Biblioteca Multimediale Marxista
C'è in noi questa melanconia segreta di sentirci ormai impotenti di fronte
a forze più grandi di noi. Ci sentiamo separati dal partito e in un certo
senso dal popolo oggi lontano dall'idea di dover combattere lotte rivoluzionarie...
(dai diari di Pietro Secchia, 1971)
Secchia sapeva dipingere. Aveva imparato a Ventotene quando, per ingannare il
tempo e per guadagnare qualche lira, i confinati, allo scoppio della guerra,
si erano dedicati anche ad attività pratiche. Di Vittorio e Santhià
presero in affitto un po' di terra e cominciarono a coltivarla, Cicalini trovò
lavoro presso un fabbro, Turchi riprese in mano centimetro e forbici e tornò
a fare il sarto. Povere occupazioni e poveri guadagni, naturalmente, ma poiché
tutti erano tenuti a versare all'organizzazione il 50% dell'incasso, veniva
così alimentato anche il fondo con il quale aiutare quelli che non ricevevano
nulla dalla famiglia e che avrebbero rischiato la fame. Secchia, insieme al
compagno Picardi di Napoli, aveva messo su una specie di Bottega d'Arte: dipingevano
marine e composizioni di frutta, ma facevano anche ritratti ai locali e ai confinati.
E non guadagnavano male; anzi riuscirono in un certo periodo a incassare fino
a 14 lire al giorno (e 7, naturalmente, andavano al fondo).
Nei primi anni del suo soggiorno a Roma, Secchia qualche volta aveva ripreso
in mano i pennelli; per far contenta Alba ed abbellire un po' la casa di Via
Capo d'Africa, aveva dipinto qualche quadretto e aveva decorato gli sportelli
di un vecchio cassettoncino trasformato in mobile-bar, di due ovali contenenti
fiori e frutta. Poi la pittura era stata dimenticata. Un pomeriggio, poco dopo
la morte di Alba, Vladimiro lo sorprese, sul terrazzo di casa, mentre guardava
come sovrappensiero l'orizzonte. "Perché non provi a dipingere?"
gli chiese affettuosamente. Secchia si girò e irritato: "Dipingere?
E perché? non sono mica ancora finito, sai…"
Non era finito, anche se era stanco. E solo, soprattutto. Si alzava la mattina
all'alba, poco dopo le cinque, quando era ancora buio, e cominciava a lavorare.
Schedava il materiale, nomi, luoghi e fatti per l'Enciclopedia; riordinava il
suo vecchio archivio, prendeva note.
Marcello Forte lo aiutava: gli faceva da autista, da segretario, da collaboratore.
Talvolta, specie durante i lunghi viaggi in macchina da Roma a Biella, dov'era
il suo collegio di senatore, Secchia si lasciava andare, parlava del passato.
Gli piaceva tornare nel racconto soprattutto agli anni della prigione e del
confino. Marcello scherzava: "Il fascismo t'ha fatto fare un po' di villeggiatura
al mare!". Lui allora esplodeva in una di quelle sue risatone allegre,
gli batteva una mano sul ginocchio e assenti va: "E' vero, è vero".
Poi ridendo raccontava di quando durante la guerra a Ventotene avevano conosciuto
la fame vera. ..Una fame... altro che villeggiatura! Ci fu un periodo che mangiammo
solo castagne; poi ci mettemmo ad andare a caccia di gatti e di cani. E ci mangiammo
anche quelli. Ci credi, Marcello?, ci mangiammo persino il cane poliziotto del
direttore della colonia. E avessi sentito le sue proteste..."
Parlava volentieri anche delle sue primissime esperienze politiche, dei chilometri
in bicicletta per il Biellese, a organizzare circoli giovanili: ..Fu così
che mi chiamarono Bottecchia, perché Bottecchia era un gran campione,
a quei tempi, e poi mi è rimasto il nome Botte". Meno volentieri
parlava della Resistenza o meglio si scherniva quando Marcello insisteva per
conoscere fatti precisi, dettagli su vicende ed episodi di cui lo stesso Secchia
era stato protagonista.
Poi, stop. Secchia non parlò mai con Marcello, e Marcello mai chiese
cos'era successo dopo: nel 1947, nel 1951, nel 1954. Solo una volta Marcello
chiese com'era davvero Stalin, e Secchia raccontò che la prima volta
che era andato al Cremlino lo avevano anche invitato a cena. C'era Stalin, Molotov,
Beria e a un certo punto a furia di vodka e cognac armeno finirono tutti sotto
la tavola ubriachi fradici. "Come in Guerra e Pace, sai..." spiegava
con l'aria di giustificarli.
L'isolamento e ancor più la coscienza dell'isolamento erano ormai così
profondi in Secchia che quando un giorno Marcello gli disse di aver incontrato
Cossutta, allora membro della Segreteria, che aveva chiesto sue notizie e si
era raccomandato di salutarlo, la cosa gli parve inverosimile: ..Ma vai, figurati...
Cossutta, proprio non ci credo".
