Biblioteca Multimediale Marxista
Batterò col piede la
terra e n'usciran soldati
da ogni banda...
Amedeo II agli emissari di Luigi XIV
L'uomo era buttato a pancia sotto, la faccia contro la ghiaia
del terrapieno, il braccio sinistro alzato come a proteggere la testa, il destro
abbandonato lungo il fianco.
Era l'alba del 17 maggio 1945; un filo rosato disegnava l'orizzonte oltre il
bosco di Lambrate e la strada era deserta. Crescevano, sul bordo tra la ghiaia,
un po' di margherite e qualche ciuffo di cicoria: il morto aveva così
anche lui i suoi fiori, per quando fosse venuto qualcuno a raccoglierlo. Un
morto senza nome ma non senza colpa, come tanti in quei giorni.
Sono passati ventitré giorni dall'Insurrezione vittoriosa del 25 Aprile,
diciannove dalla fucilazione di Mussolini, otto dalla proclamazione della fine
della guerra tra le grandi potenze del mondo. Ma in Italia la guerra civile,
la più atroce di tutte le guerre, non è finita. Di notte, a luci
spente, si celebra nel Nord una giustizia che non conosce né avvocati
né tribunali. A Milano gruppi di partigiani che hanno appena smesso la
divisa cercano i fascisti più noti, i torturatori che non sono riusciti
in tempo a fuggire, li finiscono in un prato o in una strada isolata alla luce
della luna. Se qualche operaio, passando all'alba in bicicletta, intravede tra
la ghiaia e l'erba un cadavere, commenta, senza emozione "l'era un fazzulet...",
un fascista, e accelera l'andatura.
È l'alba del 17 maggio 1945, a Milano. Escono dai depositi municipali
gli attacchini per affiggere un manifesto firmato dal sindaco, il socialista
Greppi che lamenta: "Si raccolgono ancora morti alla periferia della città:
questa giustizia privata deve finire". I giornali danno la notizia che
da oggi finisce l'oscuramento e il coprifuoco viene spostato dalle 22.30 alle
24. La città è irrequieta. La gente che ha fatto l'Insurrezione
e quella che l'ha salutata come l'inizio di un grande cambiamento, ha fame.
Un litro d'olio a borsa nera costa 1200 lire, un chilo di carne 700 lire, giusto
il salario mensile di un operaio specializzato.
All'alba del 17 maggio del 1945, a Milano, in un appartamento di Via dei Filodrammatici
- dove ha sede la Direzione del Pci per l'Alta Italia - tre uomini si preparano
per un viaggio. Obiettivo: Bologna. Mezzo di trasporto: una grossa macchina
che apparteneva fino a un mese prima all'esercito fascista. Dei tre il più
anziano è anche il più taciturno: si chiama Arturo Colombi, è
un ex muratore bolognese che ha fatto parte, dal 1943 al 1945, del gruppo ristretto
di dirigenti comunisti (sei in tutto) che ha avuto la responsabilità
dell'attività clandestina e dell'Insurrezione nell'Italia del Nord. Il
più giovane è anche il più irrequieto. È bruno,
ben pettinato, un paio di baffetti neri tagliati con cura: si chiama Walter
Audisio ma tutti lo chiamano Valerio ed è l'uomo al quale sono stati
consegnati, il 28 aprile a Dongo, Benito Mussolini, Claretta Petacci, Pavolini
e altri prigionieri, di cui ha ordinato l'esecuzione. Il terzo, Pietro Secchia,
detto Botte, ha da poco passato i quarant'anni: ha i capelli arruffati, occhiali
tondi d'acciaio, una giacca troppo larga e il colletto della camicia sporco
e logoro. Cammina continuamente su e giù per la stanza, come sovrappensiero
o affannato. A un certo punto guarda l'orologio, si ferma di botto, poggia le
mani sul tavolo e rivolto agli altri due chiede, con una punta di impazienza:
"Allora, che si fa? A che ora si parte?". "Tra poco" lo
tranquillizza Audisio "non c'è fretta, l'appuntamento è per
il pomeriggio."
"Lui, da Roma, quanto tempo ci mette?" insiste Secchia. "Non
lo so" risponde Audisio "secondo me è già partito."
Il vicepresidente del Consiglio, Sua Eccellenza Palmiro Togliatti, a quest'ora
sta prendendo il caffè, in cucina, al primo piano di un villino signorile
di Via Ferdinando di Savoia, a Roma, una strada larga e breve che collega Piazza
del Popolo con Ponte Margherita. Roma è stata liberata da quasi un anno
dagli Alleati, al Viminale è insediato un governo regolare presieduto
da Ivanoe Bonomi, un distinto signore di settant'anni dai capelli la barba e
i baffi bianchi, rappresentante del piccolo partito della Democrazia del Lavoro.
