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Commento alla
DIRETTIVA DEL PARLAMENTO EUROPEO
E DEL CONSIGLIO EUROPEO

 


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recante modifica della direttiva 2003/88/CE concernente taluni aspetti dell’organizzazione dello
orario di lavoro.
( su proposta della Commissione Europea )

Il documento si compone di una “ Relazione” in tredici punti o articoli;
una “ Dichiarazione” che consta di 15 punti o articoli; nella Direttiva vera e propria in nove articoli, ove ciascuno integra o modifica la direttiva CE del 2003/88 ed infine una Relazione sull’attuazione “ in 5 articoli .(1)
Struttura di per sé molto farraginosa, complessa, che non aiuta la ricerca, la comprensione, ma che consente le mille e mille interpretazioni a seconda di che ruolo si fa avere a ciascuna parte, giacché tutto costituisce testo legislativo; diversamente dalla italiana ove la legge, date alcune premesse si snoda subito in articoli e comma.
La direttiva è inerente una nuova organizzazione del lavoro, modificando la direttiva del 2003/88, che a sua volta costituiva modifica di quella del 1993.
Nella Relazione vi è una cronistoria, che ha la funzione di legittimare il perché sia la Commissione Europea a presentare tale proposta al di sopra delle parti sociali.
Per la comprensione della funzione della Commissione Europea è qui importane andare a vedere quanto abbiamo esposto nella lettera dell’Istituto sull’Europa.

Veniamo, adesso, al testo nel suo complesso.
Noi fisseremo alcuni punti teorici, per tutto quanto riguarda la disamina sindacale è compito delle organizzazioni sindacali a cui rinviamo.

La Relazione
Al punto 7:
“ Tale modifica [ dell’orario di lavoro ] permetterebbe di andare incontro alle necessità delle impre-se soggette a forti fluttuazioni, segnatamente per le piccole e medie imprese (2) e rappresenterebbe un sostegno all’occupazione nei periodi di fluttuazione della domanda.”

La prima cosa da fermare è la formulazione a m b i g u a e dichiaratamente ingannevole.
Si coniuga, infatti, qui piccola e media impresa e interessi dei lavoratori ( “ sostegno all’occupazione”).
L’estensione dell’orario di lavoro a 48ore fino a 65ore ed oltre non costituisce in alcun caso sostegno all’occupazione. Ma fino ad ora non si è parlato affatto dell’orario di lavoro a 48ore fino a 65ore ed oltre.
Il punto chiave è qui rappresentato dalle piccole e medie imprese.
L’intero testo legislativo ruota attorno a questo concetto. La Direttiva vuole avere come compito primario, prevalente, un venire incontro alle difficoltà della piccola e media impresa, che diversamente soccomberebbero.
Sul piano immediato.
Questa Direttiva, così presentata, contraddice l’intero impianto teorico liberista circa il “ mercato”, le “ imprese”, “ liber-tà del mercato”, funzione regolatrice del mercato, giacché interviene, e pesantemente, alterando proprio “ il libero gioco del mercato”, attuando, imponendo, condizioni di privilegio ed a danno di altre imprese più efficienti, e mantenendo, im-ponendo, la presenza sul mercato di imprese che diversamente sarebbero spazzate via e cedere il passo ad altre più efficienti perché in grado di attuare una produzione su più vasta scala e su tale base praticare prezzi di concorrenza tali da mettere in difficoltà, fino a spingerle a chiudere ed a lasciare il mercato, quelle imprese che non riescono ad attuare la produzione su più vasta scala.
La Direttiva si muove, cioè, in aperto e totale opposizione alla concorrenza, limitandola, ostacolandola.
Si profila qui una particolare sensibilità della Commissione Europea per le piccole e medie imprese, quasi come espres-sione degli interessi materiali di queste in opposizione al grande capitale monopolistico, contro il quale vuole preservar-le, vuole ostacolare che vengano stritolate e gettate sul lastrico e conseguente concentrazione nel mani del capitale mo-nopolistico di beni e fette di mercato.
Si avrebbe cioè una Commissione Europea e l’intera direzione dell’Unione Europea espressione degli interessi di classe della piccola e media borghesia.
Ma questa sensibilità, poi, non va oltre l’orario di lavoro, ossia nello scaricare sul proletariato le difficoltà, schierando così il proletariato europeo in difesa della piccola e media borghesia contro la grande borghesia monopolistica.
Sensibilità, questa, assai limitata.
Non si estende alle materie prime, al sistema finanziario: prestiti agevolati, abbassamento dell’esposizione debitoria di queste verso le grandi concentrazioni monopolistiche;
non si estende alla distribuzione, ai trasporti, alle comunicazioni.
La Direttiva, inoltre, mentre pone con enfasi e ben al centro le preoccupazione della piccola media borghesia, non limita però l’applicazione in base, per es. al numero di addetti delle imprese, ma dà alla Direttiva valore generale e quindi an-che per il grande capitale monopolistico.
Ma così non c’è più quell’attenzione e quella propensione.
Estendendone la validità anche al capitale monopolistico si consente a questo di combinare l’innovazione tecnologia ( plusvalore relativo ) con lo sfruttamento intensivo della manodopera ( plusvalore assolto ) e quindi si consegue l’obiettivo opposto a quello tanto dichiarato ed enfatizzato, giacché si dà al capitale monopolistico un’arma tremenda per spazzare via meglio la piccola e media borghesia ed accelerare il processo di concentrazione monopolistico.
La piccola e media borghesia è allora solo cortina fumogena per nascondere i reali intenti: favorire il grande capitale monopolistico, scatenare le brame del capitale monopolistico contro il proletariato europeo.

