Biblioteca Multimediale Marxista


Filosofia della rivoluzione






LONDRA

Agosto 1851



PROEMIO

La rivoluzione è il trionfo della filosofia chiamata a governate l'umanità. Fuori della filosofia non v'ha rivoluzione; la ragione non è libera, la scienza non è padrona; il culto è il principio supremo della società, domina la ragione, detta le leggi e governa l'umanità. Ognuno intende per quella di Francia; ognuno sa che la Francia dirige la rivoluzione. Qual deve essere la filosofia della rivoluzione?
Era quella di Locke. Essa vinceva il cristianesimo e trasportava sulla terra il destino dei viventi, essa chiamava ogni uomo ad essere pontefice a sè stesso. Pure dal giorno in cui la rivoluzione cadde sotto le tre reazioni di Napoleone, dei Borboni e di Luigi Filippo, la filosofia di Locke si smarrì, Voltaire e Rousseau rimasero sopraffatti, restò dubbia ogni conquista dello spirito umano. I discepoli di Locke si attenevano ai fatti, e il fatto che non lasciava titubante il diritto: si dimandò che cos'è il fatto, si dimandò se il cristianesimo non è alla volta sua un fatto grande almeno quanto la rivoluzione nascente. Concentravasi il fatto nella sensazione: si dimandò se l'idea non è fatto quanto la sensazione, se il mondo delle idee, che disprezzavasi in Platone, in Descartes, non valesse quanto il mondo della natura, e se la natura potesse stare senza le idee. I discepoli di Locke pendevano al materialismo: fu chiesto se la materia sia fatto certo, avverato, se si conosca della materia qualche cosa di più che il suo apparire, se il suo apparire non sia qualità piuttosto che materia, proprietà piuttosto che sostanza. La scuola di Locke accettava il dubbio e vi trovava nuove forze per disfidare il dogma lungo tempo inoppugnabile della cristianità; il dubbio era liberatore, era il primo principio del libero esame, il dubbio feriva Cristo in cielo e si ricadeva necessariamente sulla terra, nella sensazione di Locke, nella sfera dei fatti. Fu chiesto se il dubbio non feriva il fatto stesso, se distrutto il cielo non invadeva la terra, se non rendeva incerto l'avvenire, incerta la fede nella rivoluzione, incerta ogni speranza di sfuggire alle tirannie del passato. Vedevansi gli uomini sorgere liberi ed eguali dal limo della sensazione: fu chiesto se l'ineguaglianza che sorge dalla sensazione non è anch'essa legittima; se, opera della mente che sovrasta al diritto primitivo, non ha anch'essa il suo diritto. Confidavasi nella ragione: fu chiesto se la ragione non è fuori del senso; se, posta fuori del senso, nelle idee, non ha il diritto di trascendere la natura, se nel trascendere la natura, non ha il diritto di disprezzare il mondo che la scuola di Locke presenta come la terra promessa, se non ha il diritto di metter capo nel cielo di Socrate o di Platone o de' neoplatonici, d'onde si passava nel cielo di Cristo. Quindi nuovi sistemi oltrepassavano disdegnosi la conquista di Locke, spiegavano il volo attraverso la storia, e rimaneva dubbio se la rivoluzione non fosse un accidente, se la negazione volteriana, se la demolizione di Rousseau non fossero traviamenti di un popolo febbricitante; e dottamente si trassero innanzi Leibriiz, Descartes, tutte le filosofie sconfitte, or consigliando a filosofi di allontanarsi dal campo della politica, or consigliando alla rivoluzione di tramutarsi in una nuova fase del cristianesimo, or trasportando il problema dell'umanità in cavilli sì audacemente impotenti, che l'avanzare diveniva impossibile, il retrocedere sembrava buon consiglio.
Mio primo desiderio fu di trovare un maestro, di avviarmi confidente in una via sicura; volli sfuggire ad ogni modo la sventura di essere solo. Non mi fu concesso evitarla. Dovunque mi volgessi, trovai portentosi ingegni, scoperte preziose; non una dottrina ferma nel suo principio: una dottrina che ci ritornasse l'umanità, la sicurezza un tempo concesse ai discepoli di Locke. Condannato a cercare in me stesso la formula in cui potesse compiersi la filosofia della rivoluzione, mi proposi il problema quale affacciavasi in piazza e nelle scuole, presso i filosofi e nelle assemblee politiche. Si tratta di sapere, io mi dissi, in qual modo possiamo rimanere nel fatto, mentre il moto della logica ci trae lungi dal fatto; si tratta di sapere come io possa credere a ciò che vedo, a ciò che sento, mentre il ragionamento mi travia, mi sconcerta, mi impone di rispettare ciò che non vedo, ciò che non sento, ciò che non è. Il catechismo della rivoluzione è semplice, si riduce a due principi, la verità, la giustizia; non v'ha alcuno che lo ignori: ma giunge il sofista, e vi dimanda che cos'è la verità? che cos'è la giustizia? Le riduce al vostro opinar personale, vi mostra che potete ingannarvi, che dovete rispettare l'opinione opposta; resiste alla vostra virtù con una sua virtù, con un suo ascetismo: se vi appellate alla natura, vi oppone la ragione; se parlate di scienza, vi oppone una sua scienza, un suo criterio del vero, reclama la sua libertà, quella dei credenti, e vi invola ciò che vedete, la verità di Voltaire, ciò che sentite, la giustizia di Rousseau. Per sciogliere il problema, rimovere l'inciampo, e far sì che la filosofia non fosse un inganno, che nessuno ci possa illudere sotto pretesto di scienza. Come possiamo rimanere nel fatto, mentre il fato ci vien frodato dalla logica? Il mio libro darà la risposta.
Nella prima parte dimostro la critica che rovescia ogni fatto, e la riduco ad un'unica formula. - Nella seconda parte ristabilisco il regno dei fatti in modo, che si possa procedere coll'unanimità del buon senso, là dove non vi sono errori materiali che ci dividano. - Nella terza parte mostro come la rivoluzione scorra libera sulla via dei fatti, verso il vero ed il giusto, verso il regno della scienza e dell'eguaglianza.
Offro il mio libro all'Italia, che geme in una crisi solenne, è posta tra l'antico sistema cristiano e il rinnovamento compiuto del suo patto sociale, non havvi mezzo, se la filosofia non trionfa, sarannol'imperatore e il papa, Cesare e Cristo che trionferanno sotto le antiche forme o sotto peggiori. Se la rivoluzione organizzata in Francia non continua la sua guerra contro la cristianità, l'Italia resterà sede di un'anarchia che farà desiderare gli antichi tiranni. Ad ogni giorno ne abbiamo novelle prove: ed io le trovo numerose nelle stesse invettive con cui mi rispondevano or ora i regii di Torino, di Genova e di Firenze. La questione da me proposta era pur semplice. È vero, io dico loro, che mentre l'odio del popolo contro l'antico sistema cresceva ad ogni giorno, voi avete voluto evitare ad ogni patto la rivoluzione? è vero che per evitarla avete ingannato il popolo intorno alla volontà del papa e dei principi? è vero che avete sostituito alla guerra della libertà una guerra di conquista? è vero che vi siete affaticati disperatamente perchè il popolo da voi illuso rifiutasse il soccorso del popolo francese? è vero che avete confidata la guerra a un re da voi esperimentato traditore e già intimo alleato dell'Austria? è vero che avete impedito ai popoli di riunire le loro assemblee, di proclamare i loro diritti, di ferire i loro nemici interni, di far salva l'Italia dall'assolutismo che la preme? è vero che la vostra cospirazione regia e cattolica riusciva alla sconfitta di Villafranca, al mistero di Novara? è vero che dopo i disastri più goffi e vergognosi siete millantatori e insolenti come se aveste riportate venti vittorie? Dunque siete felici, siete vincitori, avete vinto? e chi? la democrazia: il papa è a Roma e l'Austria ristaurata. Vi dite nemici dell'Austria! Da quando? Io vi vidi, o signori, ai piedi dell'imperatore, degli arciduchi, dei principi: vi vidi ambasciatori, magistrati, cortigiani del despotismo austro-pontificio; io vi vidi nemici della patria e disprezzatori di ogni libero pensiero, io vi udii dichiarare apostata e rinnegato all'Italia che ripudiava la vostra monarchia, la vostra religione dominante, i vostri padroni, la vostra nazionalità, che volevate rinchiusa nelle frasi dell'Arcadia e nell'ortodossia del sonetto. No, voi nasceste Austriaci, voi lo siete di mente e di cuore: come l'Austria voi difendete il trono e l'altare; come l'Austria imponete il cattolicismo colle baionette e coi gendarmi; come l'Austria venerate i privilegi dei conti, dei marchesi e dei vescovi; come l'Austria negate che il popolo sia sovrano; come l'Austria ricusate al popolo il diritto di votare; come l'Austria proscrivete la filosofia e la rivoluzione, pronti ad avventurare tutto, a tradire tutti, e l'Austria stessa, per fuggire la verità e la giustizia. Peggio che Austriaci, sotto il disprezzo de' principi, sotto il bastone di Radetzky non trovate energia se non per maledire chi parla dei diritti della ragione; peggio che Austriaci vi siete costituiti nei vostri giornali spie pubbliche, officiali per denunziare i repubblicani che vivono in Lombardia e nel Veneto. E se non foste infami, non avrei io torto?
Mi fu risposto che sono utopista: e in che lo sono io? Forse nel ricordare quanto si ripete da ogni ministro ad ogni tribuna che non si libera Roma senza intimare la guerra alla cristianità? Forse nel ripetere, ciò che ognuno sente, essere tutta la cristianità collegata col pontefice e coll'Austria per conservare la servitù dell'Italia? Forse nell'annunziare la guerra inevitabile, continua della rivoluzione francese contro la cristianità? Forse nell'asserire che la guerra della rivoluzione esiliava già dall'Italia il pontefice e l'imperatore, e creava quella nazionalità che i nazionalisti nel delirio della loro contraddizione invocano e rinnegano ad ogni tratto? Sogno io forse parlando di una guerra di cui voi tremate, o signori, più ancora che il popolo non ne speri? Sono io forse utopista nel dichiarare che la rivoluzione deve essere applicata in Italia quale sarà fatto e legge in Francia, quale uscirà discussa, approvata, sancita da una nazione di 36 milioni d'uomini? Sono forse avventato nel dichiarare nullo, irrito, ogni sforzo per discutere in oggi la liberazione d'Italia a Milano, a Napoli, a Firenze, a Roma, dove sotto pene atroci è vietato leggere quanto si pensa dovunque sul sistema della cristianità? Sono forse temerario nel dichiarare sacrilego ogni sforzo di stordire i popoli nel momento dell'insurrezione, sradicando d'un tratto gli Stati, le tradizioni, l'antichissima autonomia, e sopprimendo le assemblee, la voce del popolo per improvvisare un'unità regia o repubblicana che poi al menomo urto cada disciolta? Sono forse paradossale perchè pedissequo del fatto puro, servo del diritto ed anche della legge ove non sia iniqua, predico quel fatto, quel diritto su cui reggeva la resistenza di Venezia e di Roma, e su cui regge ogni Stato, e starebbe anche l'Italia se troppo potenti non fossero l'ignoranza e il tradimento che la straziano, ogniqualvolta non è percossa dalla spada dell'Impero? In breve, si dica che sono avventato perchè diffido dei progetti avventati, degli avventurieri, siano essi re, papi o condottieri, perchè diffido dei capi che alla vigilia della lotta non vedevano la lotta, non sentivano, anzi negavano, anzi tradivano il principio che ferveva in ogni popolo oppresso dal sistema cristiano.
Chi ci accusa di temerità? i signori che si sono costituiti il privilegio di liberare l'Italia senza rivoluzione e senza reazione: or bene, obbediremo; espongano adunque il savio loro disegno. Ci dicano come uno Stato di terz'ordine, che per iperbole chiamasi il Regno, possa vincere l'Austria, confiscare i principali italiani, domare il papato, far fronte alla Germania, alla Russia, trascinar seco l'Inghilterra, mutare il mondo, e in pari tempo ingannare la Francia, sbaragliare la rivoluzione, che metteva già il così detto Regno a soqquadro in Savoia, a Genova, a Nizza, nei tre quarti dell'angusta sua superficie. In qual modo il Piemonte potrà liberare l'Italia? col diritto? Non ha diritti. Colla forza? qual'è la sua forza? Quale? Si tolgano l'Austria ed il pontefice, e sarà ventura se non si scinde in più regioni e se rimane uno degli Stati della federazione repubblicana. Il regio Piemonte è custode dell'Alpi. Contro chi? È l'antemurale del sistema austro-pontificio; è condannato a difenderlo per difendersi, a proteggerlo per sostenersi, se svanisce deve contraffarlo, parodiarlo; deve esser l'avanguardia contro la Francia, deve combattere la rivoluzione, parlando d'indipendenza, di conquista, d'unità, deve assumere la luogotenenza dell'impero nei casi di rivoluzione, deve supplire coll'astuzia, col tradimento al sistema che decade, deve essere ostacolo alla libertà d'Italia sotto pena di morte. Questa è la ragione per cui sta la camera piemontese; per cui il Piemonte affetta di non esser complice della reazione europea; questa è la ragione per cui il gabinetto piemontese cospira a Milano, a Firenze, a Palermo, a Napoli coi capi della corruzione, che mercanteggiano gli stati leggendo la Bibbia; questa è la ragione per cui il ceto-medio piemontese sta collegato colla nobiltà, per dividersi tutti i lucri del regno futuro; questa è la ragione per cui mille scribivendoli liberi o pagati assalgono con un torrente di contumelie chi turba la concordia della cospirazione scempia e malvagia che perde l'Italia; questa è la ragione perchè assalgono ad ogni giorno, in pari tempo, il papato e la filosofia, l'Austria e la rivoluzione, la chiesa e la Francia, sì che ogni cosa resti tra il si ed il no, fuori del fatto, fuori del diritto, in guisa che il buon senso appaia demenza, e la verità impostura. L'insidia previdente oltrepassa già la monarchia; facendosi astratta, s'insinua nel campo della democrazia; facendosi ognor più contraddittoria, parla il linguaggio rivoluzionario per meglio capovolgere la rivoluzione. Qui accoglie ogni idea nemica del popolo, e continua il moto che parte dall'alto; già trasportava la rivoluzione nella dittatura del pontefice, poi in quella d'un re; la trasporterà in un cittadino: purchè impedisca di riunire le assemblee federali, il cittadino sarà caro ai signori; purchè proclami la guerra prima della rivoluzione, sarà caro alla reazione; purchè voglia dirsi Napoleone prima d'ogni vittoria, prima della guerra, sarà acclamato qual nume liberatore; purchè il nume continui l'insidia delle fusioni si chiamerà avverso alla gloria, al primato dell'Italia chiunque non gli sia plaudente. Il più melenso formalismo avrà la sua catastrofe. E che posso, che devo io rispondere agli spaventi simulati da chi ode due mie parole: irreligiose, legge agraria? Nulla. Sia pure dimostrato che sono empio quanto Voltaire, colpevole quanto Rousseau, esecrando quanto Bruno, quanto Campanella, quanto il risorgimento, quanto la rivoluzione, quanto la filosofia. In nome della filosofia accetto la inimicizia di tutti i nemici della democrazia.

1 Agosto 1851.

PARTE PRIMA

CRITICA DELL'EVIDENZA




Lo stesso procedimento che ci promette la certezza ci conduce al dubbio.
Noi c'inganniamo ad ogni istante: l'errore è sempre immanente al nostro pensiero; siam condannati a diffidare delle nostre idee, dei nostri sensi, della nostra mente siamo costretti a verificare ogni nostro giudizio. Si verificano i nostri giudizi sottomettendoli all'impero della logica. La logica ci promette la certezza con le tre forme dell'identità, dell'equazione e del sillogismo.
L'identità ci assicura che una cosa è quella che è; dubitare dell'identità è negare ciò che si afferma, è un affermare ciò che si nega, è rendere impossibile perfino il discorso. L'equazione spiega una cosa per mezzo di un'altra che le è uguale: anche qui se X è uguale a B, X è conosciuta e non è se non che B sotto un'altra forma: contestarlo sarebbe contestare B che viene affermato. Il sillogismo è costituito da tre termini, il primo de' quali contiene il secondo, il quale contiene il terzo: accordate le premesse, la conseguenza diventa necessaria e trovasi tutta intera nelle premesse.
Per giungere alla certezza noi invochiamo le tre forme della logica, sottoponendo le nostre cognizioni all'impero della logica, scorgesi che tutte sono contraddittorie e paradossali; lungi dal giungere alla verità, siamo condotti all'assurdo; lungi dal verificarsi i nostri giudizi, sono resi tutti impossibili. Ciò è quanto dimostreremo, sommettendo successivamente alla prova della logica: 1.° le cose della natura; 2.° i pensieri dell'uomo; 3.° le nozioni del giusto e dell'utile che governano l'umanità.

SEZIONE PRIMA

DELLA NATURA



Capitolo I

DELL'ALTERAZIONE

Tutto cambia nell'universo, i corpi si trasformano di continuo, l'alterazione è la prima legge della natura Questa legge non regge alla prova della logica. - In primo luogo essa smentisce la forma dell'identità. Una cosa che cambia non è più quella che era, non è più la stessa: il cambiamento le sostituisce una cosa assolutamente nuova, fornita di nuove proprietà. Richiede l'identità che ogni essere rimanga sempre lo stesso; l'acqua deve restare in eterno la stessa acqua: coll'alterazione le cose non sono mai quelle che sono, non ci bagniamo mai due volte nella stessa onda. - Nell'alterazione, la seconda forma della logica, l'equazione, è anch'essa violata. L'oggetto che cambia, cessa d'essere eguale a sè stesso: non v'ha equazione tra l'infanzia e la virilità, tra la virilità e la vecchiaia; l'alterazione adunque nega la seconda forma della logica. - Anche il sillogismo non può seguire la trasformazione degli esseri. Vi ha forse un sillogismo della generazione? Qual'è il termine medio tra l'albero e i frutti che produce? qual'è il termine medio tra la vita e la morte? non havvene alcuno: i due stati di una cosa che si áltera differiscono, restano sempre distinti, sono due estremi che nessun termine potrà mai riunire. La logica, affrontando l'alterazione col sillogismo, riceve pertanto una terza mentita. L'alterazione è logicamente impossibile, benchè materialmente incontestabile.
Quanto si dice dell'alterazione si applica al moto, il quale non è che si riduce all'alterazione relativa allo spazio. Il corpo in moto è là dove non è; non è là dove è; movendosi, lascia un luogo, ne prende un altro; esso diviene più vicino, più lontano da un dato punto. Il moto adunque fa variare l'ordine delle cose, cambia le proporzioni e trasforma la natura l'áltera, e sotto l'azione del moto essa cessa di essere identica con sè stessa per diventare ciò che non è, un'altra natura.
La distinzione che esiste tra i due stati di ciò che si áltera, ci svela una contraddizione nell'origine d'ogni cosa. D'onde proviene quest'oggetto? Non viene logicamente dal suo stato anteriore, non dall'oggetto che lo precedeva; egli non era, egli è; questo solo è certo: dunque procede dal nulla. L'albero non esce dal germe, ma dal vuoto, creato ex nihilo: l'infante non è generato dal padre e dalla madre; egli viene dal non essere. Il nulla è l'antecedente universale, ogni produzione è una creazione assolutamente nuova e improvvisa. D'altra parte, le cose rientrano continuamente nel nulla. Stando alla logica, l'uomo che muore non è reso alla terra, non è fatto polvere, ma s'annienta; il suo cadavere in dissoluzione, la sua polvere sono cose nuove senza razionale rapporto coll'uomo che viveva.
L'assurdità dell'alterazione è sì evidente, che i filosofi primitivi la riconobbero, appena che si sforzarono di spiegare la natura. Di là i sofismi degli antichi: domandavansi se un grano, due grani, tre grani formavano un mucchio: e si continuava la progressione fino al momento in cui l'interlocutore dichiarava che il mucchio era fatto. Si replicava allora, dunque un grano forma un mucchio; il che valeva quanto dire: dunque il passaggio dal grano al mucchio è arbitrario; dunque non vi ha equazione tra i due termini; dunque il mucchio formasi violando le leggi della logica. La stessa dialettica negava la generazione e la corruzione delle cose. Si diceva: Socrate non può nascere nè prima di esistere nè dopo la sua nascita; se nasce prima di esistere, egli è e non è al momento della sua nascita; se nasce quando già esiste, allora nasce due volte. Lo stesso dicevasi della morte; e qui il dilemma intervertito, domandava se Socrate muore quando è vivo o quando è morto. Vivo non può morire, perchè Socrate sarebbe morto e vivo nel tempo stesso: morto non può morire, perchè in quest'ultima ipotesi morrebbe due volte. Per le stesse ragioni la parete non può cadere, ma deve sempre rimanere in piedi o in terra. La palla spinta in alto non deve mai toccare la vôlta, e se la tocca non deve più ricadere. Insomma, nulla deve cambiare. I sofismi sono stravaganti all'aspetto; ma nella sostanza sono fondati, e da due mille anni impugnano l'alterazione.
Concludiamo. Secondo la natura, il passato genera il presente, il presente genera l'avvenire: secondo la logica, il passato rende impossibile il presente, il presente rende impossibile l'avvenire.