Al Quirinale c'è il Re con la Regina, la nuora e i nipotini che di tanto
in tanto posano, tutti vestiti di bianco, per le fotografie ufficiali. A Roma
da tempo non si ammazza più nessuno per la strada e anche se dalle borgate
arrivano ogni giorno folle di senza tetto a chiedere sussidi e buoni-pasto,
nei negozi sono già tornate le belle cose di un tempo, e a Via Tomacelli
si è inaugurato, con grande sfarzo e grande indignazione dell'Unità,
il primo Istituto di Bellezza del dopoguerra.
Bevuto il suo caffè, Togliatti saluta con un cenno i compagni che stazionano
al cancello del giardino, prende con sé poche carte e, seguito da una
guardia del corpo, sale in macchina dove già l'attende l'autista per
il lungo viaggio che lo porterà a Bologna.
L'incontro, fissato per il pomeriggio nel capoluogo emiliano, sede fin d'allora
della più forte organizzazione comunista d'Italia, preoccupa per motivi
diversi sia Togliatti che Secchia. I due non si vedono da oltre quindici anni.
Si erano salutati l'ultima volta a Parigi, sotto una pioggia torrenziale, nel
dicembre del 1930, quando il più giovane era venuto clandestino in Italia
per dirigere Il Centro Interno del Pci, mentre Togliatti rimaneva in Francia
per dirigere il Centro Estero.
Di quei quindici anni, Secchia ne ha trascorsi tredici tra carcere e confino.
Arrestato nell'aprile del 1931 a Torino, appena quattro mesi dunque dopo il
suo rientro in Italia, aveva riacquistato la libertà solo dopo la caduta
del fascismo.
Nell'agosto del 1943, dopo molte resistenze e proteste, i detenuti antifascisti
sono stati autorizzati a lasciare le galere e i confinati antifascisti le isole.
Da Ventotene Secchia e Longo sono arrivati stanchi ed emozionati a Roma dopo
un viaggio per mare e ferrovia.
Il fascismo è caduto, ma sotto il Governo Badoglio non esiste per i partiti
libertà di associazione. I dirigenti del Pci appena usciti dalle galere
o dalle isole sono quindi ancora degli illegali alla ricerca di rifugi clandestini.
Per Secchia e Longo il primo rifugio romano è una casa di Via Orazio,
dietro Piazza Cavour. L'appartamento, che traspira benessere ed eleganza, appartiene
a un violoncellista, Livio Boni, che, sfollato a S. Marinella, ne aveva lasciate
le chiavi a un'amica, Bastianina Musu, una donna molto vivace e intelligente,
un'esponente del Partito d'Azione che ha messo quell'appartamento a disposizione
di amici antifascisti. Qui in Via Orazio, si svolgono i primi incontri di Longo
e Secchia con gli altri esponenti del Pci presenti allora a Roma: il più
autorevole è Mauro Scoccimarro (che i due conoscono già bene);
i più giovani sono Mario Alicata, Antonio Giolitti e Fabrizio Onofri,
intellettuali vivaci e coraggiosi, ugualmente avidi di letture e di eroismo.
Nel corso di quei primi incontri romani Secchia e Longo parlano poco e ascoltano
molto. E si confermano in una opinione che già avevano maturato dentro
di sé nel corso degli anni: non è lì, nella capitale eccitata
e sciroccosa che si giocheranno i destini del paese, ma nel Nord, dove già
si erano avuti, nel marzo di quel 1943, dunque prima della caduta del fascismo,
importanti scioperi; nel Nord dove la classe operaia è già, e
ancor più sarebbe stata nel futuro, il nerbo del partito e della lotta
armata contro fascisti e tedeschi.
Reclusi e confinati comunisti avevano studiato, annotato, mandato a memoria,
negli anni di solitudine e di riflessione, il Della Guerra di Clausewitz. Secchia
nel periodo di Ventotene aveva annotato questo testo con attenzione discutendone
a lungo con Longo che, come commissario delle Brigate Internazionali in Spagna
era l'unico che la guerra l'aveva fatta davvero. Reclusi e confinati studiavano
il Clausewitz convinti che presto sarebbe stato utile conoscere di strategia
e tattica militare; il regime non sarebbe caduto, pensavano, se non sotto la
spinta di una guerra di popolo, di una Rivoluzione che avrebbe riscattato il
paese e la classe operaia dall'onta della lunga oppressione.
Longo e Secchia che della necessità della lotta armata contro il fascismo
erano stati sempre sostenitori, anche quando questa non era la linea maggioritaria
nel Pci, sentono in quella torrida estate del 1943 che finalmente sta per arrivare
il momento di mettere in pratica gli insegnamenti di Clausewitz. Già
nella primavera di quell'anno i comunisti hanno lanciato un primo appello alla
lotta armata che è rimasto tuttavia senza risposta. Ma tra la primavera
e la fine dell'estate, le cose sono radicalmente cambiate: i primi scioperi
nelle grandi fabbriche del Nord hanno avuto successo, Mussolini è caduto
sia pure per un intrigo di palazzo, il Re e Badoglio appaiono tragici fantocci
senza autorità e senza futuro, i tedeschi sono in casa... Ci sono tutte
le condizioni per preparare concretamente la lotta armata. Ma per fare questo
è necessario andare al Nord. Non è Roma la città che vedrà
l'insurrezione.
