Biblioteca Multimediale Marxista
Attendevo la Rivoluzione come si attende una persona che deve arrivare da un
giorno all'altro
Pietro Secchia
Il primo disaccordo grave, anzi un vero e proprio scontro, Togliatti lo ha avuto
con Secchia alla II Conferenza Nazionale del partito che si è svolta
nel gennaio del 1928 a Basilea. Lo scontro è stato duro perché
con Secchia è schierato anche Longo; in pratica tutta l'organizzazione
giovanile del partito.
Il fascismo ormai ha vinto, in Italia. La direzione del partito si è
trasferita all'estero; molti dirigenti (Gramsci, Terracini, Scoccimarro, per
citarne solo alcuni) sono già stati arrestati.
Secchia è un giovanotto di venticinque anni, magro, eternamente affamato
e spettinato, eternamente scontento di quello che il partito fa e che a lui
non sembra mai sufficiente. Figlio di povera gente (il padre era contadino e
la madre operaia tessile) ha però frequentato il ginnasio mentre il fratello
più piccolo, Matteo, a undici anni è entrato in fabbrica. Pietro
e Matteo muovono i primi passi assieme nella vita politica. È Pietro,
più attivo colto e intraprendente, che organizza nel 1919 il primo circolo
di giovani socialisti nel suo paese, Occhieppo Superiore; ma quando due anni
topo si costituisce a Biella il partito comunista i due fratelli vi aderiscono
insieme. Pietro, nonostante gli anni di ginnasio, è un autodidatta: gli
piace leggere, cercare nei libri la conferma dei confusi sentimenti che lo agitano,
ma soprattutto gli piace organizzare altri giovani come lui. Li riunisce, nei
piccoli paesi della provincia che raggiunge in treno o in bicicletta, gli consegna
il materiale di propaganda dei comunisti, li convince a lasciare il partito
socialista, un partito di parolai che non ha il coraggio e la forza di fare
la rivoluzione in Italia. Gli parla (più spesso in piemontese che in
italiano) dello sfruttamento al quale sono sottoposti gli operai, dei profitti
che si godono i padroni, delle ingiustizie sociali, e poi di Lenin che in Russia
la Rivoluzione l'ha già fatta con gli operai, i soldati e i contadini.
I giovani lo ascoltano: il giovane Secchia parla in modo semplice, convincente.
E' anche uno che dopo un paio di settimane ritorna per vedere se hanno fatto
quello che si erano impegnati a fare. Così quei giovani, riuniti nei
loro primi Circoli non si sentono abbandonati.
Nel dicembre del 1922 arriva la prima denuncia, "per detenzione abusiva
di munizioni per pistola", nel febbraio del 1923 il primo arresto, "per
complotto contro lo Stato". Rilasciato dopo quindici giorni per insufficienza
di prove, Secchia non trova più nel biellese lavoro regolare e si trasferisce
a Milano dove di giorno fa il muratore e la sera riunioni. Frequenta ormai regolarmente
la Federazione giovanile comunista del capoluogo lombardo, di cui tra breve
diverrà un dirigente.
A Roma quindi Mussolini ha già preso il potere quando Secchia, che ha
compiuto da poco i vent'anni, decide di scegliere la vita del "rivoluzionario
professionale". Lo scontro sociale che si è aperto nel dopoguerra
si va risolvendo con la sconfitta della classe operaia e del sindacato, del
grande partito socialista e della piccola avanguardia comunista nata a Livorno.
Ma pure ci vuole chi non si rassegni alla sconfitta, chi prepari la riscossa.
Pietro sceglie per sé questo destino. Emigra in Francia varcando clandestinamente
a piedi la frontiera attraverso il Colle di San Dalmazzo e a Parigi trova un
lavoro regolare come manovale. Ma il suo lavoro vero è un altro: egli
è a disposizione del partito che tenta, dall'estero, di riorganizzare
i collegamenti con l'Italia. Nel 1924 viene mandato: a Mosca come delegato italiano
al Congresso dell'Internazionale giovanile comunista; poi torna a Parigi e di
qui, clandestinamente, a Torino dove riesce a farsi assumere come operaio alla
Fiat, dove ricostituisce una cellula del partito.
Sentiamo come lo descrive, all'inizio del 1924, un rapporto di P.S.: "E
di carattere impulsivo, educazione scarsa, intelligenza, pronta. Ha una cultura
discreta. Ha tendenze all'ozio e vive con le prebende che gli frutta la campagna
comunista. Appartiene al partito comunista di cui è seguace fanatico".
Nel novembre del 1925 viene fermato alla stazione di Trieste e, citiamo dal
rapporto della Direzione della P.S., "trovato in possesso di numerosi fogli
stampati, con i quali si incitano i soldati prima a reati di insubordinazione
e rivolta armata contro i propri ufficiali, e poi alla guerra civile con promessa
di vantaggi economici da conquistare armata mano contro gli attuali possessori".
Si fa dieci mesi di carcere, poi esce, ma viene ancora una volta arrestato a
Biella nel dicembre del 1926. La partita ormai è chiusa; Mussolini ha
promulgato le "leggi eccezionali", sciolto d'autorità, tutti
i partiti, arrestato i maggiori esponenti dell'opposizione. Il giovane Secchia
riesce a dissolversi: entra nel lungo tunnel dell'illegalità.
