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Premessa: Teoria
Il concetto di crisi nella teoria marxista
La crisi agraria.
La Crisi del 1929
Le origini,
la Rivoluzione d’Ottobre,
Il capitalismo dopo la pace di Versailles,
I Balcani, gli Usa e la crisi agraria,
Il crollo di Wall Street.
Ottobre. 2001
Premessa: La Teoria
Il concetto di crisi nella teoria di Marx-Engels-Lenin.
Innanzitutto quando si parla di crisi nella terminologia marxista si intende
sempre la crisi di sovrapproduzione: ossia la produzione di una massa di merci
che resta invenduta.
Ed è l’invenduto di questa massa di merci prodotta che determina
la crisi.
Quindi, per fissare il primo concetto: crisi di sovrapproduzione.
La fase attuale di sviluppo del capitalismo è la fase dell’Imperialismo.
Nella teoria economica marxista occorre distinguere due tipi, due forme, di
crisi:
/* crisi economica di sovrapproduzione ciclica,
/** crisi economica di sovrapproduzione congiunturale, o di sistema.
La crisi economica ciclica che è quella che noi conosciamo abitualmente.
Essa investe singoli settori o l’insieme di settori, che ovviamente si
ripercuote con influenze di vario grado sull’intero sistema. Determina
lo sviluppo ineguale del capitalismo tra i vari Stati nazionale, trai vari settori
ed all’interno dei singoli settori, spinge alla concorrenza, all’innovazione
tecnologica, spinge infine al rivoluzionamento dei mezzi di produzione.
La crisi economica congiunturale, o di sistema, è quando la crisi ciclica
si estende a quasi tutti i settori della produzione e si coniuga con la crisi
agraria.
La crisi agraria determina il blocco della riproduzione capitalista allargata,
gettando così l’intero sistema in crisi, bloccandone tutti i meccanismi
di ripresa. Con la crisi agraria vengono, cioè, meno tutte le condizioni
per la riproduzione capitalistica allargata. Il sistema si blocca.
Nella riproduzione capitalistica allargata –– vanno distinti due
settori:
il I settore, che è il settore della produzione dei mezzi di produzione,
il II settore, che è il settore della produzione dei beni di consumo.
Il settore agrario investe principalmente la produzione delle materie prime:
il secondo settore ac-quista dal primo e rivende al primo. Quindi l’intero
sistema è messo in movimento dal primo settore che anticipa il capitale
per la produzione dei mezzi di produzione utili per il secondo settore.
Quando la crisi investe anche il settore agrario – Madame la Terre –
il sistema non è più in grado di attuare la riproduzione allargata.
Muoiono qui tutte le teorie e le dotte disquisizioni degli anni Sessanta-Settanta-Ottanta
e No-vanta sulla crisi, bla, bla, bla…
Esse confondevano due tipi diversi e distinti di crisi.
Un rapida incursione all’oggi.
Tutti gli sviluppi della Genetica, della manipolazione genetica, delle biotecnologie
costituisco-no il disperato tentativo del sistema capitalistico di scongiurare,
o quanto meno allontanare la crisi agraria, sfalsandone i tempi e non farla
incontrare con la crisi degli altri settori.
Quella rapida e forsennata introduzione delle innovazioni, che ha poi così,
e tanto, affascinato tanti nostri quadri, non era che l’indice netto,
inappellabile, della grave crisi incipiente e di come ciascun settore e gruppo
monopolistico, accelerandone il corso, cercava disperatamente di portare a casa
un surplus in grado di consentirgli una migliore pool position. Così
facendo bruciava letteralmente il settore della Genetica e delle biotecnologie,
esaurendoli rapidamente, e così facendo accelerando la crisi e spingendo
forsennatamente il sistema verso la più grave crisi agraria del XX secolo.
Gli apologeti vi hanno letto l’apoteosi del capitalismo: è normale.
Gruppi e formazioni varie partecipavano alle dotte disquisizioni.
Ma i nostri quadri… …!!
La crisi agraria.
Le crisi capitalistiche di sovrapproduzione generano inevitabilmente una sovrapproduzione
agricola parziale o generale nell’agricoltura.
Le crisi di sovrapproduzione agricola si chiamano crisi agrarie. Esse sono determinate
dalle stesse leggi generali del capitalismo, che stanno alla base delle crisi
industriali.