La solitudine e l'isolamento del resto crescevano inevitabilmente con l'incalzare
degli anni e la morte dei coetanei. Gli era sempre vicino il fratello Matteo,
naturalmente, e la nipote Gianna, che portava così limpida nel viso e
negli occhi l'impronta del sangue della madre russa. Il figlio adottivo Vladimiro
non aveva raccolto né il suo carattere né la sua eredità
culturale; era un uomo semplice che non si occupava di politica altro che in
modo marginale.
Poi c'è qualche incontro con altri vecchi, stanchi e isolati come lui:
Giuseppe Berti, Vittorio Vidali, Edoardo D'Onofrio, Ambrogio Donini. Vecchi
che sanno tutto del passato, che si scambiano puntigliosamente ricordi, precisazioni,
messe a punto frugando instancabili nell'archivio della propria memoria e tra
le carte conservate nonostante le mille traversie. Ma Longo, lo stesso Longo
non era stato una volta sul punto di essere allontanato dal gruppo dirigente
del partito? E di Vittorio? non si era comportato, in Francia, nel 1939 con
colpevole leggerezza? E Togliatti: non è proprio lui che ha firmato a
Mosca il documento con cui era stato sciolto e condannato il partito polacco?
Ed è proprio vero quello che c'è scritto sulle storie ufficiali
a proposito dell'importanza del suo lavoro in Spagna, o non è vero piuttosto
che proprio su quel lavoro venne aperta, dall'Internazionale, un'inchiesta che
poi Stalin avocò a sé? E la Jotti? Erano proprio tutte fisime
i sospetti dei sovietici sui suoi legami con il Vaticano? E non era stata una
debolezza cedere alle pressanti richieste di Togliatti di nominarla, prima responsabile
delle donne comuniste, poi nel Comitato Centrale, e poi persino in Direzione?
E, a proposito della Jugoslavia... Troppo disinvolto, troppo facile da parte
di Togliatti e di Longo dire che ci si era sbagliati, nel 1948: chi se non loro,
proprio loro (Secchia aveva solo eseguito) aveva dato ordine di mandare dei
comunisti italiani oltre frontiera per aiutare i "cominformisti" jugoslavi?
Si confrontano date, pezze d'appoggio, memorie, nella patetica speranza che
un giorno la storia proceda a una più equa ridistribuzione dei torti
e delle ragioni. Chi aveva ragione nel 1928? Chi aveva ragione nel 1945? Togliatti
ha sempre sbagliato nella valutazione del peso e del ruolo della Dc, ha sempre
ceduto ai capricci di De Gasperi. Secchia ricorda quando riuscì ad imporre
Moscatelli come sottosegretario, nel febbraio del 1947. Donini ricorda che anche
lui avrebbe dovuto essere sottosegretario, ma De Gasperi non volle "perché
ero stato un allievo di Buonajuti. E Togliatti preferì subire, anziché
dare battaglia". Storie vecchie ormai di trenta, quarant'anni, ma che Secchia
Berti Donini D'Onofrio ricordano come ancora attuali, visto che dalla battaglia
politica attuale ormai sono irrevocabilmente esclusi, E, come spesso accade,
quella realtà nella quale essi non possono più intervenire, gli
appare tutta negativa: ormai - essi pensano - il Pci, quel partito che in gran
parte gli apparteneva, di cui erano stati a suo tempo fondatori e padroni è
affidato ad altre mani, quanto fragili e sospettabili! Questo partito, creato
per la battaglia e per la lotta, si è ormai adeguato al sistema, fa la
vita pacifica e comoda di ogni altro partito; la coscienza nazionale si è
sostituita alla coscienza di classe facendo diventare subalterni alla borghesia
il proletariato e le classi lavoratrici... E allora, che fare?
Certo qualcosa si potrebbe fare, "ma le vecchie generazioni stanno scomparendo
e le giovani sono cresciute in una situazione diversa... L'attaccamento all'unità
del partito è un freno all'azione che vorremmo intraprendere e che staccandoci
dal partito ci isolerebbe ancora di più. Ci limitiamo a fare quel che
possiamo. A parlare con altri compagni che, tra l'altro, sono quelli che la
pensano come noi, a scrivere qualche libro per far circolare più o meno
apertamente le nostre idee. Ma si tratta di poca cosa. C'è in noi questa
melanconia segreta di sentirci ormai impotenti di fronte a forze più
grandi di noi. Sentiamo il nostro isolamento. Ci sentiamo separati dal partito
e in un certo senso dal popolo oggi lontano dall'idea di dover combattere lotte
rivoluzionarie... E infine oltre tutto abbiamo quasi settant'anni, un'età
in cui si può essere fermi e tenaci nelle proprie convinzioni, ma non
si ha la forza per arrischiare grandi iniziative capaci di scuotere gli altri.
E mancano i mezzi. Né vi sono precedenti di uomini che a settant'anni
abbiano saputo e siano riusciti a dar vita a grandi movimenti rivoluzionari.
Malinconia, isolamento, fallimento. Chi nel popolo pensa oggi di dover combattere
lotte rivoluzionarie? Siamo nel 1971. Feltrinelli è in Uruguay a cercare
contatti con i leggendari tupamaros. In Italia i sindacati si battono per le
riforme: casa occupazione Mezzogiorno. Qualcuno avverte i segni della crisi
che investirà con il 1973 tutta l'Europa, ma per adesso il reddito procapite
cresce e crescono tumultuosamente i consumi delle classi popolari che per così
lungo tempo ne erano state escluse. Il Psi chiede "equilibri più
avanzati, i Dc discutono se si possa o no avere rapporti con l'opposizione comunista.