Capitolo II

I RAPPORTI TRA I CORPI RENDONO IMPOSSIBILI I CORPI

L'azione che i corpi esercitano gli uni sugli altri, è contraddittoria quanto l'alterazione.
Per sè stessa l'azione non è che l'alterazione; chi agisce si áltera. Dunque il corpo attivo cessa di essere identico con sè stesso; esce di sè, si trasporta là dove non è, la sua individualità è fallita, la sua identità violata. Nell'azione il corpo cessa di essere eguale a sè stesso; non havvi alcuna equazione tra il corpo e la sua influenza, tra l'oggetto e le sue proprietà, tra l'ossigeno e la combustione. Infine le deduzione è anch'essa violata, essendo impossibile di dedurre da un oggetto qualunque l'azione che esercita: in qual modo il moto proviene dai muscoli? in qual modo il nervo diventa la premessa della sensazione? Perchè l'occhio è l'antecedente della visione? L'oggetto e la sua azione sono termini distinti, termini che si escludono.
Lo stesso ragionamento si applica al corpo, che subisce l'azione. Esso lasciasi invadere dall'agente, non è più quello che era, diminuisce, aumenta, si áltera, si trasforma; e la sua trasformazione non può essere dedotta nè dalla sua essenza, nè dall'essenza di un oggetto che gli è estraneo.
Se due corpi sono distinti, se la loro distinzione è logicamente accettata, non possono più esercitare alcuna influenza l'uno sull'altro. Se io sono separato dagli oggetti che mi circondano, il mio occhio non può vederli, la mia mano non può toccarli. Viceversa, se è logicamente stabilito che io li vedo, che li tocco, che essi sono in rapporto con me, se è riconosciuto che le cose influiscano le une sulle altre, la logica esige che siano in comunicazione tra esse, e la comunicazione richiede che esse formino una sola e medesima cosa, e che la distinzione delle cose sia considerata come un'illusione. O la distinzione dei corpi, o i rapporti tra i corpi; ecco il dilemma.
Volgarmente si crede che per mezzo del contatto la contraddizione sparisca e che il contatto, termine medio tra la separazione e la comunicazione, valga a conciliare i rapporti colla distinzione delle cose. Illusione! Nel contatto i corpi rimangono gli uni fuori degli altri, isolati, esterni, stranieri gli uni agli altri come grani di sabbia; mentre, al contrario, nel rapporto i corpi si collegano, s'identificano, aderiscono gli uni agli altri. D'altronde, il contatto non è punto necessario al rapporto: due ferri calamitati si attraggono prima di toccarsi, i mondi gravitano gli uni verso gli altri a distanze incommensurate. Vorreste dire che i due ferri calamitati, che i mondi gravitanti trovansi in contatto, mercè i loro fluidi invisibili? Allora negate la separazione visibile per supporre un contatto imaginario; la vostra ipotesi interverte il fatto, suppone falsa la separazione che si vede, e vero il contatto negato dagli occhi. Chi autorizza questa supposizione? Imaginare un contatto fittizio tra la terra ed il sole vale quanto affermare un non contatto ipotetico tra le molecole di un pezzo di ferro. Ne' due casi l'esperienza trovasi egualmente smentita; poi la contraddizione non è tolta. Il contatto di due mondi non ne spiega l'attrazione; la separazione di due molecole di ferro non ne spiega l'adesione. - Il dilemma sussiste; chi ammette i rapporti, nega la distinzione delle cose; chi distingue le cose, rende impossibili i rapporti.
Consideriamo i rapporti nella forma più semplice, nell'azione meccanica. Che accade quando il moto si comunica da un corpo all'altro? Il moto lascia il motore e passa nel mobile. Come? Possiamo supporre che le forze passano dal motore al mobile; una stessa forza, dopo di aver portato il motore nella sua corsa, cambierà il suo carico nel momento dell'urto. Questa ipotesi rispetta la logica; essa separa i rapporti dalle cose, separa le forze dai corpi, e mantiene, da una parte, l'esistenza dei rapporti, dall'altra, l'individualità dei corpi; da una parte ci mostra i rapporti senza corpo, dall'altra i corpi senza rapporto. Tale ipotesi non può essere seriamente discussa. Le forze, non sono esseri indipendenti, si manifestano inseparabili dalla materia. Poi supposte indipendenti, non toglierebbero la contraddizione del rapporto: le forze, invadendo i corpi, li traverserebbero come se fossero ombre, si compenetrerebbero momentaneamente con essi, ne distruggerebbero l'individualità, la distinzione delle cose svanirebbe. Il corpo invaso, cessando d'essere ciò che era, subirebbe ancora l'alterazione del moto. D'altronde, il moto identificato colle forze si separerebbe dai corpi quando le forze se ne separano: si vedrebbe la corsa staccarsi dal cavallo; si potrebbe dire colla scuola di Megara: havvi il cavallo, havvi la corsa, non havvi il cavallo che corre. Infine, nell'ipotesi che separa le forze dalle cose, per rimanere coerenti dobbiamo separare altresì tutte le proprietà da tutte le sostanze: se si divide materialmente il peso dal ferro, si deve staccare materialmente il verde dall'albero, e la stranezza del divagare non ha più limite alcuno.
Ammettiamo che le forze siano inerenti alla materia: ciò posto, le forze non passano più da un oggetto all'altro, non possono più essere trasmesse; nell'urto, il motore non fa che risvegliare le forze latenti del mobile; il mobile non è passivo, si move per una sua propria energia, per una reazione eguale all'azione del motore. E tale è la teoria dei fisici; la meccanica si fonda sul principio che la reazione eguaglia l'azione; ma questo principio scopre appunto la contraddizione che si vorrebbe dissimulare. Voi dite che la reazione eguaglia l'azione; voi dite che il mobile si muove traendo il suo moto dall'energia occulta che esso possiede, e che reagisce; ciò prova che voi sentite la necessità logica di rispettare l'individualità del mobile, di fare che non sia invasa, di mantenere la distinzione che la separa da ogni altro oggetto. Spinto dalla logica, isolate talmente il mobile, che gli supponete tutte le forze che gli hanno dato e gli daranno il moto. Non è dunque evidente che il fatto della reazione distrugge la vostra teorica dell'azione? Non volete che le forze del motore si trasportino nel mobile; volete che stiano nel motore. In qual modo il motore risveglierà dunque la reazione là dove non è, nel mobile? Che le sue forze vi si trasportino lasciandolo o non lasciandolo, non cessa egli di esercitare una azione esteriore al suo essere, all'interno di un altro oggetto; non cessa di essere là dove non devesi trovare, non cessa di dare una mentita alla distinzione dei corpi. Che l'essere sottoposto all'azione la subisca passivamente o reagendo colle proprie forze, egli non di meno è invaso o distrutto nella sua identità, e questa volta colla differenza che la reazione è un mistero aggiunto al mistero dell'azione. Dicesi che il mobile è dotato di forze latenti, che possiede una potenza occulta: qual'è questa potenza? Essa può tutto ciò che può diventare il mobile; è la potenza della sua rapidità, della sua lentezza, del suo ingrandire, del suo diminuire; è, come si dice, la sua forza d'inerzia, la forza della sua immobilità e del suo moto, la forza dei contrari. Dunque ogni essere contiene in potenza tutte le sue trasformazioni future; dunque contiene in sè medesimo il suo proprio destino. A che giova dunque l'azione esteriore? Il motore è inutile, il rapporto esteriore è annullato, il principio della reazione addentra e nasconde tutti i rapporti nel fondo di ogni oggetto. - Quando si suppone che ogni mobile contiene in sè il principio d'ogni suo moto, la logica vuole che contenga in sè il principio d'ogni sua alterazione, d'ogni sua trasformazione. Si applichi dunque l'ipotesi della reazione alla coesione, alle affinità chimiche, all'attrazione, a tutte le forze, siano desse proprietà o qualità. Secondo il principio della reazione, tutta l'azione che l'universo esercita sopra una data cosa, si troverà a priori in questa stessa cosa. Si dovrà dire: non è la terra, non è la pioggia, non è l'aria, non il sole che sviluppano questo germe e ne fanno un albero; il germe ha creato l'albero colle forze latenti della sua reazione; l'albero si è formato da sè e in questo modo ogni essere rende inutile l'universo; su questa via si giunge alla conclusione, che tutto è in tutto. Restituendo i rapporti alle cose si fa d'ogni cosa un universo, e quindi sotto altra forma la distinzione degli esseri resta distrutta. Dobbiamo adunque ripetere con Platone, che il rapporto rende dubbia ogni cosa.



Capitolo III

OGNI ESSERE È PER SÈ STESSO CONTRADDITTORIO

Abbiamo visto che l'alterazione viola la logica, che i rapporti tra le cose sono contraddittorii, v'ha ogni cosa prima d'alterarsi e isolatamente considerata, contiene la contraddizione nel fondo del suo essere. In che consiste la cosa? Da un lato un oggetto unico, un essere indivisibile, individuale, è, come dicevano gli scolastici, un'ecceità; l'albero è sempre uno, nel tronco, ne' rami, nelle radici, in ogni sua parte. Dall'altro lato, la cosa si compone di varie parti, l'albero può essere scomposto; possiamo separare il tronco dai rami, dalle radici, e spingere la divisione fin dove vogliamo. Ora, perchè la cosa fosse un oggetto logico, bisognerebbe trovare l'equazione tra il tutto e le parti, bisognerebbe che l'unità del complesso fosse eguale alla somma degli elementi multipli che lo costituiscono. Ma l'equazione del tutto colle parti non si avvera mai: il tutto è sempre maggiore delle parti. Dov'è l'essere che vive? Nel cuore? nel cervello? nei nervi? nel sangue? Egli è in tutti i suoi organi e, di più, è vivente. L'albero, il fiore, il minerale hanno una vita come l'animale, e l'unità di questa vita non si trova mai nelle loro parti integranti. Poi, per il tutto ogni cosa è una, per le parti è multipla: in qual modo l'unità può trovarsi nel multiplo? in qual modo gli elementi multipli possono riunirsi in una cosa una ed indivisibile come la vita? Non v'ha equazione; il passaggio dal tutto alle parti è una vera contraddizione.
La contraddizione dell'uno e del multiplo passa dalle cose sensibili alle nostre proprie astrazioni. Osservate i numeri dell'aritmetica: ogni cifra differisce dalle unità che la compongono; il dieci è altro che dieci unità, il tre è altra cosa che tre unità; i divisori e i multipli variando nelle diverse cifre, ogni numero è fornito di proprietà che non trovansi ne' suoi elementi. I numeri sono sì distinti, sì diversi, che non possono essere tradotti gli uni negli altri; il dieci non è divisibile per nove, nè il tre per due. Per la stessa ragione, non c'è dato di trovare la quadratura del circolo: si inscrivano quanti quadrati si vogliono nel circolo, essi non hanno ne le proprietà, nè le dimensioni della figura circolare, e la traduzione in misure rettilinee diventa impossibile. Così nella matematica come nella fisica, il tutto combatte le parti, mentre le parti combattono il tutto.



Capitolo IV

LE CONTRADDIZIONI DELLA MATERIA


La materia ci presenta due serie di qualità, le une primarie, le altre secondarie; le qualità primarie sono l'impenetrabilità, la mobilità, l'estensione e la figura; qualità che si chiamano primarie perchè supposte in tutti i corpi. Una cosa che non fosse nè impenetrabile, nè mobile, nè estesa, nè figurata, non sarebbe un corpo. Le qualità primarie sembrano destinate a soddisfare la logica; esse sono, per così dire, intelligibili e ragionevoli, perchè contemplano sempre la natura sotto l'aspetto della quantità. Secondo le qualità primarie, il mondo è una quantità di materia senza origine e senza fine; la materia dividesi in particelle eguali o ineguali, si combina in mille modi senza che cessi d'essere sempre la stessa materia, la stessa quantità, sempre eguale a sè stessa. La disposizione sola varia. Supponiamo che la disposizione ai tempi di Mosè fosse A, ai tempi di Gesù Cristo B, ai tempi di Maometto C; si avrà la doppia equazione A=B=C. Le qualità primarie sono adunque ragionevoli; per esse lo studio della natura diventa logico, e se si vuol costruire il mondo non si ha più che a domandare una data quantità di materia e di moto.
Sotto l'azione della logica le qualità primarie cessano immediatamente di essere razionali, e sono lungi dallo spiegare il mondo, lo rendono imopssibile.
Prendiamo l'impenetrabilità della materia; la logica richiede che ogni atomo sia inaccessibile agli altri atomi, che rimanga eterno, impassibile con tutte le sue qualità, che non entri ne' diversi composti se non conservando la sua individualità. Ciò posto, ci converrà negare le affinità chimiche, la fusione, l'assimilazione organica, tutti i processi coi quali la natura elabora le sue creazioni. In essi gli elementi, i componenti si distruggono mutuamente per costituire nuovi esseri dotati di nuove proprietà. Unite due gas, avrete un liquido, l'acqua: unite l'ossigeno al mercurio, l'uno aeriforme, l'altro liquido, e avrete un precipitato. Il calore è imponderabile; coll'invadere un solido, il ghiaccio, l'oro, il ferro, vi dà un liquido: combinate un seme con una diversa quantità di terra, di aria e di acqua, a capo di qualche anno avrete un albero; deponete un germe in un essere vivente, e vedrete nascere un vivente. Dappertutto l'affinità, la fusione, l'assimilazione fanno sparire due o più elementi per far apparire una cosa affatto nuova. Ma ammessa l'impenetrabilità, la logica vieta il cambiarsi degli elementi; quando li elementi cambiano, vieta al composto di manifestarsi. Dunque tra l'impenetrabilità della materia e le metamorfosi della natura non vi ha nè identità, nè equazione, nè deduzione, vi ha la distanza della contraddizione.
Supponiamo che i componenti rimangano distinti, che il composto si riduca ad una semplice mescolanza senza fusione, a una nuova disposizione di atomi senza assimilazione. Il mondo che uscirà dalla mescolanza delle materie non sarà il mondo in cui viviamo, sarà un mondo in cui ogni qualità unita a una sostanza durerà sempre, e in cui la distruzione della qualità sarà impossibile. In tale mondo le cose si mostreranno variamente disegnate, come mosaici mobili i cui colori saranno eternamente gli stessi. La nascita, la morte saranno tolte, la fusione generatrice per cui la vita si rivela in un essere sostanziale, unico, indivisibile non potrà mai realizzarsi; si vedranno atomi sgranati, non si vedrà alcun oggetto. - Si risponderà: «la natura è in realtà come voi dite; tutto si compone di atomi sgranati, mobili, che cambiano di posizione senza cambiare di essenza; la logica non ci permette di concepire altrimenti la natura; se la vedete in balia dell'assurdo, se i vostri occhi ve la mostrano elaborata e travolta da continue fusioni in cui le qualità nascono, spariscono, cambiano di forma, il torto è vostro; accusate i vostri sensi, la vostra irriflessione, e cedete alla ragione, che stabilisce l'impenetrabilità della materia.» Richiesto, accorderò che la materia è impenetrabile, che la fusione e le metamorfosi della natura non sono che false apparenze, vere illusioni. La nascita, la morte, l'individualità degli esseri siano pure nostri errori. Bisognerà dunque spiegarmi questi errori; e se esistono, anche solo come errori, bisogna renderne ragione dinanzi alla logica. Perchè l'impenetrabilità prende essa l'apparenza della fusione, della vita, della penetrabilità? Perchè l'illusione sarà essa nella penetrabilità piuttosto che nella impenetrabilità? A diritto o a torto l'impenetrabilità prende l'apparenza della penetrabilità; come mai l'impenetrabilità può opporsi così a sè stessa, e creare l'errore della sua propria contraddizione? Questa metamorfosi viola la logica; e se ammettiamo che l'impenetrabilità può diventare l'errore della compenetrazione, perchè non potrebbe essa diventare realmente penetrabile? Siate logico o illogico: non è lecito fermarsi a mezza via.
Anche la seconda delle qualità primarie della materia, la mobilità, si ribella ai fatti che deve spiegare. Non v'ha dubbio che la materia sia mobile, si può metterla in moto, traslocarla: e la mobilità non darebbe luogo a contestazione se la materia non fosse nel tempo stesso motrice, cioè energica, attiva, capace di dare e di darsi il moto. Il vostro corpo che muove la materia è alla sua volta materiale. Ne nasce che da una parte la materia è immobile, d'altra parte è motrice; da una parte riceve il moto, d'altra parte lo dà; di modo che la materia è nel tempo stesso inerte e energica, passiva e attiva. Ora un medesimo oggetto non potrà mai essere passivo e attivo, non potrà mai essere i due contrari senza contraddirsi; bisogna che sia mobile o motore. Il motore suppone un punto di appoggio, dev'essere in sè, deve essere immobile; se non resiste al proprio sforzo, cede, è mobile, è mosso, non muove. Se un oggetto fosse nel tempo stesso motore e mobile, esso avrebbe in sè due parti distinte, la parte che dà il moto e quella che lo riceve; esso avrebbe in sè un motore ed un mobile, l'uno immobile, l'altro in moto; il primo respingerebbe il secondo con tutta la forza della logica, non potendo identificarsi con esso senza costituirsi nel tempo istesso immobile ed in moto. Istessamente se la parte motrice fosse alla sua volta mobile, dovrebbe essa pure contenere un nuovo motore, il quale, ancora per ipotesi essendo mobile, dovrebbe contenerne un altro che bisognerebbe cercare progredendo all'infinito, finchè lo si trovasse immobile e assolutamente al di fuori della natura. Ne consegue che ammesse la mobilità, la passività della materia, la logica rende impossibile l'attività delle cose, nega le mille potenze che animano gli oggetti della natura, distrugge le qualità secondarie eternamente creatrici di esseri sempre nuovi.
Si dirà: «perchè non uscire dalla contraddizione trasportando «in Dio il principio d'ogni moto?» per mille ragioni, tra le altre perchè la forza motrice è dappertutto nella natura. Io la vedo nelle qualità secondarie, in ogni proprietà; nelle affinità delle molecole, nella gravitazione dei mondi. Per voi i cieli e la terra celebrano la gloria di Dio; per me i cieli e la terra sono altrettante divinità: per voi le forze motrici non son che mobili, suppongono un motore trasmondano, e non sono motrici che per una nostra illusione; ma prima di lasciare la terra per trasportarmi in una regione trasmondana, io voglio e devo guardare al punto di partenza. Esso è tutto nel dato che la materia è mobile; voi la dichiarate mobile in realtà, motrice per illusione. Perchè non sarebbe essa, al contrario, motrice in realtà, e mobile per illusione? Le sue qualità primarie sono passive, le sue qualità secondarie sono attive, energiche; la doppia apparenza è contraddittoria, i due termini si escludono: l'azione e la passione si rendono impossibili a vicenda. Per qual ragione sceglieremo noi il primo termine piuttosto che il secondo come punto di partenza? Perchè non diremo noi che la mobilità è illusoria, che si riduce ad una falsa apparenza, che questa apparenza è creata dalle forze, le quali sono chiamate secondarie per errore, mentre son creatrici delle qualità primarie? L'alternativa è geometrica, il dilemma inevitabile, la scelta impossibile.
La terza qualità primaria della materia ripugna, come le due precedenti, alle qualità secondarie della natura. Mentre si dice che la materia è estesa, convien pur dire che la materia è energica, attiva, fornita di forze; ogni qualità secondaria è una vera forza; perciò il colore agisce sull'occhio, il suono sull'orecchio. Possiamo noi combinare l'idea della forza con quella dell'estensione? Le forze sono desse estese? Possiamo noi attribuirle all'estensione? No: la forza è una e indivisibile, è la forza che dà unità al corpo vivente, che ne domina le diverse parti, che le costringe a formare un tutto unico; e se la forza è una, essa rende impossibile il multiplo della estensione, rende impossibile la terza tra le qualità primarie della materia. - Per combinare la forza coll'estensione non ci resta altro espediente che quello dello spiritualismo, dando un'anima ad ogni corpo; e supponendo che in ogni corpo la forza è un'anima, un'essenza, un'entelechia, una monade, come più piace, ma sempre spirituale, cioè una e indivisibile. Però in quest'ipotesi l'anima e il corpo si rendono impossibili a vicenda, e per isfuggire una contraddizione cadiamo nelle mille antinomie dello spirito e della materia. Dopo creata l'anima, dopo identificata la forza coll'anima, non possiamo più raggiungere il corpo; l'anima, l'essenza, la monade, non possono nè indebolirsi, nè fortificarsi, nè nascere, nè morire; sono logiche, sono eterne; meri spiriti, non possono nè dare il moto agli organi, nè dominare la materia estesa; e lo spiritualismo, per ispiegare il fatto dell'unità degli esseri e dell'indivisibilità delle forze, si trova immediatamente, assolutamente fuori della natura, dove si nasce e si muore, e ogni cosa si compone di parti estese. Quindi la sicurezza colla quale il materialismo risponde alle argomentazioni dello spiritualismo, che appagano la logica, ma mentono; procedono per identità, ma non sono di questo mondo. Quindi il dilemma di credere all'anima o al corpo, all'uno o al multiplo, cioè alla forza o all'estensione; dilemma eterno, non essendoci concesso nè di negare l'unità, nè di negare l'estensione, nè di considerare la forza come un'illusione della materia che si opporrebbe a sè stessa, nè di considerare l'estensione come un'illusione della forza che si opporrebbe a sè stessa; non essendoci dato neppure di preferire l'uno o l'altro de' due termini, poichè sono entrambi egualmente patenti e irresistibili. In breve, l'estensione rende impossibile il mondo, e il mondo rende impossibile la materia estesa.
Lo stesso ragionamento si applica alla quarta delle qualità primarie, la figura; la forza che dà la figura, e l'essere che la riceve si escludono a vicenda. La prima non si manifesta all'occhio, s'induce, ma non si vede, si divina, ma non si conosce; prima di agire non è nello spazio, dopo l'azione non lascia vestigio di sè. Una e indivisibile come il triangolo, il quadrato, il circolo, riunisce più particelle della materia, le costringe a convergere verso un solo scopo; in questo modo appunta in sei triangoli il cristallo di rocca, disegna i petali della rosa, e li schiera in un unica corolla. Essa novera, misura le vertebre, i muscoli, i nervi, le vene, gli organi degli animali, organizzati ciascuno da una cifra unica e misteriosa, dotata di multipli e di divisori invariabili. La cifra che ha dato cinque dita alla mano dell'uomo, trentadue denti alla bocca, la qualità agli organi esterni della vista, dell'udito, dell'odorato, della azione e della locomozione, non può in niun modo essere nè estesa, nè divisibile, nè tangibile. Se la figurabilità appartiene alla materia, se è l'evidente proprietà degli esseri; se gli alberi sono alberi, e gli uomini uomini, dobbiamo loro negare la figura. La figurabilità crea, e la figura è creata; essa muove, e la materia è mossa; essa combina, e la materia è combinata; essa dispone, e la materia è disposta; essa è artefice, e la materia è oggetto dell'arte. San Tomaso direbbe che è indivisibile, e la materia è misurata; Spinoza direbbe che è naturante, e la natura è naturata. Dunque dal principio della figura alla figura non vi ha passaggio matematico; tra i due termini vi ha solo la distanza della contraddizione. E qui ancora, se il principio figurativo è reale, la figura è un'illusione; se la figura è reale, l'illusione è nel principio figurativo. Dov'è la verità? dove l'illusione? Non possiamo rispondere, non possiamo ricorrere allo espediente di accusar d'errore l'uno de' due termini del dilemma: perchè, vero o falso, il termine accusato non cesserebbe di esistere; se non si spiega come vero, bisogna spiegarlo come falso, come errore: e la spiegazione costerebbe alla logica quanto la sua vera e reale creazione. Volete dedurre l'illusione della figura dal principio figurativo? conviene che il principio si smentisca per dare l'illusione del suo contrario; volete dedurre il principio figurativo dalla figura? convien che la figura si smentisca, e sempre per dare l'illusione di ciò che la distrugge. Non v'ha uscita: la contraddizione sarà eterna.
Così, secondo le qualità primarie, il mondo di Mosè, di Gesù Cristo e di Maometto è lo stesso, ha variato solo per la disposizione delle parti, e vi ha equazione perfetta fra le tre età. Secondo le qualità secondarie, le tre epoche non sono equivalenti e si sono sviluppate dando una triplice mentita all'impenetrabilità, alla mobilità, all'estensione ed alla figura della materia. Una stessa identica materia è adunque penetrabile e impenetrabile, mobile e senza moto, estesa e inestesa, figurata e senza figura: ciò ripugna alla ragione, ma è.
Per isfuggire all'assurdo si dice da alcuni: «Una stessa cosa non potrebbe essere eguale e diseguale a sè stessa; rendiamo ragionevole il mondo, rendiamolo possibile. Giacchè le qualità primarie si oppongono alle secondarie, separiamo le une dalle altre; diamo le qualità primarie alla materia, agli atomi, alle molecole; le qualità secondarie ad altri esseri, come le essenze, le anime, le monadi. La contraddizione sparirà». No, essa durerà sempre. Separiamo la materia dalle sue qualità secondarie, consideriamo le qualità secondarie come esseri indipendenti, e, se si vuole, come puri spiriti. In quest'ipotesi le cause della cristallizzazione, della vegetazione, della vita, saranno staccate dalle materie, saranno senza estensione, senza figura, senza passività, senza resistenza (cioè penetrabili). Che saranno esse? forze senza materie, essenze immateriali, entelechie, anime in pena, esseri fantastici, e tutte le contraddizioni saranno capovolte e allora converrà dirci in qual modo l'essere senza figura potrà dare la figura; come l'essere inesteso potrà agire sulla estensione; come all'essere penetrabile qual ombra sarà dato di agir su corpi resistenti; infine come l'essere attivo, spoglio d'ogni passività, potrà comunicare il moto, esso incapace di sforzo, di conato, di contrazione e di espansione, essendo incapace di resistenza e di reazione. E che? non sarà la vita inerente al corpo vivente? La cristallizzazione sarà esteriore al cristallo? la vegetazione non sarà nel vegetale? e l'affinità molecolare scorrerà al di fuori delle molecole? Ecco l'universo popolato di animali invisibili, di alberi intangibili, di minerali, di roccie impercettibili e immateriali.
D'altra parte, qual sorte subirà la materia colle quattro qualità primarie che le si vogliono lasciare? Essa è inerte, passiva; senza colore, non si mostra più all'occhio; senza odore, senza sapore, sfugge all'odorato e al palato; non dà più suono, non può più esser udita, non resiste più al tatto, avendo perduta la coesione che deve alle qualità secondarie. Dunque la materia sparisce, diventa intangibile, non è più la materia, e trovasi ormai eguale al non essere. Chi vuoi evitare la contraddizione tra le qualità secondarie e le qualità primarie, tra la natura e la materia, trovasi ridotto a creare una natura che non è la natura, e una materia che non è la materia; deve creare due mondi invisibili, come se l'ombra aggiunta all'ombra potesse generare la luce. Ogni qualvolta si vuole eludere la contraddizione non si fa che raddoppiarla.