Tuttavia, queste crisi comportano certi tratti particolari: rispetto alle crisi
industriali durano gene-ralmente più a lungo.
La lunga durata delle crisi agrarie si spiega con le seguenti cause principali:
In primo luogo i proprietari fondiari a causa del monopolio della proprietà
privata della terra, anche durante le crisi agrarie, obbligano i fattori a pagare
lo stesso canne contrattuale che pagavano pri-ma della crisi. Con la diminuzione
dei prezzi delle derrate agricole, la rendita fondiaria viene paga-ta a scapito
die salari degli operai agricoli ed anche dei profitti, talvolta anche del capitale
avanzato dai fattori. In tali condizioni diviene molto difficile uscire dalla
crisi mediante l’introduzione di mac-chinari modernizzati e la riduzione
delle spese di produzione.
In secondo luogo, in regime capitalistico, l’agricoltura è una
branca ritardataria in rapporto all’industria. fanno da ostacolo al libero
afflusso di capitale nell’agricoltura, ritardando lo sviluppo delle forze
produttive, la proprietà privata della terra, le sopravvivenze dei rapporti
feudali, la ne-cessità di pagare ai proprietari terrieri una rendita
assoluta e differenziale. la composizione organi-ca del capitale nell’agricoltura
è inferiore a quella dell’industria, il capitale fisso, il cui
massiccio rin-novo costituisce la base materiale della periodicità delle
crisi industriali, esercita nell’agricoltura un ruolo molto meno importante
che nell’industria.
In terzo luogo, nel corso delle crisi, i piccoli produttori, i contadini, mediante
un lavoro eccessivo, la sottoalimentazione, lo sfruttamento forsennato del suolo
e del bestiame, cercano di conservare il volume precedente della produzione
per restare a qualsiasi costo sui fazzoletti di terra di cui sono proprietari
o che hanno in affitto. Tutto ciò provoca l’ulteriore aumento della
sovrapproduzione dei prodotti agricoli.
Quindi, la lunga durata delle crisi agrarie ha per base generale il monopolio
della proprietà privata della terra, le sopravvivenze feudali che vi
si collegano, nonché i ritardi dell’agricoltura nei paesi capitalistici.
Origini e Formazione della Crisi.
La prima guerra mondiale e la Rivoluzione d’Ottobre
Già la prima guerra mondiale, 1g.m., per le modalità
di svolgimento e per la brusca chiusura non era stata in grado di agire fino
in fondo da valvola di sfogo della crisi capitalistica, che aveva determinato
lo scoppio della prima “ carneficina mondiale”.
Le modalità di svolgimento non comportarono quella massa di distruzione
dei mezzi di produzione in grado di alleggerire il sistema dalla crisi di sovrapproduzione
e far ripartire da capo il sistema stesso ed il processo di concentrazione monopolistico
non trasversalizzò i blocchi in guerra, per cui alla fine si risolse
unicamente nell’esaurimento di Londra quale centro mondiale del capitalismo,
e che richiese l’intero periodo 1921-1939, ove la crisi del 1929 è
nodo di svincolo decisivo.
La 1g.m. giunse ad una brusca conclusione imposta dalla Rivoluzione d’Ottobre,
il sistema deve parare le brutte falle che si stanno aprendo in Germania e nei
Balcani e la borghesia imperiali-sta tedesca preferisce por termine alla guerra
per far fronte comune con la restante canea mondiale capitalista contro la rivoluzione
socialista, che la minacciava dall’interno. Consegnava così il
prole-tariato ed il popolo tedesco alla feroce canea imperialista e consegnava
se stessa alla ‘ comprensio-ne e solidarietà imperialista’.
La Germania se non aveva più sostanziali speranze di volgere a sé
l’esito della guerra, era però an-cora in grado di continuare la
guerra e le altre potenze belligeranti non avevano più grandi riserve
per continuarla dovendo anch’esse cominciare a fare i conti con una forte
opposizione interna, risul-tando oramai esaurite le carte della socialdemocrazia
e delle promesse riformatrici.
