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Intervento al Convegno svoltosi, il 18 novembre 2006, al Liceo classico di Barcelona
P.G. (Me), per iniziativa del Centro Studi “Nino Pino Balotta” e
del Circolo Arci “Città Futura” sul tema: “Settant’anni
che cambiarono il mondo: il comunismo nella storia del Novecento e oltre”.
Antonio Catalfamo
Direttore del Centro Studi “Nino Pino Balotta
Questo convegno interviene in una fase storica in cui è in corso un processo
di criminalizzazione del comunismo, a livello internazionale e a livello nazionale.
Il Consiglio d’Europa ha approvato una risoluzione che equipara nazismo
e comunismo. Tale risoluzione, che doveva costituire la base giuridica per la
messa fuori legge dei partiti comunisti nei Paesi europei, non è divenuta
operativa perché è mancata la maggioranza richiesta dei due terzi.
Ma i promotori non si sono dati per vinti: nella Repubblica Ceca l’Unione
della gioventù comunista è stata dichiarata illegale, perché
il suo statuto fa riferimento esplicito al marxismo. Questo provvedimento, al
quale si sono opposti, tramite una petizione, migliaia di intellettuali di tutto
il mondo, fra i quali il sottoscritto, è il preludio per la messa al
bando del Partito comunista di Boemia e Moravia, terza forza politica del Paese.
Ma v’è di più. Il Parlamento Europeo ha adottato, con i
voti dei DS italiani, una deliberazione che definisce “repressiva”
ed “antidemocratica” l’ “ideologia comunista”.
Gli ex comunisti, ampiamente pentiti e pronti a trasmigrare in un “nebuloso”
Partito democratico, hanno sottoscritto un documento che – si badi bene
– non criminalizza solo i regimi comunisti dell’Est europeo, ma
l’ideologia comunista in quanto tale. Non c’è, dunque, da
stupirsi se, come osserva lo storico Giovanni De Luna (Università di
Torino), i dirigenti diessini, da D’Alema (ministro degli Esteri) a Napolitano
(Presidente della Repubblica), pur occupando le massime cariche istituzionali
dello Stato, hanno taciuto di fronte alla campagna scatenata nel nostro Paese
non solo contro il comunismo, ma anche contro l’antifascismo. Evidentemente
i nemici dei comunisti attribuiscono ad essi il maggior contributo alla lotta
di Liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo, tanto da associare nelle
loro elucubrazioni comunismo ed antifascismo. Ciò rende onore ai comunisti.
Per converso, gli anticomunisti di professione si buttano la zappa sui piedi:
come si può criminalizzare come antidemocratico un partito, il Pci, che
ha dato il maggiore tributo alla sconfitta del fascismo e al ritorno dell’Italia
alla democrazia?
Lo storico Angelo d’Orsi sostiene autorevolmente che Gianpaolo Pansa è
andato ben al di là del “revisionismo storico”, scadendo
nel “rovescismo”: rovescia, cioè, verità storiche
consolidate, senza alcuna prova, senza alcun metodo storico valido, solo per
fare “scoop”. Pansa nega addirittura gli scioperi del marzo ’43,
nel corso dei quali solo a Torino incrociarono le braccia 100.000 operai. Fu
allora che Hitler capì di aver perso l’Italia e la guerra. Avvertiamo
tutti i pericoli di questo modo di “fare storia”, anzi di stravolgere
la storia. Le “bugie” di Pansa e compagni, ripetute mille volte
ed amplificate dai mass-media, diventano paradossalmente l’unica interpretazione
storica che perviene a grandi masse di persone e, soprattutto, ai giovani, i
più esposti alla menzogna. La “cultura in pillole”, la sostituzione
delle frasi ad effetto alla complessità della storia, la superficialità
e la scurrilità dei “libri da 300.000 copie” e dei “talk
show” televisivi ci ricordano il ruolo nefasto svolto dalle riviste fiorentine
del primo decennio del Novecento e da intellettuali come Corradini, Marinetti,
Prezzolini, Papini, nell’aprire le porte al fascismo. Studiosi seri, come
il sociologo Franco Ferrarotti, hanno analizzato a fondo i meccanismi perversi
della persuasione occulta utilizzati dai mass-media. Ma le loro analisi raggiungono
un numero limitato di persone, quando non rimangono confinate ai dipartimenti
universitari. Spesso il cittadino comune crede di esprimere un proprio pensiero,
mentre in realtà sta ripetendo inconsciamente espressioni che gli sono
state suggerire da una propaganda martellante della quale non è in grado
di controllare l’obiettività. Ad esempio, oggi si è diffusa
la convinzione che il marxismo non ha più nulla da insegnarci e molti
ripetono questo giudizio senza neanche tentare di discuterne le motivazioni.