Capitolo V

I GENERI E GLI INDIVIDUI SI ESCLUDONO

I generi si mostrano nello stesso tempo che gli individui e classificano gli oggetti secondo le loro somiglianze. Il genere esiste realmente: quando io guardo un uomo, io vedo un uomo: il genere è un fatto certo, come la nostra esistenza, come la nostra scienza, come il nostro linguaggio. Questo fatto è logico? Il genere e l'individuo differiscono, oppongonsi l'uno all'altro, e sotto l'impero della logica finiscono per contraddirsi.
Esaminiamo il genere: dov'è desso? negli individui, è in essi che si appalesa; ma secondo la logica è possibile che il genere sia unito agli individui, è impossibile che ne sia superato.
Se il genere si unisce coll'individuo, vi saranno due cose in una medesima cosa; lo stesso essere sarà in un medesimo tempo un uomo e l'uomo; non sarà uno, sarà doppio. Il genere che è intelligibile, che non occupa alcun punto dello spazio, si troverà nel luogo delle cose che si rassomigliano, seguirà l'individuo che cammina, si fermerà quando l'individuo si ferma, giacerà quando l'individuo giace. Inalterabile il genere, si troverà compenetrato coll'individuo che si áltera e perisce; unico ed indivisibile, si troverà nel medesimo tempo tutto intero in una moltitudine di cose distinte; il genere uomo sarà nello stesso momento in tutti gli uomini, in Atene, in Roma, in Parigi. Il numero degli uomini varia ad ogni istante: l'uomo dovrà subire questa variazione senza variare, dovrà moltiplicarsi, diminuire e rimaner sempre uno e invariabile. Anche qui troviamo la contraddizione dell'uno e del multiplo che abbiam veduto sorgere in ogni individuo coll'opposizione del tutto e delle parti.
Se il genere non può stare unito all'individuo, non può neppure separarsene. Se vi fossero esseri come l'uomo separato da tutti gli uomini, la bianchezza separata da tutto quello che è bianco, simili esseri formerebbero un mondo a parte, senza rapporto alcuno con il mondo materiale. Quindi se il genere fosse indipendente, cesserebbe di contenere l'individuo; nessun uomo sarebbe uomo, nessuna sostanza sarebbe sostanza, le somiglianze sarebbero separate dagli oggetti che si somigliano, tutto svanirebbe in un'alterazione, in una differenza per noi inconcepibile ed ineffabile. Le somiglianze sarebbero in un altro mondo; e di che sarebbero esse somiglianze? di nulla. Così, separando i generi dagli individui, creansi due mondi opposti, l'uno generale, l'altro individuale; l'uno eterno, l'altro variabile; ciò che sarebbe vero del genere sarebbe falso dell'individuo; la verità dell'individuo sarebbe l'errore nel genere. Nell'ipotesi de' generi indipendenti, invece di sparire, la contraddizione ingrandisce.
Dimentichiamo gli individui: anche tra loro i generi non possono nè combinarsi, nè separarsi. La natura ci mostra che essi si combinano, formano una gerarchia; i più astratti contengono i generi inferiori; e ogni nostra scienza si fonda sulla gradazione conc atenata dei generi. Pure, secondo la logica, ciascun genere essendo uno ed indivisibile, non può trovarsi in altri generi: l'animale non potrebbe scendere nell'uomo, nel cavallo, nel gallo, senza essere uno e multiplo, senza riprodurre nella sfera delle generalità quella contraddizione del genere e dell'individuo per cui l'uomo è ad un tempo tutto intero nell'abitante di Roma e in quello d'Atene. Il genere animale unito al genere dei mammiferi, poi a quello dei cavalli, ci presenterebbe l'identificazione di tre generi distinti, la compenetrazione di tre esseri in un essere, e sempre un essere uno e multiplo, e però contraddittorio. Supponiamo che i generi non si combinino, che restino separati gli uni dagli altri; allora i generi superiori non saranno nei generi inferiori; allora l'uomo non sarà un animale, l'animale non sarà un corpo, il corpo non sarà un essere. La contraddizione si presenta sotto una nuova forma.
Senza traccia d'indiscrezione potrei domandare se i generi sono qualità o sostanze, attributi o cose. Nel primo caso, se i generi sono qualità, allora le sostanze si somiglieranno in forza di esseri che non sono sostanze; i generi non staranno da sè, dovranno aderire ad una sostanza: qual sostanza? non la sostanza in generale, perchè essa pure è una qualità; non le sostanze in particolare, perchè particolarizzate dalle loro qualità determinate dai generi. Quindi i generi saranno raminghi nell'universo, incapaci di stare da sè e di trovare un punto d'appoggio. Se i generi sono sostanze, vorrei sapere come potrà esservi un genere uomo, mentre io non sono uomo che in forza delle mie qualità tutte generiche, come i sensi, la ragione, la statura, l'organismo. Potrei ancora domandare se il genere è bello: dato che io accordi la bellezza al genere, corro pericolo di aver contro di me tutte le persone deformi, che resteranno maledette dal genere, poi, in sì strana posizione che i deformi non potranno più rassomigliarsi tra loro. Se il genere non è bello, allora domando mi si conceda di creare un genere di più per la bellezza: nel tempo stesso non si rifiuti neppure ai ciechi ed ai deformi un genere a loro immagine, perchè possano somigliarsi. Qual'è il rapporto fra il genere dell'essenza e quello della bellezza? tra il genere della bellezza e quello della deformità? Quanto più m'inoltro, più i contrari si moltiplicano: io mi fermo. La prima volta che la filosofia si innalzava, col genio di Platone, nel cielo dei generi, fu creduto che i destini della scienza fossero assicurati per sempre, e che i principi del mondo sensibile sarebbero tolti alle contraddizioni che li straziano. Il giorno dopo, Aristotele applicò la logica ai generi, e mostrò che raddoppiavano tutte le contraddizioni.
Per mettere un termine alla contraddizione fu imaginato di negare i generi e di considerarli come semplici illusioni del nostro spirito. Ma il tentativo è inutile: lo ripetiamo, il genere è dato nello stesso tempo che l'individuo e i due termini devono essere accettati o negati nel tempo stesso. Ammettiamo noi che ci sia dato di considerare l'uno o l'altro dei termini siccome erroneo; quale di essi sarà il vero? L'individuo? allora ogni genere sarà un errore, il più alto de' generi, l'essere, sarà il più grande degli errori: allora ciò che sarà più lungi dall'essere sarà ciò che esiste di più, vi saranno soli individui; saranno e non si potrà più dire che sono: non si potrà più ragionare di ciò che esiste o non esiste: l'essere, il non-essere non avendo più senso, la realtà dello stesso individuo cadrà nel nulla. Vogliamo noi preferire il genere come vero, accusando l'individuo d'essere un'illusione? la realtà sarà in ciò che v'ha di più vago, di più indeterminato; l'individuo sarà eguale al nulla; bisognerà non essere nè uomo, nè animale, nè albero; bisognerà sparire per godere la pienezza dell'esistenza. Ecco il dilemma che si offre quando si pretende stabilire un'alternativa fra il genere e l'individuo; dilemma falso, perchè due fatti simultanei devono essere egualmente accettati; dilemma senza uscita, perchè ci manca il motivo per la scelta. Sotto un aspetto l'essere è tutto, e tolto l'essere nulla è possibile; Sotto un altro aspetto l'individuo è tutto, l'essere senza qualità, senza determinazione, non ha tampoco l'esistenza. I due punti di vista sono egualmente necessari, essi esigono la preferenza per lo stesso titolo: quello di essere inevitabili.



Capitolo VI

LA CAUSA E L'EFFETTO SI ESCLUDONO

Alcuni principj si presentano come le condizioni dell'universo, come le ipotesi necessarie della natura. Questi sono i principi della causa, della sostanza, del tempo e dello spazio. Lo spazio è necessario all'esistenza del corpo, il tempo a quella del moto; la sostanza è il substrato indispensabile delle qualità, la causa è il principio primo d'ogni manifestazione. Nel fatto i principj enunciati sono la base del mondo materiale, ma sotto l'impero della logica essi lo rendono impossibile.
Nulla accade senza una ragione sufficiente. Ecco il principio della causalità, il quale fa supporre ogni fenomeno generato da una causa e fa dipendere ogni oggetto da un oggetto anteriore che lo produce. Ma chi non vede che la distinzione della causa e dell'effetto si riduce a dividere l'alterazione in due momenti? Non è forse ovvio che le contraddizioni dell'alterazione devono passare nel movimento della causa verso l'effetto? Se la causa esiste, essa dovrà sempre esistere qual'è, nè generare cosa alcuna; la logica, esigendo l'identità eterna della causa, rende l'effetto impossibile. Che, se si ammette l'effetto, sarà impossibile di trovargli una causa senza supporre che in un dato momento. esso non era, e la logica, esigendolo sempre identico, sopprime la causa che lo genera.
Esaminiamo tutte le forme della causalità; la contraddizione tra la causa e l'effetto sarà sempre la stessa.
Primo caso. La causa indivisibile dall'effetto passa tutta nello effetto: così opera la natura, in cui il presente è figlio del passato. In questo caso la causa e l'effetto non sono letteralmente che i due momenti dell'alterazione, e quindi l'uno esclude l'altro.
Secondo caso. La causa genera l'effetto senza alterarsi e rimanendo distinta dall'effetto: dopo d'aver lasciato uscire dal suo seno un altro oggetto, dessa è ancora quella che era e conserva sempre le sue qualità. Egli è in tal modo che, secondo i Cristiani, Dio fa il mondo senza diminuirsi; qui l'effetto viene dal nulla e s'informa dall'assurdo.
Terzo caso. La causa genera l'effetto, modificandosi nel modo che la madre partorisce il figlio. Qui v'ha da una parte l'alterazione, dall'altra l'apparizione di una cosa nuova; da una parte la causa si modifica, si trasforma, cessa di essere quella che era, e trovasi condannata dalla logica; dall'altra parte, abbiamo un fatto nuovo, un fatto che emana dal nulla, e che non evita l'assurdità della sua origine se non appoggiandosi sull'assurdità anteriore della causa che si áltera.
Quarto caso. La causa contiene l'effetto, come la casa contiene i mobili, e l'effetto esce dalla causa senza alterarla e senza derivare dal nulla la sua propria origine. In questo caso la causa è un mero spostamento, essa tocca solo l'ordine delle cose, essa è logica; ma questo è il solo caso che non si verifica mai nella natura; non si dice mai che la casa sia la causa dei mobili che contiene. L'alterazione è sempre necesaria, perchè l'effetto sia da noi riferito ad una causa che precede.
Dunque, la causa e l'effetto invece di unirsi, si respingono a vicenda; i due termini non sono che i due momenti contraddittorii dell'alterazione o del rapporto.



Capitolo VII

LA SOSTANZA ESCLUDE LA QUALITÀ

Le qualità non possono stare da sé; esse suppongono sempre un essere al quale appartengono, suppongono una sostanza. Questo è un fatto; e se noi ne cerchiamo la ragione, troviamo che il fatto contiene una contraddizione.
Egli è certo che la qualità e la sostanza sono due cose distinte; tra loro non vi ha identità, nè equazione, nè sillogismo. Dunque esse si uniscono a caso: il vincolo che le unisce è assolutamente incognito e per noi interamente arbitrario. Dicesi che la qualità suppone la sostanza, che la sostanza è la condizione che permette alla qualità di esistere; tale è la nostra credenza; ma nella bilancia della logica la qualità e la sostanza pesano egualmente, sono due nozioni di egual valore; se l'una d'esse si pretende condizione dell'altra, la logica non può accettare la pretensione prima d'averla verificata coll'identità, coll'equazione e col sillogismo. Se la sostanza si pretende condizione della qualità, la mancanza d'ogni prova permette d'intervertire la pretensione in favore della qualità: perchè la qualità non sarebbe essa la condizione della sostanza? Io non conosco le sostanze se non per le qualità.
Data la qualità, la logica nega la sostanza; data la sostanza, la logica nega la qualità. Cominciamo dall'ammettere le qualità. Dove è la sostanza? Essa è sotto le qualità, nell'interno delle cose; si giunge ad essa solamente spogliando le cose d'ogni loro qualità. Tolto il colore, il peso, la resistenza, resta la sostanza. Che è dessa adunque? Tolte le qualità, nulla rimane; la sostanza diventa eguale a zero: e ne consegue che le qualità si fondano sul nulla, e che il nulla è la condizione delle cose, il principio del mondo. Al contrario, prendiamo le mosse dalla sostanza; la qualità svanisce. La sostanza è un essere intelligibile, generico, come l'uomo, come l'animale; dunque non ammette gradi, nè alterazione, nè diminuzione, nè aumento nel suo essere. Dunque sarà sempre la stessa sostanza in tutti gli esseri, in quel modo che l'uomo è sempre lo stesso in tutti gli uomini. Dunque la natura avrà una sostanza unica; la sostanza di Nerone sarà identica a quella di Socrate, i due uomini non saranno separati che per un errore della nostra mente. In altri termini, la sostanza assorbirà tutte le sostanze, non permetterà loro di esistere, e da ultimo, lungi dall'essere la condizione delle cose, non lascerà alcun posto agli oggetti di questo mondo, agli esseri della natura; invocata per renderli possibili, li renderà impossibili. Ecco la sostanza nemica delle sostanze, e distruggitrice di tutti gli esseri della natura: chè diremo noi delle qualità, continuando a interrogare la sostanza? Esse non si presentano come attributi della sostanza generale, ma bensì come attributi di sostanze particolari: i colori sono i colori degli oggetti, le affinità sono le affinità delle molecole, le forze sono le forze di questo o di quel corpo. Le qualità si riuniscono, si separano, si aggruppano, non già come i colori di un caleidoscopio inerenti a un tutto unico. ma aderiscono a migliaja di oggetti distintissimi. Dinanzi alla sostanza universale gli oggetti sono illusioni, ombre, o al più attributi, qualità; che saranno dunque le qualità degli oggetti? saranno le ombre delle ombre, le qualità delle qualità; esse cadono a nulla come altrettante negazioni.
Se per un sentimento d'equità vogliamo concedere una particella d'essere alla sostanza, una particella alla qualità, in modo che l'una e l'altra possano convivere, a dispetto della logica, in questo caso, lungi dal conciliarle, le separiamo in una maniera più compiuta. La sostanza rimarrà ciò che è: una, indivisibile, inalterabile; le qualità rimarranno ciò che sono: qualità delle cose ch'esse formano e costituiscono, in realtà o per semplice illusione, poco importa. La pluralità degli esseri sarà dovuta unicamente alle qualità, perchè la sostanza inalterabile non è attiva, nè generatrice, nè creatrice; gli esseri formati dalle qualità resteranno affatto estranei alla sostanza. Quindi le qualità sussisteranno, agiranno, e basteranno a sè come altrettante divinità; quindi la sostanza oziosa ne' suoi limbi non avrà parte alcuna a sostenere nell'universo, nè sarà la condizione delle qualità.