Ciò che accade nella capitale l'8 settembre ne è una tragica conferma.
L'esercito italiano non resiste che poche ore a quello tedesco, gli insorti
civili sono forse alcune centinaia. La città viene occupata rapidamente
dalle forze naziste.
"Noi" racconta lo stesso Secchia "avevamo posto la sede del nostro
comando militare in casa di Fabrizio Onofri. Luigi Longo era il nostro comandante.
Ricordo la mattina del 9 settembre quando nello studio di Onofri, traendole
da un sacco consegnò a ognuno di noi una Beretta di ordinanza. Roveda
rivoltava tra le mani quella pistola come si guarda un oggetto strano e sconosciuto;
finì per chiedere: "Adesso insegnatemi come si fa a caricarla...".
E la sera del 10, vinte le ultime resistenze delle poche formazioni dell'esercito
che assieme a gruppi di antifascisti e popolani si erano battuti valorosamente,
i tedeschi entravano a Roma..." (1)
Secchia immagina, come immaginavano molti allora, che Roma sarebbe stata raggiunta
dagli inglesi e dagli americani nel giro di poche settimane, certamente prima
di Natale, e aveva molti dubbi sulla possibilità di organizzare, in così
poco tempo, una insurrezione. Immaginava quindi che dopo una liberazione venuta
dall'esterno non molto sarebbe cambiato del clima politico: si sarebbe costituito
un governo cosiddetto democratico, ci sarebbero state discussioni lunghe sui
programmi e gli uomini, i vecchi giochi e intrighi ministeriali. No, non era
questo il clima adatto a lui, Pietro Secchia, e nemmeno adatto a Longo. Loro
erano due combattenti, uomini di prima linea: si impegnassero pure in quelle
discussioni dirigenti come Scoccimarro, come Novella, come Amendola...
Scoccimarro, senza rendersene conto, in quelle riunioni ai primi di settembre
del 1943 parla in modo da confermare le peggiori supposizioni di Secchia. "Almeno
Longo", ripete "deve rimanere a Roma perché qui tra poco formiamo
un governo e qualcuno dovrà pure entrare a farne parte in rappresentanza
del partito... Probabilmente ci toccheranno due ministri e in più, forse,
anche due sottosegretari..." Secchia e Longo lo lasciano parlare, guardandosi
con aria complice. Ministri? Sottosegretari? Non è roba per loro, questa.
Per primo la sera dell'11 settembre parte per Milano Secchia e da lì
comincia a tempestare che deve venire su anche Longo. Alla fine, Scoccimarro
cede. E i due, il 20 settembre (è passato appena un mese dalla liberazione
dei detenuti politici) tengono a Milano la prima riunione di un comitato che
studia il modo di dare il via al movimento di lotta armata contro fascisti e
tedeschi. È un comitato formato, per ora, solo da comunisti: oltre a
Longo e a Secchia c'è Cicalini, anch'egli reduce da Ventotene, ci sono
Massola e Roasio, che hanno già diretto gli scioperi del marzo a Torino,
c'è Scotti, appena arrivato dalla Francia dove ha avuto qualche esperienza
nel maquis. Per intendersi, nessuno di loro è nelle condizioni di Roveda,
che doveva farsi spiegare come si caricava una pistola.
Dopo tre settimane, il 13 ottobre Longo può trasmettere a Roma qualche
prima informazione positiva: "si sta uscendo dal vago e dal gelatinoso...
dalla massa dei rifugiati in montagna si stanno traendo delle formazioni combattenti
" (2) e poi, finalmente, dopo pochi giorni in un altro messaggio: "qui
sta nascendo la guerriglia".
E possibile che non fosse proprio così; che quell'annuncio orgoglioso
fosse un po' prematuro. Ma che importa? Immaginiamo pure che fosse un'anticipazione,
ma un'anticipazione di qualcosa che sarebbe certamente venuto: la guerriglia
prima, e poi la lotta armata dovunque, nelle città, nelle campagne, nelle
fabbriche. Non e un'utopia: Secchia, come Longo, non è privo di fantasia,
ma la loro è una fantasia tutta organizzativa, concreta, che parte dalle
cose e di queste riesce a immaginare tutti i possibili sviluppi; una fantasia
che si nutre di direttive, di circolari, di piani precisi.
A Milano, chiusi in casa, nelle lunghe notti del coprifuoco i due riescono,
con la loro fantasia contadina, a immaginare il futuro. Un paese che insorge.