Questo determina che proprio quando la guerra era sul punto di poter esplicare
la sua funzione posi-tiva per il sistema capitalistico: quella trasversalizzazione
della concentrazione monopolistica, esau-rimento delle scorte e transizione
ad un nuovo centro mondiale del capitalismo, si interrompe bru-scamente. In
effetti sino a quel momento essa si era espressa in una grande guerra di logoramento,
senza alcun vero sfondamento ed assalto in massa con distruzione massiccia di
risorse e sottomis-sione di forze e territori. E resta infatti il logoramento
di tutte le forze belligeranti, ma non lo sfon-damento.
Minacciosa incombe la Rivoluzione d’Ottobre.
Nel 1919 si ha già la prima crisi ciclica, che riesce ad essere attutita
dalla guerra contro l’U.R.S.S.:
aggressione di 14 paesi imperialisti, ma non appena questa cessa nel 1921 una
nuova crisi nel 1922 straccia il mondo capitalistico. La ripresa economica,
la transizione da una economia di guerra ad una di pace richiedeva una concentrazione
di sforzi, che invece devono essere dispersi per contene-re l’offensiva
del proletariato e la necessità di avviare politiche socialdemocratiche
in grado di agire da raffreddamento alle tensioni sociali. Richiedeva uno sviluppo
delle forze produttive, l’introduzione massiccia di nuovi metodi di produzione:
il fordismo, lo sviluppo della ricerca scien-tifica per avviare nuovi processi
produttivi. Questo avverrà nel corso degli anni venti e trenta ma con
tempi decisamente lenti: elettrificazione e nuove forme di produzione dell’energia
elettrica e sviluppo della produzione di elettrodomestici, sviluppo della telefonia,
della chimica di base.
La Rivoluzione d’Ottobre, ossia la sottrazione del vasto territorio della
Russia zarista al mercato ca-pitalistico mondiale, come mercato di sbocco e
fonte di materie prime, agisce da forte condiziona-mento sia della crisi ciclica
che della lotta interimperialistica ed esaspera tutte le contraddizioni del
sistema capitalistico mondiale.
Inoltre nella Russia zarista avevano investito grandi gruppi finanziari inglesi
e francesi ed america-ni, che vedono così volatilizzare i loro investimenti
speculativi e di rapina delle materie prime e di estorsione di profitto dai
popoli della Russia zarista.
Infine la Russia zarista si trovava, partire dal 1700, ad assolvere ad un ruolo
nel più complessivo equilibrio europeo: rintuzzare ed ostacolare la spinta
germanica sui Balcani ed agire da raffredda-mento dei conflitti nella periferia
balcanico-asiatica da parte dei popoli euro-asiatici.
L’U.R.S.S. e la III Internazionale agiscono, invece, da sostegno alle
lotte ed alle aspirazioni di que-sti popoli, finendo per trascinare alla lotta
antimperialista le sicure retrovie dell’imperialismo bri-tannico: Turchia,
Egitto, India, Cina. Costringe così l’imperialismo in generale
e quello britannico in modo patibolare a fare concessioni, contraendo così
la base di manovra per la risoluzione della crisi ed esaspera le contraddizioni
interimperialiste.
Inoltre la necessità di arginare assolutamente la Rivoluzione d’Ottobre
e costruire attorno una rigida cortina di ferro delinea tutto lo sviluppo dei
trattati di pace e l’intero ridisegno dell’Europa centrale Balcanica,
determinata dal crollo dell’impero Austro-Ungarico.
I confini di Albania, Polonia, Romania, Ungheria, Jugoslavia e delle regione
russe cedute con la pa-ce di Brest-Litovsk sono ispirati esattamente da questa
esigenze. E le varie cricche nazionalistiche insediate in questi paesi sfruttano
tale necessità, ossia la presenza dell’U.R.S.S., per alzare il
prezzo della contrattazione, lanciandosi in politiche espansionistiche ciascuna
a danno delle altre, determi-nando una situazione di grande instabilità
politica nei Balcani.
Quindi non solo viene sottratto al mercato imperialista un’area strategica,
ma veniva meno anche il ruolo di cane da guardia della Russia zarista ed inoltre
quella stessa Russia adesso agiva in quanto U.R.S.S. da stimolo e non più
da controllo e repressione della vasta area eurasiatica.