Duri e puri, gruppi e gruppetti di estrema sinistra avanzano parole d'ordine
del tutto nuove per il movimento italiano ("La casa si prende, l'affitto
non si paga"), adottano un linguaggio e propongono forme di lotta del tutto
eterodosse.
"Sul terreno della controrivoluzione, scrive il primo numero di Nuova Resistenza,
nell'aprile del 1971, "cresce il fiore della lotta partigiana. Nuova Resistenza
non ha il sapore di una nostalgica e impolitica riproposta della viziosa tematica
resistenziale... Nuova Resistenza ha per noi il senso tutto giovane e offensivo
che questa parola d'ordine assume nel quadro della guerra mondiale imperiali
sta che oppone, al di là di ogni frontiera nazionale, la controrivoluzione
armata alla lotta rivoluzionaria dei proletari, dei popoli e delle nazioni oppresse...
Quello che si pone è il problema del passaggio dalle forme di violenza
spontanea e di massa a forme organizzate di lotta partigiana e di guerriglia,
il problema cioè del Partito combattente!" (52)
Nello stesso mese di aprile viene pubblicato su Potere Operaio mensile l'articolo
di Lenin del 1906 sulla lotta armata che già Secchia aveva riprodotto,
in appendice al suo La guerriglia in Italia.
Pietro Secchia guarda a questi tentativi con simpatia ma la sua storia, la sua
concezione del rapporto tra partito e le masse, la sua esperienza di organizzatore
gli suggeriscono anche una certa dose di scetticismo.
Durante l'estate del 1971 si ritira in vacanza a Frantiskovy-Lazne, una località
termale della Cecoslovacchia, dove riordina appunti e considerazioni che si
iscrivono nel più importante dei lavori che ha in corso: il secondo volume
degli Annali della Fondazione Feltrinelli dedicato al ruolo del Pci negli anni
della Resistenza. C'è in queste note una rimessa a punto di temi che
già conosciamo: il carattere dei Cln (e le loro contraddizioni interne),
la politica del Pci e in particolare di Togliatti negli anni dell'immediato
dopoguerra, la funzione della lotta armata come elemento della lotta politica,
i tentativi e i rischi di una falsificazione della Resistenza quando essa venga
svuotata dei suoi contenuti di classe.
Legge e annota in questi mesi quanto è stato scritto sulla Resistenza
da altri dirigenti del Pci, da Longo ad Amendola a Pajetta, e quanto è
stato scritto sulla Resistenza europea, ma rilegge anche Gorkij, Bertolt Brecht
(di cui annota significativamente la frase "i piccoli mutamenti sono i
nemici dei grandi mutamenti "), l'amato Romain Rolland, ma anche La trasformazione
della democrazia di Agnoli, e soprattutto un libretto edito da Feltrinelli,
di Robert Taber, dal titolo La guerriglia come rivoluzione.
Da questo testo che era ormai una sorta di vademecum dei gruppi e gruppetti
trascrive alcune note di sapore inquietante: "L'effetto secondario del
terrorismo se non il suo scopo, è poi quello di portare a un controterrorismo,
che serve alla causa dei ribelli meglio di qualsiasi stratagemma che i ribelli
stessi possano escogitare". E, ancora: "Si potrà obiettare
che i movimenti terroristici attirano criminali e psicopatici. Così è,
infatti. Ma la criminalità in se stessa è già una forma
inconscia di protesta sociale che rispecchia le storture di una società
imperfetta, e in una situazione rivoluzionaria, il criminale, lo psicopatico
possono divenire ottimi rivoluzionari quanto l'idealista". E, per finire:
"Si possono criticare i gruppi estremisti ma non si può negare che
essi appartengono alla classe operaia e ai lavoratori. Ed è sbagliato
tacciarli di provocatori quando le loro azioni colpiscono il grande capitale.
E' vero che talvolta le loro azioni sono prese a pretesto dai ceti dominanti
per scatenare la loro offensiva reazionaria, il che non cambia per nulla il
fatto che la loro azione è una forma di protesta e di lotta per le ingiustizie
della società, esprimono la rivolta verso grandi industriali, governanti
e autorità che promettono riforme mai attuate, una effettiva democrazia
che mai si realizza, un benessere illusorio perché ogni aumento del salario
è annullato dall'aumento dei prezzi e dall'inflazione".
E' difficile sfuggire alla sensazione che la scelta e l'annotazione di questi
passaggi dell'opera di Taber corrisponda in qualche modo a un'adesione, a un
consenso che si rivolge non a qualche astratto movimento di guerriglia, ma a
quello ben concreto ed attuale che si va in quei mesi organizzando anche in
Italia.
Esplicitamente politiche sono due note, contenute nello stesso quaderno del
1971: con una si deplora l'atteggiamento troppo morbido adottato dal Pci nei
confronti della decisione Usa di trasferire il Comando generale della Nato a
Napoli; con l'altra si lamenta lo scarso aiuto che viene dato dal Pcus e da
Breznev alla lotta contro il revisionismo dei partiti comunisti occidentali.