È solo, giovane, coraggioso, intelligente, ha una capacità di
lavoro fuor del comune, una inesauribile curiosità intellettuale, e una
gran voglia di battersi. Mentre la direzione del partito si trasferisce all'estero,
egli resta in Italia ad alimentare quel tanto di lavoro clandestino che è
ancora possibile, soprattutto stampa e diffusione di giornaletti. "Il fascismo"
racconta lo stesso Secchia "voleva impedirci di parlare e noi intendevamo
affermare il diritto di pensare di parlare e di scrivere; intendevamo anche
dimostrare che il fascismo non aveva la forza per impedirci l'esercizio di quel
diritti."
Mese dopo mese, cresce però nel giovane Secchia la sensazione della insufficienza,
forse della inutilità di questo lavoro. Davvero non si può fare
altro, per combattere il fascismo? Davvero bisogna aspettare, stampando alla
macchia giornaletti e diffondendoli, che il fascismo crolli? E cosa accadrà,
dopo? L'insoddisfazione e l'impazienza di Secchia non sono solo sue, si intrecciano
con altre insoddisfazioni e impazienze; il disaccordo con il centro estero del
partito e con Togliatti che lo dirige si manifesta appieno nel 1928.
Secchia ha venticinque anni, Togliatti ne ha dieci di più. Ma il loro
contrasto non nasce dalle differenze di età e temperamento che pure esistono.
Il problema che li divide è uno di quelli che si riproporrà, come
un insopprimibile filo rosso, una misteriosa falda d'acqua che di volta in volta
riappare e sparisce, lungo tutta la storia del Pci. E' il problema della lotta
armata, il problema del terrorismo.
Già nel 1927 si era manifestato un disaccordo di linea tra i "giovani"
e il gruppo dirigente del partito. Longo ricorderà, molti anni dopo:
" Togliatti e gli anziani dicevano che bisognava dare come parola d'ordine
alle masse l'Assemblea Costituente Repubblicana sulla base dei Comitati operai
e contadini. A noi questo discorso suonava falso, enfatico... Non era più
semplice dire che ci battevamo per una società socialista?" (5)
Certo che sarebbe stato più semplice. Ma sarebbe stato giusto? Se lo
chiede Grieco nel rapporto introduttivo alla Conferenza di Basilea, nel gennaio
1928. "Stiamo attenti" avverte "a non dare parole d'ordine campate
per aria, nel qual caso le masse si stancano e la reazione fa maggiori stragi."
E, anticipando le posizioni che saranno espresse dai "giovani", polemizza
con coloro che ripetono che il partito "dovrebbe fare qualcosa di più".
"Sappiamo benissimo" dice Grieco "che cosa è quel qualche
cosa di più che accarezzano taluni compagni. Si tratta del terrore individuale
e degli attentati terroristici. Si tratta insomma di infondere coraggio nelle
masse facendo ad esempio saltare una centrale elettrica, accoppando Tizio o
Caio. Ma realizzano gli atti terroristici uno spostamento in avanti delle masse?
No, noi abbiamo visto che al terrore individuale segue sempre un passo indietro
delle masse dalle loro posizioni." (6)
Ma i "giovani" non si nascondono dietro l'anonimato, né si
fanno convincere dalla polemica anticipata di Grieco. A Longo, allora segretario
della Fgci, è stato imposto di non parlare e lui disciplinatamente non
parla, ma gli altri escono allo scoperto. Prende la parola per primo il torinese
Ottavio Pastore: "Molti lavoratori" dice "si rendono conto che
è dannoso sperperare le proprie forze in movimenti parziali, molti trovano
la buona ragione di riservarsi per sforzi più grandi e decisivi. Ora,
io mi domando: perché il partito non può cominciare a mettersi
sul terreno della lotta armata?" Pastore precisa di non pensare ad atti
di terrorismo individuale, bensì ad atti che possano determinare "alcuni
scoppi, di insurrezione popolare". E, con imprevedibile disinvoltura aggiunge:
"Questi movimenti possono anche essere schiacciati e costare maggiori perdite;
una insurrezione schiacciata costa di più, ma evidentemente ha un'influenza
maggiore dello sciopero".
Togliatti non aspetta nemmeno un momento per rispondergli, "Queste deviazioni"
dice con durezza "sono una concessione allo stato d'animo di stanchezza
che c'è in una parte dei lavoratori, noi; siamo un partito che vuol fare
un'insurrezione vittoriosa, non un'insurrezione schiacciata... vogliamo fare
un movimento che vincerà". (7)
Verranno dopo i tempi in cui un intervento di Togliatti risolverà ogni
controversia; per adesso Togliatti è soltanto un "primus inter pares"
e questi sono tempi in cui anche tra comunisti si discute instancabilmente,
e ognuno pretende di dire la sua. Tra quelli che pretendono di dire la loro
c'è Secchia, che parla con molta chiarezza ma senza la baldanza di Pastore
e certo con maggiore accortezza politica.
"Nessuno pensa ad attentati individuali, a colpi di rivoltella, ai uccisioni
di singoli fascisti" dice Secchia rivolgendosi a Grieco "però..."