I tedeschi e i fascisti che fuggono. Gli operai, i comunisti che occupano le
fabbriche. Come nel 1921? No, questa volta sarà diverso, questa volta
sarà la classe operaia e il suo partito a decidere e non ci saranno debolezze,
errori, cedimenti.
Il 25 luglio e l'8 settembre si sono svolti in virtù di altre forze,
di altri uomini, decisivi non sono stati gli scioperi di Torino e Milano, ma
gli intrighi di corte, i tradimenti dei gerarchi, la paura dei cortigiani. Ora
non resta che un appuntamento e a quello la classe operaia e il suo partito
non possono mancare: è l'appuntamento dell'insurrezione. Solo in quel
momento, il problema politico della direzione dello Stato potrà risolversi
a favore delle classi popolari, anziché a favore delle vecchie classi
dirigenti.
A Milano di queste cose si discute e poi si passa rapidamente all'azione: questa
lotta da organizzare, questo futuro da costruire si trasforma in riunioni e
circolari che a loro volta si trasformano in gruppi armati, in cellule nelle
fabbriche e nei quartieri, in tipografie clandestine che producono fogli e giornali
da diffondere nelle scuole o per le strade. Longo e Secchia hanno assunto, con
molta naturalezza e molto affiatamento, la direzione dell'organizzazione clandestina
del Nord. Si discute, ma soprattutto si realizza. E con questo spirito, che
alcuni romani chiamano di "sufficienza nordista", Secchia e Longo
discutono con il gruppo che è rimasto a Roma. I rapporti tra i due gruppi
dirigenti, quello del Nord e quello del Sud, sono tutt'altro che idilliaci.
In realtà essi discutono (e litigano) quasi su tutto: sul carattere della
monarchia, sui rapporti con Badoglio, sulle prospettive politiche immediate
e lontane, sulla utilizzazione degli uomini e dei soldi, persino su alcuni messaggi
radiofonici che Togliatti manda da Mosca e che ognuno dei due gruppi interpreta
a suo modo.
C'è la pesante ironia di Secchia dietro la lettera con la quale Longo
rifiuta la proposta che ancora una volta gli viene da Scoccimarro, nel novembre
del 1943: torni subito a Roma per fare il sottosegretario nel governo che si
formerà dopo l'ormai imminente liberazione di Roma. "Le cose che
facciamo qui", scrive Longo, "sono molto più importanti e non
rinviabili", i "romani" sono accusati dai "milanesi"
di un'attività che si riduce a una serie di riunioni, il tutto un po'
parlamentare. E infatti, chiede con insistenza Secchia a Scoccimarro, dove stanno
le vostre azioni militari? Al massimo ci date notizia di diffusione di manifestini,
ma questo non è attività partigiana! Da Roma Scoccimarro ribatte,
critica i milanesi di "praticismo e ristrettezza politica". Secchia
protesta: "E allora, dateci il vostro contributo, il vostro aiuto!".
Invece i romani più che dare aiuto, lo chiedono spesso ai milanesi; chiedono
soldi, documenti falsi, borse con il doppio fondo. Secchia provvede, ma a un
certo punto non ne può più. "Sarebbe bene" li ammonisce
"che vi provvedeste anche voi di un ufficio tecnico, perché intanto
gli inglesi tardano sempre ad arrivare e poi non è detto che quando saranno
arrivati non ne avrete più bisogno..."
Così vien fuori, con una frase che può sembrare solo una battuta,
una divergenza di fondo: davvero pensate che con l'arrivo degli alleati tutti
i problemi saranno risolti? Davvero pensate che ci chiameranno al governo e
ci daranno ciò che ci spetta? Al massimo, forse, offriranno al Pci un
ministero o due, magari il ministero del Lavoro e quello delle Poste, ma noi
ad un governo, scrive Secchia, "dovremo andarci non come semplici comparse...
Guardiamo alla Jugoslavia, dove il partito si è preoccupato soprattutto
di conquistare il posto di primo piano e di pesare per quello che realmente
rappresenta. A titolo informativo, abbiamo saputo che in Jugoslavia, su 22 membri
del Cln, 18 sono comunisti..."
È questo il nocciolo duro del problema; la "sufficienza" nordista,
cioè, nasconde o rivela la tentazione di un altro esito della lotta,
di una soluzione di "tipo jugoslavo" che consenta di procedere molto
rapidamente, dopo la vittoria antifascista, su una via di tipo socialista.
Ma questa prospettiva, di un passaggio dalla guerra nazionale a uno scontro
con precisi contenuti di classe, avrebbe comportato anche un diverso tipo di
lotta armata e una diversa formazione dei suoi organismi dirigenti. Non a caso
Secchia sottolinea che in Jugoslavia, su 22 membri del Cln, 18 erano comunisti
mentre in Italia, per decisione comune dei partiti che ne facevano parte, la
rappresentanza nei Cln era paritetica e le decisioni dovevano essere prese all'unanimità.
