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1798- 1998
Bicentenario della nascita
Disamina critica del contributo dello Scienziato Giacomo Leopardi
Alla Filologia, alla Linguistica ed alla Letteratura,
alla luce delle più recenti prospettive europee.
Napoli, 11. Dicembre. 1998
Università Federico II, Facoltà di Lettere, Aula Minerva
Leopardi.
Poeta del dolore.
Poeta dell’amore.
Poeta infelice.
Potremmo continuare con queste insulsaggini, che in duecento anni hanno ricoperto
lo scien-ziato Giacomo Leopardi.
Potremmo liquidarle con quanto Leopardi scrive in una sua lettera al De Sinner:
“ No il mio dolore non nasce dai miei mali, ma dal mio intelletto.
Prima di morire io protesto contro questa invenzione degli uomini deboli e volgari.
Anziché accusare le mie malattie, distruggete le mie osservazioni ed
i ragionamenti.”
Il Leopardi eversivo, che non ci sta dentro gli infantili schemi della povertà
culturale sabauda, che spazza via gli inetti equilibri culturali e politico
culturali, incontro di Torino agli inizi del 1860 , e per giunta neppure rispettato
da Cavour, a cui pure una parte dell’intellettualità italiana si
era pur chinata: quella che poi salirà in auge nell’Italia post-unitaria:
i Manzoni, i Tommasei, i Bellini, gli Abba, i De Sanctis, ecc. ecc., questo
Leopardi doveva assolutamente essere messo a tacere . La po-tenza teorica di
un Leopardi non ha consentito la liquidazione tramite la congiura del silenzio,
“ gli uomini vili e volgari” sono ricorsi allora al seppellimento
sotto un fitto strato di insulsaggini.
Impostare un ragionamento su Leopardi non è facile
per la tradizione culturale alla quale siamo formati, ossia la tradizione desanctiana,
che tende a leggere tutto il patrimonio letterario italiano in chiave del poeta-poesia-amore;
in chiave del poeta animo sensibile, ecc.
L’intera proposta culturale desanctiana, espressa nella “ Storia
della Letteratura Italiana” è insulsa, esprime povertà culturale:
Lo schema proposto è infatti infantile:
Duecento-Trecento-Quattrocento: Firenze,
Cinquecento: Tasso-Ariosto,
Seicento: il marinismo;
Settecento-Ottocento: Lombardo-Piemontese.
Una semplice lettura in parallelo di questa ricomposizione culturale del patrimonio
italiano e quell’operata da Luigi Settembrini “ Lezioni di letteratura
italiana” dà bene il senso del baratro.
Dobbiamo quindi abbandonare le nostre visioni, a cui siamo stati educati sin
dalle elementari, ed affrontare tutto un altro orizzonte.
Tra la fine del 1700 e gli inizi del 1800 si pone in Italia concretamene il
problema dell’unità nazio-nale. Questo è il centro attorno
cui ruoterà tutto. Attraverserà tutte le classi e ciascuna elaborerà
una risposta a questa problematica. Le risposte non saranno due: nobiliare e
borghese, ma molte di più, giacché all’interno di ciascuna
di queste due classi vi era tutta una stratificazione che andava dalla posizione
nobiliare classicamente intesa: opposizione tout court, a tutta una serie di
strati che sfu-mavano sempre più nella borghesia, a seconda di come all’interno
di queste proprietà agrarie era andato avanti il processo di capitalizzazione.
Nella stessa borghesia vi erano varie stratificazioni che andavano dalla posizione
radicale a quella sempre più sfumata verso l’aristocrazia nobiliare.
Ciascuno di questi elabora una sua risposta a questo problema.
Ciascuna singola personalità vi collaborerà secondo il suo ruolo:
politico, militare, scientifico, lette-rario e quindi ciascuno nel suo campo,
ed all’interno della classe e della stratificazione di classe a cui oggettivamente
fa riferimento , elaborerà risposte.
Quando noi ragioniamo di Leopardi stiamo leggendo questo processo e questa problematica
dal lato letterario.
Sul piano letterario il problema si presentava sotto due aspetti:
il problema del bilancio storico complessivo del patrimonio culturale letterario:
quale giudizio sulle singole correnti letterarie, che si sono sviluppate a partire
dall’anno Mille e qua-le giudizio dei singoli letterati: chi valido e
come ed in che modo e forma e valenza?
E quindi quale patrimonio trasmettere? Ed il patrimonio da trasmettere è
poi l’elemento decisivo di tutta la futura formazione della coscienza
nazionale, su cui verrà poi ad articolarsi quel “Abbiamo fatto
l’Italia, si tratta di fare gli italiani “.
Il problema è decisivo per tutta la futura unità dell’intera
compagine nazionale, dei singoli e del loro identificarsi nel nuovo Stato, attraverso
appunto quel bilancio ove ciascuno riconosce tratti e mo-menti del suo percorso
e della sua tradizione. Il problema in Italia assume particolare importanza
proprio per la divisione in vari Stati e staterelli, ciascuno con una sua tradizione
culturale, problema che non si porrà per gli altri Stati europei. Il
bilancio è allora anche la comprensione di come cia-scuno vi ha contribuito,
di quale sia stato il contributo di ciascuna di queste realtà nel tempo
al pa-trimonio comune e quanto tratto specifico di quella realtà.