La Direttiva persegue un ben preciso, esatto, obiettivo:
unire l’intero campo della borghesia contro il proletariato,
costruire un fronte unico della classe della borghesia contro la classe del proletariato.
Sulla base della parola d’ordine “ Sfruttamento senza limiti, Arricchitevi” il grande capitale monopolistico costruisce il fronte unico, unendo attorno a sé la piccola e media borghesia.
La piccola e media borghesia è sempre stata particolarmente sensibile al tema della sfruttamento senza limiti, poggian-do molto sul plusvalore assoluto, che su quello relativo: ossia più sullo sfruttamento della manodopera che sull’innovazione tecnica, più sull’estensione delle ore di lavoro che sull’innovazione tecnica che abbassa i tempi di pro-duzione e quindi i costi.
Il capitale monopolistico, spinto anch’esso oggi dall’esigenza di un intensificare lo sfruttamento bestiale della manodope-ra – rimandiamo qui ai lavori dell’Istituto: 1. Programma, Il Lavoro; 2. Le Conferenze di Potenza, Cagliari e Modena – le si offre alleata e sostenitrice convinta dell’istanza dello sfruttamento senza limiti, rimuovendo così quelle “ pregiudiziali” che negli anni Sessanta-Settanta aveva posto .(3)
Uno dei motivi – l’altro è quello delle contraddizioni interimperialiste - che spinge il capitale monopolistico è quello di ri-tessere le fila del blocco sociale, ossia di ricompattare attorno a sé la piccola e media borghesia.
Innanzitutto il fronte unico, il blocco sociale, costruito tra la fine degli anni Settanta ed i primi anni Ottanta si è totalmente sfaldato. La piccola e media borghesia, a cui era stato promesso l’arricchimento nella spartizione del bottino, la sparti-zione delle spoglie della sconfitta dell’Urss e del campo socialista oltre che dallo sfruttamento sul proletariato europeo, nel corso degli anni Novanta, all’indomani dell’89 per intenderci, è stata letteralmente massacrata in ogni campo e setto-re: le sezioni fallimentari stanno ben a documentarlo.
Con truffe, manipolazioni di Borsa sono stati rastrellati migliaia di miliardi di euro che sono andati al grande capitale mo-nopolistico, che ha attuato un’accelerazione del processo di concentrazione monopolistico in maniera illegale e truffaldi-na. Monta l’opposizione di questa classe contro il capitale monopolistico: sia di quella che lotta disperatamente contro il fallimento, ossia l’essere gettata al rango del proletariato e sia di quella che è già stata scaraventata al rango del proleta-riato.
Il problema di ricomporre tale fronte è decisivo per frenare lo sgretolamento del blocco sociale e del consenso, che nelle attuali condizioni può avvenire unicamente sul piano ideologico, sul piano dell’inganno:
di qui poi quella formulazione ambigua, ingannevole della Direttiva.
Nella guerra al proletariato, che costituisce l’asse centrale e strategico- come abbiamo analizzato in “ Programma: Il Lavoro” - , il capitale monopolistico europeo cerca di mantenere in piedi artificiosamente, i d e o l o g i c a m e n t e, strati cuscinetto tra sé ed il proletariato.
Eccita gli istinti più bestiali del piccolo padroncino, alimenta idee e teorie proprie di questa classe, irretendoli in ideologie reazionarie, facendone così base di manovra e carne da cannone contro il proletariato.
Ed è già qui, in questa Direttiva, evidente l’uso di classe di scatenare il piccolo padroncino contro il proletariato, dandogli assoluta mano libera.
In sintesi.
Il capitale monopolistico capeggia un fronte unico reazionario contro il proletariato.
Ottiene così per sé mano libera contro il proletariato, pone la piccola borghesia contro il proletariato ed il proletariato contro la piccola borghesia.
La piccola e media borghesia non frenerà la sua caduta, ma con tale Direttiva, formulata in suo nome, accelera la sua rovinosa caduta.