In questa sede non intendiamo procedere ad un’esaltazione acritica dell’esperienza
comunista, realizzatasi nel corso del Novecento, ma neanche rimanere vittime
del “furore iconoclasta” imperversante. Si tratta, in buona sostanza,
di valorizzare gli aspetti positivi di questa esperienza, evidenziarne gli errori
e i limiti, individuare gli elementi che possono servire per continuarla in
forme e contesti nuovi.
I risultati positivi sono ben evidenti. L’Unione Sovietica è stata
la seconda potenza economica del mondo, addirittura la prima in vari settori.
Ha garantito piena occupazione, sanità, istruzione, servizi sociali gratuiti
a centinaia di milioni di cittadini. Ha dato vita ad una società egualitaria,
che ha sostituito un sistema economico sostanzialmente feudale. Sull’onda
della Rivoluzione d’Ottobre, uomini e donne di tutto il mondo hanno conquistato
diritti fondamentali di civiltà. Il popolo sovietico ha dato il contributo
decisivo alla vittoria sul nazi-fascismo, pagando tra tutti gli altri il prezzo
più alto: 27 milioni di morti. La vittoria sovietica a Stalingrado ha
capovolto le sorti della seconda guerra mondiale. Il presidente americano Roosevelt,
nel diploma inviato ai difensori della città, scrisse: “La loro
gloriosa vittoria ha arrestato l’ondata della invasione e ha segnato la
svolta della guerra delle nazioni alleate contro l’aggressione”.
Il secondo fronte, il cosiddetto “fronte occidentale”, è
sorto con notevole ritardo. Si tenga conto che Von Paulus si arrese all’Armata
Rossa agli inizi del febbraio ’43, mentre lo sbarco in Normandia da parte
delle truppe anglo-americane è avvenuto solo nel giugno ’44. Alcide
De Gasperi, leader della Democrazia Cristiana, parlando al teatro Brancaccio
di Roma, il 23 luglio del 1944, cioè a quasi trent’anni dalla Rivoluzione
d’Ottobre, riconobbe testualmente “il merito immenso, storico, secolare
delle armate che ha organizzato il genio di Stalin”. E proseguì:
“C’è qualche cosa di immensamente simpatico, qualche cosa
di immensamente suggestivo [nella] tendenza universalistica del comunismo russo.
Quando vedo che mentre Hitler e Mussolini perseguitavano degli uomini per la
loro razza, e inventavano quella spaventosa legislazione antiebraica che conosciamo,
e vedo contemporaneamente i Russi composti di 160 razze cercare la fusione di
queste razze superando le diversità esistenti fra l’Asia e l’Europa,
questo tentativo, questo sforzo verso l’unificazione del consorzio umano,
lasciatemi dire: questo è cristiano; questo è eminentemente universalistico
nel senso del cattolicesimo. (…) E cristiano è anche il formidabile
tentativo di accorciare le distanze fra le classi sociali, questo sforzo per
l’elevazione del lavoro manuale. Mi capitò una volta fra mano un
documento segreto dello stato maggiore tedesco sulle impressioni che riportavano
gli ufficiali in Russia. Conclusione: quel che fa impressione ai soldati tedeschi
è trovare un paese ove nessuno vive senza lavorare. (…) Ora questo
è un principio a cui tendiamo e che deve applicarsi anche in Italia”.
Non ce la sentiamo di aggiungere alcunché alle parole lusinghiere che
il Presidente americano Roosevelt e, maggiormente, il leader della Dc De Gasperi
ebbero nei confronti dell’Unione Sovietica, prima che l’Occidente
decidesse di innescare i ben noti meccanismi della “guerra fredda”.