Il problema della lingua.
Quale lingua doveva essere parlata in Italia, visto che esistevano, come aveva
ben individuato già Machiavelli, cinque regioni linguistiche, con proprie
tradizioni, proprie grammatiche:
Lombardia, Romagna, Toscana, terra di Roma, Regno di Napoli.
Il problema della lingua, come il precedente e che con il precedente fa tutt’uno,
non è indifferente al più complessivo problema politico inerente
l’unità culturale, e quindi l’identità nazionale del
nuovo Stato italiano.
Il problema della lingua non è problema specifico di questo periodo storico.
Ma è il problema chia-ve attorno cui ruota l’intero campo della
letteratura e riguarda tutti i paesi. I letterati siano essi poeti o scrittori
è questo il problema che affrontano ed a cui danno, o propongono, soluzioni.
Nel 1200 viene affrontato da Dante con la “ Divina Commedia ” e
con il trattato “ De vulgari elo-quentia”. Nel 1200, nell’Italia
dei Comuni, si pone il problema di andare oltre la lingua latina, che era la
lingua della classe feudale e la classe borghese sente l’esigenza di una
sua lingua, che sia in grado di capire ed attraverso la quale esprimersi e trasmettere
i suoi valori.
Il processo della lingua volgare è un processo naturale, che si verifica
allorquando occorre stendere un contratto di compravendita, di matrimonio, ove
sono coinvolti o due borghesi o un borghese ed un nobile e dove il borghese,
ossia uno dei due attori, vuole essere garantito di quello che si scrive.
Quello che si scrive deve essere ben chiaramente inteso da lui. Le prime forme
ufficiali di volgare sono appunto questi contratti notarili. Successivamente
il problema si pone allorquando si tratta di stilare documenti dei Comuni e
dove sono i borghesi, presenti negli organi istituzionali del Comune e dove
nelle riunioni è il volgare che si parla ed in volgare vengono redatti
i proclami, affinché pos-sano essere intesi dai cittadini, ossia i borghesi.
Fin qui il volgare è riconosciuto come forma dialo-gativa tecnica, ma
senza alcuna autorità o dignità di lingua. Perché potesse
acquisire una tale dignità occorreva dimostrare che essa poteva essere
in grado di esprimere non solo atti notarili o atti del Comune, ma anche essere
in grado di produrre Letteratura, essere in grado di esprimere, cioè,
la complessità delle istanze ed esigenze degli uomini. Dante Alighieri,
espressione forte del Comune e quindi della borghesia, affronta questo problema
e con il trattato citato affronta la questione sul pia-no teorico e con la “
Comedia”, dimostra validità pratica di quanto argomentava in “
De vulgari”.
La forma più elementare è il verso, ossia la poetica, ma si trattava
di dare a tale verso una sua strut-tura, che non fosse la struttura del verso
latino, ma che affondasse le sue radici nella tradizione gre-co-latina e costituisse
al tempo stesso una soluzione nuova e più alta. Il problema della struttura
del verso era importante, giacché stabiliva sia la forma ed i modi nei
quali doveva avvenire questa e-spressività di pensiero e sia essere in
grado di gareggiare con la potenza espressiva latina, ed ancor di più
nel campo della poetica con il verso greco e la potenza lirica della lingua
greca.
La soluzione che Dante propone è allora – Dante vi giunge come
momento di sintesi di tutto un per-corso letterario, che aveva visto nella poetica
siciliana, che esprimeva tutta la poetica meridionale, e poi nel “ Dolce
Stil Novo”: Guido Cavalcanti, ecc. due momenti chiave, ma che vede coinvolte
e-sperienze di altre parti d’Italia, un altro momento era stato il menestrellismo,
ecc. – il verso che va
sotto il nome di “ endecasillabo”, ossia un verso composto da undici
sillabe. La sonorità è data dal-la cadenza degli accenti, che
cadendo sulla terza, sesta e decima sillaba ne danno la musicalità e
con la struttura della rima tra i vari versi veniva a costituirsi un legame.
Questo consentiva la costruzio-ne di una struttura poetica in dieci, cento,
o.. versi che avesse una sua struttura organica, che li co-stituisse come corpo
ed il cui legame era dato dal rapporto che legava i versi tra loro, ossia la
rima. In concreto noi possiamo avere che una composizione può avere una
struttura di quattro versi per volta: quartina, ove questi sono legati tra di
loro attraverso la struttura che il primo rima con il terzo verso, il secondo
con il quarto, oppure il primo con il quarto ed il secondo con il terzo
( ABAB, ABBA, ecc.). La struttura poetica latina, e maggiormente la greca, era
diversa, ma garan-tiva la sonorità, l’eleganza e potenza di quell’elaborato.
Questo problema attraverserà tutto lo sviluppo letterario: dalla formazione
dell’Accademia della Crusca, l’Accademia dei Lincei, al primo vocabolario
della lingua italiana del 1600.