Capitolo VIII

LO SPAZIO E I CORPI SI ESCLUDONO

Secondo la natura lo spazio è la condizione del corpo, il mondo è nello spazio; secondo la logica lo spazio rende il corpo impossibile, la natura esclude lo spazio che occupa.
Analizziamo lo spazio. È desso una qualità? non offre punto la apparenza delle qualità; ma sta da sè e basta a sè stesso. È desso una sostanza? la sua natura è di non essere sostanziale; esso è vuoto, accessibile ad ogni cosa, esiste come se non esistesse. È desso il nulla? Dacchè si parla della sua esistenza, dacchè le due nozioni dello spazio e del nulla sono distinte, lo spazio deve pur essere qualche cosa, e bisogna che vi sia un principio che spieghi il suo apparire. Lo spazio non è dunque nè la qualità, nè la sostanza, nè il nulla; condizione apparente di tutto ciò che è materiale, si lascia invadere da ogni cosa, ed è immateriale. In qual modo sarà dunque condizione del corpo? Lungi dal supporlo, il corpo deve escluderlo. La cosa è semplice. Il corpo occupa lo spazio, dunque, giusta la logica, il corpo che occupa lo spazio ci offre due fenomeni compenetrati in un solo fenomeno: il corpo e lo spazio; i quali uniti avranno due volte le tre dimensioni: una volta nel corpo, una volta nello spazio. Due cose, due termini distinti, formeranno un sol termine: uno e doppio, contraddittorio.
L'opposizione dello spazio e del corpo è la stessa di quella del vuoto e del pieno. Il vuoto si oppone direttamente al pieno, nessuno lo nega: è impossibile che il vuoto sia pieno, il pieno vuoto; l'uno e l'altro si escludono a vicenda. Ma che cosa è il vuoto? è lo spazio. E il pieno? lo spazio occupato dalla materia. Dunque dire che lo spazio è la condizione dei corpi torna lo stesso che dire essere il vuoto la condizione del pieno e che afferma la necessità contraddittoria di collocare un termine nel seno del suo proprio contrario.
La contraddizione prende nuove forme quando si confrontano i caratteri della materia con quelli dello spazio. La materia è contingente, lo spazio è necessario; e la contingenza non può supporre la necessità, non può prenderla per condizione, ancor meno compenetrarsi con essa, senza che la contingenza occupi la necessità, senza che si metta un contrario nel suo proprio contrario. - La materia è limitata, lo spazio è infinito: come mai lo spazio infinito può accettare i limiti della materia che lo occupa? come mai può lasciarsi dividere dai corpi? L'infinito non si divide, non si limita; e mettere un corpo nello spazio è dividere, limitare; è mettere un fine all'infinito: affermare che lo spazio è la condizione de' corpi, è un affermare che l'infinito deve essere e non essere ad un tempo. Dunque, a dispetto dell'apparenza che riunisce di continuo il corpo e lo spazio, a dispetto della nostra convinzione che lo spazio sia la condizione del corpo, la logica ci mostra che i due termini sono distinti, che si escludono, che l'uno è necessario, l'altro contingente, che l'uno è infinito, l'altro finito, e che non possono essere ravvicinati ed uniti se non dall'assurdo. Lo spazio vieta alla natura di esistere.
Per rendere possibile la natura si tentò di distruggerlo, di considerarlo come un non essere, un'illusione, si ridusse alla materia e alle dimensioni della materia. Inutile sotterfugio! Il corpo e lo spazio sono due fatti distinti, egualmente evidenti, come la causa e l'effetto, come la sostanza e la qualità; non vi ha ragione di preferire l'uno all'altro, non motivo di negare lo spazio piuttosto che il corpo. Poi converrebbe sempre spiegare l'illusione dello spazio: nè la logica potrebbe ammettere che il corpo prenda l'apparenza dello spazio per ingannarci, senza ammettere nello stesso tempo un'alterazione nel corpo portentosa quanto l'esistenza dello spazio. Il corpo diverrebbe ciò che non è; acquisterebbe la necessità, l'immensità, creerebbe l'infinito; e le contraddizioni muterebbero di posto senza diminuire. Infine, anche lo spazio avrebbe il diritto di rivendicare i privilegi del corpo, potrebbe alla sua volta negare il corpo, trattarlo come un'illusione, volerlo spiegare, come se opponendosi a sè stesso potesse creare l'apparenza del corpo, l'apparenza del proprio contrario.



Capitolo IX

IL TEMPO E IL MOTO SI ESCLUDONO

Quanto si dice dello spazio si applica anche al tempo.
Secondo la natura, il tempo è la condizione del moto; pure tra i due termini non vi ha identità, nè equazione, nè sillogismo; e se si vogliono forzatamente avvicinare, si vedrà che si escludono a vicenda. Che cosa è il tempo? Non è una qualità, perchè è indipendente e sussiste da sè; non è una sostanza, perchè si lascia invadere dal moto; non è il nulla, perché appare, e se pur fosse illusorio ancora un principio dovrebbe spiegarlo. Il tempo è dunque come lo spazio, una cosa sui generis che ci è impossibile di paragonare colle altre cose. E desso la condizione del moto? volete credere alla natura che lo stabilisce come la condizione di ogni successione? Ciò posto, il tempo si compenetrerà col moto, la successione delle ore sarà identica con quella del cambiamento; i due termini formeranno un termine solo; vi saranno due successioni in una stessa successione; il che è impossibile. Dunque il tempo respinge il moto.
Si comparino i caratteri del tempo e quelli del moto, la contraddizione aumenterà. Il tempo è necessario, il moto è contingente: come una successione può essere da un lato necessaria, dall'altro contingente? In qual modo la necessità può compenetrarsi colla contingenza, e così trovarsi la condizione del contrario, da cui è negata? Il tempo è infinito; non ha principio nè fine, non si può concepire nè l'epoca in cui non era, nè quella in cui non sarà; il moto, al contrario, è finito per natura, benchè possa intendersi eterno per accidente. Dunque il moto divide il tempo, dunque finisce l'infinito, dunque lo distrugge, dunque è impossibile che subisca la condizione del tempo. Aggiungasi, che il moto, effettuandosi in uno stesso mentre nello spazio e nel tempo, raddoppia così le sue contraddizioni: s'identifica così due volte con termini che lo respingono; finito e transitorio, esso è due volte smentito da due apparenze eterne ed infinite.
Nè si fugge l'assurdo, ove si neghi il tempo e si riduca all'apparenza del moto, a un'illusione: il tempo è, come lo spazio, me la sostanza, come la causa, come il genere: apparenza irresistibile, fatto primitivo e irreducibile. Esso è evidente quanto il moto, è dato in uno col moto; non si può ottare tra il tempo e il moto, non si può immolare un termine all'altro senza operare a capriccio, senza che l'operazione dialettica implichi l'assurdo di creare col fenomeno del moto il suo contrario del tempo, o col fenomeno tempo quello del moto.



Capitolo X

IL FINITO E L'INFINITO

Quanto più si applica la logica, tanto più la contraddizione si sviluppa; essa diventa l'anima della natura. Compariamo due esseri, un fanciullo ed un uomo: che dice la logica? Tra il fanciullo e l'uomo non vi ha identità, nè equazione, nè deduzione; perchè? perchè il fanciullo differisce dall'uomo. Qual'è questa differenza? Il fanciullo non ha la statura, nè la forza, nè la ragione, nè l'esperienza dell'uomo; tutte qualità che relativamente al fanciullo sono negazioni, che si potrebbero rappresentare col - dell'algebra. Proseguiamo l'esame: il fanciullo si áltera, diventa uomo, e tutte le negazioni sono diventate affermazioni, che potrebbero essere presentate col + dell'algebra. Gli oggetti passano adunque dalla negazione alla affermazione, e viceversa dalla affermazione alla negazione, dal meno al più, e dal più al meno; in altri termini, passano da un contrario all'altro. Enesidemo diceva che il contrario appare nello stesso; egli è certo che il sì e il no appaiono in ogni oggetto.
Il finito e l'infinito sono i contrari matematici dell'universo: si scoprono volendo misurare gli oggetti. A prima giunta, misurando le cose, siamo d'accordo colla logica, procediamo, per equazioni; però, datosi principio al misurare, la logica richiede che si continui, che si finisca, che le parti più piccole e le più grandi siano misurate e volendo obbedire alla logica ci accorgiamo che non possiamo obbedire, che non finiremo mai di misurare, che siamo in faccia allo incommensurabile, in faccia a un doppio infinito che si scopre agli estremi della piccolezza. D'onde la opposizione del finito coll'infinito; se l'uno è, l'altro è impossibile; il finito finisce l'infinito, l'infinito sopprime il finito.
Il tempo e lo spazio sono due elementi in cui il finito e l'infinito si combattono di continuo. Il tempo è illimitato, eterno: ma se l'eternità esiste, il presente, il passato, l'avvenire sono impossibili; essi dividono l'infinito, essi lo distruggono. La lotta è la stessa nello spazio: esso è immenso, ma i corpi lo occupano, lo dividono, lo misurano, lo finiscono, dunque ne distruggon l'immensità. L'infinito s'interverte, invece di svilupparsi nella grandezza si svolge nella piccolezza; e qui ancora combatte il finito e lo prende a rovescio come una grandezza impossibile. Un dato spazio, sia un metro, può dividersi all'infinito; dunque si compone di un numero infinito di parti; dunque quest'infinito eguaglia il finito, il metro. Un dato tempo, sia un'ora, può dividersi all'infinito; dunque l'ora si compone di un numero infinito di parti; dunque l'infinito eguaglia il finito. Pongasi l'infinito nella grandezza, nel tutto, le parti sono impossibili; pongasi l'infinito nella piccolezza, nell'estrema divisione delle parti, il tutto è egualmente impossibile.
L'alterazione, il moto, la materia, tutto ciò che cade sotto le condizioni del tempo e dello spazio vien distrutto dalla contraddizione sempre immanente del finito e dell'infinito. Un germe scompare, gli succede un albero; ecco una quantità che cade a zero, ecco un'altra quantità che esce da zero, ecco due volte la contraddizione dell'infinito. Il moto può esser diviso, ritardato, accelerato, continuato all'infinito; la materia, i corpi, l'intensità delle forze, del calore, dell'espansione, della condensazione possono svilupparsi o diminuire all'infinito, nello stesso mentre che l'infinito è la negazione della materia, dei corpi, delle forze, dei fluidi, dell'espansione e della condensazione. Nè per toglierci all'assurdo che ci inviluppa possiamo prendere il ripiego di negare l'infinito e di confinarlo tra le illusioni. L'infinito è evidente quanto il finito; se volete negare l'uno de' due termini, non vi ha motivo di preferire l'uno all'altro; se scegliete a caso, la dialettica negativa del termine reietto, intervertita, potrà capovolgere l'operazione, e ristabilire a vicenda l'uno e l'altro termine; il perchè al razionalismo si oppone eterno il materialismo, esso pure incapace di trionfare. Negato anche a ragione l'uno dei due termini, resta il dovere di spiegarlo come un errore, e di dedurlo dal termine vittorioso, quindi resta la contraddizione di farlo uscire da questo termine, che negherebbe così illusoriamente la sua vittoria. No, non vi ha uscita: il finito e l'infinito si suppongono, si accusano, si escludono mutuamente, non v'ha scelta possibile, e dobbiamo accettate la contraddizione matematica dell'universo.



Capitolo XI

L'ESSERE E IL NON-ESSERE

Abbiamo già detto che, secondo la natura, devesi ammettere l'esistenza dei generi, l'essere è il genere supremo che abbraccia quanto esiste, l'universo intero.
Il non-essere esiste? questo problema, posto duemila anni sono, è il problema della logica che domanda ad ogni cosa di essere ciò che è. La risposta sarà sempre una contraddizione. Se il non-essere esiste, esso è non-essere e essere nel tempo stesso; se non esiste, non è, tutto è essere, tutto è pieno, non v'ha più vuoto, nessun intervallo tra le cose, non si può più distinguere una cosa dall'altra, tutto è uno. Così l'essere rende impossibile l'universo, rende impossibile l'esistenza.
Lungi dall'essere un sofisma, la contraddizione espressa accusa di sofisma quelli che vogliono sottrarvisi. Ecco i sotterfugi:
Platone dice: «Il non-essere non esiste, non è che il diverso; si riduce all'albero che non è uomo, alla pietra che non è albero; il non-essere ha solo una esistenza relativa.» Sia pure: dunque non ha un'esistenza assoluta, dunque, parlando schiettamente, non è; dunque l'intervallo tra le cose, la differenza sono impossibili, e siamo ridotti di nuovo all'ente unico di Parmenide. Esso sovrasta alla diversità, accusandola d'inconsistenza, d'illusione, di contraddizione.
Aristotele dice: «L'essere è un'astrazione: gli esseri soli esistono: l'essere è un non-nulla, è il non-essere: non esiste se non congiunto alle cose: prima di esse può esistere, ma non esiste: è la materia che si definisce: l'essere in potenza, il non-essere in atto.»
Accordisi la distinzione: ne risulta che il non-ssere esiste o che l'essere non esiste; ne risulta che la materia è un termine medio tra l'essere e il non essere; ne risulta che questi due termini la costituiscono, la formano contradditoria come l'alterazione; ne risalta da ultimo che l'essere e il non-essere si contraddicono.
Secondo i neoplatonici: «l'essere solo esiste; è infinito: il finito, il non-essere, il mondo sono limiti, ombre, vere negazioni al cospetto dell'essere.» Togliesi così l'essere alla natura confinata presso il non-essere: dove sarà l'essere? non è nella natura che esiste veramente; è in Dio che veramente non esiste; tanto sarebbe il dire: io non esisto, io sono il non-essere; solo il nulla esiste, ed è l'essere. La contraddizione è capovolta, ma sempre la stessa.
L'opposizione dell'essere e del non-essere si riproduce per tutta la natura. Dicesi che le cose sono contingenti: perchè? per la ragione che sono alterabili, che si alterano, che si contraddicono. E perchè sono esse contraddittorie? perchè miste col non-essere, notate di falso, passando esse dall'essere al non-essere, o viceversa dal non-essere all'essere. - Nel seno dell'alterazione sentiamo la contraddizione di questi due termini anche prima che si mostri. Domani pioverà o non pioverà; l'una delle due contraddittorie sarà necessariamente la vera; pure la pioggia è un'alterazione effimera, contingente, assolutamente opposta al carattere della necessità. Domani il mondo sarà o non sarà necessariamente; pure il suo sparire non è necessario più del suo durare. Simili affermazioni, ad un tempo necessarie e contingenti, non riproducono forse la contraddizione dell'essere e del non-essere? L'avvenire figlio dell'esistenza è infallibile, figlio del nulla è incerto, e il contrasto si scopre già nell'affermazione che lo precede.
Finalmente, l'essere è il principio dell'identità, la prima forma della logica: essa richiede che una cosa sia o non sia senza ammettere alcun mezzo. Qual'è la conseguenza dell'identità applicata alla natura? Noi l'abbiamo veduta distruggere la natura. Tutto cambia nel mondo, e il cambiamento viola l'identità delle cose, facendole essere e non essere ad un tempo. L'identità sopprime la fusione, l'attrazione, l'urto, ogni rapporto, perchè affermando la distinzione delle cose, rende impossibile la comunicazione delle cose tra loro. L'identità mette in conflitto le qualità primarie colle qualità secondarie della materia che si escludono vicendevolmente. Da ultimo, l'identità mette in opposizione le condizioni delle cose colle cose stesse e nega lo spazio per mezzo del corpo, il tempo per mezzo del moto, la sostanza per mezzo della qualità, la causa per mezzo dell'effetto. Perchè? per la ragione che le condizioni sono rapporti, materiali o immateriali poco importa: l'identità, dopo di aver separate le cose, vuole che rimangano isolate, le une fuori delle altre, cioè senza rapporti. Dunque l'essere e il non-essere si combattono in tutti i punti del creato.



Capitolo XII

I CONTRARI

La contraddizione tra l'essere e il non-essere si ripete in tutti i generi, in tutte le forme dell'alterazione, la quale emerge sempre dai contrari. La luce è alterata dalle tenebre, il calore dal freddo, la salute dalla malattia, la ricchezza dalla povertà. La logica richiede che là dove si manifesta la salute la malattia non si manifesti, che il calore respinga eternamente il freddo; eppure la natura si ribella contro questa logica necessità. La logica esclude ogni mezzo tra i contrari, e nella natura tutto si mesce: la logica è schietta nelle sue deduzioni, afferma o nega, e nella natura ogni esistenza è immersa nelle transizioni, in cui non v'ha affermazione nè negazione, nè sì nè no, nè bene nè male, nè essere nè non-essere. La logica richiede che ogni cosa venga almeno da una cosa omogenea, che la vita esca dalla vita, il moto dal moto; e la natura, operando sempre per reazione, deduce la vita dalla morte, il moto dall'inerzia, il bene dal male. Infine, la logica richiede che i contrari rimangano distinti, almeno nella nostra mente; eppure non sono intesi e compresi se non al momento del paragone, in guisa che restano correlativi, indivisibili nella nostra mente, la quale non concepisce la salute senza la malattia, nè la luce senza le tenebre, nè la ricchezza senza l'indigenza, nè l'essere senza il non-essere, nè l'infinito senza il finito.
In forza dei contrari il sì e il no escono dal fondo delle cose, eppure non possiamo nemmeno sapere quale dei contrari sia il sì, quale il no. Per l'uomo la negazione è la statura del fanciullo, per il fanciullo la negazione è la statura dell'uomo. La destra, la sinistra, l'alto, il basso variano; abbiamo solo a volgerci sulla persona per vedere la negazione e l'affermazione soppiantarsi a vicenda. La destra, la sinistra, l'alto, il basso sono astrazioni; ma la contraddizione passa nell'astratto perchè trovasi nel concreto. Dove sono il Nord e il Sud? In una convenzione. Come distinguere il polo positivo dal negativo? Arbitrariamente. Il positivo è desso nella luce o nelle tenebre, nel caldo o nel freddo, nel maschio o nella femmina, nella salute o nella malattia, nella vita o nella morte? Noi non sapremo mai se la gallina è un progresso sull'uovo, o l'uovo sulla gallina; se la natura si perfeziona o se declina, se l'uomo esprime un trionfo o una decadenza della natura. Tutto è relativo, mors tua vita mea; il positivo e il negativo, il bene e il male si scambiano di continuo, e trovansi indistintamente a destra, a sinistra, l'uno nell'altro.

SEZIONE SECONDA

IL PENSIERO




Capitolo I

LE CONTRADDIZIONI DELLA FISICA SI RIPRODUCONO
NELLA PSICOLOGIA

Vinta dalle contraddizioni della natura, un giorno la filosofia si rifugiò nell'intelligenza, sperando di scoprire la verità in noi stessi. Lasciati i corpi, la materia, il moto, la mistione, la fusione, e fissò l'attenzione sui fenomeni del pensiero. La fiilosofia non fu più felice nella sfera dell'intelligenza. Il pensiero si limita a seguire i fenomeni esteriori; materiale o immateriale, è solo l'immagine della natura, e quindi ritroviamo in noi tutta l'incoerenza del mondo esteriore.
Fuori di noi le cose si alterano, sono e non sono; in noi, il nostro io non è mai lo stesso, varia di continuo e si rivolta in ogni suo moto contro la triplice forma dell'identità, dell'equazione e del sillogismo.[1]
Fuori di noi i rapporti delle cose distruggono la distinzione delle cose: in noi i pensieri influiscono gli uni sugli altri, e la logica ci sforza ad ottare tra la distinzione che colloca i pensieri gli uni fuori degli altri, e il rapporto, che stabilisce una vera comunicazione fra di essi. Sono essi distinti? ogni pensiero si isola, nessuna idea dipende da quella che la precede, il discorso diventa impossibile. I pensieri collegansi tra loro? ecco il rapporto, cioè il moto, l'urto, l'azione, la reazione, la fusione nell'intelligenza, dove questi fenomeni, benchè spiritualizzati, non sono meno contraddittori che nella materia.
Fuori di noi la materia è una e multipla: in noi ogni pensiero è uno per sè, e multiplo per gli elementi del soggetto e dell'attributo che lo compongono. Nel pensiero, come nelle cose, il tutto è sempre più che le parti: la proposizione ha un senso, essa afferma, nega, vive; al contrario, il soggetto, l'attributo, la copula, isolati non hanno senso, non affermano, non negano, sono la materia inanimata del pensiero.
Fuori di noi i generi e gli individui si respingono: in noi sono le idee e le sensazioni che si escludono: le idee sono generali, le sensazioni particolari, e tutta l'opposizione tra i generi e gli individui si riproduce tra l'idea e la sensazione. Fuori di noi il mondo sembra dipendere dalle condizioni del tempo e dello spazio, gli effetti suppongono le cause, le qualità suppongono le sostanze; in noi i fenomeni restano sottomessi alle idee di tempo, di spazio, di causa, di sostanza, le quali sotto l'impero della logica distruggono e rendono impossibili tutti i nostri pensieri.
Nel mondo esteriore la contraddizione si presenta nuda nella lotta del finito e dell'infinito, dell'essere e del non-essere, e di tutti i contrari. La medesima contraddizione sta nel fondo stesso del nostro pensiero, il quale non ci è dato se non alla condizione de' contrari, non potendosi concepire un'idea senza l'idea opposta che la distrugge.
Infine, abbiamo veduto che nella natura le qualità primarie e le secondarie si respingevano a vicenda: in noi la stessa lotta si rinnova sì forte, che i psicologi sono quasi concordi nel negare all'anima l'estensione, la figura, nè potrebbero accordarle l'impenetrabilità e la mobilità senza trasformarla in un atomo, o senza sopprimere l'unità della sua energia. Da ciò nacque la nozione dello spirito, la chimera de' psicologi, i quali per ispiegare l'unità dell'anima dimenticano la pluralità della materia, per cui l'io restò fuori della materia senza relazione colle cose, senza poter agire, nè soffrire, nè sostenere alcuna influenza materiale. Berkeley e Leibniz credettero miglior partito negare il corpo che perdere l'anima: altri con egual ragione preferirono di perdere l'anima piuttosto che di vedersi espulsi dal mondo. Le due scuole hanno ragione, sendo noi costituiti dalla contraddizione.
In generale la psicologia si riduce a sostituire alle cose le percezioni, agli oggetti i giudizi, alle qualità le sensazioni, ai generi le idee, allo spazio l'idea dello spazio, al tempo l'idea del tempo, alla causa l'idea della causa, alla sostanza l'idea della sostanza. Che cosa guadagnamo noi con questo scambio? Si guadagna d'intervertire tutti i problemi. Platone suppone nel Politico che l'universo, dopo esaurite le sue evoluzioni, ritorni sopra di sè: vedonsi le stagioni succedersi a ritroso, gli esseri cominciano colla morte, poi svaniscono nella loro propria origine: l'uomo nasce decrepito, ingiovanisce, e cessa nell'infanzia; gli animali, gli alberi, la vegetazione cominciano sviluppati, impiccoliscono invecchiando, e scompaiono noi loro propri germi. Tutto procede a rovescio, finchè il moto delle sfere non è interamente esausto. La psicologia realizza letteralmente il mito di Platone; essa ci mostra il mondo in noi stessi, gli oggetti nei nostri pensieri, i generi nelle nostre idee. Per la fisica noi siamo nel mondo: per la psicologia il mondo è in noi; per la fisica il tempo e lo spazio ci dominano; per la psicologia sono le nostre idee di tempo e di spazio che reggono l'universo; per la fisica il mondo spiega l'uomo: per la psicologia l'uomo spiega il mondo. Come scegliere nell'alternativa? Quale sarà il titolo della nostra scelta? L'impossibilità di scegliere aggiunge nuovo dubbio ai dubbi che sovrastano alla natura.