Al rientro da Frantiskovy-Lazne, ricomincia a Roma la vita di sempre: la sveglia
alle cinque del mattino, la preparazione delle voci dell'Enciclopedia, la cui
pubblicazione va a rilento, le lettere a Nizza con le solite proteste che sono
il segno della sua frustrazione: "Io stesso che all'inizio ero così
entusiasta, perché ci tenevo a lasciare un'opera che restasse, ho perso
quel mio entusiasmo dal momento che non so se ne vedrò la fine e anche
perché ebbi l'impressione che tu mi volevi più o meno elegantemente
fare fuori; te lo dissi già una volta e te lo ripeto. Se questa è
la tua intenzione ,dimmelo francamente, non sarò io a fare storie, possiamo
metterci d'accordo".
Poi a metà ottobre c'è un viaggio in delegazione in Sudan, in
Etiopia e Somalia. Torna di malumore e litiga ancora con Nizza: "Io ci
tengo alla buona reputazione, credo di non esagerare se ritengo di averti sotto
molti aspetti lanciato". Nizza, di rimando, bonario: "È un'altra
di quelle lettere in cui sfoghi senza mia colpa il tuo malumore ".
Passa così il mese di dicembre. Per gennaio è previsto un altro
viaggio all'estero, questa volta in Cile.
La partenza è fissata per il 1° gennaio, alle otto e mezzo di sera.
Secchia, che ha festeggiato l'ultimo dell'anno con la famiglia di Vladimiro
e di Matteo, passa la prima giornata del 1972 in casa. Mette in ordine alcune
carte e, quasi vittima di un presagio, stende su un foglio di carta intestato
Senato della Repubblica poche righe per il figlio. "Caro Vladimiro, in
aggiunta alla mia lettera dell'8 dicembre 1970 con la quale riconfermo di lasciarti
erede universale, ti voglio dire che per quanto riguarda i documenti, se pubblicare
o quali pubblicare, deciderai tu insieme a Bera ed allo zio Matteo. Potrete
anche consigliarvi con altri nominati nella lettera, ma a decidere sarete voi
tre. Il tuo papà, Pietro Secchia." Mette la lettera nel cassetto
dove conserva i documenti più riservati e personali, prepara con cura
la valigia. Nel pomeriggio lo viene a prendere Marcello con la macchina, per
portarlo a Fiumicino.
Il viaggio, via Zurigo Dakar Rio de Janeiro e Buenos Aires dura quasi venti
ore. Secchia un po' riesce a dormire, un po' riflette su quest'America Latina
così turbolenta, difficile da decifrare. Anche in questa materia egli
non condivide le posizioni ufficiali prese dal Pci, le critiche che più
o meno esplicitamente vengono rivolte ai gruppi di sinistra che operano in alcuni
di quei paesi. "Siamo saccenti" pensa "andiamo in giro a criticare
gli altri movimenti rivoluzionari, come se la nostra ipotesi di una via pacifica
al socialismo avesse già raggiunto successi. E invece, chi ci garantisce
che questa strada non ci verrà sbarrata, un giorno? E allora, che faremo?"
Pensieri di sempre, ma che sbarcando in Cile acquistano un particolare spessore.
Ed eccolo, finalmente, il Cile, "mi patria volcanica y novada" per
dirla con le parole di Neruda, il paese stretto e lungo, abitato dai discendenti
degli indios, dove si sta realizzando una esperienza senza precedenti, una transizione
democratica al socialismo. A Santiago c'è aria di festa. "Al governo"
gli confida Corvalan, segretario dei comunisti cileni "c'è una maggioranza
che vuole la rivoluzione." Il 3 gennaio Secchia parla nel corso di un grande
comizio. Ci sono i rappresentanti dei partiti comunisti di mezzo mondo, tra
gli altri c'è Kirilenko in rappresentanza del Pcus.
Secchia si ferma una settimana in Cile; ha i colloqui politici che hanno normalmente
i dirigenti comunisti quando visitano altri paesi e partiti fratelli. Corvalan
e Allende gli appaiono moderatamente ottimisti. "Non credo alla possibilità
di un colpo di Stato" gli dice il primo "benché nulla possa
essere escluso."E il secondo, a qualche sollecitazione di Secchia, risponde:
"Perché ci sia una rivoluzione bisogna che una classe prenda il
potere e che un'altra la sostituisca; per ora abbiamo il governo, solo più
tardi prenderemo il potere". In realtà, Corvalan appare più
pessimista di Allende: "i salari," brontola "sono troppo alti
in confronto alla produttività. Ma che fare? Siamo stati proprio noi
a insegnare per anni agli operai che tutto dipende dal governo e non dalla produttività...
Ma la situazione è pericolosa, se si prolunga".
Secchia riparte da Santiago il 10 gennaio mattina, arriva a Roma all'una del
giorno dopo. A Fiumicino lo viene a prendere, come di consueto, Marcello. Secchia
gli appare tranquillo, di buonumore, anche se un po' stanco. Il giorno dopo
- è il 12 - dorme a lungo, per recuperare il disagio del fuso orario;
nel pomeriggio scrive il rapporto da consegnare alla sezione esteri del partito;
la sera cena con Vladimiro. La mattina dopo va al Senato, passa dal partito
a consegnare il rapporto: nel pomeriggio, all'improvviso: si sente male. E'
giovedì 13.