E qui il giovane prospetta un "uso difensivo" della lotta armata che
si intrecci con le agitazioni di massa, le "protegga" e ne consenta
lo sviluppo. "Quando c'è un'agitazione pacifica" spiega, "dobbiamo
cercare che non sia più pacifica... I contadini veneti, nel corso di
una recente agitazione hanno buttato qualche mobile dalle finestre delle podesterie;
se fossero stati assistiti e guidati non si sarebbero limitati alla distruzione
di qualche mobile..."
Grieco è furente e nelle conclusioni prende di petto i giovani ripetendo,
con fermezza, che il partito a questa linea non ci sta. Si tratta di una mentalità
da piccolo borghesi arrabbiati, di un estremismo infantile che in realtà
è segno di stanchezza, di sfiducia. Quale illusione pensare che si possano
organizzare piccole insurrezioni che trascinerebbero poi tutto il popolo! E
per dar forza alle sue argomentazioni cita accortamente Lenin.
Ma Secchia è tutt'altro che convinto. Per lui Togliatti e Grieco peccano
di "legalitarismo". Accusa singolare per un partito che è impegnato,
in Italia, in una lotta tutta e solo illegale. Ma il guaio secondo Secchia è
proprio questo: il partito pur violando le leggi fasciste, non va al di là
di quanto era considerato lecito e costituzionale dallo Statuto albertino e
dalle leggi esistenti prima della dittatura. Se ne vuole un esempio? Le stesse
scuole organizzate dal partito per i suoi militanti sono soltanto scuole politiche,
che non forniscono istruzioni militari né addestramento all'attentato,
alle azioni di commandos o di guerriglia.
Insomma, Secchia rimane della sua opinione, e non lo nasconde. Tanto più
che tra quelli che la pensano come lui c'è Longo che, se per disciplina
non ha parlato alla Conferenza di Basilea, prenderà la parola invece
al Comitato Centrale del giugno dello stesso anno.
Il suo giudizio sulla situazione italiana è perentorio: "La depressione
del movimento può essere seguita da una situazione immediatamente rivoluzionaria;
dobbiamo quindi prevedere un rapidissimo passaggio da movimenti pacifici a movimenti
popolari violenti, insurrezionali ". Se l'insurrezione deve diventare l'obiettivo
del partito, obiettivo possibile e necessario, allora dobbiamo "spiegare
alle masse l'impossibilità di una lotta pacifica contro il fascismo,
la necessità invece di un'implacabile lotta armata". Le condizioni
per questa, secondo Longo, già ci sono; già ci sono in Italia
non solo "forme di resistenza sul terreno economico e scioperi, ma anche
l'uccisione di fascisti e di autorità locali, atti di rappresaglia contro
la proprietà, taglio di viti, incendi di cascinali, sabotaggio di macchine,
"a salario di merda, lavoro di merda", attentati, atti terroristici
veri e propri. Si tratta, secondo Longo, "di forme di lotta violenta di
singoli e di piccoli gruppi che tendono a diffondersi. E il partito non le può
condannare. Ma il partito, come aveva già fatto pochi mesi prima a Basilea,
respinge di nuovo, adesso, queste posizioni. "Gallo fa della demagogia"
lo accusa Tasca. "Il dissenso tra noi e Gallo è fondamentale"
incalza Grieco. "È un discorso senza serietà politica"
accusa Togliatti. "Presentare ad ogni passo la rivoluzione come solo mezzo
di lotta fu tipico del massimalismo nell'immediato dopoguerra. Quello che Gallo
dice sul terrorismo è impressionante e dimostra smarrimento."
La risposta dei "vecchi", Grieco e Togliatti, è sferzante ma
ancora una volta insufficiente a convincerli. C'è un misto di tenace
ingenuità, di sincero entusiasmo e di slancio volontaristico nei "giovani"
che li porta quasi inevitabilmente a quel giudizio sulla situazione italiana.
E c'è anche l'ideologia a dar loro ragione: come è possibile infatti
che la classe operaia, con il suo carico di sfruttamento, non si erga antagonista
contro il regime fascista che è il rappresentante del Grande Capitale?
Dunque, pensano i giovani, la classe operaia non può che radicalizzarsi
nel suo scontro di classe e non ha senso allora porre obiettivi intermedi; l'unico
obiettivo vero è la rivoluzione proletaria; ogni "gradualismo"
è un peccato di "opportunismo"; bisogna dare alle masse il
segno della forza del partito e della debolezza degli avversari anche con atti
esemplari che accendano la miccia della più vasta insurrezione. In questa
visione della lotta davvero non ha importanza chiedersi quanti compagni cadranno
nelle mani del nemico, quanti verranno arrestati o uccisi. Importante è
l'esempio, la presenza, la capacità di parlare al proletariato e ai contadini
poveri anche attraverso il proprio personale sacrificio. Se c'è una punta
di esaltazione in tutto questo, è certo che si tratta di una nobile esaltazione:
anche le difficoltà, non solo i successi, possono dare alla testa.
Spetta a Togliatti buttare acqua sul fuoco di questi giovanili e pericolosi
entusiasmi, richiamare alla prudenza (che non è viltà), all'analisi
attenta, non ideologica, delle condizioni reali del paese. Ai giovani non resta
che mordere il freno e attenersi alle decisioni della maggioranza.
Ma solo un anno dopo, nel 1929, la situazione si rovescerà. Sotto la
pressione dell'Internazionale, Togliatti sarà costretto a modificare
il suo giudizio e far proprie quelle suggestioni estremistiche contro le quali
aveva combattuto nei due anni precedenti.
