico.
Al nemico di classe. Al nemico politico. Insomma, per dirla molto brutalmente:
la giovane deputata di Reggio Emilia non poteva essere una "lunga mano"
del Vaticano, o una "informatrice" di De Gasperi, insinuatasi, per
vie traverse, fino al vertice del Pci?
Il dubbio sfiorò più d'uno, alle Botteghe Oscure, si consolidò
in più stringenti sospetti e in più dure misure di sicurezza.
Nessuno poteva vedere Togliatti o parlare con Togliatti senza che Secchia ne
fosse al corrente; nella maggior parte dei casi egli veniva anche messo al corrente
del contenuto di quei colloqui.
Quasi ad aggravare o a legittimare questa rete di sospetti, due anni dopo l'attentato
del 14 luglio, Togliatti resterà vittima di un altro grave incidente.
È la mattina del 22 agosto del 1950. Nella famiglia Togliatti è
entrata, da pochi mesi, una bambina: Marisa Malagoli, undicesima figlia di una
famiglia di contadini, sorella di un operaio comunista delle Fonderie Orsi,
ucciso dalla polizia che nel gennaio di quell'anno aveva aperto il fuoco contro
i lavoratori in sciopero, a Modena. Togliatti e Nilde, che hanno dovuto rinunciare
a un figlio proprio, hanno deciso di adottare la bambina, che ha già
sette anni.
È la prima vacanza in montagna di Marisa che viaggia tutta contenta nell'Aprilia
dello "Zio" e della "Zia" che li porta, nella bella mattinata
di sole, da Riva Valdobbia alla Val d'Aosta. L'Aprilia marcia a velocità
sostenuta, contravvenendo ad una precisa disposizione dell'ufficio di organizzazione
che imponeva agli autisti di non superare gli 80 chilometri orari quando sulla
macchina c'erano dei dirigenti. All'improvviso, sulla strada tra Ivrea e Pont
Saint Martin, a un incrocio, spunta sulla sinistra un camion. Per evitarlo,
l'autista di Togliatti si butta sulla destra, ma esce fuori strada e Togliatti
sbatte con violenza la fronte. Lì per lì l'incidente non sembra
grave, c'è un ematoma e un'incrinatura del frontale. Ma dopo due mesi
Togliatti comincia ad accusare persistenti dolori di testa che si vanno, di
giorno in giorno, aggravando. Il 28 di ottobre, mentre Mario Spallone lo visita
perde conoscenza.
La diagnosi è controversa: Cerletti pensa a un ematoma conseguenza dell'incidente
di macchina di due mesi prima, Frugoni sospetta un tumore. In ambedue i casi
bisogna operare e, poiché Valdoni, il miglior chirurgo italiano è
all'estero, Secchia va con Spallone a discutere con un altro eminente chirurgo
il cui nome era stato suggerito da Cerletti. Ma quello, prima di accettare l'incarico,
fa presente di essere stato, in gioventù, uno squadrista: "L'operazione
non è difficile" aggiunge "ma si tratta pur sempre di un'operazione.
Non vorrei che, in caso di un incidente, si potesse pensare che io, con il mio
passato..." Secchia non lo lascia nemmeno finire. Non se ne discute: Togliatti
non può essere operato da un fascista. Comincia allora l'affannosa ricerca
di Valdoni che viene finalmente raggiunto a Londra e sollecitato a tornare subito
a Roma.
I quattro medici: Spallone, Valdoni, Frugoni e Cerletti si riuniscono a consulto
attorno alletto di Togliatti che ormai sembra essere entrato in coma. È
Valdoni a decidere: "In queste condizioni tanto vale tentare. Se è
un ematoma ce la facciamo; se è un tumore temo di no. Ma è meglio
operare subito".
Si pone allora il problema di chi debba assumersi la responsabilità di
un'operazione dalla quale il leader del Pci potrebbe anche non uscire vivo.