E così il sistema si imbalsama, si irrigidisce e si sfianca in una estenuante
guerra tra Francia ed In-ghilterra, Francia e Germania, Inghilterra ed Usa,
Francia ed Usa, in una estenuante lotta interimpe-rialista che vede impegnate
Francia, Germania, Inghilterra, Usa, per l’egemonia in Europa e l’Italia
per quanto riguarda i Balcani: Albania, Jugoslavia, Romania.
I Balcani e la crisi agraria
Gli Stati Uniti d’America, la crisi agraria e la crisi generale.
Si tratta innanzitutto di comprendere il sistema generale di produzione capitalistico,
i rapporti e le interdipendenze che si sono storicamente venute a costruire
tra le varie aree geografiche del mondo e quindi il rapporto che salda l’Europa
occidentale, l’Europa centrale e balcanica, gli Stati Uniti d’America.
Il sistema viene così a configurarsi, volendo rappresentare con un modello,
come un grosso ingranaggio con l’Europa occidentale e l’Europa centrale
e balcanica [ e le colonie ] come due rotelle laterali e gli Stati Uniti d’America
come rotella centrale.
Gli Stati Uniti d’America infatti sono sia produttori di materie prime
e sia produttori di manufatti, mentre l’Europa occidentale è sostanzialmente
produttrice di manufatti e dipendente per il volume della sua produzione dai
paesi produttori di materie prime, mentre l’area balcanica e le colonie
sono dipendenti per i manufatti.
L’attenzione va quindi fermata su i Balcani e gli Stati Uniti d’America.
I Balcani.
Storicamente i Balcani costituiscono la fonte delle materie prime dell’intero
processo capitali-stico. esiste cioè un rapporto storico, e quindi oggettivo,
che salda l’Europa occidentale ai Balcani.
Nel corso del 1600 si viene a configurare e stabilizzare questo rapporto di
interdipendenza, che si coniuga con quello che si viene a delineare con i paesi
coloniali.
Allo slancio del capitalismo mercantile, all’espansione dell’economia
urbana ed all’avvio verso l’ammodernamento dell’apparato produttivo
in una parte dell’Occidente, corrisponde, in larghe zo-ne dell’Europa
orientale, la ripresa delle forme più tipiche di organizzazione feudale
e dell’istituto medievale della servitù della gleba. L’aumento
della richiesta di materie prime – soprattutto grano e legname per le
costruzioni navali – da parte dei paesi occidentali fu un forte incentivo
per l’economia dei paesi che si affacciavano sul Baltico; ma le accresciute
possibilità commerciali sti-molarono in quei paesi una intensificazione
dello sfruttamento delle masse contadine da parte dei grandi proprietari.
La Polonia fu il centro del movimento di restaurazione della servitù
della gleba, che toccò an-che la Danimarca, la Russia, i territori della
Germania orientale e, in misura minore la Svezia e cen-tro della controffensiva
cattolica.
Tutta l’Europa orientale nei secoli XVI e XVII è investita dal
fenomeno dell’imposizione e del ripristino della servitù della
gleba. La spinta principale derivò dall’inserimento delle aree
cerealico-le orientali nel sistema economico capitalistico europeo con la connessa
divisione internazionale del lavoro. Gli alti prezzi dei cereali e la forte
domanda dei paesi occidentali, spinse i signori ad esten-dere le loro proprietà
ed a produrre per l’esportazione, utilizzando la loro forza politica per
imporre ai contadini il lavoro coatto.
L’aggravamento del servaggio contadino è direttamente proporzionale
allo sviluppo del commercio estero. I contadini erano sì espropriati
delle loro terre ma ciò non costituiva il presupposto per uno
sviluppo interno del capitalismo, non si aveva un’accumulazione originaria
dato che la forza lavoro non veniva ‘ liberata’, ma fissata rigidamente
alla terra ( neoservaggio); lo sviluppo industriale era in questo modo reso
impossibile. L’estrazione di surplus contadino era tale che impediva la
forma-zione del mercato interno. Le politiche delle classi dirigenti antimercantilistiche
sottoponeva le ma-nifatture locali alla concorrenza dei prodotti esteri.
Questo consentiva lo scambio tra le due aree e l’asservimento della balcanica
all’occidentale, con-sentiva quella forbice tra prezzi agricoli e prezzi
industriali: in questo modo si veniva a costruire la divisione internazionale
del lavoro, che consentiva all’occidente europeo un surplus, fondamentale
per l’accumulazione originaria e per la riproduzione allargata, ma fissava
inesorabilmente la dipen-denza dell’area balcanica dall’occidente
europeo.