Sul finire del 1700 il problema della lingua e di quale bilancio del patrimonio
letterario italiano co-stituiscono, come si è detto, i due temi cardini
attorno cui ruota tutto lo sviluppo del campo lettera-rio in Italia. Il problema
presentava una sua forte complessità per la storia stessa del Paese,
che era stato – e continuava a presentarsi – diviso in vari Stati
e staterelli, ciascuno con una sua autonomia statuale: il Regno delle Due Sicilie,
il regno temporale dei Papi, i vari Ducati, Venezia, che dopo il trattato di
Campoformio passa sotto il dominio austriaco, la Lombardia sotto il dominio
austriaco, il Piemonte, la Liguria e la Sardegna sotto il dominio della casa
Savoia, oltre a vari staterelli: Ducato di Parma e Piacenza, Granducato di Piacenza.
Questi due problemi sono al centro di tutta la riflessione di Leopardi ed alla
risoluzione di questi e-gli lavorò per tutta la vita, dove il versificare,
o scritti quale “ I Dialoghi”, ecc. costituiscono i mo-menti tecnici
di applicazioni di quelle teorie che Leopardi andava sostenendo, la dimostrazione
del-la percorribilità di quella strada. Ovviamente essendo poeti e scrittori
essi lo fanno nel modo che è loro consono, ma nell’analizzare il
loro operato è questa tematica chiave che occorre tener presente e capire
quali prospettive indicano.
Il problema della lingua: si trattava di stabilire le linee di sviluppo della
futura lingua italiana, giacché non basta indicare gli elementi di oggi,
ma quali sono i principi cardini attorno cui dovrà essere costruito tutto
lo sviluppo futuro della lingua; stabilire le leggi della grammatica, della
sintas-si, della retorica, ecc. E’ noto che una lingua evolve con il tempo
elaborando nuovi termini: quali sono allora le leggi grammaticali di questa
lingua, quale quelle sintattiche? L’Italia veniva da una grande tradizione
linguistica, che era quella greco-latina. I problemi della consecutio temporum,
della concordanza a senso e non a soggetto, l’allitterazione del verbo
e tutta la retorica , che era sta-ta sviluppata, partendo dalle figure retoriche
del patrimonio greco-latino.
In questo campo vengono delineandosi due schieramenti abbastanza netti:
da una parte: Manzoni, Tommaseo, Bellini e l’intera ala cavouriana;
dall’altra: Leopardi, Foscolo, il gabinetto Viesseux.
La prima, partendo in maniera strumentale, ma poi in definitiva dogmatica, piattamente
dogmatica dall’elaborato di Machiavelli, propone sic et simpliciter “
Il lavare i panni in Arno”, l’assunzione, cioè, del dialetto
toscano, quale lingua italiana, elezione cioè di questa parlata a lingua
nazionale, ponendo a base i lavori di Dante, Boccaccio e Petrarca. Veniva così
liquidato tutto il patrimonio re-stante italiano e dove gli stessi Dante, Boccaccio
e Petrarca – dove anche qui andrebbe sviluppata una differenziazione tra
i tre – così incementati venivano a perdere tutta la loro forza
ed imbalsama-ti, quali “ poeti”: E saranno i poeti delle rispettive
Dame: Dante di Beatrice, Boccaccio di Fiammet-ta, Petrarca di Laura.
La proposta che avanza Leopardi è quella di partire dalla tradizione
greco-latina e quindi che sia questa a costituire la base teorico-concettuale
della nuova lingua dello Stato unitario italiano che af-fondi e decisamente
le sue radici nella classicità greca e latina.
In sostegno di questa teoria egli cura un’antologia della letteratura
italiana in due tomi uno dedicato alla poetica ed uno alla prosa: “ Crestomazia
della Letteratura Italiana”.
Questo non bastava.
La struttura poetica a cui Dante Alighieri aveva dato inizio e quella in prosa
a cui Boccaccio aveva dato inizio, nel corso dei secoli aveva subìto
modifiche non sempre positive, per lo stato di dipen-denza dell’intero
Paese, quale riflesso delle più complessive vicissitudini italiane dal
1200 al 1800. Inoltre essa andava ulteriormente arricchita, in grado cioè
di rispondere alle nuove e più complesse esigenze di espressione. Si
trattava di dimostrare che affondando le proprie radici nella classicità
e-sistevano le basi e le possibilità di rispondere a tali nuove problematiche.
Il punto da cogliere è che con lo sviluppo del nuovo sistema di produzione
capitalistico, si andavano nel tempo intensificando i rapporti tra gli Stati
e regioni fino ad allora chiusi e quindi non solo un interscambio culturale
e linguistico, ma anche il sorgere con forza di formazione di parole nuove da
altri ceppi linguistici: francese ed inglese. E’ quello che in linguistica
va sotto il nome di “ barbari-smo”. Assieme a questo vi è
il problema della formazione e nascita di nuove parole: “ neologismo”.