E questo rendeva inevitabile uno sforzo costante di mediazione e compromesso.
Ma Longo e Secchia, anche se pensano o sperano in un esito diverso, più
avanzato della lotta antifascista e antinazista, si guardano bene, dopo la "svolta
di Salerno", dal protestare o contestarla. Si limitano, invece, a parlarne
il meno possibile perché sono convinti che parlarne e discuterne serve
a poco. Quello che deciderà alla fin fine non saranno, essi pensano,
le risoluzioni, i documenti, i discorsi, ma i rapporti di forza. Ed essi lavorano
nel Nord perché questi rapporti di forza siano ì più favorevoli
ai comunisti, all'interno dei gruppi armati o negli organismi di massa. Per
questo non risparmiano energie, fatica, intelligenza, uomini, spronano gli esitanti
e gli incerti, superano tutte le difficoltà che vengono frapposte non
solo dai partiti moderati nel Cln, ma anche, in qualche misura, dalla stessa
classe operaia, esitante a impegnarsi fino a fondo nella lotta armata. Ma, mese
dopo mese, saranno Secchia e Longo ad averla vinta: un partito comunista che
nel 1943 contava poche centinaia di iscritti (in prevalenza vecchi superstiti
delle battaglie del primo dopoguerra, ormai ai margini della vita sociale) diventa
rapidamente un partito che ha i suoi reparti armati, i suoi battaglioni, le
sue Sap e le sue Gap, combattenti di città, i suoi giornali, una sua
fitta rete di organizzazione che provvede alla propaganda, all'azione di massa,
alla solidarietà per i combattenti e le loro famiglie.
Venti mesi di lotte, di scioperi, di combattimenti preparano l'ora X, l'Insurrezione
del 25 Aprile, dopo la quale tutto - pensa Secchia - è ancora possibile.
Invece i giochi saranno sostanzialmente fatti altrove. A Roma, nella capitale
sciroccosa che egli ha conosciuto tra la fine di agosto e la prima settimana
del settembre del 1943, ma soprattutto nelle altre capitali: Londra, Washington,
Mosca.
Sua Eccellenza Palmiro Togliatti, l'uomo che quel 17 maggio, parte da Roma per
andare incontro a Secchia, non ha conosciuto né il carcere fascista né
il confino né l'esaltante Insurrezione armata. I quindici anni che lo
separano da quella sera del 1930 in cui ha salutato a Parigi Pietro Secchia,
li ha trascorsi tutti, o quasi, all'Hotel Lux di Mosca dove vivono un po' ospiti
e un po' prigionieri i massimi dirigenti dell'Internazionale Comunista. Egli
sa cose che altri non sanno, ha visto cose che gli altri non possono nemmeno
immaginare. E da Mosca si è mosso, nella primavera del 1944, per ritornare
finalmente nel suo paese, in quel pezzo d'Italia che si chiama il Regno del
Sud. Qui, i partiti antifascisti rinati dopo la caduta del fascismo sono divisi
da aspre polemiche, da contrapposizioni verbose e violente. Bisogna o no allearsi
con Badoglio? Bisogna o no chiedere l'abdicazione di Vittorio Emanuele III,
il Re Fellone che prima aveva consegnato l'Italia a Mussolini e poi abbandonato
la Capitale ai tedeschi? Monarchia e fascismo non sono nei fatti un tutt'uno
di cui bisogna al più presto sbarazzarsi? E non sono, per i comunisti
soprattutto, "Badoglio e il re i rappresentanti di quei ceti plutocratici
ai quali non è possibile fare nessuna concessione"?
A questo punto era il dibattito, e comunisti socialisti azionisti, democristiani,
e persino demolaburisti, vecchi notabili carichi di inutili esperienze e di
spropositate ambizioni, su questi argomenti discutevano e litigavano. Intanto
Togliatti era in mare e viaggiava verso l'Italia, che non vedeva da quasi vent'anni,
con animo ansioso e probabilmente sconfortato per le notizie che gli giungevano.
Nessuno più di lui ha fastidio per ogni forma di estremismo e intransigenza
parolaia. Egli torna in Italia per far politica e se ne accorgeranno subito
i compagni che la sera del 27 marzo 1944 lo accolgono, commossi, alla Federazione
di Napoli. A Spano, Salvatore Cacciapuoti, Maurizio Valenzi, che gli dicono
che per l'indomani è stato convocato il I Consiglio Nazionale del Pci,
con delegati che giungeranno da tutte le regioni liberate, Togliatti risponde
che bisogna spostare la riunione. Ha bisogno di alcuni giorni per spiegare ai
massimi dirigenti comunisti che finora hanno sbagliato tutto o quasi: basta
con la preclusione antimonarchica e antibadogliana, basta con le sterili discussioni
sulle responsabilità del Re, basta soprattutto, per chi l'avesse ancora
in testa, con l'idea che la caduta del fascismo debba significare automaticamente
una trasformazione socialista del paese. Qui c'è prima di tutto da fare
la guerra, da cacciare dall'Italia fascisti e tedeschi, e per questo è
necessario subito promuovere un governo di unità nazionale e patriottica.