La disponibilità di lavoro servile scoraggiava l’introduzione di
miglioramenti nelle coltivazioni.
La vittoria del ‘feudalesimo’ ad est dell’Elba è un
aspetto dell’accumulazione originaria in at-to nei paesi di punta dell’Europa
e coinvolgente zone lontanissime tra di loro.
Dal punto di vista del modello economico la piantagione brasiliana, e più
generale l’economia dei paesi coloniali, non era fondamentalmente diversa
dalla riserva signorile polacca dei tempi della servitù. Sebbene agli
antipodi i due paesi svolgevano un ruolo simile nella geografia economica del
mondo. In funzione diversa tutta la tratta degli schiavi, che assolve al ruolo
di fornire la manodope-ra, venendosi qui a delineare quel rapporto tra aree
del capitalismo e riserva di manodopera, che ca-ratterizzerà l’intero
sviluppo capitalistico: e che noi oggi viviamo nella forma più esasperata
degli immigrati. L’area balcanica va, allora, coniugata con l’area
americano-latina ed africana e con la tratta degli schiavi e con la politica
mercantilistica anglo-olandese.
Gli Stati Uniti d’America per la vastità e ricchezza del loro territorio
sono grandi possessori di materie e produttori di prodotti agrari: sia alimentari
che estrattivi. Fin quando il ruolo nell’economia mondiale era secondario,
prevalendo un sistema produttivo che aveva al centro Lon-dra e le colonie inglesi,
la crisi che si originava qui aveva un impatto minore sull’intero mondo
ca-pitalistico, ma da quando è divenuto il centro del sistema capitalistico
mondiale, unificando in sé anche il sistema finanziario una crisi che
si origina qui si estende ad onda su tutto il sistema capita-listico mondiale.
Con la fine della 1a guerra mondiale gli Stati Uniti d’America assumono
questo ruolo e gli anni 1919-1934 sono l’affermazione e ratifica di questo
ruolo. I 14 punti di Wilson trac-ciano in maniera netta le linee guida dell’azione
statunitense tendente ad affermare e legittimare tale ruolo e sui quali si confermerà
l’intera azione politica, economica, finanziaria, diplomatica per tutto
il periodo 1919-1934.Questa particolare situazione che caratterizza gli Stati
Uniti d’America ne fa appunto la rotella centrale del più complessivo
sistema produttivo capitalistica a partire dalla fine della 1a guerra mondiale.
L’Agricoltura negli Anni Venti
Sul piano dell’economia la 1a guerra mondiale comportò due sviluppi
principali.
In primo luogo i sommovimenti nel settore agricolo per i paesi belligeranti
comportò l’abolizione dei dazi doganali, per avere accesso ai prodotti
esteri meno costosi. La produzione di cereali e di carne nelle regioni fertili
degli Stati Uniti, del Canada e dell’Argentina aumentò per sfruttare
la crescente domanda dei paesi europei. Questo significa che per sovvenire alla
crescente domanda venivano messe a cultura terreni a redditività inferiore
e intensificati gli allevamenti. Ces-sata la guerra vi fu un arresto improvviso
di questa domanda con la relativa caduta dei prezzi e della produzione ed infine
la recessione.
Inoltre molti paesi per far fronte alla domanda interna ed alle difficoltà
di rifornimento svilupparono colture e produzione alternative o surrogate, determinando
così uno sviluppo della Chimica, con conseguenziale crescita di prodotti
alternativi e di opportunità offerte dalla guerra - nei paesi terzi –
del sostituirsi di prodotti interni a quelli di importazione ed ai concorrenti
extraeuropei.
Verso la metà degli anni Venti, i produttori agricoli furono colpiti
da prezzi calanti, in partico-lare per il grano e lo zucchero ed i sintomi di
una minaccia di recessione si fecero sentire in Germa-nia dal 1928. L’anno
seguente vide l’inizio di una serie di episodio di panico e di fallimenti
bancari in Europa che culminarono nel 1931.