Il VI Congresso dell'Internazionale prima e poi il X Plenum hanno deciso infatti
che non esistono più in Europa possibilità di soluzioni intermedie.
La socialdemocrazia equivale al fascismo, le masse in tutti i paesi europei
si vanno sempre più radicalizzando, il mondo è alla vigilia di
una nuova guerra e di una nuova ondata rivoluzionaria; tutte le lotte quindi
vanno trasformate, ad opera dei comunisti, da lotte parziali e pacifiche a lotte
più avanzate nei contenuti e nella forma. Lo dice Molotov in persona
nel luglio del 1929: "Si approssima una nuova ondata del movimento operaio
rivoluzionario. Occorre che i nostri partiti ne prendano coscienza. Da loro
dipende la trasformazione delle attuali lotte economiche in lotte rivoluzionarie
per il potere, per il trionfo della dittatura del proletariato".
Togliatti, già sotto accusa per essersi fidato di Tasca, "opportunista
consumato e destro confesso", non ha scelta. Se non accetta quest'analisi,
che contraddice gran parte di ciò che il partito è andato elaborando
sotto la sua guida negli anni precedenti, sarà costretto a passare la
mano. E "la direzione del partito" per dirlo con le sue stesse parole,
"sarà affidata magari a qualche giovanotto uscito dalla scuola leninista
di Mosca ". Accetta di piegarsi quindi e, alla riunione dell'Ufficio Politico,
alla fine d'agosto del 1929 fa sua la nuova linea proposta dall'Internazionale.
"La situazione è radicalizzata, tutte le fratture che appaiono in
Italia appaiono sopra una linea di classe, tutte le linee di frattura intermedie
sono scomparse. Cosa dobbiamo fare dunque? Dobbiamo porre chiaramente gli obiettivi
ultimi della lotta. E' superata dalla situazione la parola d'ordine dell'Assemblea
Repubblicana..." Togliatti tuttavia non parla qui, né parlerà
mai, della possibilità di organizzare già una lotta armata contro
il regime fascista, rifiutandosi quindi di tirare le conclusioni ultime di una
analisi politica che fa propria, ma che non condivide. Per questo rifiuta di
dichiarare sbagliata la precedente parola d'ordine, limitandosi a dire che "la
situazione attuale" la fa apparire superata.
Ma Secchia e Longo non ci stanno a queste finezze da dottor sottile. Dice subito
Longo: "Non sono d'accordo su quello che Togliatti dice riguardo al passato
e alla posizione di oggi. Non c'è, come dice Togliatti, una precisazione
di linea; no, c'è una revisione, una correzione di quella linea. Bisogna
riconoscere apertamente l'errore compiuto". E rivolto a Togliatti aggiunge:
"Bisogna dire a tutto il partito: sì, abbiamo sbagliato. Non dire:
noi abbiamo ragione". Per far questo nel modo più completo, perché
sia chiaro che si tratta di una correzione profonda di scelte politiche e di
metodi di lotta, Longo chiede la convocazione di un Congresso straordinario,
"un Congresso, precisa, non una Conferenza".
Secchia appoggia Longo con vigore polemico. Sì, è vero, nel passato
si è sbagliato e la formula di Togliatti secondo cui si tratterebbe solo
di "precisare", la linea, è insufficiente. "Gli errori"
aggiunge "derivano dalla sopravvalutazione dei ceti medi, dei contadini.
Si è sopravvalutato l'importanza della piccola borghesia, del cattolici;
pareva a un certo momento che dovessimo andare a conquistare anche i canonici
del Duomo di Milano!". (8) E ricorda che non da ora soltanto egli denuncia
questi errori: è dal 1927, "da quando il partito lanciò la
parola d'ordine dell'Assemblea Repubblicana ponendo come prospettiva una rivoluzione
popolare, antifascista, anziché la rivoluzione proletaria, che abbiamo
criticato queste parole d'ordine. Ora il partito ha riconosciuto che tale parola
d'ordine era errata, che vi erano formulazioni opportuniste ma durante due anni
fummo soli a opporci..."
Anche il rappresentante di Mosca è scontento "il tono dell'autocritica
che ha fatto ieri il compagno Ercoli non potrei dire che è giusto; direi
anzi che è un po' insufficiente..."
Togliatti incassa; né potrebbe fare altro, del resto. E il Comitato Centrale
che segue quella riunione dell'Ufficio Politico, si conclude proprio nel senso
indicato da Secchia e Longo. L'obiettivo della lotta, in Italia, è adesso
l'instaurazione di un governo di operai e contadini. Si pone quindi "la
questione dell'insurrezione e della lotta armata contro il fascismo; vanno preparate
fin d'ora le nostre organizzazioni a comprendere e risolvere i problemi di questa
lotta".
Secchia e Longo, dunque, hanno vinto.