Non ci sono parenti abilitati a prendere la decisione: Rita Montagnana non è
più sua moglie e Nilde Jotti non lo è ancora. La decisione spetta
dunque a quella più grande famiglia che è il partito, l'unica
famiglia che conti per il capo del Pci. Ma questa famiglia rivela, nel momento
della difficile scelta, tutte le esitazioni i turbamenti le ipocrisie che vive
in momenti analoghi una famiglia normale: operarlo? E se l'operazione va male?
Se qualcuno dicesse che è stata l'operazione e non la malattia ad essergli
fatale? Non operarlo? E se qualcuno dirà che lo si è lasciato
morire senza fare tutto il possibile per salvarlo?
La parola ultima spetta agli eredi diretti: Secchia e Longo che, avendo già
la carica di vicesegretari, sono i naturali candidati alla successione nel caso
sciagurato in cui a Togliatti accada l'inevitabile. Longo, raggiunto per telefono,
cerca di tirarsi indietro: "In fondo" dice "che c'entriamo noi?
Sono i medici che debbono decidere...". Secchia insiste: "Ma sono
proprio i medici che chiedono il nostro parere..."
Intanto passa il tempo e Valdoni comincia a spazientirsi. Sono preziosi anche
i minuti. Secchia allora spedisce Seniga in direzione: che prenda Longo, lo
metta sulla macchina e lo porti in clinica. Longo arriva, turbato e riluttante.
I medici sollecitano una decisione: ormai sono le otto di sera e il malato è
in coma da parecchie ore. È l'insistenza di Vai doni a far decidere Longo.
Alle 21.30 Valdoni entra in sala operatoria e trapana il cranio. Dà un'occhiata
all'interno e mormora a Frugoni che gli sta vicino: "Cesare, è grigia,
è cancro". Non era un tumore, ma un semplice ematoma. Incisa la
dura madre, uscì sangue, già sul tavolo operatorio Togliatti si
sveglia e riconosce i medici che gli stanno accanto. Anche questa volta ce l'ha
fatta.
Tenuta rigorosamente segreta come in certe famiglie si tiene nascosta una malattia
che può sembrare una vergogna, l'operazione subìta da Togliatti
alimenta una ridda di voci crudeli e faziose fino al grottesco. Qualche giornale
sostiene che l'operazione nasconde in realtà il tentativo di Secchia
e Longo di sopprimere Togliatti per raccoglierne anzitempo la successione. Secondo
altri; l'operazione sarebbe un falso realizzato su istruzione di "agenti
del Cominform", venuti clandestinamente in Italia, a sconfessare il segretario
del Pci ritenuto troppo molle, a favore di un triumvirato di duri formato da
Secchia, Audisio e Alberganti, incaricati della militarizzazione del partito
(30). Il Corriere della Sera, più moderato, prende atto che l'operazione
c'è stata, ma assicura che dopo l'intervento il capo del Pci non sarà
più Togliatti, ma Antonio Cicalini (31). Il Tempo assicura che "siamo
in presenza di un vero e proprio siluramento. Togliatti non è che una
ruota del carro, un funzionario sostituibile in qualsiasi momento. Ora la direzione
centrale del Pci verrà assunta da una troika formata da Longo, Secchia
e D'Onofrio". (32)
Alle Botteghe Oscure sono altre le preoccupazioni. Lo stesso Secchia sospetta
che l'incidente di macchina dell'agosto non sia stato così casuale come
appare. E anche da Mosca è giunto puntualmente un avvertimento: "Voi
compagni italiani siete davvero troppo ingenui..."
Secchia, Longo e gli altri dirigenti comunisti italiani non erano cioè
dei visionari quando immaginavano, in quel clima politico, che l'incidente di
Aosta potesse essere frutto di un attentato. E anche coloro che pensavano che
solo di un incidente si era trattato, non potevano escludere che in futuro,
con l'aggravarsi della situazione internazionale e nella prospettiva dello scoppio
di una nuova guerra mondiale, una serie di attentati venissero organizzati e
con successo contro i massimi dirigenti comunisti in tutto il mondo. E tra questi
c'era senza dubbio Togliatti. Il problema della loro salvaguardia fisica si
poneva dunque come un problema reale, come una necessità politica.