In occasione del cinquantesimo anniversario dei “fatti d’Ungheria”,
viene risollevato il vecchio problema della mancanza di libertà nei regimi
comunisti effettivamente realizzati. Paradossalmente è stato proprio
per un anelito di libertà che molti uomini comuni e molti intellettuali
hanno aderito al comunismo. Ha scritto Cesare Pavese: “E’ possibile
che uno si accosti al comunismo per amore di libertà? A noialtri è
successo. Per uno scrittore, per un «operaio della fantasia», che
dieci volte in un giorno corre il rischio di credere che tutta la vita sia quella
dei libri, dei suoi libri, è necessaria una cura continua di scossoni,
di prossimo, di concreta realtà. Noi rispettiamo troppo il nostro mestiere,
per illuderci che l’ingegno, l’invenzione, ci bastino. Nulla che
valga può uscirci dalla penna e dalle mani se non per attrito, per urto
con le cose e con gli uomini. Libero è solamente chi s’inserisce
nella realtà e la trasforma, non chi procede tra le nuvole. Del resto,
nemmeno i rondoni ce la fanno a volare nel vuoto assoluto”. Gli anticomunisti
di sempre, gli ex comunisti convertitisi all’anticomunismo, i comunisti
“provvisori” per autodefinizione, come Fausto Bertinotti, non hanno
capito quel che Pavese ha spiegato in poche parole, aggiungendo più avanti:
“Non c’illudiamo che esista un «paradiso dei rondoni»
dove si possa essere insieme progressisti e liberali”. In altri termini,
la libertà non è una dimensione “metastorica”, un
“paradiso dei rondoni” – per dirla con Pavese – , che
possa prescindere dall’ “attrito con la realtà”, dalle
determinazioni spazio-temporali. L’intervento sovietico in Ungheria del
’56 va, dunque, contestualizzato. E il contesto è quello di un
mondo diviso in due blocchi, di un’Unione Sovietica accerchiata, stretta
in una morsa di ferro dal capitalismo, che, nella propria zona d’influenza,
appoggia persino brutali dittature fasciste, come quella spagnola e quella portoghese,
pur di combattere il comunismo, e che interviene col pugno di ferro, a fianco
di Israele, per stroncare il tentativo legittimo di Nasser di nazionalizzare
il canale di Suez e di liberarsi dal giogo del colonialismo. Oggi che l’Unione
Sovietica è crollata, sappiamo – perché così è
avvenuto in Ucraina, in Georgia e nelle altre repubbliche ex sovietiche, dove
sono scoppiate, fomentate dagli americani, le cosiddette “rivoluzioni
colorate” – che gli Stati Uniti d’America hanno speso fiumi
di denaro, attraverso infiltrati, fondazioni (La Fondazione Soros, la Fondazione
Ford), per convincere i cittadini del vecchio mondo comunista a ricorrere alla
cosiddetta “resistenza passiva”, cioè a sabotare l’economia,
a non lavorare. Hanno detto loro: “Poi verremo noi e provvederemo a tutto”.
E hanno veramente provveduto, lasciando interi popoli nella miseria più
assoluta, depredandoli delle loro risorse, costringendoli alla prostituzione
di massa o a lavori umili come quello di “badante” al servizio dei
vecchietti del mondo capitalistico.
Ma c’è da chiedersi perché il mondo comunista, che ha resistito
per settant’anni agli attacchi del capitalismo, ad un certo punto è
crollato. Non voglio qui analizzare gli errori economici, oggetto di altre relazioni.