Assieme a questo era evidente l’impatto dell’incontro delle varie
vulgate italiane a seconda dei vari Stati che prima o poi avrebbero costituito
l’unità nazionale.
La proposta teorica che Leopardi elabora nel campo della poetica è l’endecasillabo
sciolto, che egli trae, mutuandolo, dal poeta greco siculo del III secolo ac
Laertio Mosco.
I “ Canti” costituiscono allora questo verso nuovo: endecasillabo
sciolto, che viene messo alla pro-va, I temi tecnici di questi “ Canti”
saranno propri dei sentimenti, delle istanze proprie del singolo soggetto: Leopardi,
della sua concezione delle cose e del mondo. Ma questi costituiscono l’aspetto
tecnico, non quello fondamentale e decisivo. Il contributo di Leopardi da questo
punto di vista è importante giacché per la ‘ corruzione
dei costumi’, per usare un suo termine, si era assistito ad un involgarimento
della struttura rimata: in quartine, ottave con una rima stentata, ricercata,
tecnica; tanto che se ne potevano fare a dozzine seguendo gli schemi già
sperimentati dai classici e con una discreta conoscenza delle tecniche di versificazione.
Nello “ Zibaldone” Leopardi ferma molte volte questo elemento della
corruzione, questo riperpetuare stanco di temi ed argomenti classici, senza
più alcuna ‘ vis’ poetica, che Leopardi chiamava ‘
decadenza’. Leopardi rinnova allora profonda-mente la poetica, spezzando
quel legame tecnico, la rima come fino ad allora si era concepita e che aveva
finito per imbalsamare ed incementare la produzione letteraria, restituendogli
nuova vitalità, forza, dinamismo, ‘ vis’: l’endecasillabo
sciolto, appunto. Il verso non ha più una sua cadenza ritmi-ca interna
– terze, sesta, decima – e la rima tra i vari versi è liberata
dalla struttura rigida e soffocan-te ABAB, ABBA, ecc. La sonorità torna
all’interno del verso stesso, ripristinando, in un certo qual modo la
struttura e la dinamica del verso greco. Questo richiedeva una lingua molto
alta, elegante e potente. Questo spazzava via tutte le incrostazioni e le pigrizie
che si erano venute posando sulla lingua e sulla poetica italiana, che vengono
riconiugate in uno stretto nesso, superando quella di-stinzione, non separazione,
ma distinzione, che era stata operata sino ad allora. Una poetica di que-sto
tipo richiedeva di per sé che la lingua utilizzata fosse di per sé
sonora ed elegante, tale da inve-stire di tali prerogative il verso, liberato
dagli schemi rigidi della concordanza ritmica e dalla caden-za fissa degli accenti
sulle sillabe. Costituisce cioè un autentico capovolgimento di intendere
la let-teratura, l’arte e la lingua. Leopardi intuisce con grande acutezza,
che questa nel tempo sarebbe sta-ta la via che la poetica avrebbe dovuto prendere
e la prende con audacia. I tempi gli avrebbero dato ragione: la poetica moderna
si sarebbe mossa su una struttura sostanzialmente sciolta, ove l’organicità
interna è data da quello che quei versi esprimono e la lunghezza dei
versi è sciolta e l’organicità interna è data dalla
sonorità delle parole stesse utilizzate e dal contenuto di quella com-posizione.
Aveva saputo, cioè, guardare lontano Leopardi, Gli uomini giungeranno
spontaneamente con il tempo a quella struttura, che Leopardi prospetta, ma che
non passerà ai suoi tempi.
Il problema della lingua e del suo rapporto con la classicità era sentito
e sostenuto da tutta una folta schiera di intellettuali, che fondamentalmente
facevano capo al “ Gabinetto Viesseux”.
Ugo Foscolo, per esempio, nella poesia “ A Zacinto” nel formulare
una nuova parola “ non lacrima-ta” usa il termine “ illacrimata”:
qui è evidente che la negazione di un termine non avviene né con
l’alfa negativante, ma neppure con l’ “ in” negativante,
ossia “ inlacrimata”, qui la negazione av-viene raddoppiando la
consonante iniziale, la “ elle” di “ lacrimare”: lacrimare-illacrimare,
secondo la regola classica che la “ lampda” – la ‘ l’
greca – si nega raddoppiandosi.
L’altra proposta che era in campo era quella del Toscano, e meglio del
Fiorentino.
Questa posizione trova in Manzoni il massimo esponente, che attraverso “
I Promessi Sposi” cerca di dare dimostrazione di validità alla
sua scelta di “ sciacquare i panni in Arno”.
Manzoni, all’indomani dell’unità d’Italia, allorquando
si tratterà di stendere il primo vocabolario della lingua italiana, redatto
da Tommaseo e Bellini, scriverà una lettera ai redattori del nuovo vo-cabolario
ove esplicita chiaramente i suoi orientamenti teorici nel campo della linguistica.
Sarà questa la posizione che poi passerà, dentro il più
complessivo quadro politico entro cui si viene a risolvere il problema della
costituzione del mercato unico nazionale o unità d’Italia.