Da poche settimane era scoppiata la guerra di Corea, Truman minacciava l'uso
della bomba atomica, in Italia veniva proposta una legge per la difesa civile
tutta in chiave anticomunista, l'intervento della polizia nei conflitti da lavoro
(occupazioni di terre e scioperi) aveva provocato, in due anni, 63 morti, migliaia
di feriti, decine di migliaia di arrestati.
I dirigenti del Pci non hanno paura, ma certo si preoccupano di garantire, in
ogni caso, la sopravvivenza del partito. Si intensificano quindi tutte le misure
di vigilanza attorno ai dirigenti, si dilatano al centro e in periferia i compiti
del servizio d'ordine.
Seniga, che per disposizione di Secchia sovrintende a tutta questa attività,
ha un naturale gusto per la cospirazione che si combina tuttavia con una buona
dose di ingenuità politica. Della vita partigiana gli è rimasto
un certo piacere dell'avventura, una certa arroganza. Vuole prendere a tutti
i costi il brevetto da pilota e Secchia, non si sa se per compiacerne un capriccio
o perché ne riconosce la necessità, glielo consente. Nino si allena
all'aeroporto dell'Urne, sulla Salaria e pensa che il giorno in cui gli altri
attaccheranno, lui sarà lì pronto, con un aereo conquistato a
mano armata, per mettere in salvo il capo del partito Togliatti, e con lui per
lo meno Secchia e Longo.
Il giorno in cui gli altri attaccheranno: è sempre questa la premessa.
Il problema della sopravvivenza del partito e dei suoi capi si pone, per i comunisti,
in quegli anni, esattamente come si era proposto nel 1922-26, con un'avvertenza
in più: allora il gruppo dirigente si era fatto cogliere impreparato
dall'avversario fascista e ora questo non accadrà. Così, mentre
si continuano a mettere a punto in Italia recapiti clandestini e mezzi adeguati,
si comincia anche a pensare che forse sarebbe bene che qualcuno dei massimi
dirigenti si trovasse, nel momento decisivo, già all'estero, in salvo,
senza bisogno di ricorrere all'improbabile aereo di Seniga.
Queste preoccupazioni non sono soltanto di Secchia. Sono preoccupazioni comuni
alle Botteghe Oscure. Ed altri si preoccupano di mettere a punto, in questo
senso, piani più dettagliati.
Mentre Togliatti è a Sorrento per un periodo di convalescenza con Nilde
e con la piccola Marisa, che in quest'occasione vede per la prima volta il mare,
si tiene a Bucarest, in gran segreto, quella che viene considerata l'ultima
riunione del Cominform. In gran segreto perché non se ne trova traccia
sulla stampa comunista dell'epoca. Ma che la riunione abbia avuto luogo non
c'è dubbio e non c'è dubbio che a rappresentare il Pci sia andato
D'Onofrio.
La riunione discute della necessità di dare nuovo impulso all'attività
del Cominform, della possibilità di mettere alla testa dell'organismo
un personaggio di grande capacità e autorità. Perché non
Togliatti, ad esempio?
Quando D'Onofrio torna in Italia, va a trovare Togliatti a Sorrento assieme
a Longo e a Secchia. Togliatti sta meglio: non ha più la testa fasciata,
ma un ampio cerotto gli copre la ferita sul cranio dove stanno ricrescendo piano
piano i capelli. La convalescenza procede bene: i tre, assieme a Nilde e a Marisa
vanno a mangiare in una trattoria all'aperto. D'Onofrio tiene sulle ginocchia
Marisa mentre racconta a Togliatti com'è andato l'incontro: di Bucarest.
Nilde fa finta di non sentire. "Tu che gli hai risposto?" chiede Togliatti
guardandolo fisso. E D'Onofrio: "Io ho detto di no, che non mi pare una
soluzione possibile... Però, loro insistono".