Il giorno dopo chiama il medico (è un altro Spallone, Dario, : fratello
minore di Mario) che lo visita e non riesce a capire bene di che si tratta.
La febbre è altissima. Il malato è scosso da un affanno incontrollato
e sragiona. Dario teme il blocco renale e ordina il ricovero. Nella clinica,
in fondo a via Tuscolana al margine della campagna e quasi a ridosso dell'antico
acquedotto romano, Secchia riceve le prime cure dallo stesso Dario e dalla moglie
Angelina, anch'essa medico. Ci vuol poco a capire che le sue condizioni sono
allarmanti. L'azotemia è altissima. Sembra in coma. Poi si risveglia
e comincia a parlare, in un delirio senza fine che dura ore intere. La bocca
è invasa da una patina verdastra, nella stanza: ristagna un nauseante
odore di fradicio.
Si fanno una serie di esami senza alcun esito chiaro. Viene diagnosticata, comunque,
un'intossicazione ma sulla natura di questa intossicazione i pareri sono discordi.
Al capezzale del malato vengono convocati i più illustri clinici italiani:
c'è Giunchi, c'è Fegiz, c'è Biocca, c'è Visco. Nella
stanza, occupata da Moscatelli e da un gruppo di partigiani che hanno l'ordine
di non lasciare il malato solo nemmeno un momento, si scambiano pareri, sospetti,
incertezze.
Un paio di mesi prima Secchia era stato in Africa, il che può rendere
credibile l'ipotesi di una preesistente infezione tropicale che abbia silenziosamente
attaccato il fegato. È un'ipotesi. Ma Biocca, legato a Secchia da un
rapporto di amicizia e solidarietà politica respinge nettamente questa
diagnosi e getta sul tavolo, per primo, la parola "veleno". "Secchia,"
dice con sicurezza "ha ingerito del veleno preparato in laboratorio ad
alto livello. Si tratta di un attentato della Cia." Nell'incertezza e nella
incredulità degli altri si decide di far ricorso a uno specialista francese,
il professor Thomas, che, convocato a Roma con urgenza, parla senza mezzi termini
di "un fegato da vecchio cirrotico" sul quale è andata a inserirsi
con effetti devastanti una normale influenza. Biocca reagisce con irritazione:
"Secchia non è mai stato cirrotico..." Ma Thomas alza le spalle:
"Ci sono cirrosi latenti che non vengono individuate nemmeno da un medico
attento, e all'improvviso esplodono". La conclusione non convince del tutto
né Spallone né Giunchi né Visco né tanto meno Biocca.
Il povero Secchia in pochi giorni era diventato sempre più gonfio e delirava.
Gridava, straparlava. Aveva gli occhi sbarrati, la bocca impastata. Mormorava,
a fatica, discorsi appena comprensibili: "E' il sistema... E' il sistema..."
balbettava. Gli erano vicini Moscatelli e i suoi, Bera, Vladimiro, Marcello.
Il delirio continuava implacabile. Venne avvertito il partito, l'entità
suprema che sovraintende non solo alla vita, ma anche alla malattia e alla morte
dei suoi esponenti. Secchia non contava certo molto ormai, nel Pci. Ma la sua
morte, quando fosse sopravvenuta, non poteva certo considerarsi un fatto privato.
E il partito arrivò nella clinica, entrò nella stanza del malato.
Il partito aveva la faccia pallida di Paolo Bufalini, un dirigente che, in anni
lontani, era stato legato a Secchia da affettuosa solidarietà ma che
non era sospettabile di simpatie politiche per le attuali posizioni del vecchio
dirigente. Bufalini si trattenne un po' al capezzale del malato, gli toccò
la mano umida, poi scese a piano terra nello studio di Dario Spallone e si incontrò
con Biocca, che gli espose la sua tesi: Secchia era stato avvelenato dalla Cia.
Senza nascondere il suo scetticismo, Bufalini replicò: "Ma scusa,
Biocca, perché dovrebbero aver avvelenato proprio lui?". Biocca
lo guardò in silenzio per un istante, e, secco: "Questo lo dovreste
sapere voi. Può essere un avvertimento per altri: la Cia esiste, funziona,
sa quali avversari sono più pericolosi".
Pericoloso Secchia? E perché?
Nessuna delle attività che conosciamo fa pensare ad una particolare pericolosità
del vecchio dirigente comunista. All'epoca Secchia era un signore di quasi settant'anni,
che viveva solo, che conservava un paio di cariche rappresentative (vicepresidente
dell'Anpi, vicepresidente dell'Istituto Storico della Resistenza), senatore,
membro del Comitato Centrale del Pci, dedito essenzialmente a studi storici.