Un altro punto da fermare di questa Direttiva è la questione sindacale e della rappresentanza sindacale, che ferma il contenuto antidemocratico ed antisindacale della Direttiva stessa.
Al punto 12 si dice:
che la direttiva “ che permette di non rispettare il limite di 48 ore settimanali ..
introduce un doppio sistema che combina i vantaggi dell’approccio individuale con … la negozia-zione collettiva.”
Al punto 25 si dice:
“ l’obbligo di autorizzazione per contratto collettivo non è applicabile qualora non sia in vigore al-cun contratto collettivo e qualora nell’impresa o nello stabilimento non esista una rappresentanza del personale abilitata a concludere contratti collettivi o accordi in questo settore, in conformità con la legislazione e/o alle pratiche nazionali. In questo caso l’assenso individuale del lavoratore, se-condo le condizioni definite, è sufficiente.”

Il passo presenta una particolare gravità, che tende a sciogliere, o comunque limitare, l’organizzazione sindacale e quindi la contrattazione collettiva.
Il testo, oltre che dare per scontato le 48 ore ed il contratto individuale di lavoro, riconosce in via di fatto e di princi-pio che in un luogo di lavoro non vi sia una rappresentanza sindacale ed oltre a ciò introduce una ulteriore restrizione alla rappresentanza sindacale, allorquando dichiara “ rappresentanza abilitata a concludere contratti collettivi o accordi in questo settore in conformità con la legislazione e/o pratiche nazionali”.
Il passo, infine, introduce una ulteriore, ed ancor più grave restrizione che tende a mettere totalmente fuori gioco l’organizzazione sindacale e liquida la stessa contrattazione decentrata.
Infatti scrive che la contrattazione collettiva non è applicabile – e si può avere l’accordo individuale –
“ qualora nell’impresa o nello stabilimento non esiste una rappresentanza…”.
Questo significa che se l’organizzazione sindacale non ha una rappresentanza in uno stabilimento di una impresa, pur avendola in tutti gli altri stabilimenti della stessa impresa e sul territorio, e pur essendo firmataria di accordi e contratti europei, nazionali e territoriali in quello stabilimento non vige l’accordo nazionale o europeo, e l’organizzazione sindaca-le non può intervenire a nessun titolo e livello in quello stabilimento.
Questo è il senso e la valenza di quella distinzione “ impresa o stabilimento”.
La cosa letta dall’angolazione “ italiana” è grave, ma se la si legge nel quadro del Diritto comparato del Lavoro, os-sia nel quadro delle differenti legislazioni del lavoro in vigore nei vari paesi europei, la cosa appare in tutta la sua luce.
In alcuni paesi europei la presenza ed ufficializzazione di una rappresentanza sindacale deve seguire una complessa procedura, raccolta di firme e consenso preventivo in grado di dimostrare di avere un seguito prestabilito.
In Italia, invece, in uno stabilimento basta che un singolo lavoratore aderisca ad una organizzazione sindacale firmataria di contratti e questo costituisce di fatto la rappresentanza sindacale in quello stabilimento e per quel sindacato.
La legislazione inglese, tedesca, ecc. non consentono scioperi di solidarietà, questo significa che i lavoratori di uno sta-bilimento non possono scioperare o attuare forme di protesta in fabbrica in solidarietà di situazioni esistenti in altri stabi-limenti della stessa impresa o di altre imprese, categorie, ecc., meno che mai su questioni di natura politica inerente il Paese.
In Inghilterra, poi, non è riconosciuto neppure il diritto di sciopero…ma questo è tutt’altra cosa e tema di un apposito in-tervento dell’Istituto sulle diverse situazioni sindacali nei paesi dell’UE.
La Direttiva, per tornare al nostro ragionamento, legittima così legislazioni antisindacali vigenti in altri paesi dell’unione europea, come se l’UE ratificasse al suo interno l’ingresso di uno Stato ove vige una legislazione antidemocratica: uno Stato ove vige una legislazione antisindacale è assai poco democratico, ma anche questo è un altro discorso.
La Direttiva spinge ad una omologazione, in specifico all’omologazione con la legislazione anglosassone.
Con tale Direttiva la Commissione Europea ed il Parlamento Europeo cancellano il diritto consolidato del lavoro, introdu-cendo e legittimando situazioni avverse al diritto del lavoro consolidato.
E così la U.E. conferma appieno il suo essersi ridotta, dopo Corfù del 1994 (4), oramai esclusivamente a quartier generale del capitale contro il lavoro, a quartier generale della borghesia monopolistica contro il proletariato.
Ed infine.
Da questa pur breve disamina della Direttiva appare indubbio che esiste una ben precisa strategia tendente ad im-porre al proletariato europeo le condizioni di lavoro pre 1830, si configura infatti un orario di lavoro di 10 e più ore al giorno.
La manovra si configura come movimento a tenaglia, ove un braccio della tenaglia è la Direttiva dell’UE in esame, l’altro braccio è la politica del grande capitale monopolistico – e qui la piccola e media industria c’entra assai poco – della mi-naccia di spostare altrove gli impianti della produzione.
Alla CE il compito di rendere flessibile l’orario di lavoro, e quindi disegnare gli ambiti legali, istituzionali, al capitale mo-nopolistico il compito di abbattere i salari.
“ La cronologia è l’occhio della Storia”, soleva insegnare il grande Carlo Cattaneo.
Ed infatti alcuni mesi prima dell’entrata in vigore dell’applicabilità alle singole realtà nazionali della Direttiva CE – i parla-menti nazionali devono ratificare tale Direttiva in legislazione nazionale – Alitalia, e varie holding una tedesca, una fran-cese, una italiana hanno imposto accordi al taglio del salario –in Germania anche della 13a mensilità, o gratifica natali-zia – in cambio del mantenimento dei livelli occupazionali.