La proposta di Manzoni si basava sull’autorità di Machiavelli,
che nel suo scritto “ Sulla lingua” aveva posto il fiorentino come
lingua del futuro Stato nazionale.
Manzoni dogmaticamente non coglie lo spirito della proposta di Machiavelli,
corretta quando venne formulata, giacché si inquadrava dentro il più
generale quadro di una Italia unita sotto lo scettro dei De Medici e quindi
il fiorentino. La furia ideologica, oltreché l’incultura manzoniana,
non gli fa ve-dere che sebbene Machiavelli sostenga la centralità del
fiorentino, è egli per primo che fissa le dif-ferenze linguistiche in
Italia e traccia la suddivisione in cinque regioni culturali-linguistiche di
cui si è detto. Manzoni aveva bisogno di una ‘ auctoritas’,
che coprisse il vuoto della sua proposta teorica e prese di Machiavelli quello
che a lui più conveniva. I disastri della lingua italiana dopo la scelta
manzoniana-cavouriana si manifestarono sùbito proprio con quel Dizionario
Tommaseo-Bellini.
La scelta politica manzoniana va letta dentro il più complessivo quadro
entro cui avvenne l’unità d’Italia, ossia la costituzione
del mercato unico nazionale italiano: ossia un’alleanza tra la borghesia
lombardo-piemontese e la classe nobiliare-aristocratica. Il processo rivoluzionario
borghese in Italia si attua non sulle ceneri dell’ancient régime,
ma innestando sul vecchio troncone feudale i nuovi rapporti di produzione capitalistici
– questa via viene indicata dal marxismo come “ via prussiana al
capitalismo”.
La proposta manzoniana era quella che più si confaceva alle scelte della
casa sabauda, essa consen-tiva un abbassamento ed impoverimento dell’intero
patrimonio culturale italiano, fino ad abbassarlo all’incultura sabauda
e consentire a questa una egemonia: un’operazione avvenuta cioè
neppure al ribasso, bensì al livello della massima svendita e liquidazione
di tutto il possente patrimonio cultu-rale italiano. De Sanctis sarà
il controluce di Manzoni, nel senso che attraverso la sua “ Storia della
Letteratura Italiana”, ossia attraverso quel bilancio storico complessivo
del patrimonio letterario italiano, riuscirà a liquidare tutta la diversità
e potenza fino ad appiattirlo al poeta-amore-donna-poeta infelice-poesia d’amore,
che poi sono gli stereotipi della critica letteraria italiana e delle lette-rature
italiane che si sono poi scritte e su cui si sono formate le generazioni degli
italiani a venire.
Scompare così dalla Letteratura Ufficiale, di regime potremo dire, tutta
la cultura ed il patrimonio teorico, storico, letterario del Regno di Napoli,
scompare la poesia di opposizione: la maccheronea, scompare tutta la produzione
anticlericale, espressione dei movimenti ereticali e tutti questi arbitra-riamente
sussunti sotto il movimento di Francesco d’Assisi. Movimenti questi molto
forti nel perio-do 1000-1400, ma che non trovano nell’elaborato desanctiano
alcun posto, né alcuna menzione. La produzione di Pulci, chiaramente
polemica rispetto alle “ Stanze” del Poliziano, viene ridimensiona-ta
e quasi messa in ridicolo, ecc. Il Cinquecento viene letto dal suo lato peggiore:
quello aulico ed anazionale: Tasso, ecc. Il Seicento è il marinismo,
ma non c’è spazio per il movimento di opposi-zione, che costituisce
poi anche in termini quantitativi il momento maggiore, Bruno-Galilei-Campanella.
E non c’è posto per un grande oppositore del potere temporale dei
Papi: Pietro Gian-none, ecc. ecc. Una rielaborazione storica quella del De Sanctis
ad uso e consumo dell’incultura sa-voiarda: solo con una operazione di
questo genere, quella incultura poteva avere qualche speranza di presentarsi.
Non diversamente avverrà sul piano della ricomposizione della storia
d’Italia, ove momenti e fatti decisivi vengono semplicemente taciuti o
stravolti al punto tale da divenire tutt’altra cosa: un’agiografia,
un’operazione unicamente ideologica e dal profilo più basso: quello
che gli orizzonti e l’incultura savoiarda poteva consentire: il che è
tutto dire. Era anche il prodotto di quell’alleanza che condurrà
il Paese all’unità nazionale: tra una pavida borghesia industriale
ed una mentecatta borghesia agraria: il cui massimo rappresentante sarà
proprio ed esattamente Cavour, con la nobiltà terriera romana, emiliana
e meridionale.
Per una più esatta comprensione del processo di unità nazionale,
o formazione del mercato unica nazionale, rimandiamo ai lavori dell’Istituto.
Leopardi quindi deve essere ridotto al poeta infelice, affinché si cercasse
di far dimenticare tutta una complessità di pensiero e di elaborazione
che aveva cercato di portare alla comune lotta per l’unità nazionale.