Loro, sono i sovietici. Anzi, Stalin in prima persona come Togliatti, senza
dirlo, sospetta e come dimostreranno le vicende successive.
È ormai inverno quando Togliatti, conclusa la convalescenza nel mite
clima della costiera amalfitana, parte per Mosca dove dovrà subire ulteriori
visite mediche e controlli. Con lui partono anche Nilde lotti e Marisa, quasi
a sottolineare il carattere familiare del viaggio e il fedelissimo Luigi Amadesi.
(33) La prima tappa del viaggio moscovita di Togliatti è Barvika, la
clinica riservata ai massimi dirigenti del partito sovietico, a una quindicina
di chilometri da Mosca, circondata da un immenso giardino e da un fitto bosco
di abeti, già tutti coperti di neve. Ed è lì, a Barvika,
che Stalin verrà a trovare, come un vecchio amico, il segretario del
Pci per informarsi di persona della sua salute. Non si parla né della
riorganizzazione del Cominform, né dell'eventualità che sia Togliatti
a dirigerlo: Stalin non dice nulla e Togliatti fa finta di non sapere.
Poi, poco prima di Natale, la famiglia Togliatti si trasferisce a Mosca. Anzi,
Togliatti viene ricoverato all'ospedale del Cremlino per nuovi accertamenti
e Nilde con Marisa e Amadesi sono ospiti di una dacia. Nilde va a trovare Togliatti
ogni giorno, per un'ora, in ospedale. Sono colloqui frettolosi e affettuosi
nel corso dei quali Togliatti le tiene sempre la mano stretta. Ed è proprio
in uno di questi colloqui che egli le confida: "No, qui le cose non sono
andate come volevo. Qualcuno ha detto di sì..."
Togliatti ha già parlato la vigilia di Natale con Stalin che gli ha esposto
il suo progetto: il compagno Togliatti deve lasciare l'Italia e trasferirsi
a Praga dove dovrà riorganizzare la direzione del Cominform il movimento
internazionale. Forse sta per scoppiare la terza guerra mondiale, il pericolo
deve essere scongiurato... Togliatti ascolta e, dentro di sé, ripete
ciò che dirà alla Jotti: "No, qui le cose non sono andate
come volevo. Qualcuno ha detto di sì".
Certo, pensa Togliatti, le resistenze di D'Onofrio alla riunione di Bucarest
devono essere state assai più tiepide di quanto egli avesse poi riferito
a Sorrento. Ma è possibile che quel "qualcuno" si riferisca
anche ad altri. Secchia? Longo?
E infatti i due vengono chiamati a Mosca. Prima vedono Togliatti che gli ripete
quello che già sanno: egli non ha nessuna intenzione di lasciare il suo
posto in Italia, non ha nessuna intenzione di finire i suoi giorni a Praga,
per troppo tempo è già stato fuori del suo Paese. Poi, un paio
di giorni dopo c'è un incontro con Stalin, Molotov, Beria, Malenkov.
Stalin ripete, di fronte ai tre italiani, la sua proposta. Togliatti deve trasferirsi
a Praga, non solo per dare più impulso al lavoro del Cominform, ma anche
per evitare di cadere nelle mani del nemico nel momento in cui in Italia il
Pci fosse dichiarato fuori legge, com'è non solo possibile ma prevedibile,
vista la tensione dei rapporti internazionali. Beria dice qualcosa di più.
Chiede ironicamente di quanti cannoni e carri armati disponga il Pci per difendere
il suo segretario e conclude: "Certo, potete star certi che un uomo come
Togliatti qui da noi non avrebbe potuto andarsene in automobile dove voleva".
Viene reso esplicito, dunque, il sospetto che anche l'incidente di macchina
dell'agosto sia stato, in realtà, un attentato o per lo meno l'esito
di una grande leggerezza.