Credo che la risposta vada trovata nel pensiero di Gramsci, che oggi viene frettolosamente
archiviato dallo stesso Bertinotti, che, quand’era segretario di Rifondazione
Comunista, non ha voluto che nello statuto del suo partito ci fosse alcun riferimento
al fondatore del Partito Comunista d’Italia. Antonio Gramsci, sulla scorta
di Labriola, ha individuato il rapporto dialettico che esiste tra struttura
e sovrastruttura, superando le opposte “aporie” del “marxismo
volgare”, che assolutizza la prima, e del soggettivismo idealistico, che
assolutizza la seconda. Benché i “Manoscritti” del giovane
Marx, così come i “Grundrisse”, fossero inediti, il grande
intellettuale sardo riuscì a scoprire la nozione di “rivoluzione
globale” – economica e politica, ma nello stesso tempo morale e
intellettuale – come criterio guida per un cambiamento veramente rivoluzionario
della società. In Gramsci i temi del partito, della rivoluzione e dell’egemonia,
che generalmente sono trattati come argomenti separati, sono, invece, strettamente
collegati. Il partito non è soltanto lo strumento per la rivoluzione,
cioè per la creazione di una società nuova. E’ anche la
prefigurazione di quella società. La rivoluzione dev’essere anticipata
nella qualità della vita quotidiana e nei rapporti interni, “dentro
il partito”, oppure essa è destinata a fallire, vale a dire è
destinata a riprodurre, una volta che sia stato conquistato il potere, le caratteristiche
burocratiche alienanti e sfruttatrici della società borghese. Questo,
appunto, è successo in Unione Sovietica, negli altri Paesi del blocco
comunista, ma anche nel Partito comunista italiano e nei partiti e movimenti
vari che sono nati dopo il suo scioglimento. Si è scatenata una feroce
lotta per il potere, si è verificato un processo di burocratizzazione,
che ha fatto sì che il partito si “imborghesisse”, fino a
sparire, e ad essere assorbito da quel sistema capitalistico ch’esso doveva
combattere e abbattere. Gramsci attribuisce una grande importanza alla dimensione
etica, ai rapporti tra compagni, tanto che intrattiene rapporti fraterni con
Bordiga anche dopo la rottura politica definitiva con lui. Sono davvero commoventi,
per converso, le lettere che Bordiga scrive alla madre di Gramsci per darle
notizie del figlio carcerato e per recarle conforto. Partiti comunisti ormai
imborghesiti non potevano certo promuovere nella società quella rivoluzione
morale ed intellettuale di cui essa aveva bisogno per progredire verso il comunismo.
La spinta rivoluzionaria si è via via affievolita, fino ad esaurirsi.
Di conseguenza, anche i cittadini delle società socialiste sono stati
assorbiti dalla mentalità capitalistica. A questo punto la propaganda
americana, che in passato era stata arginata, ha avuto successo. Lo stesso sistema
economico socialista è entrato in crisi, perché i dirigenti burocratizzati
avevano interesse a sostituirlo con un altro in cui essi stessi costituissero
la classe capitalista, come è di fatto accaduto, e perché i cittadini
non lo sentivano più proprio, ubriacati dal “miraggio” capitalista,
che, una volta concretizzatosi, li ha portati invece alla fame e alla disperazione,
senza ch’essi potessero reagire, tentare un “ritorno all’indietro”,
pure agognato, ma difficilmente realizzabile, in quanto i nuovi detentori del
potere, che erano in gran parte anche i vecchi, hanno messo in atto tutta una
serie di strumenti coercitivi, palesi ed occulti, che impediscono, così
come nelle nostre società capitalistiche, il libero manifestarsi della
volontà popolare.
Per concludere, quale è allora la prospettiva? E’ evidente, dopo
quel che abbiamo detto: non abbandonare l’orizzonte comunista, ma correggere
gli errori che hanno messo in crisi il comunismo. Mettere fine alle lotte di
potere, accantonare i personalismi e gli interessi di gruppo e di corrente.
Lavorare per l’unità di tutti i comunisti in un solo partito. Realizzare,
già all’interno della società capitalistica, quell’egemonia
culturale di cui parlava Gramsci. Dar vita ad un partito di massa, presente
in tutte le pieghe della società: nei posti di lavoro, nelle organizzazioni
di massa, nelle scuole, tra i giovani, nelle associazioni progressiste, nei
movimenti, instaurando, però, con questi ultimi un rapporto di reciproca
autonomia. Tutto ciò è contenuto nel programma dettato da Gramsci
per il congresso di Lione del 1926, nel quale la sua impostazione prevalse su
quella di matrice bordighiana.