Leopardi non è allora filologo insigne, una tra le massime genialità
in questo campo di tutti i tempi, che seppe avere un quadro di insieme, una
sintesi spregiudicata e di altissimo profilo, Leopardi è il poeta che
si piange Silvia, che si piange sempre qualcuno: il gobbo, il tubercolotico,
che soffre e piange e cerca un amore, il bacio della donna, ecc. e simili storie
da romanzo d’appendice. Ma poi, ed in verità, la cultura savoiarda
al di là del romanzo d’appendice non è mai saputa andare,
quelli sono i termini della sua comprensione del reale, giacché per questi
non bastano le centinaia di volumi studiati, se non vi è un retroterra
culturale, una tradizione culturale che i Sa-voia non hanno mai avuto, né
mai cercato.
Lo scienziato Leopardi è stato fatto diventare il poeta infelice, affinché
in questa trasfigurazione non fosse leggibile il suo contributo. Ecco perché
all’inizio abbiamo riportato quel passo dalla lette-ra al De Sinner.
Ma questo non è ancora tutto Leopardi, vi è
ancora tutta una complessità da districare, per comprendere appieno chi
è stato Leopardi e tutta la portata del suo progetto e gli insegnamenti
che vi sono contenuti. Senza la comprensione di questi diviene impossibile cogliere
l’importanza, qui ed ora, del suo elaborato, che torna con forza, con
prepotenza a riproporsi agli uomini, quasi a vendetta delle insulsaggini di
cui è stato ricoperto, proprio ed esattamente nel bicentenario della
sua nascita.
Se la scelta savoiarda-cavouriana è decisamente debole per quanto attiene
il campo che stiamo trat-tando, ma poi è debole anche nel più
complessivo quadro politico, economico, istituzionale;
se la scelta leopardiana era decisamente forte, ciononostante dietro tale proposta
vi era un progetto culturale di ben più ampio respiro e potenza, che
la borghesia italiana nascente non poteva comun-que accettare, avrebbe dovuto
mediarlo. Ma l’incultura savoiarda ed il ritardo con il quale giungeva
all’unità nazionale, quando Francia, Inghilterra, Usa, Belgio,
Olanda avevano già iniziato la sparti-zione delle colonie – e nella
fase di inizio di crisi del capitalismo e sua evoluzione verso l’Imperialismo
ed un proletariato che aveva ben segnato la sua presenza sulla scena della storia,
glielo impediscono, i limiti e gli orizzonti ristretti la conducono alla soluzione
più semplice; liquida-re il tutto e togliersi il pensiero.
Fissato lo scienziato Leopardi, in quanto sommo filologo che
l’umanità abbia mai generato e che una società basata sulla
proprietà privata non ha saputo valorizzare, ma poi non ha neppure sa-puto
imparare da lui, senza per questo doverlo citare, veniamo al progetto culturale
leopardiano, che sottintendeva poi quello linguistico letterario.
Leopardi è tutto dentro la sua classe nobiliare-feudale. Gli è
chiaro ormai la fine della sua classe ed il prevalere della classe antagonista:
la borghesia. Gli è chiaro che il suo mondo, i valori, le idee, le concezioni
di quel suo mondo aristocratico-nobiliare sono decrepiti e che non hanno alcuna
possibi-lità di sopravvivere. Gli è chiaro che la storia sta procedendo
a spazzar via tutto.
Egli non riesce ad immaginarsi un mondo diverso da quello del contado e della
nobiltà, un mondo basato sul vile commercio e la vile produzione a mezzo
merci; non riesce ad immaginare un mondo dove i rapporti tra gli uomini siano
diversi da quelli del rapporto tra il nobile feudale e la massa del contado.
Il pessimismo leopardiano nasce esattamente da qui, dal baratro che gli si para
dinanzi, dallo sconforto che quel mondo oramai non ha più alcun futuro
e che non durerà che qualche de-cennio e la cui durata è affidata
oramai alla punta delle baionette e dei cannoni della reazione au-stro-ungarica.
Il pessimismo leopardiano porta con sé queste stimmate, anche se esprime
una com-plessità ben più profonda, che in seguito accenneremo.
Mentre il padre Monaldo è un ottuso reazionario. che si oppone tout court
e lo fa anche in modo molto infantile: con lettere che se alternati i righi
nella lettura significa altre cose, ove in questo mo-do sono celate ingiurie
ai napoleonici, il figlio Giacomo cerca una via d’uscita per la sua classe.
L’atteggiamento di Monaldo porta all’impatto frontale e quindi alla
liquidazione tout court, dati non solo i rapporti di forza ma anche le linee
di sviluppo tendenziali, la linea strategica che elabora Leo-pardi porta ad
un intercettare la borghesia come classe.
Questo il centro della scontro generazionale che vedrà opposto Monaldo
a Leopardi. Uno scontro non dissimile sarà quello tratteggiato da Tommaso
di Lampedusa nel suo “ Gattopardo”.
Il progetto di Leopardi, in sintesi, e schematizzando, in sostanza è
questo:
consegnare alla sua classe un’egemonia culturale, tale da continuare a
vivere sul piano teorico-culturale, lasciando alla nuova classe emergente la
gestione dei vili affari del commercio e della produzione. Una scelta tutta
tagliata sulla classicità, significava consegnare per un lungo periodo
di tempo il primato a quella classe che più e meglio era stata educata
a quella classicità, e che più e meglio in quella classicità
si riconosceva ed attraverso questa classicità riproporre e riciclare
quei valori della società nobiliare-aristocratica, ossia alla sua classe.