Capitolo II

LA PSICOLOGIA PERFEZIONA LO SCETTICISMO

Quando osserviamo la natura, dimenticando noi stessi, scopriamo che la natura è incoerente, impossibile, pure riconosciamo che esiste: quando ci ripieghiamo sopra di noi, incontriamo un nuovo fenomeno: l'errore. In forze dell'errore affermiamo ciò che non è, neghiamo ciò che è, alteriamo la realtà che si sottrae ai nostri sforzi, e accade che possiamo dubitare dell'universo intero considerandolo come un errore del nostro pensiero. Come distinguere l'errore dalla verità? Se non sciogliamo questo problema, nessun problema sarà sciolto.
In presenza della logica il falso e il vero stanno come i due termini di un eterno dilemma. Impadronendosi del falso la logica non può giungere al vero; tra l'errore e la verità non vi ha identità, nè equazione, nè deduzione; la verità, diventa quindi impossibile. Viceversa, impadronendosi della verità la logica non può piùarrivare all'errore, ed è l'errore che diventa impossibile. La logica ci dichiara assolutamente fallibili o assolutamente infallibili, secondo che prende il suo punto di partenza nel falso o nel vero.
Prendiamo il dato dell'errore. La nostra fallibilità non avrà limiti. I sensi mettendoci in comunicazione colla natura, ci ingannano sulle distanze, sui colori, sulle figure, sui suoni, su tutto; ogni nostro organo è aperto all'illusione. I sentimenti falsificano le nostre opinioni, cogli interessi álterano il valore delle cose; l'età, il sesso, il temperamento, la razza, dispongono della nostra intelligenza, per cui le nostre opinioni dipendono dall'accidente della nascita, il clima governa i nostri pensieri, la latitudine governa i nostri dogmi. Dove trovare il clima, il temperamento, il sesso della verità? L'abitudine ci dà una seconda natura; qual'è questa natura? Essa è tutta meccanica, cieca, in balia al caso delle leggi, delle religioni, dell'educazione. L'analogia, quest'abitudine dell'intelligenza si impadronisce dell'universo per rifarlo a imagine e somiglianza del nostro paese, della nostra famiglia, di noi stessi; essa attribuisce a Dio le nostre forme, e lo adora come un re. Possiamo noi chiedere la verità all'abitudine o all'analogia? La chiederemo noi alle passioni? sarebbe pure lo stesso che chiederla al pregiudizio, all'amore, al furore, all'imaginazione, predestinata a mentire, alla follìa, la quale non è se non la malattia delle passioni e dell'imaginazione. L'errore si propaga colla potenza dello sguardo, della parola, col fascino dell'imitazione; nulla gli sfugge, nemmeno le percezioni; l'allucinazione usurpa la parte della natura, e simula cose che non esistono; il sogno usurpa le parti della nostra persona, ci fa vivere in un io falso e menzognero; qualche volta ci mostra il nostro io fuori di noi, e c'insegna così che noi stessi possiamo essere un errore. Dove sarà dunque l'asilo della verità? Nel giudizio? nel raziocinio? ma le sono facoltà vuote, serve de' nostri sensi, delle nostre abitudini, delle nostre passioni, di ogni nostro pregiudizio. Formalmente il Bramino, il Cattolico ragionano come noi: se la verità dipendesse dal raziocinio, essa regnerebbe sulla terra fin dall'origine del mondo. Abbandonati da tutte le nostre facoltà ad una fallibilità universale, non possiamo toccare la terra promessa della verità; posto il dato dell'errore, la logica ci vieta di uscirne.
Accordiamo invece alla logica il dato della verità. Evidentemente, se arriviamo alla verità, se le nostre facoltà, la nostra ragione, le nostre forze, se il giudizio, la memoria, l'imaginazione non c'ingannano, ne risulterà di primo tratto che siamo infallibili. L'errore riesce inesplicabile. Descartes cadde completamente in questo tranello filosofico. A forza di cercare l'assoluto si persuase di averlo trovato e scopriva un Dio così benevolo, così gentile, che non poteva supporre in lui la scortesia di volerci ingannare dotandoci di facoltà erronee. Prima della sua scoperta egli era tormentato dall'errore; ma dopo fu peggio, perchè fu tormentato della verità; egli non seppe più come spiegare le nostre illusioni, e le imputò alla volontà, che ne è innocente.
A parte Descartes e il suo Dio; se tutte le nostre facoltà sono infallibili, l'errore deve risultare da una combinazione delle nostre facoltà, che innocentemente si ingannerebbero a vicenda. Quest'ipotesi non è che un fatto, atteso che ci è facile di giustificare le nostre facoltà, e di mostrare che nessuna isolatamente può traviarci. La sensazione, l'analogia, gli interessi, le passioni non possono illuderci? Esse non giudicano, esse rinviano al giudizio la responsabilità dell'errore. Il giudizio poi non può errare: esso dipende dai dati che lo dominano; deve affermare i fenomeni che gli sono presentati dalle altre facoltà. Se le facoltà cospirano per dare una combinazione insidiosa, perchè accuseremo la ragione? Essa va dove è spinta dalle nostre facoltà; il giudizio è in balia de' fenomeni, l'induzione è serva dei fatti, le deduzione è schiava delle premesse; l'intelligenza dell'uomo è sempre infallibile, le altre facoltà sono innocenti, e l'errore è una disposizione di fenomeni, dove tutti gli elementi sono veri, mentre il risultato c'inganna. Questa, secondo me, è l'origine naturale dell'errore. Vogliasi ammetterla o rigettarla, qui poco importa; io la propongo come mera ipotesi per istabilire che, secondo la natura, il falso può essere un falso risultamento delle nostre facoltà, tutte infallibili. Ma la logica ci impedisce di imputare l'errore ad una combinazione di facoltà infallibili. Aggiungendo il vero al vero non ne può risultare che il vero, nè si potrebbe comprendere come due o più testimoni infallibili potrebbero deporre il falso. Ecco dunque l'impossibilità dell'errore dal momento che si ammette la verità.
Abbiamo supposto dapprima che tutte le nostre facoltà sono fallibili, in seguito, che tutte le nostre facoltà sono infallibili; ci resta a imaginare che alcune facoltà siano infallibili, mentre le altre c'ingannano. Così Epicuro, ci rende infallibili in forza del senso, e fallibili in forza del giudizio; Locke, Hume, Condillac, danno la verità all'osservazione, l'errore alla riflessione; i razionalisti intervertono la teoria, per cui, secondo essi, il senso inganna, mentre la ragione resta infallibile. Lo stesso cristianesimo costituì la dualità del vero e del falso, quando concesse alla fede il potere di salvarci, alla ragione quello di perderci; materializzandosi nel cattolicismo, la dualità cristiana largisce l'infallibilità ad un uomo che non ragiona, al papa; e accusa di ribellione gli uomini che sarebbero tentati di far uso della ragione. Descartes prende al rovescio la teoria cattolica; e, secondo lui, la ragione è infallibile; ma la fede, cioè la volontà e l'autorità, sono essenzialmente incerte e arbitrarie. L'ipotesi che spiega l'errore attribuendolo ad alcune facoltà è frequente sotto forme diverse e opposte nella storia della filosofia; pure non vale che a fare dell'uomo un essere mezzo infallibile, mezzo fallibile, mezzo Dio e mezzo demente. Coll'ammettere qualche facoltà erronea, si ammettono errori fatali, invincibili, ineluttabili; quindi la contraddizione si ristabilisce più forte di prima, dandosi il sì e il no a due parti della mente. Concediamo noi che la parte infallibile può correggere la parte fallibile? questa non sarà più che un vizio organico; conosciuta come erronea, non potrà più ingannarci, sarà un testimonio disprezzato, l'errore non è spiegato. L'infermo in un accesso di febbre previsto non s'inganna sul calore atmosferico; benchè ardente o assiderato, conosce la verità, almeno la sospetta. Ciò non può essere nell'errore, che quando è sospettato cessa di essere l'errore. Convien dunque che la parte infallibile della nostra mente non possa correggere la parte fallibile; ed in questo caso il falso non può essere distinto dal vero. Poichè ogni facoltà resta nella sua sfera d'azione, l'orecchio non può rettificare l'occhio, nè il tatto l'orecchio; ogni facoltà è incompetente fuori della sua sfera d'azione nè può essere consultata o ascoltata; quindi non verificandosi mutuamente, il testimonio delle une vale quanto il testimonio delle altre; quindi la volontà non può vincere la ragione, nè la ragione può trionfare della sensazione, nè la sensazione della riflessione. Dove sarà dunque l'errore? ingannati, noi non sapremo trovarlo; un demente avrà il diritto di resistere al consenso del genere umano.



Capitolo III

I PENSIERI E IL MONDO S'ESCLUDONO

Benchè deliberati a concentrarci in noi stessi, non possiamo dimenticare la natura; essa ci investe colle sue imagini; e noi dobbiamo supporla ad ogni istante. Le nostre idee si riferiscono al generi, le nostre percezioni alle cose, i nostri pensieri agli oggetti; ogni fenomeno interno corrisponde ad un fenomeno esterno. Possiamo noi passare logicamente dai fenomeni interni agli esterni? In altri termini, possiamo noi provare che il mondo esiste, che non è un sogno, che non siamo soli nell'universo? Le tre forme della logica ci proibiscono di uscire dal nostro io per dimostrare l'esistenza delle cose.
L'identità si oppone a questa dimostrazione. La distinzione tra noi e le cose è schietta, profonda; egli è impossibile di confondere il pensiero colle cose, la credenza coll'oggetto della credenza; e se il mondo è fuori di me, io non posso conoscerlo senza cessare di essere io. Per l'identità non si troverà il passaggio dall'io al non-io, se non quando i due termini saranno identificati, cioè quando sarà tolta la possibilità stessa di transire dall'uno all'altro. - La forma della equazione trovasi egualmente impotente. L'affermazione del giudizio non è uguale all'oggetto affermato; la percezione non è uguale alla cosa percetta. Se questa eguaglianza esistesse, il mondo sarebbe il mio proprio pensiero fuori di me. - La deduzione ci rifiuta alla sua volta il passaggio dall'io al non-io, non potendo noi trovargli nè la premessa, nè il termine medio.
La premessa manca, perchè noi non sappiamo se il punto di partenza della dimostrazione del non-io dev'essere preso in noi o fuori di noi. La psicologia esige che il punto di partenza sia in noi; essa mi ha isolato, dunque tocca a me ad uscire dalla mia solitudine; essa mi ha mostrato il mondo nelle mie credenze, ne' miei pensieri, dunque spetta alle mie credenze, a' miei pensieri il fornire la premessa alla dimostrazione della natura. Ma la fisica reclama anche essa il punto di partenza; è dessa che dispiega dinanzi a noi lo spettacolo dell'universo e che domina i nostri pensieri; i pensieri non sarebbero se la natura non fosse, e la natura vuole che il ragionamento passi dalle cose ai pensieri, dal non-io all'io. Ecco due punti di partenza opposti, il dilemma è esatto, la scelta impossibile. Secondo la psicologia il mondo è in me, sta a me il verificarlo; secondo la fisica io sono nel mondo, appartiene alla natura il dimostrare la mia esistenza. Da un lato le cose dipendono dall'intelletto, che le conosce, dall'altro la cognizione dipende dalle cose da conoscersi: l'io e il non-io si presentano vicendevolmente come la condizione l'uno dell'altro; la premessa di ogni dimostrazione cade in un circolo vizioso, diventa impossibile.
Il termine medio per dimostrare l'esistenza della natura ci manca, come ci mancano le premesse. Interroghiamo il senso comune. La fede di ogni uomo nelle cose esteriori si fonda sulla necessità di trovare fuori di noi la causa dei fenomeni che si oppongono a noi. Si dice: io non posso essere la causa degli ostacoli che incontro; io devo lottare, combattere contro la natura; io agisco, io soffro; son felice, infelice mercè le apparenze che mi circondano. Come potrei credermi solo? Isolato, sarei nel tempo stesso attivo e passivo, aggressore e difensore, amico e nemico di me stesso; ciò non è possibile; dunque io sono sottoposto all'azione di cause estranee al mio essere; dunque vi è qualche cosa fuori di me; dunque io non sono solo co' miei pensieri, non sono un solitario allucinato. Tale è il ragionamento adottato dal senso comune, ed è un ragionamento in cui l'io figura come un corpo in mezzo ai corpi, o se si vuole, come un essere in mezzo agli esseri. Il termine medio del ragionamento, o piuttosto l'unico appoggio della dimostrazione si fonda sull'idea di azione e di reazione, di causa e d'effetto; le quali idee sono già distrutte dalla logica, che le mostra contraddittorie, impossibili. Quindi il ragionamento del senso comune pecca nella base. - Alcuni gli danno un'altra forma e dicono: «I fenomeni della natura multipli e variati si oppongono all'unità dell'io; ne consegue che noi non siamo soli coi nostri pensieri, perchè scopriamo in noi la lotta, la discordia, la guerra.» La discordia implica essa veramente l'esistenza di due o più esseri? Io vedo la discordia nel fondo di ogni individuo, la vedo in ogni essere sempre uno e multiplo, la vedo in ogni atto sempre emergente dalla lotta dei contrari: se la discordia, se la guerra sono le sole ragioni per negare ch'io sia isolato, dichiarate che ogni oggetto è doppio in sè e fuori di sè, e che la natura si compone di due nature, l'una esteriore e opposta all'altra. Del resto, se si cerca una causa ai fenomeni dell'io, perchè la causa sarebbe piuttosto fuori di me che in me? La varietà e l'alterazione che si manifestano in me possono uscire egualmente dal mio proprio fondo o da un'azione degli oggetti esterni: nel primo caso, il vizio originale dell'alterazione si presenta una volta, e nel secondo si ripete due volte, si sviluppa col mistero de' rapporti tra l'io e il non-io, e la contraddizione si raddoppia. Che prova adunque la dimostrazione della natura adottata dal senso comune? Nulla, se non che vi hanno due grandi apparenze distinte, l'io e il non-io, il pensiero e la natura, la psicologia e la fisica; ma la logica non trova nè identità, nè equazione, nè deduzione tra questi due termini che si contrappongono.
Non potendo raggiungere il mondo esterno, la psicologia può disperare delle sue forze, e dare una forma logica alla propria disperazione. Se noi non possiamo uscire da noi stessi, se la natura si sottrae a tutte le nostre dimostrazioni, se opponsi ai nostri propri pensieri per provocarci ad una lotta inutile, possiamo considerarla come un'apparenza erronea, come un'illusione dello spirito.
Qui noi siamo soli, ogni cosa emana da noi, le cose sono fatte dal nostro intelletto, come da un'irradiazione ingannevole della nostra propria sostanza. Ma il sacrificio del mondo esterno non basta ancora ad appagare la logica. Non c'è dato di uscire da noi stessi, non c'è dato neppure d'isolarci; questa stessa parola d'isolamento, questa parola io suppone qualche cosa di esteriore da cui noi vogliamo distinguerci. L'io e il non-io stanno insieme come la destra e la sinistra, l'alto e il basso, il più e il meno, e tutti i contrari. Per fondare l'ipotesi su l'uno de' contrari bisognerebbe sceglierlo giustificando la scelta, e noi abbiamo dinanzi a noi due apparenze, il pensiero e le cose, l'io e il non-io, egualmente evidenti. La psicologia s'impadronisce dell'io, lo isola, e considera il non-io come l'errore del mio pensiero; ma il non-io è altresì un fatto, ha gli stessi diritti, e pertanto sviluppa l'ipotesi opposta: mentre la psicologia considera la natura come l'errore fatale contrapposto a' nostri pensieri; la possibilità contraria ci ferma, travolge l'ipotesi, e siamo costretti a considerare la natura come sola e isolata, come la madre universale di tutti i fenomeni, compreso quello del pensiero, ch'io chiamo mio per illusione. Tutte le ragioni che m'inclinano a non vedere nella natura che l'errore dell'io, si rovesciano per presentarmi il mio pensiero come l'errore della natura, e la mia esistenza personale come l'ombra delle cose. Dunque l'ultimo atto della disperazione psicologica trovasi paralizzato dalla fisica nell'istesso istante in cui vien concepito; la possibilità di spiegare ogni cosa col pensiero è intervertita dalla possibilità di spiegare ogni pensiero colla natura, l'ipotesi che nega la natura è attraversata dall'ipotesi che nega la mia esistenza.
Concesso che la psicologia potesse isolarsi, dovrebbe pure rendere ragione del mondo come d'un errore dello spirito, e fallirebbe nuovamente nell'impresa. Che cos'è un errore? È un fenomeno vinto dal numero dei fenomeni che lo circondano; l'errore vien condannato come l'opera della nostra organizzazione, ma esso appare, ed esiste allo stesso titolo di tutte le altre apparenze che chiamansi realtà. Dunque nell'errore vi ha un che, un fenomeno relativo a noi, e che noi sacrifichiamo ad apparenze più forti per la quantità, ma non per la qualità. Se sacrifichiamo l'allucinazione, ciò non è perchè non appaia, non è che la sua apparenza sia più debole delle altre apparenze colorate, non è che si possa distruggerla; ma il tatto, l'udito, la testimonianza degli uomini, tutto prova che essa è figlia dei nostri organi. Istessamente i nostri sogni non sono distrutti dalla veglia, ma sono confinati nella nostra imaginazione dalla testimonianza di tutti i sensi dell'uomo svegliato. Allorchè dunque si spiega il mondo come un errore, vien riguardato come l'allucinazione dell'io, come il sogno del pensiero; ma non viene distrutto, non iscompare punto: ci limitiamo a considerarlo quale alterazione speciale, strana del pensiero che si raddoppia, presentando una nuova apparenza, per cui vediamo i nostri giudizi afferrar le cose, poi le cose stesse afferrate e illusoriamente disgiunte dall'io che le afferma. Ma questo raddoppiamento, questa alterazione sono vere contraddizioni logiche; lungi dallo spiegare il fenomeno, non possono essere spiegate. I nostri pensieri non possono diventare ciò che non sono, nè raddoppiarsi nell'errore del non-io, nè darci l'apparenza di ciò che non esiste. Se vuolsi credere che si alterino o che sognino, per così dire, un mondo, perchè non supporre altresì, che si alterino per fare realmente gli oggetti? Ammessa l'alterazione, non ci pesa più il crederci visionari che il crederci creatori, e non è maggior meraviglia in logica il vedere i pensieri trasformati in errori per darci l'apparenza dei corpi, che il vedere i nostri pensieri occupare realmente le tre dimensioni dello spazio, farsi solidi, diventar corpi e mettersi in moto. Finalmente, lo ripeto, il processo equivoco dell'errore può essere egualmente usurpato dalla fisica, che ha il diritto di intervertire l'ipotesi psicologica e di negare l'io come se fosse un sogno della natura. Ma se la natura si contraddice fino ad alterarsi, se si áltera fino ad opporsi a sè stessa nell'io, perchè non supporre che giunga nel pensiero a separarsi da sè stessa, divenendo l'io in realtà e non per errore? La contraddizione non ammette gradi; havvi contraddizione nei due casi, e se siamo deliberati a disprezzarla, ogni cosa è possibile; non dobbiamo risparmiare i miracoli; bisogna concedere tutte le trasformazioni richieste dalle apparenze.
Riassumiamo: allorchè noi vogliamo dimostrare l'esistenza delle cose esteriori, la premessa ci manca perchè reclamata con egual forza dal pensiero e dalla natura, in guisa che si aggira in un circolo vizioso. Il termine medio ci manca anch'esso, anticipatamente distrutto dalle contraddizioni della fisica e della psicologia. Non possiamo nemmeno appagare la logica sacrificando la natura, perchè la natura pretende di sacrificare l'io, per le stesse ragioni che ci consigliano di sacrificare il non-io. Se poi ci decidiamo capricciosamente al sacrifizio, ci resta ancora la missione di spiegare un errore o dello spirito o della natura; e la spiegazione dell'errore sarà assurda, quanto la creazione del mondo per mezzo del pensiero, o del pensiero per mezzo del mondo.