Tutto il resto si vedrà.
Togliatti ha sufficiente autorità per imporre al quadro dirigente e al
Consiglio Nazionale che si terrà il 31 marzo questa che è veramente
una svolta. (E infatti passerà alla storia con il nome di "svolta
di Salerno". Ma Togliatti sa che a costruire una politica non basta l'accordo
del gruppo dirigente e il sollievo con il quale la nuova posizione del Pci viene
accolta dagli altri partiti. Questa linea deve essere capita e condivisa da
migliaia e migliaia di militanti, ai quali va spiegata instancabilmente. Man
mano dunque che il fronte si sposta verso il Nord, man mano che una città
viene liberata, Togliatti si presenta ai comunisti di quella città e
fa un discorso ripetendo sempre, ma in modo sempre diverso, le stesse cose.
Educa, con il suo ragionamento sottile, una nuova generazione di comunisti che
lo ascoltano affascinati da quell'oratoria dotta e spoglia insieme, tanto diversa
da quella di Mussolini, che tutti hanno sentito almeno una volta alla radio
o in una adunata di piazza. Togliatti parla piano, con frasi semplici, convincenti
e frequenti riferimenti storici. Sembra animato da un grande amor di patria
e questo piace molto ai giovani sui quali il fascismo aveva rovesciato la sua
retorica nazionalista e patriottarda. Nelle parole di questo professore che
viene da un così lungo esilio, così colto e così educato,
la patria appare finalmente altra cosa, vicina, umana, concreta.
La "svolta" conquista così anche giovani intellettuali, studenti,
piccolo borghesi che avevano partecipato alla vita delle organizzazioni del
fascismo, ne legittima il sentimento patriottico, facendone tutt'uno con l'aspirazione
alla giustizia e alla libertà. C'era, in tutto questo, un vago sentore
risorgimentale: un po' di Garibaldi, un po' di Carducci, un po' di Pisacane.
"E come può l'Italia risorgere? Qual è il cammino della sua
rinascita? Oggi, noi rispondiamo, l'Italia può risorgere solo con le
armi in pugno"; così incita Togliatti nel suo primo discorso ai
romani, il 9 luglio del 1944. Nel teatro Brancaccio affollato fino all'inverosimile,
nel caldo dell'estate romana, Togliatti non pronuncia nemmeno la parola "Repubblica",
ma riesce invece a trascinare la platea in un lungo applauso a favore degli
"ufficiali di marina monarchici che, comprendendo a cosa li impegnava il
loro giuramento", si erano schierati a favore della guerra patriottica
contro la Germania hitleriana.
La "svolta di Salerno" non si era realizzata senza resistenze e polemiche
nel gruppo dirigente. Quando da Napoli, via radio clandestina, la notizia della
svolta era giunta a Roma occupata, Scoccimarro era rimasto incredulo. "È
un compromesso... è un compromesso" continuava a ripetere agli altri
compagni, che lo circondavano, silenziosi. Si accese una sigaretta nervosamente
e ad Amendola e Novella che gli stavano di fronte mormorò: "Questa
politica, la farete voi..." (3)
Questa politica, in realtà, finirà col farla anche lui, pur se
con qualche riserva. Ma Scoccimarro non costituiva un pericolo, anche se per
qualche tempo aveva creduto di essere, al posto di Togliatti ancora a Mosca,
il capo del partito. Ben diverso è il peso che può avere in questa
controversia il partito del Nord, di cui Secchia è, con Longo, il capo
naturale e riconosciuto. E Togliatti se ne preoccupa.
Alla fine di dicembre del 1944 scrive a Longo: "Devi reagire seriamente
nel partito ad ogni tendenza che ancora esistesse a considerare la nostra politica
di unità come un gioco. Essa è la via maestra per la creazione
di un regime di libertà e di progresso. Accentuare il carattere unitario
della nostra azione, tanto nel campo politico, quanto nel campo militare...
La nostra politica internazionale è quella dell'unità delle tre
grandi potenze, e non un'altra".
E tanto più si estende, nel Nord nei primi mesi del 1945, la organizzazione
della lotta armata, tanto più cresce in Togliatti la preoccupazione che
da lì possa venire con una grande esplosione "di rosso", un
pericolo per la situazione nazionale.
Lo dice chiaramente ai primi di aprile del 1945, al II Consiglio Nazionale del
partito a Roma, quando mette in guardia contro la tendenza che "mira ad
una accentuazione progressiva delle lotte politiche e di classe in modo che
sorgano situazioni corrispondenti a quelle che esistettero nel 1919-20. In occasione
della liberazione del Nord questa tendenza vorrebbe imporre all'Italia quella
che chiamerei una prospettiva greca, cioè la prospettiva di un urto violento,
di un conflitto armato tra le forze organizzate del fronte antifascista e forze
della polizia e dell'esercito. Lo scopo che ci propone questa tendenza è
di evitare una consultazione popolare a più o meno breve scadenza..."