La riunione si svolge nello studio di Stalin, con Sceveliaghin che, come sempre,
funge da traduttore. Togliatti risponde con calma a Stalin e a Beria affermando
che a suo avviso è necessario il suo rientro in Italia, che il partito
ha ancora bisogno di lui. Secchia e Longo lo sostengono: "Comunque"
aggiungono "la questione dovrà essere sottoposta a Roma alla Direzione
del partito". È una buona via d'uscita. Stai in l'accetta convinto
che la Direzione avrebbe detto di sì, Togliatti l'accetta convinto che
la Direzione avrebbe deciso per il no.
La Direzione decide per il sì. L'unico che parla contro la proposta di
Stalin è Terracini. Di Vittorio è assente. Gli altri non hanno
dubbi. Non ne ebbero perché una proposta che veniva da Mosca, da Stalin
in persona non poteva ragionevolmente essere respinta, perché era ovvio
pensare che i sovietici avessero una più completa visione della situazione
internazionale, perché era giusto mettere in salvo questa volta il segretario
del partito (cosa che non si era fatto in tempo, nel 1926, per Gramsci) perché
la terza guerra mondiale poteva essere ormai alle porte. Ma vennero in quella
sede esposte le ragioni, o meglio le riserve, le resistenze, la vera e propria
opposizione di Togliatti? È certo che chi lo fece - Longo o Secchia -
non dovette essere molto convincente se la Direzione alla fine decise contro
la volontà del segretario. Non si discusse di successione: era naturale
che, una volta trasferitosi Togliatti all'estero, Longo avrebbe preso il suo
posto.
Per comunicare questa decisione andarono a Mosca Secchia e Colombi. Li accolse
un Togliatti furibondo, deciso a far modificare lì, seduta stante a Mosca,
la decisione presa dalla Direzione del partito a Roma. L'incontro tra Togliatti
da una parte e Secchia e Colombi dall'altra fu drammatico. Togliatti impose
anche la presenza di Nilde e questo rese l'incontro ancora più teso.
Secchia a un certo punto esplose, disse quello che gli pesava sullo stomaco
da anni: "Tu ti fai influenzare da Nilde e il partito questo non lo può
sopportare, non è nel nostro costume". Fu Colombi a reagire, prima
di Togliatti: "Basta! Questa faccenda non ha niente a che fare con ciò
che discutiamo". Nilde, in un angolo, tremava. Ma, alla fine, ancora una
volta fu Togliatti ad averla vinta. Colombi e Secchia accettarono di firmare
una lettera per Stalin con la quale chiedevano che Togliatti tornasse in Italia
almeno per la preparazione del Congresso, già convocato per la primavera.
Poi, dopo il Congresso, il compagno Togliatti avrebbe assunto il nuovo incarico
cui Stalin lo candidava.
"Una volta tornato in Italia, nessuno lo riprenderà più"
commentò Sceveliaghin scuotendo la testa mentre traduceva la lettera.
L'ultimo incontro con Stalin e gli altri ebbe luogo di notte. Togliatti, Secchia
e Colombi assicurarono che la realizzazione di quella proposta era solo rinviata
di qualche mese, ma Stalin aveva capito perfettamente come stavano le cose.
Togliatti ormai pensava solo a tornare in Italia, appena possibile. E Stalin
pensava che non lo avrebbe rivisto più.
Così avvenne. Il viaggio di ritorno, in treno, attraverso la Cecoslovacchia,
fu lungo. Alla stazione di Mosca nessun dirigente sovietico era venuto a salutare
Togliatti che ripartiva per il suo Paese. Il giorno dopo, all'una di notte,
sotto la neve, il treno attraversò la frontiera con l'Austria. Marisa
dormiva, nel vagone letto ben scaldato. Togliatti e la lotti erano rimasti svegli
a guardare al di là del finestrino gli alberi, la neve, i soldati che
si allontanavano.
"Finalmente..." mormorò Togliatti a Nilde. E non tornò
più in Urss finché fu vivo Stalin.