Un personaggio cioè la cui incidenza nella vita politica italiana e internazionale
era pressoché nulla. L'idea che la Cia lo avesse messo tra i suoi obiettivi,
avesse deciso di eliminarlo, risultava abbastanza inverosimile. E, per la verità,
alle Botteghe Oscure nessuno diede credito a questa versione della malattia;
anzi, la convinzione di Secchia di essere stato avvelenato venne considerata
un'ulteriore prova del suo decadimento, un'altra manifestazione di quella mania
di persecuzione di cui si erano avuti già, in passato, alcuni segni.
Sottoposto a un trattamento intensivo, a un controllo attento, a continue analisi
pian piano Secchia migliora. Nessuna delle prove tossicologiche dà esito
positivo e Dario Spallone cura i sintomi della malattia senza riuscire a individuarne
le cause. Ma il risultato è ugualmente positivo: dopo alcune settimane
Secchia può lasciare il letto, ma non ancora la clinica. Passa le sue
giornate leggendo, parlando con Moscatelli, guardando la televisione, ascoltando
la radio, ricevendo alcuni amici. Ma è ancora debole. Marcello viene
regolarmente, almeno due volte al giorno a portargli i giornali del mattino
e del pomeriggio, la posta.
Una sera - è il15 marzo - gli consegna i giornali del pomeriggo. C'è
la fotografia di un certo Maggioni, rimasto ucciso a Segrate, alle porte di
Milano, ai piedi di un pilone della corrente ad alta tensione. Secchia getta
uno sguardo sulla fotografia, sbiadita e incerta come tutte le fotografie formato
tessera pubblicate dai quotidiani; poi, quasi esitando, copre col palmo della
mano la parte inferiore del viso dello sconosciuto. Sembra guardarlo negli occhi.
E, rivolto a Marcello, dice: "Questo è Feltrinelli".
Era proprio Feltrinelli come venne riconosciuto, in modo ufficiale, ventiquattr'ore
dopo. Tutta la sinistra milanese intellettuale e studentesca insorge affermando
che "Giangiacomo Feltrinelli è stato assassinato" e trasforma
i suoi funerali in una manifestazione politica, di condanna dell'imperialismo
e dei metodi della Cia.
Secchia non firma quel manifesto, non partecipa a quel moto di pubblica indignazione
anche se ne condivide il senso e l'allarme. Non c'è dubbio, secondo Secchia:
Feltrinelli è rimasto vittima di una macchinazione della Cia; "certi
organismi cosiddetti di sicurezza internazionale non indietreggiano" scrive
a Giuseppe Del Bo, allora presidente dell'Istituto Feltrinelli "davanti
ad alcun delitto e alle più tenebrose macchinazioni". Ed egli stesso
del resto, non è forse vittima di una di queste macchinazioni? Mentre
il Pci prende rapidamente e prudentemente le distanze dall'avventata protesta
intellettuale, Secchia ammonisce: "Stupisce che dopo tante documentate
denunce sull'operato della Cia e di analoghi organismi, dalla Grecia, al Brasile,
all'America stessa,... vi sia chi le dimentica proprio nel momento in cui dovrebbe
ricordarsene e crede di poter liquidare il tenebroso affare parlando di fantapolitica..."
Nella seconda metà di marzo, dopo due mesi di degenza, esce dalla clinica.
La malattia, quale ne sia stata l'origine, lo ha segnato. Lo ha segnato la morte
di Feltrinelli. Lo preoccupa la divaricazione crescente tra il Pci e i gruppi
e gruppetti alla sua sinistra. Longo, che nel 1968 aveva voluto incontrare Scalzone
e i rappresentanti del movimento studentesco romano, è ormai irreparabilmente
malato. Lo ha sostituito Berlinguer, così prudente, lamenta Secchia,
che "di fronte a lui persino Amendola è uno di sinistra".
Se Berlinguer e il Pci sono prudenti, dall'altra parte - dopo la morte di Feltrinelli
- si accelerano i tentativi di dar vita ad una struttura clandestina, o semiclandestina,
armata. Questa struttura ha bisogno di una qualche sponda legale e la cerca
insistentemente in vecchi personaggi ormai mitici della Resistenza e nell'Anpi.
Così quando Lazagna verrà arrestato, nel corso delle indagini
sulla morte di Feltrinelli, molti si mobilitano per chiederne indignati la immediata
scarcerazione. Si promuovono manifestazioni di solidarietà, raccolte
di firme, incontri. Enzo Nizza è tra i più attivi in questa azione.
Ma a un certo punto viene chiamato alle Botteghe Oscure da Bufalini e Cacciapuoti
che lo mettono in guardia: se continua a frequentare troppo certi personaggi
rischia l'espulsione dal partito. Nizza, come molti altri comunisti in quei
tempi, vorrebbe fare qualche passo di più, ma non vuole rischiare l'espulsione.
È convinto però che se Secchia prendesse una posizione più
esplicita di sostegno, almeno alle azioni di solidarietà con gli arrestati,
il Pci non potrebbe sconfessarlo, senza sconfessare anche se stesso e la propria
storia. E in questo senso lo sollecita ripetutamente.
"Molti anche nel partito" gli dice "si rendono conto ormai che
tu avevi ragione."
Secchia ascolta volentieri, come sempre, queste voci che gli giungono non solo
da Nizza, ma da varie parti d'Italia, da molti compagni comunisti di Milano,
di Sesto, di Biella, di Pisa, di Siena. Tuttavia non se ne lascia convincere.