Nel corso del dibattito che, all'inizio del 1930, porterà all'espulsione
di Leonetti, Tresso, Ravazzoli e Silone, Leonetti rinfaccerà con durezza
a Togliatti questo cambiamento di fronte, lo accuserà di aver ceduto
alla spinta di Gallo e di aver proposto lo scoppio della rivoluzione come questione
di mesi. I "tre" comunque verranno espulsi e, dopo poco, li seguirà
Silone. Decisivo sarà in questa vicenda il voto di Secchia che fa parte
dell'Ufficio Politico come rappresentante dei giovani. Invano Leonetti, Tresso
e Ravazzoli contestano la validità di quel voto; Secchia rivendica con
orgoglio il suo diritto al voto a pieno titolo. Ha ragione sul metodo e sul
merito. Con quel voto è la sua linea che vince. La sua e quella di Longo
che sono convinti ora di tenere Togliatti prigioniero. (9)
La "svolta" (così questo cambiamento di linea è definito
nella storia del Pci) ha anche un significato immediato, concreto, coraggioso
di ripresa del lavoro in Italia. E in questo sforzo riemerge: anche la tentazione
o l'illusione della "lotta armata" contro il fascismo. "È
ora di passare alla violenza proletaria" titola l'Unità clandestina
del marzo del 1930 che suggerisce la formazione di "nuclei armati"
(non più di dieci-dodici uomini al massimo) che avranno il compito di
"dare piombo al fascismo e al capitalismo che da otto anni ci opprimono,
ci affamano, ci dissanguano".
I giovani su questa strada si buttano avanti, almeno a parole. Non era stata
questa sempre l'idea dei loro massimi dirigenti, prima Luigi Longo e poi Pietro
Secchia? Ora Secchia può dare libero sfogo alle sue ipotesi, ingenue
e avveniristiche, dei grandi fuochi che dovranno percorrere l'Italia fascista
e accendere la miccia dell'insurrezione proletaria. Fraseologia roboante cui
non corrispondono - perché non possono corrispondervi - azioni ed atti
concreti. Il giornale della Fgci dà queste indicazioni: "Passare
alla lotta aperta significa marciare in squadre di giovani per le strade, rompere
i vetri dei caffè lussuosi e la testa di loro signori fascisti che stanno
succhiando e sbafando i frutti dei nostri sudori. Passare alla lotta aperta
significa preparare lo sciopero, sabotare la produzione, rompere i vetri delle
officine, bastonare i padroni, i direttori d'officina, i capi fascisti".
Si verifica allora quel fenomeno ben noto a chiunque abbia svolto attività
clandestina: ogni avvenimento, ogni elemento della cronaca viene collocato all'interno
del disegno che l'organizzazione si è dato, viene esaltato e amplificato
come la prova che quel disegno è giusto, corretto, possibile, atteso
dalle masse.
A Trieste e in Venezia Giulia un gruppo di sloveni tira un paio di petardi contro
il faro della Vittoria? Ecco la prova che la lotta armata è possibile.
A Parabiago, nel corso di una manifestazione, gli operai spezzano i vetri, i
mobili e le macchine? Ecco il segno che le direttive del partito hanno raggiunto
la base operaia. C'è una manifestazione di disoccupati a Livorno, a Signa,
a Fucecchio? È la conferma che la situazione economica in Italia è
insostenibile. Ma il "fatto più nuovo e significativo", è,
secondo quanto scrive Longo, l'apparizione (finalmente!) di una "squadra
di vigilanza" nel corso di una manifestazione di braccianti a Carpi . Proprio
l'apparizione delle "squadre armate di difesa proletaria" dovrà
dare un diverso segno alle manifestazioni economiche e sociali, trasformando
questi scoppi isolati di protesta operaia e contadina, in momenti di rivolta
a carattere insurrezionale.
Può accadere? O è solo un errore di ottica? No, accade, accade.
E accade proprio dove deve accadere: in un paese contadino del Sud, a dimostrare
che il Mezzogiorno è la polveriera d'Italia. Accade dunque a Martina
Franca, un grosso centro agricolo in provincia di Taranto dove, all'annuncio
dell'imposizione di una nuova tassa sul vino, "i contadini si riunirono
in massa. La manifestazione nel pomeriggio assunse carattere violento. Furono
tagliati i fili del telefono e del telegrafo e verso sera i contadini incendiarono
l'esattoria delle imposte, il Circolo del Littorio e la sede del Consorzio agrario
e tentarono l'assalto al municipio. I militi fascisti, anch'essi salariati e
piccoli proprietari, parteciparono all'azione della massa..."
Tipica rivolta contadina, rapidamente domata fortunatamente senza né
feriti né morti né arresti, ma solo con l'invio al confino di
due notabili locali (che probabilmente nulla avevano a che fare con questa jacquerie),
la sommossa di Martina Franca diventa per il partito il simbolo delle immense
potenzialità rivoluzionarie esistenti in Italia e finora sottovalutate
a causa di un orientamento opportunista e rinunciatario.
Sentiamo cosa scrive un "ispettore" del partito subito mandato da
Napoli a Martina Franca... "Ci si trova realmente, almeno in gran parte
dell'Italia meridionale, di fronte ad una situazione immediatamente rivoluzionaria...
alla prova dei fatti si vede che la milizia fa causa comune con gli insorti.
Questo è un elemento di primissima importanza, che è poi legato
all'altro: quello dell'armamento delle masse. Per noi, dopo aver visto lo stato
d'animo che regna in gran parte dell'Italia meridionale, il problema dell'armamento
delle masse passa in primo piano. La mancanza di armi costituisce un gravissimo
ostacolo, quand'anche sia attenuato dal fatto che la milizia fa causa comune
con gli insorti."