Purtroppo oggi non abbiamo segnali incoraggianti. Abbiamo due partiti comunisti,
Rifondazione comunista e PdCI, che, invece, di lavorare per una prospettiva
unitaria, tentano di annientarsi a vicenda. Rifondazione sta per snaturarsi
in una Sinistra europea, che vuol essere l’ala sinistra della socialdemocrazia.
Questo progetto è evidente nel momento in cui la maggioranza di questo
partito cerca di demolire l’esperienza storica del Pci, partecipando alla
campagna denigratoria contro Togliatti, presentato, fra l’altro, attraverso
un falso inedito pubblicato sul quotidiano di Rifondazione, “Liberazione”,
come colui che forzò la mano ai sovietici affinché reprimessero
la rivolta ungherese, sol perché la lettera del Migliore, oggetto del
falso “scoop”, indirizzata ai dirigenti sovietici, reca la data
del 30 ottobre 1956, cioè del giorno che precedette la decisione del
PCUS di mandare i carri armati a Budapest. Questo documento non è inedito,
in quanto pubblicato, come si evince dall’ultimo numero della rivista
“Micromega” (n. 9/2006), su “La Stampa” di Torino addirittura
l’11 settembre 1996. Esso non aggiunge nulla a quel che si sapeva sulla
posizione ufficiale del Pci, che legittimò l’intervento sovietico
in quanto il movimento era ormai sfuggito al controllo del partito comunista
ungherese, assumendo esplicitamente carattere controrivoluzionario.
La motivazione “tattica” dello scioglimento di Rifondazione nel
partito della Sinistra europea è che bisogna colmare il vuoto lasciato
dai DS, che non vogliono essere più socialisti per diventare non sappiamo
cosa, attraverso la costituzione di un enigmatico Partito democratico. Sembra
di assistere a quel gioco che si faceva una volta nei balli in famiglia: cessata
la musica, i concorrenti dovevano sedersi sulla prima sedia che trovavano libera,
e guai a chi rimaneva in piedi. Se i socialisti diventano qualcos’altro,
i comunisti devono diventare socialisti. Siamo certi che questo progetto del
gruppo maggioritario di Rifondazione incontrerà forti resistenze, anzi
già le sta incontrando, tra i militanti del partito e in una parte degli
stessi dirigenti (si vedano, ad esempio, i gruppi di “Essere comunisti”
e “Sinistra critica”).
Quanto al Partito democratico, è proprio un senatore dei Ds, Massimo
Villone, a spiegarci che cosa sarà questo “ircocervo”. Egli
scrive su “La Rinascita della sinistra” (10 novembre 2006): “Come
si può (…) pensare di fare un solo partito con il generico richiamo
alla sintesi delle culture? Semplice. Per il partito democratico l’obiettivo
vero – persino candidamente dichiarato – è quello di creare
un grosso contenitore per l’egemonia nella coalizione che si candida a
governare. (…) Intanto vinciamo le elezioni, e teniamo ben salda la barra
del governo. Poi si vede. Il governo come fine, e non come mezzo. Siamo alla
Dc del nuovo millennio. Un nuovo partito–stato, che trova nella gestione
del potere la motivazione vera della propria esistenza. E non è nemmeno
la Dc degli anni migliori (…), [ma] quella degli anni grigi, che hanno
immediatamente preceduto il buio e il collasso dei primi anni ’90 e di
tangentopoli. Tutto questo con la sinistra non ha nulla a che fare”. Parola
di Villone: il Partito democratico sarà la peggiore Democrazia cristiana.
Anche qui speriamo che questo progetto venga contrastato da tanti militanti,
che abbiano almeno a cuore gli ideali del socialismo democratico, che può
essere una cosa seria, come lo è stato in molte esperienze europee.
In conclusione, la prospettiva che ci attende è quella di una lunga lotta,
perché la libertà, quella vera, è, appunto, lotta per l’emancipazione
dell’umanità, per l’uguaglianza economica e sociale, per
la democrazia sostanziale.
Antonio Catalfamo
Direttore del Centro Studi “Nino Pino Balotta”