Un altro particolare tema emerge da questa Direttiva, quello della famiglia.
Il punto 10 della Relazione nell’enunciare i quattro criteri della Direttiva scrive:
“ rendere più compatibili la vita professionale e la vita familiare”.
Al punto 5 della Direttiva si scrive:
“ La conciliazione tra lavoro e vita familiare …. rendere più soddisfacente il clima lavorativo, ma anche a consentire un migliore adattamento ai bisogni dei lavoratori, segnatamente di quelli che hanno responsabilità familiari.”.
Da un punto di vista immediato appare evidente la totale incongruenza:
la vita professionale esce letteralmente distrutta, annichilita da un orario di lavoro di 8-11ore di lavoro al giorno, da un orario di 48-65 ed oltre ore settimanali.
Ancora di più la vita familiare.
Il tema della famiglia, come quello delle piccole e medie imprese, costituisce un altro punto cardine della Direttiva e ri-chiede una particolare disamina, per i reali intenti che si vuole perseguire e che richiede per questo una disamina della questione nella più complessiva teoria sociale della Chiesa e della tematica della famiglia della Chiesa, che qui la Diret-tiva sposa in blocco e fa sua: Direttiva e Chiesa si combinano qui in un progetto, concorrono al perseguimento dell’obiettivo strategico del capitale monopolistico.
Data la complessità della tematica, qui la tralasciamo, ma la riprenderemo in un’apposita disamina.
Ci interessava, qui, unicamente fermarla.

1) Il testo della Direttiva e la Direttiva 2003 che viene modificata sono pubblicate sul sito Yahoo dell’Istituto.
2) Il testo qui usa, in maniera molto scorretta in un testo ed a maggior ragione in un testo di legge, l’acronimo PMI.
Il testo non fornisce alcuna specifica di cosa si debba intendere per “ PMI”, per cui sul piano giuridico può significare qualsiasi cosa. Di solito quando si usa un acronimo si mette per esteso l’intero termine e poi tra parentesi l’acronimo e successivamente si usa direttamente l’acronimo. Il significato, comunque, è Piccole e Medie Industrie.
3) Le condizioni della lotta di classe erano differenti ed il livello della crisi capitalistica era differente, per cui l’innovazione tecnologica era uno degli elementi chiave sia nella lotta contro il proletariato e sia nella lotta contro la piccola e media borghesia, che non poteva sostenere i ritmi dell’innovazione. Oggi le cose si pongono diversamente e lo stesso capitale monopolistico può basarsi in modo sempre maggiore più sul plusvalore assoluto, ossia lo sfruttamento bestiale della manodopera, estensione dell’orario di lavoro, peggioramento delle condizioni di lavoro, bassi salari che sul plusvalore relativo, ossia sull’innovazione tecnica che abbassa i costi di produzione, contrae i tempi di produzione e quindi libera una massa maggiore di ore di lavoro per il plusvalore.
4) Rimandiamo qui alla lettera dell’Istituto sull’Europa.