I fatti sono veri, ma l'analisi è fantasiosa; tutto sarà vero,
ma solo dopo quindici anni (e una guerra perduta). Questo fenomeno di presbitismo
politico, questo immaginare vere e possibili per l'oggi cose e fatti che saranno
veri e possibili solo dopo quasi una generazione e in condizioni generali molto
diverse, appare evidente anche in una analisi di Longo, preoccupato che "queste
lotte decisive, la guerra civile ci possano cogliere prima che noi le ordiniamo".
Quindi bisogna prepararsi dal punto di vista materiale e ideologico. Organizzare,
preparare, mettersi alla testa, dar vita ai comitati di lotta e ai gruppi di
difesa armati e ai gruppi di giovani arditi antifascisti (Gaa): Secchia è
convinto che non c'è più tempo da perdere. Si tratta allora di
porre "concretamente, seriamente il problema della lotta armata",
di dare alle organizzazioni "indicazioni concrete per costituirle, addestrarle,
farle agire, insegnare come procurarsi i mezzi, come eclissarsi dopo l'azione".
Sono necessarie cioè vere e proprie scuole di addestramento alla guerriglia;
le "squadre di difesa" o i gruppi di giovani arditi antifascisti,
non sorgeranno "senza indicazioni precise e senza che venga dato loro un
aiuto concreto in mezzi, con l'esempio e con istruzioni ed istruttori non soltanto
teorici".
Nonostante le richieste e gli impegni di Secchia però, a questa fase
non si passa, anche se viene lasciata la briglia un po' lunga sul collo dei
giovani comunisti, che impazienti titolano il loro giornale del 1° Maggio
del 1930: "Innalziamo la bandiera della guerra civile!". E Secchia
scrive: "Occorre fare del 1° maggio una giornata offensiva degli operai
contro il regime. Esistono per questo; tutte le condizioni".
E invece queste condizioni non esistevano, non esistevano affatto. Il 1°
Maggio del 1930 verrà celebrato, come d'abitudine, con distribuzione
di volantini e materiali di propaganda, qualche scampagnata che consenta di
cantare le vecchie canzoni, qualche scritta sui muri "merda al duce",
a Via Roma, a Torino, qualche bandiera rossa innalzata all'improvviso da una
coraggiosa mano ignota. È già un grande sforzo, che richiede mobilitazione
e coraggio. Ma questa "guerra civile" che doveva esplodere liberatoria,
resta pura declamazione, sogno, invocazione romantica.
Dopo l'insuccesso di quel 1° Maggio, si riapre nel gruppo dirigente l'inevitabile
fase dell'autocritica e a Secchia vengono rimproverate formulazioni estremistiche
e settarie a proposito dell'organizzazione dei Gruppi arditi antifascisti. Secchia
precisa, spiega che forse non è stato ben capito e Longo ancora una volta
lo sostiene: va bene, dice, Secchia e la Fgci avranno anche commesso qualche
errore di formulazione, "ma non dobbiamo impressionarci per questi errori,
né cadere in esagerazioni opposte. Bisogna evitare che dei compagni pensino
che adesso non parleremo più di lotta armata, non parleremo più
di squadre di difesa. Sarebbe un grave errore".
Di fatto, tuttavia, nonostante le dichiarazioni ufficiali e qualche titolo sui
giornali clandestini, la lotta armata contro il fascismo non viene mai proposta
in quegli anni come elemento centrale della battaglia del Pci nel paese. E lo
stesso Secchia, che pure di questa ipotesi è convinto assertore, quando
torna in Italia a costituire il centro interno del partito, dovrà misurarsi
con altri e più immediati problemi e difficoltà.
In tutta Italia, il Pci poteva contare, in quella seconda metà del 1930,
su una ventina di organismi provinciali e circa tremila iscritti (1700 dei quali
in Emilia e Toscana). Scarsi i contatti con le fabbriche: in tutto c'erano una
ventina di operai iscritti alla Fiat di Torino; 12 ai cantieri di Monfalcone;
8 alle Officine Meccaniche di Reggio Emilia; 4 alla Pirelli Bicocca di Milano.
Altro che offensiva! Altro che lotta armata! Il primo compito, a questo punto,
era di riprendere un contatto regolare con la base, rimettere in piedi una rete
appena decente di cellule, sezioni, comitati federali, individuare quadri giovani
che potessero prendere il posto di quelli che cadevano regolarmente nelle mani
della polizia fascista.
Secchia è instancabile. In quella seconda metà dell'anno viene
più volte in Italia, riunisce piccoli gruppi di comunisti che lo ascoltano
volentieri ma spesso esitano ad assumersi una responsabilità diretta.
Il quadro del paese è sconsolante: la gente, soprattutto gli operai,
non ama il fascismo, ma cosa fare per opporvisi? Certo, si possono diffondere
giornali clandestini, ma non è molto e il rischio appare sproporzionato
all'efficacia dell'impresa. Ma il presupposto per ogni azione è che venga
ricostituita un organizzazione efficiente in Italia, costi quel che costi, e
Secchia è stato di quelli che hanno imposto questa decisione contro le
esitazioni e i dubbi di Silone, Tresso, Leonetti. Dunque, dopo l'arresto di
Camilla Ravera, tocca a lui rientrare in Italia definitivamente per rimettere
in piedi il Centro interno. Due sono i compagni che in quel periodo collaborano
strettamente con lui: Antonio Cicalini, piccolo e vivace, detto il Mago per
la sua abilità nel preparare documenti falsi, e Celso Ghini, uno spilungone
serio e silenzioso responsabile del Centro interno dei giovani. I collegamenti
con il Centro Estero - che ha sempre sede a Parigi - sono tenuti da tre giovani
donne torinesi, che da tempo hanno scelto la clandestinità: Rita Montagnana,
moglie di Togliatti, Lucia Santhià e Maddalena Secco. Tra quelli che
entrano ed escono dall'Italia con i passaporti falsificati, e valigie a doppio
fondo, ci sono Dozza, Moscatelli, Santhià, Ciufoli, Frausin, Bianco,
Grassi: in tutto non più di una trentina di persone, decise a sconfiggere
il fascismo.