In Europa c’erano più di 70milioni di uomini e donne che dipendevano
dall’agricoltura per vi-vere. Negli anni immediatamente successivi alla
prima guerra mondiale essi godettero di un fugge-vole periodo di prosperità
i prezzi aumentavano ed il prodotto tornava a crescere. Tuttavia una crisi si
verificò ne 1920 quando il boom del dopoguerra venne a cessare e per
la grande maggioranza de-gli agricoltori europei il resto del decennio fu caratterizzato
da crescenti difficoltà e da condizioni sempre peggiori. La causa di
fondo fu l’eccesso di offerta di alimentari sui mercati mondiali, deter-minato
dalla continua espansione delle terre coltivate al di fuori dell’Europa,
in paesi in grado di produrre cereali ed altri prodotti a costi molto inferiori.
La tendenza al ribasso dei prezzi fu interrot-ta per un breve periodo dai cattivi
raccolti, attorno alla metà degli anni Venti, ma poi riprese aggra-vandosi.
Il crollo finale venne con rapidità spaventosa nel 1930 e nel 1931. In
Europa le due merci più gravemente colpite furono il grano e lo zucchero.,
entrambi particolarmente importanti come fonte di valuta estera.
Nel periodo di alti prezzi erano stati messi a coltura terreni meno produttivi
con un investimento di capitali maggiore, ma compensati dall’alto prezzo
e quindi da un soddisfacente profitto. Erano stati quindi rastrellati capitali
sul mercato finanziario tramite prestiti, le banche si erano lanciate in que-sta
nuova situazione che si veniva a creare, spinte dalla necessità di trovare
impiego produttivo e redditizio alla liquidità inoperosa. Siamo qui in
piena teoria marxiana della rendita agraria diffe-renziale, “ Il Capitale”,
vol. 3°.
Ma non appena i prezzi iniziano a cadere quelle ultime terre messe a coltura
non rendono più, ma diviene adesso impossibile smobilitare tutto ed una
massa monetaria e di macchinari si trova così inchiodata, maledettamente
fissata, mentre le banche bussano per i ratei del prestito fatto.
Le insolvenze prima o poi trascineranno le banche in difficoltà.
Lo squilibrio tra domanda ed offerta si riflette rapidamente in crescenti stock
invenduto. Il netto calo dei prezzi è nettamente bloccato nel 1924-25,
ma solo a causa di cattivi raccolti. Non appena i raccolti si riprendono anche
i prezzi tornano a scendere.
Gli agricoltori si vengono inoltre a trovare in una maledetta forbice che prosciuga
ulteriormente i loro già magri redditi: la forbice tra i prezzi industriali:
fertilizzanti, pezzi di ricambio, trasporti, carburanti, ecc. Ossia ai primi
sentori di difficoltà la classe della borghesia si sbrana la suo interno
e sul settore più debole, e sul settore della classe borghese più
debole, scarica tutte le difficoltà.
Questo movimento negativo ‘ a forbice’ si applicava sia ai prezzi
relativi agli attrezzi, fertilizzanti ed altre merci per l’uso dell’azienda
agricola e sia a quelli dei beni che i contadini consumavano.
L’unica soluzione era una significativa riduzione di terreni messi a coltura,
ma si opponeva a que-sta la proprietà privata delle terre. Tutto questo
determina una contrazione sostanziale dei consumi sia di quelli produttivi,
ossia del settore I [ produzione dei mezzi di produzione ] e sia di quelli di
consumo, ossia del settore II [ produzione dei beni di consumo ], determinando
in entrambi l’accumulazione di sovrapproduzione.
L’Europa centrale e dell’Est.
Sostanzialmente questi paesi erano paesi agricoli e contavano sull’esportazione
di prodotti agrico-li per ottenere valuta estera e si trovò in difficoltà
non appena i prezzi all’esportazione comincia-rono a precipitare. Si erano
indebitati con prestiti a tasso fisso e la rapida contrazione delle esporta-zione
li mise nell’evidente impossibilità di pagare. Lo poterono fino
a quando poterono accedere a prestiti esteri: ossia la situazione economica
era tenuta in piedi ed alimentata dall’indebitamento e-stero. L’Ungheria
fu toccata molto più gravemente. Assieme alla Polonia era stata la maggiore
prenditrice di fondi nell’Est europeo attorno alla metà degli anni
Venti ed alla fine del 1930 aveva accumulato un debito di 750 milioni di dollari,
gran parte dei quali aveva finanziato spese improdut-tive. Il reddito dal quale
dipendeva per pagare il debito proveniva in misura predominante dai pro-dotti
agricoli, in particolar modo mais e grano. A questo si deve aggiungere la sovrappopolazione
delle campagne, la frammentazione della proprietà …
Le riforme agrarie furono introdotte in molte parti dell’Europa centrale
ed orientale ed in Grecia da governi che consideravano le misure adottate una
risposta prudente all’instabilità nelle campagne ed alla Rivoluzione
bolscevica, ma gli effetti sulla produzione furono in genere modesti.