Capitolo IV

L'IO ED IL PENSIERO SI ESCLUDONO A VICENDA

La nostra propria esistenza riscontrata dal pensiero non è meglio d'accordo colla logica, che l'esistenza della natura. Noi crediamo al nostro essere perchè lo sentiamo in ogni nostra facoltà, e sopratutto nella coscienza e nella memoria. Io penso, dunque esisto, cogito, ergo sum, ecco tutta la dimostrazione dell'io pensante. Io vedo che il pensiero è una qualità, dunque suppongo la sostanza che pensa in quella guisa che, vedendo il colore, suppongo un oggetto colorato. Da che dunque dipende la dimostrazione dell'io? Dipende dal vincolo che unisce la qualità e la sostanza, vincolo arbitrario e contraddittorio. Il giudizio io penso dunque esisto, non è che un pensiero, come tutti gli altri pensieri; esso non è nè identico, nè uguale all'oggetto al quale si riferisce, nè si può in alcun modo dedurne l'esistenza dell'io. Il giudizio col quale mi affermo, e la propria esistenza, il pensiero dell'io e l'io pensato trovansi separati da un abisso. Dite quante volte volete: io penso, dunque esisto, io mi sento, io non posso dubitare dell'esistenza della mia persona; queste affermazioni non sono l'io, non sono la mia sostanza, non sono la mia persona; straniere ad essa, non possono dimostrarla.
Noi abbiamo veduto che la logica non ci permette di considerare il mondo esteriore come un errore dell'io; ebbene, la logica non ci permette neppure di considerare l'io come un'illusione del pensiero. Essa vuole che il pensiero e l'io vivano contraddicendosi. Entrambi sono egualmente distinti, egualmente evidenti; veri o falsi, è impossibile di contestare la loro apparenza; come scegliere l'uno de' due termini, rifiutando l'altro quale spurio? La scelta sarebbe arbitraria. Scegliete voi il pensiero? Sì, il pensiero ha un bel diritto alla preferenza, è desso che afferma, che nega, che percepisce, che dimostra; se lo sopprimete, l'io cade nel nulla; se scompare, l'io scompare; se il pensiero è falso, che havvi di vero? Dall'altra parte, l'io presentasi come la condizione del pensiero. All'assioma io penso dunque esisto, l'io oppone schiettamente l'assioma, ciò che non esiste non pensa; e qui sarebbe più vero l'io, che il pensiero; qui la sostanza pensante domina ogni nostro concetto. Il dilemma non può essere sciolto, ogni soluzione può essere intervertita.
Finalmente, se l'io è l'errore del pensiero, quest'errore deve spiegarsi, dev'essere un'alterazione del pensiero; e ammettendo il miracolo dell'alterazione, bisogna compierlo; bisogna credere che l'io s'oppone a sè stesso per affermare ciò che non è. E se il pensiero può alterarsi, se può mentire, se può vedere all'estremità del giudizio l'illusione della mia esistenza separata dal giudizio stesso, il pensiero deve poter raddoppiarsi, e creare realmente quell'io che afferma. Quando si viola la logica non ci costa più d'esser creatori, che di essere visionari. Ma qui ancora l'ipotesi s'interverte: l'io reclama, pretende che il pensiero sia il suo errore, e se l'io può creare un errore, può creare una verità, poichè non è più difficile il creare l'illusione del pensiero, che il crearne la verità.
Il giudizio io esisto, è continuato da due altri giudizi; col primo si afferma l'unità del nostro io; col secondo si afferma la permanenza dello stesso io, malgrado la successione dei nostri pensieri. Questi due giudizi, anticipatamente annullati dalla critica che ci nega la nostra esistenza, sono annullati di nuovo se noi vogliamo considerarli in sè stessi.
L'unità dell'io si fonda sulla mia esistenza; essa mi dice che io non sono due o più individui, che io non sono una pluralità, ma bensì una sola ed unica persona; il che può essere riassunto nel detto: io mi sento uno, dunque sono uno. Il sentimento della mia unità, mi offre forse una testimonianza abbastanza sicura? Si può dubitarne. L'io che sento è ne' miei desideri variati; indi passa d'un tratto nella mia volontà, che comprime i miei desideri; poi passa nell'intelletto, osserva i fenomeni del desiderio e della volontà come se gli fossero stranieri; infine, l'io si sposta di nuovo, lascia il giudizio, si trasporta nella riflessione per farsi giudice del giudizio e dei nostri pensieri. Più versatile di Proteo, l'io non solo cambia di forma, ma cambia di posto, di funzione, è in guerra con sè stesso e mi fa dubitare della mia propria unità. Il sentimento che ho di essere uno non sarebbe combattuto da un sentimento opposto che non dimostrerebbe ancora l'unità dell'io. Tra l'unità della mia coscienza e quella della mia sostanza non havvi identità, nè equazione, nè sillogismo. Arrogi, che la mia coscienza è tutt'intera il mio io o una parte di esso; se è il mio io, eccomi tutt'intero nella coscienza, io non sono sostanza alcuna, l'io non esiste. Se la mia coscienza è una parte dell'io, cioè una forma, un effetto, un atto qualsiasi dell'io, l'io sarà composto di più parti, non sarà uno; la coscienza, occupandone solo una parte, dovrà rimanere estranea alle altre parti, e quindi estranea a ciò che non è la coscienza, estranea alla porzione in cui l'io risiede, non pensante, ma sostanza. A che giova adunque la testimonianza sì spesso invocata della coscienza? essa esprime una contraddizione, e ci offre lo spettacolo di una facoltà che conosce l'io, e non lo conosce; lo scompone in parti, e lo vuole uno; lo abbraccia nel suo tutto, e ne è solo una parte. Del resto, anche considerando il pensiero della mia unità come un errore, bisogna spiegare l'errore; bisogna render ragione di questo sentimento che abbraccia la totalità del mio essere, afferma la mia unità, e non è nè tutto il mio essere nè la mia unità. Da qual forza sarebbe egli spinto a mentire? Lo spiegare la sua menzogna costa alla logica quanto il creare un essere.
Il giudizio: io sono sempre lo stesso, succede a quello che afferma la mia unità, ed è un nuovo mistero. Esso si fonda sulla memoria che mi assicura del mio durare nel tempo, e la memoria è straniera all'io, è una prova che resta sempre fuori della cosa che deve provare, è un fenomeno assolutamente distinto dall'altro fenomeno che gli si contrappone, la durata dell'io. E che? si dirà, il ricordarmi d'aver esistito ieri potrebbe forse appartenere ad un altro individuo? Il durare delle stesse idee e d'una medesima memoria, non sarà forse la migliore prova della mia identità personale? La persistenza dell'io non sarà dessa la condizione che rende possibile alla memoria di durare e di manifestarsi? Questo ragionamento dimostra il perdurare dell'io, dimostrando altresì l'alterazione dell'io, la sua mancanza d'identità, e, se occorre, il suo annientarsi, il suo riprodursi. Dacchè il perdurare della memoria solo attesta la permanenza dell'io, l'alterazione, la perdita della memoria deve far supporre la diminuzione, la perdita dell'io. Nel fatto noi cambiamo, ci alteriamo; in alcune malattie dimentichiamo tutto il nostro passato; la nostra prima infanzia sta sempre separata da noi, dimenticata come se appartenesse ad un altro essere; e se durando la memoria prova l'identità dell'io, scomparendo prova altresì che il nostro individuo cambia. So che non si accetta la conseguenza; si vuole che la memoria sia un mero segno della nostra identità personale; si dice ch'essa non dimostra, non costituisce il durare dell'io, che solo essa lo suppone in quella guisa che la qualità fa supporre la sostanza, o l'effetto la causa; di modo che, scomparendo anche momentaneamente la memoria, resta sempre l'io. Ma l'eterno dilemma si presenta di nuovo. La memoria non crea la durata dell'io, essa non la genera logicamente, essa è solamente un segno, essa è dunque solamente un fatto, un'apparenza che si pone a canto ad un'altra apparenza, il durare dell'io. Alla sua volta il durare dell'io non genera, non crea la memoria; senza vincolo alcuno sanzionato dalla logica si pone a lato dell'io, che appare come la sostanza sta sotto la qualità, cioè arbitrariamente. Voi dite che l'io è la condizione della memoria: e perchè la memoria non sarebbe la condizione dell'io? Sotto un aspetto la permanenza dell'io precede, perchè la memoria sia resa possibile; sotto un altro aspetto la memoria precede, discoprendomi la permanenza del mio essere; da una parte l'io è la condizione della memoria; dall'altra, la memoria è la condizione dell'io; l'opposizione perfetta ci rende impossibile il punto di partenza, e renderebbe inutile ogni termine medio per passare logicamente ad una apparenza all'altra.
Per un tentativo disperato saremmo deliberati a considerare la memoria o l'identità personale come un errore, e ancora noi non sapremmo quale potrebbe essere il termine vero. Egli è possibile che l'identità personale sia solo un'illusione del mio pensiero, e che il mio essere non persista, non perduri e si álteri ad ogni istante. Egli è altresì possibile che la mia memoria sia solo un'illusione del mio io; un'illusione, dico, perchè afferma un'identità parziale, limitata a certo tempo, a certi atti; la memoria allucinata nella follìa afferma un passato, un'identità, che non appartengono alla persona; qualche volta la memoria paralizzata nega un passato da cui è determinato il nostro presente. Dove sarà l'errore? Nella memoria o nella identità personale? Si scelga pure; il problema resterà intatto dopo fatta la scelta, perchè bisognerà spiegare l'errore o della memoria o dell'identità personale; e chi vuol spiegare la durata dell'io come un'illusione della memoria, o la memoria come un'illusione dell'io vuol rendere logica l'alterazione del vero, che diventa falso. In qual modo la memoria, senza cessare di essere ciò che è, potrebbe produrre l'apparenza ingannevole del mio durare? in qual modo il mio durare potrebbe trasformarsi nell'apparenza illusoria della memoria? L'ammettere una simile alterazione vale lo stesso che ammettere la transizione del cambiamento, vale quanto ammettere il passaggio da un termine all'altro col mezzo di una vera creazione, dicendo che la memoria crea la durata dell'io, o che la durata dell'io crea la memoria. E qui si noti che ravvicinai rozzamente i termini opposti, senza elaborare le transizioni che io poteva prendere numerose ne' sistemi de' filosofi, variamente atteggiati e abilmente imaginati per non urtare di fronte con opposizioni immediate. A che avrebbe giovato il percorrere passo passo un labirinto di sottigliezze anticipatamente soppresso dal metodo con cui questa critica è incominciata? So che non si vuol dedurre la memoria dalla durata dell'io, si vuol dedurla da altro; ma il termine altro che s'invoca soccombe alle identiche difficoltà. So che si può accettare il fatto dell'io e della memoria, e passare dall'uno all'altro, dicendo come ogni uomo mi ricordo di ieri, dunque ieri esisteva. Ma chi ha bisogno di conoscere la differenza tra il fatto nudo e il fatto dedotto, non legga più oltre.



Capitolo V

OGNI PENSIERO SI CONTRADDICE
SUPPONENDO IL SUO PROPRIO OGGETTO

La logica ha reso impossibile l'alterazione, i rapporti, la natura, la nostra propria esistenza; ci ha lasciato solo il pensare; eppure la critica non si ferma ancora, e penetrando più oltre, esclude gli uni per gli altri i nostri pensieri.
La distanza che separa il giudizio: io esisto dalla mia reale esistenza, trovasi tra i nostri giudizi e le cose alle quali si riferiscono: quand'io dico: questa sostanza esiste, la mia affermazione, benchè certissima, resta al di fuori della sostanza affermata; quando io dico: ogni effetto suppone una causa, il mio giudizio resta sempre nel mio pensiero; quando io dico: l'essere esiste, v'ha ancora un intervallo che separa questa proposizione dall'esistenza reale dell'essere. Or bene se mi riduco a non affermare se non l'esistenza de' miei propri pensieri, l'intervallo si presenta di nuovo per separare la mia affermazione dai pensieri ai quali si riferisce. Il pensiero e la realtà si distinguono sempre; la cognizione e l'oggetto conosciuto si oppongono di continuo; e tale opposizione finisce per cogliere ogni pensiero, considerato nella sua relazione cogli altri pensieri che afferma.
A chi appartiene il pensiero? Non lo sappiamo, ed esso non ci è dato che sotto la condizione di contraddirsi. A che si riferisce esso? Lo ignoriamo, e non si riferisce ad un oggetto se non contraddicendosi. Che ci dice il pensiero di sè stesso? Assolutamente nulla, perchè la sua affermazione non cade mai sopra di sè stesso, ma si riferisce sempre ad un oggetto o ad un pensiero che gli è estraneo. Nel giudizio: Parigi esiste, la proposizione non afferma sè stessa, non tiene conto di sè; essa afferma un'altra cosa, cioè Parigi. Quando si dice: la natura esiste, questo giudizio non afferma sè stesso, al contrario fa astrazione da sè, e non appare che per portarsi fuori di sè nella natura. Esso ci permette di dubitare della sua esistenza, e vuole che noi crediamo all'esistenza della natura. Così la diade sfuggevole del soggetto e dell'oggetto afferra ogni pensiero, gli vieta d'isolarsi dall'oggetto; gli impone d'essere doppio, d'essere fuori di sè, d'essere assurdo; e se il pensiero cessa di contraddirsi, scompare all'istante. L'identità, l'eguaglianza, la deduzione non potrebbero trovarsi se non nel pensiero del pensiero. ma il pensiero del pensiero è l'incomprensibile.

SEZIONE TERZA

DEL DEISMO



Capitolo I

LA DIMOSTRAZIONE DELL'ESISTENZA DI DIO

Vinta sulla terra, la filosofia cercò la certezza nel cielo; lasciando la materia e lo spirito in balia della critica, sperò di trovare in Dio un principio inalterabile e inaccessibile alle contraddizioni. Per sè stesso il deismo non avrebbe il diritto di qui fermarci, perchè noi critichiamo l'evidenza dei fatti, nè ci siamo proposti di esaminare alcuna ipotesi filosofica. Qualche volta i critici combattono l'esistenza di Dio dandole il valore che si concede alle cose della natura; e confutano ad un tempo i deisti ed i fisici: ma tanto varrebbe il sottoporre indifferentemente alla critica l'esistenza della Senna e quella dell'Averno. L'Averno è contraddittorio quanto la Senna, ma non è evidente, non appare; a che la critica? Lo stesso si dica di Dio: combatterlo quando si combatte la natura, è un voler inteso che esiste come la natura, è un transigere moralmente mentre si lotta logicamente. No, se noi sottomettiamo Dio alla critica, non è che lo crediamo evidente come la natura, ma è che dobbiamo rivendicare e mantenere tutte le contraddizioni che si pretendono conciliate dall'ipotesi di Dio.
Il deismo ci scopre il suo vizio nell'atto stesso in cui vuol costituirsi: esso deve cercare la dimostrazione del suo idolo, e la dimostrazione deve dare per risultato, non un'ipotesi, ma l'assoluto. Ecco l'errore. Voi dovete costituire l'assoluto; voi volete dimostrarlo, voi cercate la dimostrazione per trionfare di ogni contraddizione. Or bene, su che fondate il vostro assoluto? Su di una dimostrazione; la quale deve fondarsi sulla natura o sul pensiero, cioè su due mezzi già riconosciuti contraddittori e condannati dalla logica: dunque Dio avrà per base l'incertezza della nostra propria esistenza: la scienza infinita ed eterna avrà per base il dubbio universale. D'altronde, questa scienza si svilupperà necessariamente nella regione delle idee; quindi la dimostrazione dell'esistenza di Dio sarà sempre una nostra idea, un nostro concetto personale, la nostra maniera di vedere; non farà Dio, non uscirà mai da sè per identificarsi con Dio, non sarà mai una vera dimostrazione. Come ogni nostro giudizio, essa soccomberà sotto la distinzione fatale del soggetto e dell'oggetto, del pensiero e della cosa. L'abisso che ci separa dalla natura e da noi stessi, s'apre altresì tra il nostro pensiero e la Divinità.
S'anco la dimostrazione dell'esistenza di Dio fosse possibile, il risultato ci sfuggirebbe ancora. Noi non possiamo pensare se non sotto la condizione del finito; un limite è indispensabile ad ogni concetto; ora in qual modo concepiremo noi un essere infinito ed illimitato? Per concepir Dio bisogna limitarlo, distruggerlo; bisogna perdere il pensiero o perdere Dio, sacrificare la nostra persona o sacrificare l'assoluto al quale si aspira. Del resto Dio non è nel mondo, e nulla sulla terra ci può rivelare la sua immagine; Dio non è la vita, perchè la vita si áltera, cambia e si esaurisce; Dio non è un pensiero, perchè il pensiero suppone un limite, poi riproduce tutte le contraddizioni della natura esteriore: in qual modo adunque innalzarci a Dio? I deisti tentano di spiegarlo pe' suoi attributi, lo proclamano onnipotente, onnisciente, infinitamente buono, ed ogni attributo ci fa ricadere nella contraddizione. Noi non possiamo concepire la scienza senza limitarla nel suo oggetto; non possiamo comprendere la forza, senza lo sforzo, senza la resistenza; non ci è dato di ammettere una bontà che non sia anch'essa limitata, lottando col male: a che dunque si riducono gli attributi divini? Si riducono a parole vuote di senso. Gli stessi deisti, parlando di Dio, sono sforzati a dichiarare che il loro discorso non è se non una metafora proporzionata alla nostra debolezza, un traslato falso, relativo, imaginato per supplire all'invincibile ignoranza della nostra mente. L'assoluto è dunque inconcepibile, ineffabile, assolutamente al di fuori delle nostre facoltà; e se col dire che Dio esiste si giunge al più alto grado della scienza e della certezza, la dimostrazione di Dio ci lascia esattamente al punto di partenza in mezzo alle contraddizioni. Solo, sulla terra, l'uomo si trova oppresso dal dubbio; ammesso Dio, si trova tra una natura contraddittoria e un essere inconcepibile, tra una contingenza inesplicabile ed un'oscura necessità. Così, al momento stesso in cui speriamo d'innalzarci a Dio, siamo sconfortati dal mezzo inetto di cui dobbiamo servirci; al momento in cui cerchiamo la premessa della dimostrazione, ci accorgiamo che sfuggirà eternamente alle nostre ricerche. Supposto che noi possiamo ottenere la dimostrazione dell'esistenza di Dio, essa resterebbe confinata nelle nostre idee, nè giammai potrebbe toccar Dio. Supposta anche la possibilità di uscire dal nostro pensiero, il risultato della dimostrazione ci farebbe retrocedere al punto di partenza, perchè noi saremmo dinanzi un essere che non si può comprendere. Pertanto attendiamoci a vedere in tutte le dimostrazioni che furono date dall'esistenza di Dio, una contraddizione radicale, in cui la conclusione e le premesse si renderanno a vicenda impossibili.