Secchia lascia definitivamente Parigi la sera del 31 dicembre 1930 con un passaporto
belga a nome di certo Jean Verhagen, viaggia tutta la notte e la mattina del
1° gennaio scende a Milano. Si è fatto crescere, per cambiare un
po' fisionomia, un paio di baffetti neri, è vestito elegantemente di
scuro come presume debba vestirsi un rappresentante di commercio che viene a
Milano a organizzare il suo lavoro. Per prima cosa cerca un appartamento, modesto
ma decoroso, e lo trova rapidamente pagando qualche mensilità anticipata.
La padrona di casa è del tutto ignara della vera identità di quel
suo inquilino, corretto, perbene, tranquillo.
Quel suo inquilino era spesso assente, come logico del resto; visto il suo lavoro
di rappresentante. In qualche modo è persino vero che quel giovanotto
fa il rappresentante, solo che la sua ditta, il Pci, è una ditta un po'
speciale. Ed è speciale il compito che gli è stato affidato: organizzare,
dovunque ci sia un nucleo consistente di comunisti, il IV Congresso del partito.
Sono piccole riunioni clandestine, in cui si discute della linea del partito,
si approva la "svolta" e si eleggono i delegati al Congresso Nazionale
che si dovrà tenere a Colonia. A questi Secchia consegna un passaporto
falso, un indirizzo da mandare a memoria e un segno di riconoscimento (una cartolina
o un biglietto da dieci lire strappato a metà) con il quale i delegati
sarebbero entrati in contatto, a Parigi o a Zurigo, con altri militanti e da
questi avviati, con un altro segno di riconoscimento, a Colonia.
Le difficoltà sono notevoli. Le riunioni si tengono in case private,
in casali di campagna, in osterie fuori città; in molti casi si tratta
di incontri tra una mezza dozzina di persone e nulla di più. Così
si svolge il Congresso di Torino, quello di Modena, quello di La Spezia e quello
di Milano, ai quali partecipa come responsabile del Centro interno Pietro Secchia.
Tutt'altro che facile si prospetta l'espatrio dei delegati, spesso gente che
non aveva mai viaggiato, non diciamo all'estero - che era allora cosa assai
rara - ma nemmeno fuori della propria città o della propria provincia.
Per tre mesi tutto procede perfettamente. Secchia si muove a suo agio nella
clandestinità: sicuro e prudente, riesce a condurre una vita apparentemente
normale pur stando costantemente sul chi vive. Le regole della clandestinità
sono regole di ferro, alle quali tuttavia occorre adeguarsi con una certa naturalezza.
Non è facile rispettarle senza assumere, involontariamente, l'atteggiamento
di un sospetto. Non è facile salire ogni giorno le scale di casa chiedendosi
se dietro la porta non ci sia un poliziotto ad aspettarti e intanto salutare
con disinvoltura la portiera che forse già "sa". Non è
facile andare ogni giorno ad un appuntamento pensando che forse può essere
l'ultimo, se il compagno che dovevi incontrare è "caduto" ed
ha parlato. Non è facile insomma vivere guardandosi costantemente attorno,
e tuttavia senza dar corpo alle ombre, senza scivolare cioè nella nevrosi
della clandestinità.
Per tre mesi tutto procede perfettamente. Secchia rispetta tutte le regole della
clandestinità e si è organizzato una rete abbastanza larga di
recapiti di sicurezza. Tre mesi. Non molto, certo, ma un lasso di tempo sufficiente
per incontrare compagni, trasmettere direttive, organizzare più di una
tipografia clandestina e una rete di corrieri e diffusori, eleggere - in congressi
più o meno regolari - i delegati e dare loro le necessarie istruzioni.
Poi, esattamente il 10 di aprile viene arrestato, a Milano, il giovane Celso
Ghini. Il responsabile dei giovani veniva da Torino dove una decina di giorni
prima anche Secchia aveva avuto l'impressione di essere stato pedinato. Era
lecito quindi sospettare che proprio a Torino fosse successo qualcosa di grave,
che cioè lì la polizia fosse riuscita ad avere informazioni sulla
rete clandestina che si andava ricostituendo. Le regole della vigilanza avrebbero
quindi voluto che Secchia tagliasse subito - almeno per qualche tempo - ogni
rapporto con quella città. Ma nessuno come lui conosceva recapiti ed
uomini di Torino, da dove tra l'altro dovevano ancora partire alcuni delegati
per il Congresso di Colonia.