Togliatti ne parla come di una tendenza estranea al movimento, la denuncia come
una provocazione. Ma non pensa solo a questo; egli pensa anche a una parte del
partito, a quella parte che interpreta la politica unitaria come una temporanea
battuta d'arresto, un espediente tattico in attesa del soprassalto rivoluzionario.
Questo partito del Nord, se si escludono i suoi massimi dirigenti, Togliatti
non lo conosce e passerà quasi un mese dopo il 25 Aprile, prima che egli,
vicepresidente del Consiglio, possa recarsi a visitarlo.
Gli Alleati, subito dopo l'Insurrezione hanno infatti imposto ma sorta di cordone
sanitario che, tagliando in due l'Italia, impedisce a uomini e merci di circolare
e questo cordone sanitario vale per tutti, anche per esponenti di partito e
di governo. Ci vogliono richieste e proteste perché finalmente l'Ammiraglio
Stone, capo della Commissione Alleata di Controllo, consenta ai Ministri italiani
di recarsi nel Nord. Ma, ammonisce l'Ammiraglio, nessuno sarà autorizzato
a tenere riunioni pubbliche o discorsi agli operai delle fabbriche, senza preventiva
autorizzazione degli Alleati.
Nenni, che tenterà di eludere questa disposizione e parla senza permesso
agli operai di Vercelli, viene arrestato sia pure per poche ore dalla polizia
alleata. (4)
I primi esponenti del governo autorizzati a raggiungere Milano sono, a metà
maggio, il ministro del Tesoro Marcello Soleri, il ministro dell'Industria Giovanni
Gronchi, e il governatore della Banca d'Italia Luigi Einaudi. Ad accoglierli
all'aeroporto ci sono le autorità alleate, Riccardo Lombardi, prefetto
della città, il generale Cadorna e una piccola brigata di garibaldini
che li saluta gridando "Viva Togliatti". Soleri, Einaudi e Gronchi
restano un po' interdetti, e, passando tra le due ali della brigata garibaldina
schierata sull'attenti, assicurano, brontolando "verrà, verrà
anche Togliatti".
E il 17 maggio Togliatti parte finalmente da Roma e Secchia gli va incontro
a Bologna... Togliatti arriva con la sua auto scura, ministeriale, Secchia e
i suoi con una macchina militare. Secchia ha la camicia stazzonata e, al posto
della cravatta, ha annodato sulle spalle il fazzoletto delle Brigate Garibaldi;
Togliatti è vestito di un completo grigio, il colletto della camicia
un po' largo e un polsino tenuto insieme con una spilla da balia. Non c'è
nemmeno un fotografo a ritrarre l'incontro che, come quello di Teano, sta a
significare che l'unità d'Italia, ancora una volta, è fatta. Secchia,
Audisio e Colombi vengono a consegnare al capo del Pci l'Italia che hanno liberato,
come Garibaldi consegnò a Vittorio Emanuele II il Regno delle Due Sicilie.
Qui si ferma l'analogia, naturalmente, perché Togliatti non era certo
il Savoia, e anche se ci teneva al suo incarico ministeriale, conosceva bene
i limiti della sua autorità. (E infatti si guarda bene dallo sfidare,
come Nenni, la disposizione degli Alleati che vieta i comizi.) Ma l'incontro
ha un suo valore non secondario, per le vicende che ci accingiamo a raccontare.
I due uomini, Togliatti da una parte e Secchia dall'altra, si ritrovano, dopo
quindici anni, reduci da esperienze del tutto diverse, nel corso delle quali
hanno affinato le rispettive caratteristiche. Si ritrovano diversi e tuttavia
uguali a com'erano in gioventù. E nella, autentica commozione dell'incontro
c'è già, nell'uno come nell'altro, una punta - appena una punta
- di diffidenza.
Il giorno dopo - è il 18 maggio, a tarda sera - finalmente, dopo brevi
soste a Modena, Parma, Reggio Emilia e Piacenza, Togliatti, accompagnato da
Secchia, arriva a Milano. All'ingresso della città lo aspettano esultanti
un gruppo di partigiani in armi e un paio di loro saltano sul predellino della
macchina ministeriale, pensando così di scortarlo fino in centro. Ma
Togliatti, con un gesto di fastidio, li fa scendere.
A Via dei Filodrammatici c'è l'incontro con i compagni dirigenti del
Nord. Le compagne offrono a Togliatti un mazzo di fiori che egli tiene in braccio,
imbarazzato e un po' goffo mentre scattano i flash dei fotografi.