In Polonia, Bulgaria ed Ungheria le riforme furono di portata estremamente modesta
ed i loro effetti altrettanto limitati.
I paesi capitalistici non comprendono la natura della tempesta che si sta abbattendo
sul loro capo e non trovano di meglio che tornare ad un’era di protezionismo,
regalie e sussidi per la produ-zione e le esportazioni. Misure del genere potevano
funzionare per uno o due paesi, ma quanto tutti i produttori tentavano di farvi
ricorso contemporaneamente non potevano che fallire e servirono semplicemente
ad aggravare i gravi problemi di sovrapproduzione.
Nessun paese sfuggì alla crisi mondiale dell’agricoltura degli
anni Venti.
I paesi più gravemente danneggiati dal declino dei prezzi agricoli e
dalle condizioni del settore fu-rono quelli esportatori di cereali e di barbabietole
da zucchero dell’Europa orientale e centrale.
Tuttavia, per l’Europa nel suo complesso, l’impatto complessivo
della crisi dell’agricoltura rappre-sentò un grave colpo alle possibilità
di progresso dell’economia e ne ritardò decisamente la ripresa
sia dell’industria sia del commercio internazionale.
L’agricoltura è la classica vittima della crisi di sovrapproduzione.
La tendenza di lungo pe-riodo è caratterizzata dal declino della domanda
di prodotti agricoli rispetto a quelli di altri prodotti al crescere dei redditi:
forbice! .
Il progresso tecnico agisce da aumento della produzione per ettaro, l’uso
del trattore della produ-zione per ettaro, esasperando così lo scontro
tra produttività crescente e minore domanda contri-buendo a determinare
la caduta dei prezzi, la forte sottoutilizzazione degli impianti e la disoccupa-zione.
In queste condizioni complessive si registra attorno al 1928 un’acutizzazione
della crisi agraria negli USA. La contrazione del mercato interno si coniuga
adesso con la contrazione dei consumi della piccola e media borghesia agraria
( farmers ). Alla caduta dei prezzi non può far riscontro una contrazione
dei terreni meno produttivi messi a coltura. Si dispiega così la più
possente e devastante crisi di sovrapproduzione.
L’effetto scatenante delle contraddizioni che oramai si erano ben sviluppate
e rafforzate nel seno del sistema di produzione capitalistico è dato
dall’ulteriore esasperazione della crisi che colpisce gli Stati Uniti
d’America, che per il ruolo che oramai era venuto prendendo, si diffonde
con la rapidità del fulmine a tutto il sistema capitalistico mondiale.
La forte politica finanziaria di prestiti a tutti gli Stati e la forte politica
di penetrazione in tutti i settori industriali dei vari paesi capitalistici
sviluppa-ta a partire dal 1914 determinarono quello che è il caso più
famoso e clamoroso di crisi:
il crollo di Wall Street.
La risposta borghese alla crisi del 1929-1933 sul piano della
Teoria Economica
Il sistema economico capitalistico rivela nella crisi del 1929-1933 appieno
la sua incapacità a contrastare i processi produttivi esso stesso pur
metteva in movimento.
Quello che gli economisti borghesi colgono è che il sistema per poter
procedere e superare le fasi di crisi aveva bisogno di un volano in grado di
trascinare il sistema nelle fasi di crisi e nelle fasi di svi-luppo in grado
di esercitare un controllo ed una guida per sottrarre il sistema dalla rapide
in cui il processo stesso veniva attratto inevitabilmente dal suo stesso corso.
Le precedenti teorie liberiste in auge fino alla 1926-28 affidavano al sistema
stesso la capacità di superare le fasi di crisi, facendo del mercato
e dell’iniziativa del capitalistica i principi cardini del funzionamento
e stabilità del sistema. Adesso essi le abbandonano come utopie ed illusioni
ideolo-giche ed individuano in un articolato intervento dello Stato nell’economia
questo volano.