Capitolo II

CRITICA DELLE DIMOSTRAZIONI
DELL'ESISTENZA DI DIO


Tutte le dimostrazioni dell'esistenza di Dio riduconsi a tre: provasi Dio o per le idee, o per le cause, o per l'ordine della natura.
La migliore delle prove, quella che si fonda sulle idee, riducesi al seguente ragionamento: «È possibile di concepire un essere perfetto, e nessuno può rifiutare questa facoltà alla nostra intelligenza. In presenza d'ogni oggetto io concepisco un oggetto superiore in forza, in grandezza, in bellezza; io posso sempre oltrepassare ogni perfezione finita; oltrepassando il finito, posso concepire un essere di cui la perfezione è infinita. Ora l'essere che si suppone perfetto deve riunire tutte le perfezioni; l'esistenza è una perfezione; ed io debbo aggiungere la perfezione dell'esistenza all'essere che concepisco eccelsamente perfetto: dunque l'essere perfetto esiste realmente.» Qui gli ostacoli sono scaltramente schivati. La dimostrazione trova le sue premesse nell'idea della perfezione, nè richiede altro dato che il mio pensiero, vero o falso, e la nozione ipotetica della divinità. Era mestieri di passare dalla idea di Dio all'esistenza di Dio, e il passaggio si attua col mezzo di una equazione. Si dice: io concepisco un essere che riunisce tutte le perfezioni; l'una di esse è l'esistenza, dunque l'essere eminentemente perfetto esiste; dunque al colmo della perfezione si trova l'eguaglianza tra il concetto e l'esistenza, tra il parere e l'essere: dunque, innalzandosi alla più alta perfezione, il pensiero sempre immanente al suo oggetto, senza mai toccarlo, finisce per uscire di sè, per confondersi con la realtà. Esaminiamo questa prova.
Essa dipende dall'idea di perfezione, che già contiene il germe di una vasta contraddizione. La perfezione è relativa, si sviluppa in mille sensi opposti, segue tutti i contrari: la bellezza dell'uomo deformerebbe la donna, la perfezione della donna è imperfezione nell'uomo; i meriti diventano difetti, e i difetti meriti secondo gli oggetti. In qual modo imaginare un ente che riunirebbe tutte le perfezioni possibili? Avrebbe la forza dell'uomo, la grazia della donna, le ali dell'aquila, l'agilità della gazzella; sarebbe un mostro, sarebbe l'accozzamento il più contraddittorio di tutte le qualità. Ci vien raccomandato, anzi imposto, di staccarci dall'imaginazione, e di non concepire che la perfezione in astratto, la bellezza, la forza, l'intelligenza, ma la ragione vien meno nello sforzo, e soccombe come l'imaginazione. Io non comprendo la bellezza che non è la bellezza di alcun oggetto; essa si ridurrebbe ad una bellezza vaga, quindi equivoca: nel momento in cui vorrò determinarla, non mancherà di svilupparsi seguendo direzioni opposte. Invano si dirà: «dinanzi ad ogni opera finita, voi concepite la possibilità di un'opera superiore; il Partenone è bello senza essere perfetto; senza oltrepassarlo coll'imaginazione, potete superarlo colla ragione: voi idealizzate gli esseri; se torna inutile il riunire le perfezioni materiali che sono vere imperfezioni, potete sempre riunire le perfezioni ideali, e giungere così all'essere eminentemente perfetto.» Lo ripeto, il lavoro della ragione non serve meglio di quello dell'imaginazione. Se nel mio spirito ogni oggetto cede sempre alla possibilità di un oggetto superiore, se posso sempre concepire un'opera che oltrepassa le opere che mi circondano, se posso ideare l'ente perfetto all'infinito, la mia concezione resta sempre nei limiti dei generi. Io posso supporre un letto perfetto all'infinito, una persona bella all'infinito, un uomo savio all'infinito, e in ogni genere un essere che riassume all'infinito la perfezione del genere. Finchè rimango nel genere idealizzo gli esseri, quando voglio riunire in un solo essere la perfezione di molti generi, le forme si confondono, non vedo che mostri, e se voglio poi riunire le perfezioni di tutti i generi, il mio spirito si turba, la natura cade nel caos, l'essere eminentemente perfetto è si strano, che dispare nell'istante stesso in cui ne parlo, si nega da sé nell'atto stesso in cui lo affermo. Chi potrà dire che cosa è l'essere eminentemente perfetto in tutti i generi, in tutti i contrari, nel bene e nel male, nella forza e nella debolezza, nella bellezza e nella laidezza, nella grandezza e nella piccolezza? Ci vien risposto che il male, la debolezza, la laidezza, la piccolezza sono imperfezioni; le si vogliono soppresse, ci si impone di non riunire se non le perfezioni. Or bene cederemo, eviteremo l'imperfezione, purchè ci sia data la regola per distinguerla dalla perfezione. Dov'è dunque la perfezione? dov'è il bene? nel fatto della natura o nella intenzione dell'uomo? La natura sacrifica l'uomo alle sue razze animali, alla sua sfrenata vegetazione; l'uomo sacrifica le razze animali, le vegetazioni, la natura al suo proprio destino. Alcuni popoli adorano divinità le quali sono veri demoni per altri popoli: i pagani si prosternavano dinanzi a Venere, i cristiani dinanzi alla Vergine; quale sarà la vera perfezione? - L'accozzamento di tutte le perfezioni in un essere è un'opera grossolana, un'ipotesi si assurda, che viene abbandonata da quelli stessi da cui viene proposta. Dopo di avere dimostrato che Dio esiste, i teologi debbono scolparlo di tutte le imperfezioni che trovansi nel mondo; queste imperfezioni, dicono essi, sono necessarie; il meglio è nemico del bene; sorpassandosi Dio sarebbe stato imperfetto; fecerat ille minus si non peccasset. L'imperfezione sorge adunque dal seno stesso della perfezione.
Concessa la possibilità di un essere perfetto, siamo pregati di aggiungervi la nuova perfezione dell'esistenza. L'esistenza è dessa una perfezione? Per sè è nulla: l'essere e il non-essere sono due nozioni vuote e indeterminate, le quali si respingono reciprocamente. L'essere non diventa preferibile al non-essere se non allorchè attribuito a qualche cosa. Io preferisco di essere felice, ma se si tratta d'infelicità preferisco il non-essere, non voglio essere infelice. Ci vien dunque imposto un equivoco quando ci si impone di considerare l'essere come una perfezione; anche qui la perfezione, sempre equivoca, abbraccia l'essere e il non-essere, si sviluppa in due sensi opposti, e ci conduce alla contraddizione. Passiam oltre: attribuiamo l'esistenza ad un essere eminentemente perfetto, ne consegue forse ch'egli esista realmente? La sua esistenza resta sempre un mio concetto: dicendo che Dio esiste io non esco da me stesso, rimango co' miei propri pensieri, mi limito a concepire, ad affermare l'esistenza di un essere perfetto; tra il pensiero dell'essere e l'essere non havvi nè identità, nè equazione, nè sillogismo.
La conclusione della prova riproduce la contraddizione. Esiste un essere perfetto: questo è il risultato della nostra peregrinazione a traverso tutte le possibilità le più felici. Ma l'essere e la perfezione sono due cose distinte. L'essere è il genere di tutti generi, abbraccia indistintamente tutti gli esseri, e indifferente al bene e al male, rimane sempre impassibile. La perfezione, al contrario, si sviluppa per preferenze; sceglie il bene, raffina tutte le nozioni, idealizza ogni cosa. L'essere è un genere come l'uomo che contiene tutti gli uomini, fatta astrazione dalla bellezza, dalla sapienza, dalla virtù degli uomini migliori; se non contenesse che uomini belli, savi, virtuosi non sarebbe un genere. All'opposto, la perfezione segue solo la bellezza, la sapienza; se rimane nella generalità del genere, non è piu' la perfezione. Dunque l'essere assoluto e l'essere perfetto sono due enti distinti: riuniamoli, è d'uopo riunirli poichè affermasi un essere assoluto e una perfezione assoluta; questa riunione ravvicina due termini che si escludono, un Dio impassibile e un Dio benefico, un Dio generico e un Dio provvidenziale, un ente come la sostanza di Spinosa, e un verbo generatore come il logos di Platone. - La dimostrazione dell'esistenza di Dio per mezzo delle idee, a prima vista sì semplice, sì rigorosa, dà per ultima conseguenza la cieca agglomerazione di tutte le tesi le più opposte della teologia. Il termine medio della perfezione si riduce ad un grossolano espediente; il sillogismo si sviluppa in due sensi in un modo contraddittorio; e la conclusione, lungi dall'evitare le contraddizioni del mondo, trasporta tutti i contrari nell'idea di Dio. Non potrebbesi comprendere la fortuna di questa dimostrazione che sedusse Descartes e Leibniz se le più grandi arditezze della metafisica non fossero in fondo veri atti di disperazione.
La seconda prova dell'esistenza di Dio trae la sua forza dalla idea di causa, e prende il suo punto di partenza nella natura. «Ogni oggetto,» si dice, «suppone una causa; ogni causa suppone alla sua volta una causa anteriore, e si risale così di causa in causa senza che mai si possa trovare un termine al regresso. Ma essendo impossibile che si dia una serie infinita di cause finite, è necessario di supporre una causa infinita, Dio, che chiude la serie delle cause finite.» Appena possiamo dire che la prova per le cause abbia la forma della dimostrazione: essa si fonda su un'assurdità, e la riproduce in intero limitandosi a spostarla. Se trovasi assurdo di ammettere la riunione del finito e dell'infinito, se credesi contraddittorio di supporre che un numero di cause finite sia infinito, non è forse egualmente assurdo il mettere in presenza Dio e la natura, una causa infinita ed effetti finiti, in altri termini, l'infinito e il finito personificati in due esseri? Il finito e l'infinito si suppongono contemporanei, indivisibili nel mio pensiero; io li vedo uniti nel tempo, nello spazio, in tutta la natura: finchè mi limito ad osservarli e concepirli, io verifico un fatto materialmente vero, benchè logicamente impossibile: ma quando io separo i due termini, il mio atto è arbitrario, la separazione ipotetica, e sono addotto a raddoppiare la contraddizione primitiva perchè la logica mette nuovamente in guerra l'infinito col finito opponendo Dio colla natura. Separiamo noi Dio dalla natura? non vi sarà rapporto tra l'uno e l'altra: Dio cesserà d'essere la causa del mondo, non sarà più che un ente ozioso ed inutile; quindi la prova di Dio sarà fallita poichè non aveva altro scopo che di cercare una causa prima e infinita alla serie degli effetti naturali e finiti. Si suppone, all'opposto, che Dio sia in relazione colla natura? Allora Dio crea il mondo, lo conserva, lo governa: l'infinito tocca il finito su tutti i punti dell'universo, e la contraddizione si presenta di nuovo più forte che mai. Così Dio, che non ha forma, genererà ogni forma; Dio, che è immobile, sarà la causa del moto; Dio, che non può vivere, sarà la causa della vita; Dio, che non è nè pensiero, nè luce, nè materia, sarà la causa del pensiero, della luce, della materia; quindi il pensiero, la luce, la materia procederanno da ciò che non è nè pensiero, nè luce, nè materia; il mondo sarà creato dalla contraddizione.
La nozione stessa della causa, come fu detto, soccombe alla critica, poichè l'effetto e la causa non esprimono che i momenti dell'alterazione: tra i due termini non vi ha identità, nè equazione, nè deduzione; si riducono a due apparenze che la natura unisce e che la critica separa. Separandosi, la causa e l'effetto cadono allo stesso livello; l'una cessa d'essere la condizione dell'altro; la causa non può più dominare l'effetto. Anzi nelle interversioni della psicologia, l'effetto domina la causa: la causa è conosciuta dopo l'effetto, l'effetto la precede, e può pretendere di essere la causa della causa. Secondo l'apparenza esteriore, Dio sarà la condizione del mondo; secondo l'apparenza interiore che passa dagli effetti alle cause, si passerà dalla natura a Dio; io potrò essere la causa e la condizione dell'esistenza stessa di Dio. E che? voi direte, è forse l'uomo il creatore di Dio? io lo ignoro; solo io so che non costa più alla logica il dedurre il riposo dal moto, che il dedurre il moto da un motore immobile: l'origine del pensiero, della luce e della materia posta in Dio è contraddittoria, quanto l'origine di Dio attribuita alla luce, alla materia, al pensiero. So d'altronde, ed è certissimo, che i due termini della causa e dell'effetto son distinti, che sono egualmente validi, che si escludono a vicenda; e quando si parla di Dio e della natura, l'opposizione dell'infinito e del finito aggiunge nuova forza a questa reciproca esclusione. Io so finalmente che due termini contrari costituiscono sempre un dilemma inevitabile, e che il dilemma di Dio e della natura ci dispera quanto le altre alternative create dalla discordia degli elementi che compongono le cose e i pensieri. Dunque da un lato Dio domina, tiene il mondo in suo potere; egli è l'eterna condizione di tutto quanto esiste; ci governa, ci costituisce, ci annichila: dall'altro lato, Dio non è che l'essere spogliato di tutte le qualità, non è alcun oggetto, alcun pensiero, e per conseguenza gli oggetti ed i pensieri possono credersi superiori a lui, e dominarlo in forza della loro esistenza positiva e determinata. A Gerusalemme il miglior discepolo di Socrate, l'uomo che meglio conosceva la propria natura, poteva chiamarsi figlio di Dio; nelle scuole della Germania l'uomo che sapeva meglio addentrarsi nel mistero della sua propria esistenza, Fichte, si dichiarò l'autore della natura, il padre di Dio. Nelle tradizioni di tutti i popoli Dio fu sempre l'autore della natura, l'artista del mondo; nella filosofia di Hegel l'essere indeterminato fu eguale al nulla, e il vero Dio si conosce e si costituisce nel pensiero dell'uomo il più illuminato.
In ultima analisi, la causa prima dell'universo si ridurrebbe ad un incognita, la quale sarebbe posta e supposta all'origine della serie de' fenomeni: sarebbe come l'X dell'algebra, che precederebbe A, B, C, tutti i fenomeni conosciuti: eguale a zero o eguale a mille, la incognita X non altererebbe alcuna proporzione, lascerebbe le cose quali sono, non aggiungerebbe, non toglierebbe nulla alle nostre cognizioni. Se l'insieme di tutti gli astri e di tutti i pianeti fosse spostato di una lega nello spazio o di un'ora nel tempo, non si vedrebbe diverso da quello che appare; i fenomeni sarebbero studiati come se lo spostamento non avesse avuto luogo: nella stessa guisa, dato che Dio fosse causa, tutte le cause e tutti gli effetti sarebbero quali sono; egli non avrebbe nulla tolto alla contraddizione universale, ed anzi vi avrebbe aggiunto le sue proprie contraddizioni.
L'ultima dimostrazione dell'esistenza di Dio viene suggerita dall'ordine della natura, essa ci presenta il mondo come un'opera che suppone un autore onnipotente. La prova per le cause si fondava sull'esistenza stessa del mondo; le bastava che il mondo esistesse perchè fossimo costretti a credere ad una causa infinita: ordinato o disordinato, il mondo supponeva sempre un Dio. La dimostrazione per l'ordine dimentica il mistero delle origini; se occorre, concede che il mondo è eterno, trascurata la causa si occupa dello scopo e l'ordine della natura le fa supporre un Dio. La prima dimostrazione, che dipendeva dalle nostre idee, fu concetta dalla filosofia cristiana; quella che si sviluppa per le cause, era proposta dalla filosofia pagana; il genere umano fu l'inventore dell'esistenza di Dio per l'ordine. Le religioni non sono che immense teleologie in cui la natura viene studiata per indovinare le intenzioni di Dio. Questa dimostrazione sarebbe dessa la migliore? È la più insufficiente, e quasi tutte le scuole moderne ne riconoscono unanimemente la debolezza. L'autore del mondo dev'essere condannato al lavoro di un operaio; bisogna supporgli le passioni, le facoltà, le intenzioni dell'uomo, e forse bisogna dargli gli stromenti necessari al suo lavoro. Egli dispone della pioggia, del sole, per fecondare la terra; la sua missione è di fare che le diverse cose cospirino verso uno stesso scopo; e quando la sua missione materiale è compita, si riposa o piuttosto scompare. Non domandiamogli alcuna verità, alcuna certezza; egli non ci promette di toglierci all'alterazione, al rapporto, alle antinomie della causa e dell'effetto, della sostanza e della qualità, del finito e dell'infinito. Egli ignora i misteri della logica, non li sospetta, benchè lo investano e s'egli si voltasse a guardarli sarebbe fatto statua come la moglie di Loth, svanirebbe annichilato come gli altri esseri dalla natura. Metafisicamente insignificante, il Dio dell'ordine non può mettersi d'accordo colla natura fisica; non è che sia stranissimo l'imaginare l'esistenza di genii viventi ed invisibili; riconoscerò, se si vuole, l'esistenza degli angeli e degli arcangeli, pure la supposizione di un Dio autore dell'ordine e re dell'universo, deve essere autorizzata dall'esperienza; poichè si rinunzia alla certezza assoluta, si devono seguire le verosimiglianze, le probabilità; poichè si rinunzia alla metafisica, conviene che la fisica sia interrogata. Ora la verosimiglianza, la probabilità, l'esperienza ci rifiutano ogni dato per risalire dall'ordine al Dio invisibile che governa la macchina dell'universo. Tra il fatto e l'induzione v'ha una distanza indefinita, senza che una traccia qualsiasi ci guidi nell'attribuire i diversi modi della natura a un essere vivente.
Che più? Il fatto stesso dell'ordine universale è gratuitamente asserito. Dove prendiamo noi l'idea dell'ordine? In noi. Noi trasformiamo le cose per subordinarle ad uno scopo nostro, le sotto-mettiamo ai nostri pensieri, alle nostre intenzioni; e se il corso delle cose obbedisce alla nostra volontà, allora lo dichiariamo ordinato. V'ha l'ordine nell'esercito quando ogni cosa è disposta per la vittoria; vi ha l'ordine nello Stato quando ogni forza concorre al ben essere generale. Possiamo noi trasportare l'idea dell'ordine fuori di noi? Possiamo noi applicarla ai fiumi, al sole, alle cose della natura? Ogni essere è desso predestinato a sostenere una parte nella creazione? Qual'è la parte de' leoni, de' serpenti, delle rondini? Tutto è mistero. Fuori di noi ogni cosa diventa a vicenda scopo e mezzo. L'acqua del mare sembra evaporarsi per nutrire la vegetazione della terra; il vapore sembra non aver altro scopo, che di condensarsi per cadere in pioggia e scorrere pei fiumi al mare. La terra è dessa fatta per l'uomo, o l'uomo per la terra? L'animale deve essere sacrificato all'uomo, o l'uomo all'animale? L'ordine e il disordine appaiono, spariscono, si alternano a vicenda negli stessi oggetti secondo la nostra maniera di vedere; Interroghiamo l'insieme della creazione. La serie delle cause e degli effetti che si svolge dinanzi a noi presenta il triplice aspetto contraddittorio del progresso, del regresso e del circolo. Da un lato sembra che tutto sia in progresso; la vita esce dalla morte, lotta contro l'inerzia mortale della materia, toglie al riposo le cose inanimate, le trascina nel suo movimento, e pare che ogni atomo di polve attenda il giorno della sua risurrezione; pare che le creazioni succedendosi si affinino. Dall'altro lato, sembra che la natura declini, la terra si raffreddi, il sole si spenga, la vita cessi; l'inerzia, l'immobilità, il riposo della morte appaiono come lo scopo, al quale tendono tutti gli esseri dell'universo. Per una terza apparenza la natura si presenta sottoposta alla cieca fatalità di un moto circolare. I pianeti girano intorno al sole senza stancarsi, il corso delle stagioni è periodico; gli esseri animati passano dalla veglia al sonno, dall'azione al riposo, dalla vita alla morte; e ogni oggetto posto tra il diventare ed il perire, trovasi disposto in modo di aggirarsi in circolo eterno. Qual'è dunque l'intenzione della natura? Quale è lo scopo dell'universo? Ignorasi compiutamente; ignorasi dunque tanto l'ordine, come il disordine dell'universo.
La rozza analogia che passa dall'opera all'autore dell'opera, lungi dall'innalzarci a Dio, c'induce a supporre la pluralità degli Dei. La natura non è dessa multipla nelle sue opere? Le intenzioni che presiedono alle diverse regioni della vita e del moto, non sono forse opposte le une alle altre? Non havvi forse la guerra tra le razze viventi? E la guerra non si riproduce forse tra gli elementi? La discordia non è forse nel fondo di ogni cosa? No, uno stesso Dio non potrebbe essere autore dell'ordine e del disordine, della vita e della morte, della luce e delle tenebre; la prova di Dio per l'ordine non è che la prova dell'antico politeismo. Il padre Kirker annoverava seimila prove della divinità, scoprendo seimila volte l'ordine nei diversi oggetti della natura; la ammetteremo, ma esigendo che vi siano seimila Dei o trentamila, secondo l'autorità più antica di Varrone. E fosse pure unico l'ordine dell'universo, fosse subordinato ad un pensiero unico e noto, perchè non sarebbe esso il risultato della collaborazione delle seimila o trentamila divinità? Molti autori possono comporre un dramma, molti architetti possono tracciare il disegno di un palazzo, alcune centinaia di dottori e di vescovi riuniti in un concilio possono formare una religione unica; perchè un concilio olimpico non avrebbe potuto presiedere alla costruzione dell'universo? Se si parla seguendo l'analogia dell'opera e dell'operaio, della cosa e del suo fattore, nessuno potrà contestare l'esattezza della mia induzione. Non basta: voglio che gli Dei siano materiali per agire sulla materia; voglio che mangino, che bevano, che dormano, che si combattano; perchè no? l'analogia dell'opera e del suo operaio lo vuole. Eccoci in piena mitologia. Se s'innalza una statua per la dea del matrimonio, un'altra per la Venere eslege, io ne domando una terza per la filosofia prezzolata: è dessa un'opera e suppone il suo autore. Che gli uomini del mondo primitivo abbiano attribuito le opere visibili della terra a' genii invisibili del cielo, che abbiano spiegata la guerra degli esseri con una guerra supposta tra gli Dei, figli stessi della discordia elementare, l'errore era naturale, l'analogia legittima; sanzionata dall'ignara esperienza di que' tempi senza dubbi e senza pretensioni intorno alla consistenza logica delle cose. Il Dio moderno vuol vinta la logica, vuol essere assoluto; volete fondarlo sull'idea dell'ordine? Voi fonderete l'assoluto sopra un ordine che si riduce ad una congettura, sopra un ordine di cui ignorate il primo pensiero; l'ordine dipenderà dalla vostra maniera di vedere, potrete intervertirlo cambiando il punto di vista, potrete fargli subire tutte le interversioni che subisce l'idea della perfezione, e il Dio dell'ordine sarà l'idolo iperbolico della vostra imaginazione.
Si tenta di avvalorare questa prova si misera dell'ordine dell'universo, sviluppandola come la conseguenza della dimostrazione dell'esistenza di Dio per mezzo delle cause. Si confessa che lo spettacolo della natura attesta piuttosto la pluralità degli Dei, che la esistenza di un solo Dio; ma si spera che, in forza della dimostrazione che prova l'unità di una causa infinita, debbasi stabilire l'unità di un Dio autore dell'ordine universale. Il tentativo è inutile. Noi lo ripetiamo, le due dimostrazioni sono distintissime, quella delle cause valuta l'esistenza dell'universo; le basta che il mondo sia, per supporre una causa infinita. La prova che risale dall'ordine della natura all'esistenza di Dio, guarda all'ordine, e suppone un Dio potentissimo e non infinito; suppone gli Dei e in nessun modo un Dio. Ora raccogliete i risultati delle due dimostrazioni; avrete, da una parte, un essere infinito, dall'altra gli Dei viventi e finiti; da un parte avrete l'essere indeterminato eguale al nulla, il Brama degli Indiani, a cui non si dirige alcuna preghiera e di cui è impossibile di parlare; dall'altra parte troverete gli Dei della religione, la Trimurti, il politeismo, l'incarnazione. La lotta tra Dio e la natura trovasi così trasportata in cielo; lungi dall'avvalorarsi a vicenda le due prove per le cause e per l'ordine, si distruggono mutuamente, organizzando nel mondo invisibile la lotta tra un sol essere inalterabile e la pluralità degli Dei.
Concludiamo; dalla sua origine la filosofia si mise in traccia di un Dio per togliersi alla contraddizione universale, ma tutti i suoi sforzi concentrati in tre grandi prove non hanno fatto che spostare le contraddizioni. La dimostrazione più antica e più popolare, che inganna i teologi coll'ordine della natura, non giunge nemmeno ad afferrare l'idea di Dio, e si perde in mezzo ai genii del paganesimo. La seconda prova che invoca un Dio infinito per isfuggire all'assurdità di una serie infinita di cause finite, si trova sempre al suo punto di partenza, sempre nella lotta del finito e dell'infinito. La prova più dotta accolta da Descartes e da Leibniz, si risolve in un doppio equivoco sull'idea dell'esistenza e su quella della perfezione. Da ultimo, Dio si svolge fatalmente ne' suoi attributi infiniti: e le pompose metafore dell'onniscienza, della giustizia infinita, e della misericordia senza limiti, portano la discordia nel seno dello Eterno, e finiscono per rendere incomprensibile l'opera della teologia.