Secchia non può consultarsi con nessuno; è lui che deve valutare
l'opportunità e l'eventuale costo di un'imprudenza. Alla fine decide
di sfidare la sorte, e si reca tranquillamente nel capoluogo piemontese. Lì
si rende conto che quasi tutta l'organizzazione è caduta: sono stati
arrestati il segretario interregionale, molti membri del Comitato Federale e
i dirigenti di cellule di fabbrica; Gli unici con cui riesce a mettersi in contatto
sono due giovanissimi studenti: Giuliano Pajetta e Altiero Spinelli, che lamentano
di aver perso da dieci giorni ogni contatto con l'organizzazione del partito.
È una conferma della frana avvenuta. È ormai pericoloso per Secchia
rimanere in una città "bruciata", ma egli, prima di partire,
vuole "salvare" i quattro delegati al Congresso che, avendo già
fissato per il 2 aprile un appuntamento con Ghini, certamente ora non sapevano
che fare.
Secchia conosce il luogo dell'appuntamento e sa che quando il primo collegamento
è perduto, di norma si torna allo stesso posto e alla stessa ora per
due giorni successivi (sono i cosiddetti "appuntamenti di riserva").
A quel luogo e a quell'ora quindi va Secchia. È il 3 aprile: in un angolo
del caffè nota seduti attorno a un tavolino, cupi e silenziosi, quattro
poveracci dall'aspetto e dai modi tipicamente contadini.
"Li avvicinai" racconta Secchia, e sottovoce dissi loro di uscire.
Mi guardarono sorpresi, pagarono e uscirono senza fiatare. Sorbii con calma
il mio caffè, mi guardai attorno e, a mia volta, uscii. Accertatomi che
non fossero pedinati, li avvicinai lungo il viale." Voi siete dei compagni"
dissi ad uno di loro, quello che mi sembrava il più sveglio. Mi guardò
stupito, incerto; la sua titubanza mi tolse ogni dubbio. "Voi avevate l'appuntamento
con un compagno e lo aspettate invano da ieri." Assentì con la testa,
ancora sospettoso. "Ebbene, nessuno è venuto a prelevarvi perché
il compagno è stato arrestato." Ora veniva la parte più difficile:
"Ascoltate" aggiunsi, "ciò che faccio in questo momento
è contrario a tutte le norme cospirative, ma è il solo mezzo per
cavarvi dalla situazione critica nella quale vi trovate. Voi non mi conoscete
e io non vi conosco. Se avete fiducia seguitemi e vi darò quello che
cercate. Se temete di cadere in un tranello, andatevene, tornate a casa vostra,
arrangiatevi in qualche modo". I compagni mi seguirono.
Li fornii di danaro e dissi loro: "Andate alla Rinascente, acquistate degli
abiti nuovi, indossateli, poi andate da un fotografo e questa sera portatemi
le vostre fotografie, domani vi consegnerò i passaporti per espatriare".
Indicai loro un ristorante: "Uno di voi uno soltanto venga qui a cena stasera;
non veniteci tutti, tenetevi in contatto tra di voi..."
Così si separarono. Non era ancora mezzogiorno. Secchia girò un
po' per Torino, soddisfatto. Dunque non era pedinato, ancora una volta ce l'aveva
fatta. Ormai rassicurato, commise un'ultima imprudenza. Aveva, alle cinque del
pomeriggio, un appuntamento con un compagno della segreteria della federazione
e non volle rinunciarvi. Ma al caffè dove prevedeva di incontrarlo c'erano
un paio di poliziotti. Se ne accorse in tempo e cercò di fuggire, ma
i poliziotti gli furono addosso. Non si difese, non era armato. All'angolo di
una via laterale c'erano due macchine in attesa; il prigioniero venne spinto
a forza nella prima.
Così il 3 aprile del 1931, anche Secchia cadde "nelle mani del nemico".
E ci rimase per oltre dodici anni, fino al 18 agosto del 1943.
Nel febbraio del 1932, dopo nove mesi di totale isolamento nelle carceri di
Torino, Secchia venne processato e condannato a diciassette anni e nove mesi
di reclusione. Dagli atti processuali risulta che la posizione di Secchia era
stata esattamente individuata esattamente valutato il lavoro da lui svolto in
quei mesi. "Il Secchia, membro del Comitato Centrale e noto sotto lo pseudonimo
di Botte, è l'elemento dirigente e il coordinatore di tutta l'opera di
propaganda e riorganizzazione del partito comunista in Italia. Risulta evidente
che, all'atto degli arresti, la predetta opera riorganizzazione era in Torino
giunta, anche per l'intervento etto dei maggiori esponenti del partito, ad un
grado notevole di sviluppo in quanto erano già state regolarmente costituite
e collegate le cellule in numerosi e importanti stabilimenti quali le Ferriere
Fiat, la Spa, le Concerie Riunite, il Tappetificio Paracchi, il Cotonificio
Mazzonis, il Cotonificio Poma e in vari rioni periferici caratteristicamente
operai, come il Borgo San Paolo e la Madonna Campagna, oltre la cellula municipale
in gestazione formata dipendenti delle Aziende Municipali..."
La caduta di Secchia non comportò la caduta di altri, né la perdita
degli archivi e dei recapiti che a lui facevano capo.
Assieme a Gramsci, Terracini, Scoccimarro, Parodi e Camilla vera, tutti già
in carcere, anche Pietro Secchia venne eletto alla presidenza d'onore del IV
Congresso che si svolse regolarmente, a Colonia, alla fine di aprile del 1931.