Avvertono acutamente come nel corso della crisi esisteva nelle casse dello Stato
una liquidità mone-taria: tasse e introiti di varia natura, che potevano
essere utilizzati, e si sarebbero potuti utilizzare nella fase di sviluppo della
crisi, come forte elemento antirecessione, per spingere in avanti i con-sumi
ed alleggerire la crisi di sovrapproduzione, allontanando la crisi e comunque
attutendone for-temente gli effetti dirompenti e devastanti. L’economia
capitalistica aggrava così la sua natura pa-rassitaria per incamminarsi
decisamente verso un’economia drogata.
Individuano poi nelle Stato l’esistenza di leve, o strumenti, che utilizzati
in modo appropriati pote-vano agire da governo dell’economia tale da incoraggiare
o scoraggiare investimenti, consumi, te-nendo così in equilibrio il sistema,
mettendovi ordine.
Questa complessa teoria economica, elaborata in risposta alla nuova realtà
che si veniva a delineare con la crisi del 1929-1933, è la teoria keynesiana.
Essa si compone di due parti, o elementi, sostanziali:
una, l’intervento dello Stato nell’economia, il cui dato più
noto è il Welfare State, consiste nell’intervento dello Stato in
opere pubbliche, sostegno alle imprese ( sgravi, facilitazioni di varia natura,
centralizzare alcuni settore, ecc. ) e due una politica finanziaria che va sotto
il nome di “ moneta manovrata”, tendente a giostrare sul tasso di
interesse al fine di sottrarre o immettere liqui-dità. In definitiva
gli economisti borghesi prendono coscienza dell’esistenza del capitalismo
mono-polistico di Stato e vi danno consequenzialità teorica e pratica.
L’intera teoria in definitiva si so-stanzia nella teoria del capitalismo
monopolistico di Stato.
La teoria del benessere sociale è in definitiva propaganda ideologica,
è la forma politica nella quale vengono presentate alle classi subalterne
le nuove scelte di politica economica. Le politiche econo-miche inerenti i servizi,
che sono l’aspetto più eclatante del Walfare State, altro in realtà
non costi-tuiscono che la forma per la penetrazione del capitale in questi settori,
ossia della sottomissione di questi settori al capitale monopolistico con l’aiuto
ed il concorso dello Stato. E questo è un aspetto. L’altro è
dato dal fatto che l’elaborazione di questa teoria, in alcune sue varianti,
deve prendere in considerazioni la lotta di classe e quindi la necessità
di attuare politiche riformiste in grado di di-strarre, ritardare, allontanare
la classe operaia dalla lotta per il socialismo. Va qui ricordato l’acuto
periodo di scontro di classe che si era aperto con la Rivoluzione d’Ottobre,
che arrestatosi nel breve periodo di stabilizzazione capitalistica: 1922-1925,
si era andato innalzando a partire dallo sciopero del 1926 in Gran Bretagna
e che sconvolse tutti i paesi capitalistici: Francia, Germania, Gran Breta-gna,
Stati Uniti d’America, che si coniugava con le lotte dei paesi coloniali:
Egitto, Turchia, India e Cina.
Ma gli economisti borghesi non avevano viso il dato più elementare e
sotto gli occhi di tutti, ossia che la causa della crisi risiedeva in via prioritaria
nello squilibrio tra i vari settori della produzione, non solo tra il I ed il
II settore, ma anche all’interno di ciascun settore, e tra i vari Stati
nazionali e tra le varie aree geografiche economiche del pianeta, che vivevano
in un rapporto di stretta interdi-pendenza. Il livello raggiunto, cioè,
dal processo produttivo richiedeva una ben diversa direzione, che non poteva
essere più quella del singolo profitto del singolo capitalista e che
la produzione non poteva più essere spinta in avanti, come lo era stato
per tutti i secoli a partire dal 1550 al 1850, dall’iniziativa privata,
dal profitto privato, dall’angolazione dei processi e dei problemi del
singolo capitalista, o del singolo gruppo monopolistico. Erano angolazioni decisamente
ristretti, pur se am-pi, che cozzavano adesso contro la ben più ampia
direzione che il livello del processo produttivo richiedeva.