E’ questo più complessivo progetto che trova opposizione e che
sarà contrastato: ma la piccineria cavouriana-sabauda finirà per
buttare via il bambino con l’acqua sporca. Questa pavida borghesia italiana
mostrerà già da qui tutta la sua piccineria, che la porterà
ad una visione schematica, dogmatica insulsamente e fastidiosamente au-toritaria,
non riuscendo e non sapendo vivere con la complessità, ove tutto si riduce
al bancone dove vende le sue chincaglierie, al banco di lavoro dove si fanno
i pezzi ed al bancone dove si vendono i pezzi prodotti.
Leopardi non si distaccherà mai dalla sua classe, le critiche se pur
feroci sono tutte rivolte al mondo che sta per sorgere, nel quale lui non si
riconosce ed al quale non riconosce alcuna validità etica, e-stetica,
letteraria, civile: ma solo quella di commerciare con il vile denaro e di trattare
con gli ancora maggiori vili proletari, che è poi la mentalità
e la visione delle cose e dei ruoli che la nobiltà aristo-cratica aveva
e costituiva la sua coscienza dei processi. Tutto il ragionamento sui costumi
corrotti, sull’arte dei moderni contro quella spontanea degli antichi
è il negare alla borghesia di poter avere un’arte con una sia vis
ed originalità. Tutto il ragionamento che egli fa sui periodi della letteratura
ove distingue il Due-Trecento come validi, il Quattrocento come ininfluente,
il Cinquecento come ripresa delle tematiche due-trecentesche la dice tutta sulla
lettura di classe e la posizione di classe di Leopardi. Una disamina pur superficiale
mostra come quello che Leopardi accetta sono quelle for-me dove c’è
una presenza ancora forte dell’aristocrazia nobiliare nel Due-Trecento
in quanto inizio di un processo ove la separazione non è netta e vi sono
elementi della sua classe che confluiscono in quel processo e come tale vi portano
istanze, momenti, della loro cultura che Leopardi sa ben rico-noscere e riconoscersi
ed il Cinquecento dove in Italia, a differenza del resto d’Europa –
come an-nota giustamente Antonio Gramsci – avrà caratteri involutivi,
ma non riconoscerà valenza alcuna proprio ed esattamente a quel Quattrocento,
che specie nella prima metà si era caratterizzato come impegno politico
nel campo letterario: Valla, Bracciolini, ecc.: ossia proprio il Quattrocento
ove la classe borghese traccia le linee della sua autonomia teorica e teorico-ideologica,
si sviluppa e con-solida il suo sistema di potere.
Tutta la sua critica al mondo è la critica al nascente mondo borghese.
La sua critica è perfettamente in linea con la più generale critica
che in quel periodo veniva sviluppata al mondo borghese da in-tellettuali della
classe nobiliare-feudale, che per screditare il nascente mondo borghese ne coglieva
con acutezza limiti e contraddizioni. A questo movimento culturale che va sotto
il nome di “ socia-lismo feudale”, può essere ricondotta
tutta la critica al mondo contemporaneo di Leopardi. Esiste però una
differenza di qualità tra questo movimento e Leopardi, mentre quel movimento
si muove in maniera goffa e ridicola , in Leopardi c’è profondità
di pensiero ed intelligenza, capace di elabo-rare un progetto culturale di lungo
respiro, basato sull’egemonia culturale, che aveva alla base pro-cessi
oggettivi. La storia d’Italia fino alla metà del 1900 ha visto
proprio ed esattamente questa e-gemonia culturale, intercalata ed intersecantesi
con quella borghese, ma egemone del tutto sul piano ed il terreno delle scienze
umaniste ( Latino, Greco, Letteratura, Storia e Filosofia ): il desanctismo
prima ed il crocianesimo poi, liquidati all’indomani della 2a guerra mondiale
con il fordismo ed i modelli produttivi e quindi culturali statunitensi. Questo
processo è avvenuto in forme e modi di-versi, che hanno consentito alla
borghesia di rimangiare spazi a tale egemonia fino ad esautorarla. In una prima
fase aveva riservato a sé la competenza nei settori nei settori tecnico-scientifici
e quin-di di tutto un personale tecnico-scientifico .
Il pessimismo leopardiano è allora sia questa coscienza della fine del
proprio mondo ed il non rico-noscersi ed identificarsi nel nascente mondo borghese,
nei suoi valori e miti e sia critica del nascen-te mondo borghese, ove con acutezza
ne coglie contraddizioni e limiti, ma sempre dentro i confini della fine della
sua classe: la nobiliare-aristocratica.