Terracini fa parte, in qualche caso, dei collegi di difesa per gli imputati
di atti di violenza. Ma Terracini è un personaggio diverso, ha un'altra
storia. Lui, preferisce non esporsi con dichiarazioni pubbliche di solidarietà.
"La scelta migliore per un comunista" ripete "è sempre
quella di restare nel partito." E ci resta infatti, malvolentieri, amareggiato,
offeso, umiliato. Ma non c'è altra strada. Uscire, per che? per cosa?
Forse, pensa di tanto in tanto, potrà venire il momento in cui anche
questo gesto sarà necessario. Ma solo allora, solo in questo caso estremo,
quando sarà indispensabile, solo allora lo farà. Né un
momento prima né un momento dopo. E il quando sarà lui a deciderlo.
Scorrono così i giorni. "Loro", gli altri, quelli che comandano
alle Botteghe Oscure, lo ignorano. Non lo fanno scrivere più e non lo
mandano nemmeno a fare comizi. Qualche discorso in Senato sì, che l'Unità
resoconta in spazi sempre più avari. Qualche intervento in Comitato Centrale
che viene ascoltato in modo sempre più distratto.
Alcuni giovani però lo cercavano ancora, salivano le scale che, portavano
all'attico di Largo Boccea. Erano giovani attratti dalla leggenda che circolava
attorno al suo nome, alla sua figura, al suo ruolo nazionale e internazionale.
Come tutte le leggende, anche quella di Secchia si alimentava di allusioni,
cose non dette mai esplicitamente, sottintesi, intuizioni, ammiccamenti.
Dai giovani che lo venivano a trovare e che pensavano alla Rivoluzione o la
preparavano, lo separava una distanza di mezzo secolo. Da questa lontananza
sono possibili anche, da una parte e dall'altra, fraintendimenti.
"Ah, se fossi più giovane; se fossi ancora nel pieno delle mie forze..."
si lamentava. Ma quei giovani gli rispondevano che non era l'età il problema
né le forze. La situazione andava, dicevano, rapidamente cambiando...
Giungevano da ogni parte i segni di una crescente protesta, i proletari erano
in rivolta... Era giunto il momento di dare un segnale, di battere il piede
per terra e farne uscire armati a migliaia...
Egli scuoteva la testa. Era davvero stanco o civettava con la sua stanchezza,
l'età, le delusioni? Il vecchio sapeva cose che altri non sapevano. A
chi avrebbe rivelato i suoi segreti? Egli si lasciava andare, poi si ritraeva,
diceva e non diceva, prometteva e non manteneva. Alle volte appariva rassegnato,
alle volte minaccioso. Tornava, dopo questi incontri e questi discorsi, alle
sue carte, a quella attività intellettuale che sembrava l'unico succedaneo
ormai alla lotta politica e che costituiva anche l'unica garanzia di sopravvivenza
oltre la morte fisica. Garanzia di sopravvivenza ma anche atto politico estremo,
perché le sue disposizioni testamentarie sarebbero state l'ultimo e quindi
il più alto, irrevocabile gesto polemico nei confronti di un partito
nel quale si era, in tanti diversi modi, sempre identificato. Così realizza
in punto di morte quella rottura che aveva sempre evitato in vita.
A marzo del 1973, nel corso di una visita di controllo chiede a Giunchi di mettergli
nero su bianco la sua diagnosi. E Giunchi lo fa: "A proposito della sua
malattia" gli scrive "sento il dovere di chiarirle il mio pensiero,
interpretativo sul piano clinico dei fenomeni morbosi gravissimi che l'hanno
tenuta per un mese tra la vita e la morte e l'hanno costretta a letto per molti
mesi, nel corso dell'anno passato. Si è trattato di una singolare malattia,
nel corso della quale sono stati colpiti in maniera improvvisa, violenta e gravissima
il fegato - onde la grave itterizia -, il rene - e quindi l'elevatissima azotemia
-, ed il sistema nervoso - da cui il delirio protratto e lo stato amenziale.
Se per quest'ultima sintomatologia si poteva supporre che fosse secondaria alla
intossicazione, derivante dalla grave disfunzione del fegato e del rene, per
questi due organi invece non vi è dubbio alcuno che la malattia si sia
insediata in essi primariamente. Esclusa una epatite virale, la quale decorre
con un quadro clinico ben diverso, e la sindrome epatorenale della leptospirosi,
la cui presenza è stata ripetutamente ricercata presso i laboratori dell'Istituto
Superiore di Sanità con esito negativo, l'unica interpretazione attendibile
circa i fattori causali della sua malattia resta quella di una gravissima intossicazione.
Ritengo ch'ella abbia ricevuto una buona dose di un potente veleno e di certo
sarebbe deceduto se non fossero intervenute con molta prontezza tutte le intense
cure alle quali è stato sottoposto presso la Clinica Nuova Latina..."