Poi comincia l'opera di convincimento, di orientamento. A Sesto S. Giovanni
il 20 maggio parla a una riunione dei quadri di Milano; il 21, davanti alla
Federazione si ammassano quasi centomila persone che chiedono a gran voce il
comizio. Togliatti sa che non gli è consentito, esce quindi sul balcone,
saluta con la mano e dice: "Ci siamo capiti, anche senza parlare".
Parla, invece, in una serie di riunioni interne, a Torino, a Vercelli, a Novara,
a Genova.
L'entusiasmo felice, persino un po' sbracato dei compagni che o applaudono suscita
in lui un sentimento misto, di qualche inquietudine ed emozione. Lo preoccupano
alcune informazioni che la avuto, il clima che ha percepito, la spinta evidente
in larga parte della classe operaia e del partito ad andare avanti, oltre l'obiettivo
già raggiunto della liberazione, l'esistenza di zone che manifestano
insoddisfazione per i risultati raggiunti, una disordinata impazienza.
La consegna delle armi avviene a rilento; è chiaro che i partigiani non
intendono smobilitare. Esiste in quel momento, a un mese circa dalla liberazione,
il pericolo che nel Nord una spinta politica e sociale non controllata conduca
alla tanto temuta prospettiva greca? Il pericolo, se esiste, bisogna evitarlo.
Quando Togliatti osserva, attorno al tavolo delle riunioni, Longo e Secchia,
gli viene spontaneo chiedersi come reagirebbero i tue a una spinta massiccia
in quella direzione. Sono due piemontesi cocciuti, di poche parole e di grande
coraggio; tutti e due sono stati bordighisti nel 1922, poi segretari della Federazione
giovanile nel periodo clandestino, tutti e due hanno spesso preso posizioni
settarie, tutti e due hanno criticato sul finire degli anni 20 la parola d'ordine
dell'Assemblea Costituente ritenendola opportunistica rinunciataria, tutti e
due hanno sostenuto, contro lo stesso Togliatti, l'opportunità della
lotta armata contro il fascismo quindici anni prima dell'inizio della Resistenza.
Ora, ambedue, certo sono cambiati. Ma come? Quanto? Hanno vissuto insieme l'esperienza
esaltante di una lotta armata vittoriosa, quella alla quale hanno sempre pensato
fin dagli anni della gioventù quando avevano dovuto ripiegare sconfitti,
sotto i colpi del fascismo. Secchia e Longo ora hanno conosciuto la felicità
della vittoria. E Mussolini, che aveva messo fuori legge il partito, che li
aveva costretti a fuggire dall'Italia umiliati e sconfitti, lo hanno vinto -
finalmente - messo al muro come traditore. Cosa pensano, adesso, davvero? Come
pensano si debba portare avanti la lotta? Nutrono anch'essi le stesse impazienze,
meno ingenue certo, ma non meno pericolose, che Togliatti ha intuito dietro
gli applausi, le grida, l'entusiasmo del popolo garibaldino?
Togliatti se lo chiede e non sa darsi ancora una risposta precisa, ma una cosa
ha chiara: bisogna che almeno uno dei due venga subito a Roma. E la scelta cade
su Secchia, il cui talento di organizzatore è indiscutibile. A Roma egli
sarà un elemento prezioso, certo più controllabile.
L'offerta che Togliatti fa a Secchia è di quelle che nel Pci è
difficile discutere e impossibile rifiutare. Eppure Secchia resiste. Preferirebbe,
dice, restare per qualche tempo almeno nel Nord, dove l'atmosfera è ancora
quella "ardente ed entusiasmante" della liberazione. Ma Togliatti
è irremovibile.
"Tu" gli spiega "non puoi limitarti ad essere l'organizzatore
nel Nord; devi metterti alla testa di tutta l'organizzazione del partito."
Secchia dunque dovrà andare subito a Roma, e Longo lo seguirà
dopo poco. A Secchia non rimane che obbedire. Parte, a metà giugno, accompagnato
da Moscatelli, il leggendario comandante delle formazioni garibaldine della
Valsesia e dell'Ossola, e da cinque macchine dei suoi partigiani. È un
viaggio lungo e un po' triste. Una fase si chiude e non si sa cosa riserba l'avvenire.
A Roma la prima visita di Moscatelli è per il Papa. Il suggerimento gli
è venuto da Eugenio Reale, che gli ha fatto capire che così vuole
Togliatti. "Io" gli dice Secchia "non ci andrei nemmeno: se me
lo ordinasse." Ma Moscatelli ci va, e torna "scornato e con la coda
tra le gambe". "Sentii subito un certo disagio" ammette Secchia.
"A Roma trovai un ambiente completamente diverso. I nostri, inseriti già
da tempo, quasi da un anno, nel lavoro parlamentare e ministeriale, erano tutti
volti ad altri problemi. Compresi che per la seconda volta, eravamo rimasti
fregati".