Occorre comprendere che quando si ha a che fare con giganti
del pensiero della caratura di Le-opardi, essi sono portatori di grande esperienza
e di grandi insegnamenti al di là del ruolo di classe che essi vengono
oggettivamente a ricoprire. Essi sono sempre il risultato di un combinarsi fortuna-tissimo
di eventi, che difficilmente si possono ripresentare, per cui quando si verificano
occorre im-parare da loro e tirarvi tutto quanto essi sono in grado di insegnarci
ed indubbiamente Leopardi è un gigante di questa caratura.
I problemi politici contingenti che hanno agito da freno, deviazione e mistificazione
del pro-getto leopardiano sono ormai lontani, non sussistendo più le
benché minime condizioni per quello.
Ma le nuove condizioni, se non sostanziano il progetto politico-culturale leopardiano,
rilanciano e pongono decisamente al centro l’essenza della problematica
elaborata da Leopardi.
Torna in tutta la sua vis dirompente tutta la tematica della lingua e –
fatte salve le questioni politiche – noi abbiamo sotto gli occhi i disastri
paurosi che la scelta manzoniana ha comportato: un impove-rimento della lingua,
in una la sua incapacità di rinnovarsi, stretta tra barbarismi e neologismi,
inca-pace di elaborare una risposta teoricamente corretta, finendo così
o nel ridicolo del minculpop fasci-sta: obbligo per legge di usare parole italiane
e di italianizzare quelle straniere con risultati ridicoli o il più insulso
scimmiottamento di lingue e slang.
Il problema ritorna oggi con il processo in atto dell’Europa.
E’ indubbio che al di là degli aspetti politici che possono spingere
vari paesi imperialisti europei ad unirsi, la tendenza all’unificazione
dei popoli europei è più grande dei momenti contingenti dell’attuale
classe dirigente.
Nel tempo il problema di quale lingua debba essere la lingua degli europei è
un problema che prima o poi si porrà e dovrà essere risolto. Ora
a noi non interessano soluzioni interlingue del tipo espe-rando, ecc., né
stare adesso a stabilire se questa o quella lingua ‘ nazionale’
dovrà avere il soprav-vento: Ora anche considerando questa eventualità,
è indifferente per noi quale di essa sarà, certa-mente essa dopo
i primi decenni non sarà quella iniziale, giacché assorbirà
tematiche, tecniche e-spressive, regole grammaticali, ecc. delle altre provincie
del nuovo Stato Europeo, per cui alla fine sarà la risultante di queste,
anche se la forma espressiva sarà quella lingua, giacché dovrà
mediare con le tradizioni culturali, i gusti di quelle specifiche realtà.
La lingua cioè non si può istituzionaliz-zare per decreto legge,
essa vive con l’uomo ed in quanto espressione di un movimento oggettivo,
occorre riconoscerne l’oggettività ed il movimento oggettivo ed
agire consequenzialmente.
L’esperienza italiana del periodo 1860-1998 è lì a dimostrare
tutta l’infondatezza di stabilire per re-gio decreto la lingua degli uomini.
E l’esperienza italiana torna all’Europa di grande utilità,
essendo l’Italia l’unico Paese ad avere avuto una situazione similare
a quella che l’Europa si trova oggi di-nanzi: dover unificare regioni
che per secoli hanno avuto una loro vita statuale, amministrativa, giu-ridica,
sociale, culturale, civile, di costume diversissimi ed a volte in lotta anche
aperta tra di loro, che hanno agito da innalzamento di barriere artificiose
o reali che siano, ma che ora occorre che s’inneschi un processo di dissolvimento.
In questo contesto torna allora in tutta la sua centralità metodologica
le riflessioni e l’impianto teo-rico di affrontare la tematica della lingua
che Leopardi ha elaborato per metodo ed impianto di studi e taglio della problematica.
Ovviamente non si tratta di ripercorrere quelle soluzioni, ma abbiamo a disposizione
questo importante patrimonio, che viene lasciato dal più grande filologo
di tutti i tem-pi: Giacomo Leopardi.
I problemi che l’Europa, circa il problema della lingua, ha dinanzi sono
tutti già davanti a noi, essi sono stati con acutezza d’ingegno
analizzati ed indagati da Leopardi: un patrimonio di grande ric-chezza, che
non andrà certamente sprecato ed a cui gli uomini dovranno ritornare,
per affrontare i problemi concreti del III Millennio.
L’esperienza italiana insegna tutta la vacuità di non tener conto
di questo elaborato, narra dei disa-stri linguistici per aver voluto ottusamente
riporre nel cassetto quanto gli studi di Leopardi ci conse-gnavano e ci continuano
a consegnare. Essi sono lì e sembra quasi di riascoltare il sorriso beffardo
di Leopardi, che immobile rimira cosa gli uomini di oggi faranno, se vinti dalla
necessità delle cose, vorranno fare i conti con lui, o se vorranno insistere
sulla strada che fu dell’Italia savoiarda.
I problemi sono lì, tutti lì.
Entra così nell’Europa dei popoli lo Scienziato Leopardi, lasciandosi
dietro le insulsaggini che per
duecento anni lo hanno accompagnato e torna così in tutta la sua forza
quel monito della lettera al De Sinner: fare i conti con il suo ragionamento
e le sue argomentazioni