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Anche questa lettera, autografa, viene chiusa da Secchia nel cassetto in cui
tiene i documenti riservati, il rendiconto sempre aggiornato dei suoi diritti
d'autore, il testamento e la lettera al figlio. Le sue disposizioni sono precise:
al Partito dovrà andare solo una copia dei documenti, lettere, diari,
scritti che egli ha conservato gelosamente per anni. Ma "loro" chiederanno
di più, "loro" chiederanno di avere tutto, di avere gli originali.
A questa richiesta, scrive Secchia al figlio, bisognerà resistere.
"Di fronte ad una eventuale domanda perché non consegni loro tutto,
devi rispondere: perché voi metterete tutto in una cantina o brucerete
tutto, comunque seppellirete tutto. E tutto finirà con lui nella tomba.
Ora, questo non deve avvenire. Non crediate che di lui non se ne parlerà
più. Di lui se ne parlerà ancora come si parlerà delle
lotte da lui combattute, dell'azione da lui compiuta, delle sue posizioni rivoluzionarie,
del contributo che egli ha dato alla fondazione del Pci ed a fare di questo
partito un grande partito. Diverso certo da quello che ne avete fatto voi in
questi anni... Personalmente conosco i miei limiti, non pretendo di essere né
un genio né una grande personalità e neppure uno storico o uno
scrittore. Ma so di aver dato un contributo di primo piano alla costruzione
di un grande Partito, a mantenerlo attivo e in azione negli anni della illegalità,
so di aver dato un notevole contributo all'organizzazione ed al successo della
Resistenza in Italia ed anche nel dopoguerra a sostenere un determinato indirizzo
in seno al Pci. Sono convinto che se le mie posizioni fossero state seguite,
noi non ci troveremmo nelle condizioni di oggi. Non dico che si sarebbe potuto
fare la rivoluzione. Ma certo si poteva fare molto di più mantenendo
il carattere rivoluzionario al partito..."
La primavera del 1973 è mite. Dal terrazzo della casa, dove cominciano
a fiorire gerani e oleandri, si vede in lontananza il verde della campagna,
le nuove strade che si vanno disordinatamente disegnando nel quartiere. Il fegato
non gli ha dato più fastidio, anzi ha ripreso un certo gusto per il mangiare
e il bere; Marcello si ferma spesso con lui a gustare i manicaretti che gli
vengono ammanniti da una compagna che gli tiene in ordine la casa e gli fa un
po' da governante.
Alla fine di aprile si lamenta di un'influenza che sembra volgere in bronchite.
Niente di grave, continua a lavorare e scrivere lunghe lettere a Nizza, con
le quali ripete le cose consuete: non intende uscire dal partito, non intende
aderire a nessuno dei gruppi e gruppetti di contestatori, ma deplora che questi
vengano considerati dal Pci dei "nemici" o, anzi "i peggiori
nemici nostri, come qualcuno li ha definiti proprio in questi giorni".
"Non mi chiedere" scrive "di dire ancora di più del molto
che già dico, non pretendere che mi comprometta ancora di più."
Il 14 giugno si sente male. Viene preso da un improvviso attacco di vomito e
Dario Spallone questa volta lo fa ricoverare immediatamente in clinica. I segni
sono quelli classici dell'epatite cronica. Le sue condizioni sono gravi, ma
apparentemente non drammatiche. Marcello gli porta sempre la posta e i giornali.
Lui continua, per quanto può, a leggere e scrivere. A Nizza che gli annuncia
la ormai prossima pubblicazione di una sua raccolta di saggi sui giovani, raccomanda
di scegliere con grande attenzione la fotografia.
"La fotografia di un vecchio a me non piace." E allega, nella lettera
datata 2 luglio, una vecchia fotografia di tanti anni prima che lo ritrae al
tavolo di una conferenza assieme a Moscatelli ed altri partigiani. Lui sta al
centro, con i capelli irsuti e disordinati, lo sguardo vivace e un gran sorriso
allegro. Ci scrive sopra a penna: "Questa è quella che mi piace".
Cinque giorni dopo, sabato 7 luglio 1973, muore, nel pomeriggio. L'Unità
ne dà notizia col dovuto rilievo, pubblicando un documento del Comitato
Centrale e della Commissione Centrale di Controllo. Lunedì 9 luglio,
in terza pagina, il quotidiano del Pci pubblica il brano di un suo articolo
nel quale si afferma che "in effetti per le condizioni in cui si sviluppò
la guerra di Liberazione, noi il potere non l'abbiamo mai avuto né fummo
mai in grado di conquistarlo".
Il discorso funebre fu pronunciato in Piazza della Consolazione, sotto il Palazzo
del Campidoglio da Giancarlo Pajetta che ricordò: "La sua vita conobbe
anche la durezza degli anni difficili, l'amarezza dell'errore e il turbamento
che lasciano il segno". Furono una celebrazione e un funerale un po' sottotono..
con paure, imbarazzo e allusioni.
Diversamente il vecchio rivoluzionario venne celebrato a Milano. Migliaia e
migliaia di giovani si riunirono alla Statale, sventolando bandiere rosse e
striscioni con la scritta W Secchia, W Stalin, W Beria. Mario Capanna fece un
grande discorso in memoria del rivoluzionario scomparso. "Non sarai dimenticato",
gridarono in coro migliaia di voci adolescenti. E sventolando le bandiere rosse,
cantarono l'Internazionale.
FINE