Capitolo III

GLI ATTRIBUTI DI DIO RENDONO IL MONDO
IMPOSSIBILE

Stabilita l'esistenza di Dio, invece di spiegare il mondo, lo rende impossibile. Dio dista dalla natura quanto la natura da Dio; l'impossibilità di passare dal creato al creatore, dagli esseri all'essere si riproduce in senso inverso, volendo passare dal creatore al creato, dall'essere agli esseri. Dio è immenso, e l'immensità distrugge lo spazio che si divide e si limita; Dio è eterno, e l'eternità sopprime il tempo; Dio è infinito, e l'infinito esclude il mondo, lo riduce a un'illusione, e anche come illusione deve sparire per non porre un limite in Dio. La divinità è inalterabile, e l'inalterabilità osta pure alla creazione. Come uscirebbe il creato dal seno di ciò che non cambia? Sarebbe edutto dal nulla; la logica non lo permette, essa rifiuta la potenza dell'impossibile a Dio come alla natura. Il mondo sarebbe emanato da Dio? Noi vedremmo Dio diminuirsi, dividersi, annichilarsi. Dio sarebbe la causa dell'emanazione senza diminuirsi? Come causa si altererebbe, e l'alterazione non potrebbe combinarsi colla sua identità permanente, senza opporre l'infinito al finito, il moto all'immobilità, senza respingere e ammettere nell'atto istesso l'eduzione dal nulla. Il mondo sarebbe eterno? Allora l'infinito sarebbe nel mondo; non avrebbe più bisogno di Dio. Trascuriamo le ragioni che interdicono a Dio l'atto del creare; supponiamolo creatore. Per qual motivo decidevasi ad uscire dall'eterno suo riposo per creare la natura? Perchè non anticipava, non ritardava di un secolo, di un'ora l'origine delle cose? Perchè collocava il mondo nel luogo che occupa, e non in altri luoghi più lontani? Qual era lo scopo di Dio scegliendo tra tutte le creazioni possibili la sua creazione? Noi cercheremmo inutilmente una ragione alla creazione che esce dall'infinito; uscendo dall'infinito. La creazione è necessariamente figlia del caso. Invocasi Dio per trovare una causa alla natura, per trovarle uno scopo; invocasi Dio per ispiegare l'ordine ed evitare il caso e l'impossibilità di decider Dio a uscire dalla sua immobilità, in un dato istante, con un dato scopo, sotto una forma determinata ci respinge ad un tratto nel regno del caso. Se potessimo rimanervi, avremmo almeno una parola per ispiegarci il mondo. Il caso si collega colla contingenza, il caso permette alle cose di conservare quel carattere per cui possono essere e non essere; il caso trovasi nel fondo del nascere, del perire, dell'universale mobilità, dell'alterazione senza limiti che invade l'universo. Or bene, Dio rende impossibile perfino il caso e la contingenza; se Dio è causa, se Dio è scopo deve comunicare la necessità della sua essenza a tutto ciò che dipende da lui; egli è l'eterno geometra, e tutti i suoi atti debbono svilupparsi colla necessità della geometria. Se credesi a Dio, si respinga come un'illusione l'idea della contingenza; si sottomettano tutti i fenomeni al fato matematico, l'avvenire sarà irrevocabile quanto il passato, il passato quanto i numeri che lo misurano. E non si parli della libertà divina. Se la libertà divina consiste nella facoltà di attuare il pensiero di Dio, si riduce alla necessità più cieca; Dio non è più signore di sè, che non lo sia il fiume che scorre; aggiuntovi che in Dio il fiume scorre per una necessità infinita. Se poi la libertà divina è la potenza per cui egli può opporsi a' suoi propri pensieri, alla sua propria natura, al vero, all'essere, allora egli cade in balia della propria libertà, Dio tutto intero diventa contingente, può distruggersi; e noi ricadiamo sotto l'impero di un caso infinito, condannati a considerare la stessa necessità come un'illusione dovunque si presenti, anche in Dio. Allora le leggi della geometria, quelle della logica saranno contingenti, potranno non essere; se un Dio necessario rende impossibile la contingenza nel mondo, un Dio libero ne rende impossibili le apparenze necessarie. Invocato per rendere possibile la natura, le toglie il tempo, lo spazio, la sostanza, tutte le forme logiche alle quali dovrebbe obbedire.



Capitolo IV

LA PROVVIDENZA RENDE L'ORDINE
ATTUALE IMPOSSIBILE

La provvidenza subisce la sorte degli altri attributi; invocata per ispiegare l'ordine, lo rende impossibile. L'ordine sulla terra è indivisibile dal disordine; dappertutto il bene suppone il male, il piacere dà la mano al dolore, il gaudio alla tristezza; la guerra degli esseri è universale, la natura è tutta insanguinata. Volete voi credere alla provvidenza? negate l'esistenza del mondo.
Si tenta di conciliare la provvidenza coll'esistenza del male, attribuendolo alla libertà di Dio. Dio è libero, dicesi; non deve nulla alla sua creatura; superiore alla distinzione del bene e del male, signore assoluto dell'universo, aveva il diritto di abbandonarci alla distruzione ed alla morte: la sua bontà splende nel bene, la sua libertà spiega il male. Questa è la teodicea popolare, essa benedice la bontà infinita degli Dei più terribili; nelle scuole cristiane si trovò giusto che nella sua libertà Dio potesse permettere il peccato originale; si trovò giusto che Dio punisse il genere umano per la colpa di un uomo; si trovò che avesse predestinato la maggior parte degli uomini a soffrire supplizi senza fine per avere ceduto a passioni momentanee, a seduzioni, in cui egli stesso era l'istigatore della colpa. Fu detto che egli aveva il diritto di moltiplicare le malattie, i flagelli; che poteva servirsi delle stragi, delle pesti, dei diluvi per raggiungere il fine da lui prefisso. Siamo presi da spavento seguendo passo passo gli sciagurati casuisti della sua libertà; non un delitto, non una sventura che non sia giustificata, per farlo superiore alla morale. Qual'è il risultato della giustificazione? Quello semplicissimo di tradurre la teodicea in una vera demonologia, celebrando Dio tiranno dell'universo. Nè la logica dei teologi può fermarsi alla tirannia attuale: tutto deve essere permesso alla libertà divina; le deve essere accordato di aggiungere male a male, senza riposo, senza fine, senza termine fino alla consumazione del dolore, fino alla morte della morte. Dio ha già imposto il male alla terra. Nel cristianesimo Dio ha condannato il genere umano per la colpa di un uomo; ci ha condannati al fuoco dell'inferno, ed usava sempre del diritto della sua libertà infinita. Si prosegua il ragionamento: la demonologia cristiana sarebbe raddoppiata, il male sarebbe progressivo nell'universo, sarebbe la legge universale; la vita avvenire dovrebbe essere per tutti un inferno perfettibile; nessun dolore, nessun disordine avrebbe il diritto di mettere un limite alla libertà divina. Dunque la libertà divina conduce alla deificazione del male, suggerita per iscolpare un Dio infinito, detta l'apologia di un male infinito; e l'uomo che si prosterna davanti un Dio assolutamente libero, venera un essere infinitamente scellerato per la libertà; adora un mostro che riassume in una sola persona gli attributi di Ormusd e quelli di Arimane. Si sfugge così alla contraddizione terrestre del bene e del male: ma a qual patto? a patto di trasportare la contraddizione nel seno di Dio.
Una seconda teoria giustifica la provvidenza colla idea che la potenza di Dio trovasi sottoposta alla necessità di servirsi di certi mezzi per raggiungere lo scopo dell'universo. Si dichiara che la bontà divina è infinita, che noi siamo certi a priori di essere nel migliore dei mondi possibili; che se il male esiste, se ci opprime, non è male, è mezzo per giungere ad un bene; non è male assoluto, è inconveniente relativo, inseparabile dal bene generale di tutti gli esseri. Con simili ragioni si è paragonato Dio a un medico che prescrive bevande disgustose e salutari; a un re che si serve di un Wallenstein, di un generale devastatore, per conservare le sue provincie. Non vuole mai il male per il male, ma lo permette in vista del bene; che ne risulterà? può impedirlo, ma lascia fare; egli dà il pugnale al sicario, le armi all'assassino, l'essere alle azioni più spaventevoli; assiste alle guerre dei popoli, le prepara; e tuttavia non è complice del male, non vi concorre che materialmente per trarne un più gran bene. Alcun tribunale della terra ammetterebbe simile difesa per giustificare un accusato; nessun uomo dotato di senso morale approverebbe questa iniqua ragione di stato, per cui Dio opererebbe come i Borgia, e non terrebbesi iniquo. Pure ammettiamola, deduciamone l'ultima conseguenza; trattasi di un essere infinito, e l'infinito c'impone di toccare il fondo dell'ipotesi. Dio dà il pugnale ai sicari, è un re debole, che governa col mezzo de' tiranni; i Wallenstein, i Borgia, i Metternich sono i suoi ministri; colle migliori intenzioni sottoposto alla fatalità dei mezzi, deve permettere le malattie, le carestie, i diluvi; per la sua impotenza i teologi cristiani hanno giustificato la maledizione scagliata sulla razza di Adamo, hanno dimostrato che l'eternità delle pene e la dannazione della immensa maggioranza del genere umano erano inconvenienti necessari al più gran bene della repubblica dell'universo. Si compia adunque il ragionamento. Accetteremmo una tradizione mille volte più terribile di quella degli Ebrei, ma la provvidenza sarebbe sempre giustificata; il numero dei flagelli nel tempo e nella eternità sarebbe mille volte più grande; e sempre sicuri della bontà divina dovremmo attribuire il male alla ignota necessità che limita la potenza di Dio. L'avvenire nel tempo e nell'eternità sarebbe una decadenza progressiva, illimitata, infernale; e la provvidenza sarebbe sempre giustificata all'infinito, perchè nessuna sciagura finita, per quanto spaventevole sia, può diminuire d'un punto una bontà infinita, la cui potenza può restringersi all'infinito. Eccoci dunque dinanzi a un Dio che riunisce in una sola persona una bontà infinita e un'impotenza senza limiti: una misericordia immensa e una incalcolabile incapacità. Il bene e il male del mondo si conciliano; ma la contraddizione passa negli attributi di Dio, i quali riproducono quei due ideali della perfezione e della imperfezione che si sviluppano, combattendosi e intervertendosi a vicenda, nel nostro spirito.
Per un ultimo sforzo si vuol eludere la contraddizione tra la provvidenza e l'origine del male, riducendo il male ad una mera privazione. L'espediente è semplice; il male vien fatto eguale al nulla, e si scorre a traverso le difficoltà a forza di sofismi. Si mostra che lo scellerato si avanza verso il nulla, che lavora alla propria distruzione; si tracciano scene metafisico-fantastiche, in cui le nozioni del bene vengono svisate per istabilire poi la bizzarra equazione del male col nulla. Fatica perduta: ogni scena può intervertirsi, e ci è agevole di presentare gli eroi più celebri come illustri suicidi, e i fanciulli più innocenti come vere negazioni. Se la tristezza, se il dolore, se il vizio non sono altro che le negazioni del piacere, del gaudio, della virtù, perchè alla loro volta il gaudio, il piacere, la virtù non sarebbero pure negazioni del male, mere privazioni?
Dimentichiamo la interversione; sia pure il male eguale al limite, alla privazione, al nulla; il limite accusa Dio, lo accusa di imperfezione; Dio non è egli giustificato; la difesa deve ricominciare. Nel fatto i teologi la ricominciano, e stranamente dicendo che egli non poteva creare altri Dei; che l'infinito non poteva creare altri infiniti: egli ha dunque creati gli esseri limitandoli, e col limite generava simultaneamente il male nel mondo. Ma le due nozioni del male e del limite sono distintissime; il limite è sì distinto dal male, che si applica egualmente al male e al bene: havvi un termine al dolore, havvene uno al piacere; distruggansi i limiti, la misura, la proporzione delle cose saranno violate; il bene stesso sarà trasformato nel male. Dunque per qual ragione il limite sarebbe il male piuttosto che il bene? Si risponde continuando il romanzo metafisico. Dicesi: il limite circoscrive il nostro pensiero, lo confonde, la confusione ci fa cadere nell'errore. Ecco una prima equazione del limite coll'errore; equazione imaginaria, perchè il pensiero può circoscriversi, limitarsi fino ai confini del nulla, senza ingannarsi; l'ignoranza non è l'errore. Poi l'equazione non basta; per sè stesso l'errore non è un male, può essere un bene, possiamo essere felicemente ingannati, o felici nell'inganno: d'onde il male? L'errore, si soggiunge, c'induce alla colpa; facendoci vedere il bene là dove non è; ci seduce, e precipitiamo nel male. Ecco una nuova equazione dell'errore col delitto; e ancora non basta: l'omicidio involontario non è punito; l'errore non è che un errore; non è che un male psicologico, non è un mal morale. Infine si conclude, il delitto trascina con sè la pena, dimodochè il male fisico non è che una punizione, la conseguenza naturale di un mal morale. Ma diremo noi che l'ammalato è un condannato? Come concepire un Dio che punisce gli errori inevitabili dello spirito, i quali conducono a delitti egualmente inevitabili? Come ammettere che egli punisca in noi la sua propria colpa, di averci creati fallibili? Qual è il misfatto commesso dall'infante che nasce preda del dolore? Quale il misfatto della donna condannata a partorire soffrendo? Nondimeno identifichiamo il male col limite: stia pure che la donna debba partorire con dolore, che l'uomo sia condannato al lavoro, che ogni animale debba essere destinato alla morte, che la terra debba essere invasa dalla peste, dalle carestie, dai diluvi, e sempre perchè il mondo è creato sotto la condizione del limite, e perchè Dio non poteva creare altri Dei; ne conseguirà nella bontà divina la colpa di non essersi astenuta dal creare, di non aver resistito alla ignota forza che la spingeva a manifestarsi limitandosi, cioè divenendo malefica. - Quanto all'idea di attenuare il misfatto divino considerando il grandissimo numero de' beni prodigati nel mondo, quanto alle ambagi teologiche nelle quali si celebrano mille gioie scempiamente bucoliche per nascondere l'amara tristezza delle umane sorti, disdegniamo la discussione e passiam oltre. Dinanzi a Dio siamo al cospetto di un essere matematico; il più, il meno, i palliativi, le transazioni sono incompatibili colla necessità logica dell'assoluto. Ciò che accusa la provvidenza è il male, non la quantità del male: poco importa che esso si riduca alla privazione, che la somma dei piaceri oltrepassi quella dei dolori, che le virtù siano più numerose dei vizi. Si tenta di consolarci assicurando che maggiori piaceri ci avrebbero danneggiato, che il dolore ha la sua missione, che veglia a conservarci, e che la natura ci fu matrigna per esserci miglior madre. Si tenta di scolpar Dio avvertendo che i dolori degli animali sono minimi; che forse l'uomo, creatura misera e sacrificata, era necessaria per empiere un vacuum formarum nell'ordine universale della creazione; ci vien fatto osservare che dalla terra non si può giudicar l'universo; che se la terra è infelice, la repubblica universale di tutti gli esseri è forse felicissima, e che l'universo medesimo è forse in progresso. Son tutte ipotesi per sè cavillose, meschine, senza valore. In primo luogo si può intervertire e supporre che più grandi piaceri ci avrebbero resi felici, che il piacere poteva vegliar solo sulla nostra conservazione, senza che il dolore fosse necessario: invece di imaginare che la terra sia un'eccezione sventurata nello universo, si può credere, al contrario, che sia un'eccezione di felicità, che l'universo decada, che l'uomo sia sacrificato, che nessuna ricompensa lo attenda nell'altra vita. Ma intralasciamo ogni considerazione accessoria e puramente secondaria, ogni interversione delle possibilità del dolore: ciò che più rileva è che dinanzi a Dio è il male, e non la quantità del male che pesa. Se anche un insetto soffrisse solo e per eccezione nell'universo, basterebbe all'accusa e questa sarebbe forte come se l'universo fosse un inferno. Posta la bontà infinita, non si può dare il male; ammesso il male, Dio è limitato, lotta col mal genio, e noi non sappiamo di chi sarà la vittoria. Se il limite era la condizione del creato, se imponeva il male all'universo, creando il mondo Dio si è degradato, la creazione fu una caduta; la provvidenza rendeva il mondo impossibile.
La filosofia si volse a Dio per sottrarsi alla contraddizione universale; disperando d'ogni cosa, volle innalzarsi all'assoluto. Ma la logica, che distruggeva tutti gli esseri della natura e tutti i pensieri dell'uomo, le impediva di lasciare la terra, smascherava la contraddizione originaria in tutte le prove dell'esistenza di Dio; se vuolsi dissimularle, la logica le mostra in Dio per distruggere la natura per mezzo di Dio, e Dio per mezzo de' suoi stessi attributi.

SEZIONE QUARTA

IL DESTINO DELL'UOMO



Capitolo I

LE CONTRADDIZIONI DEL NOSTRO DESTINO

Il dubbio che passa dalle cose ai pensieri scende dai pensieri alle nostre azioni, le quali trovansi così due volte assalite dalle contraddizioni della natura e da quelle del pensiero. Non v'ha certezza alcuna nell'azione, non vi ha spirito positivo che possa sfuggire alle antinomie; non ragione pratica che abbia il diritto di resistere alla critica. Il separare la teoria dalla pratica, malgrado l'autorità di Kant, si riduce al voler ingannarsi, ad una maniera di partito preso di non dar retta alla logica; nè possiamo imitare Descartes, che risolvette di essere buon cattolico e buon soldato nell'istante in cui il dubbio distruggeva ogni suo principio. La critica ha tolto anticipatamente la possibilità della pratica; di Dio non resta nemmeno l'apparenza; e la teodicea ci ha servito unicamente da macchina di guerra per confermarci nel dubbio.
Trascuriamo le nostre critiche, la natura non ci offra più veruna antinomia, il pensiero sia una guida sicura; vedremo che non ci è dato di poterci governare da noi, e che ogni azione è moralmente impossibile.
Qual è il motivo d'ogni nostra azione? La felicità è lo scopo della vita; ogni azione è suggerita da un interesse, siamo ragionevoli perchè vogliamo il bene. Ora, nel momento in cui cerchiamo la felicità, un principio opposto, il dovere, appare per imporci il sacrifizio di noi stessi: noi vogliamo essere felici, ma cerchiamo, ma preferiamo l'infelicità. Sarà per orgoglio, per vanità, per ambizione: la nostra virtù non sarà che la forma della virtù; pure è voluta, e cerchiamo il sacrifizio. L'interesse e il dovere, l'egoismo e l'ascetismo si contrastano le nostre azioni; la contraddizione è formale; essa mette alle prese tra loro il bene ed il male, la morale e la politica, il successo e il martirio. Il bene dell'egoista è il male dell'eroe, il male dell'eroe è il bene dell'egoista; la perfezione dell'egoismo consiste nel sacrificare ogni cosa a sè, quella dell'eroismo consiste in un'abnegazione, per la quale l'uomo più sublime, secondo l'evangelio, sarà quello che avrà più odiato se stesso. Il nostro destino ondeggia tra i due estremi dell'utile e della virtù; in ogni istante della vita dobbiamo governarci, e nondimeno il governo di noi stessi non è mai logicamente possibile. Esaminiamo prima le contraddizioni della giustizia; vedremo in seguito quelle della felicità.



Capitolo II

LA CONDIZIONE DEL DOVERE DISTRUGGE IL DOVERE

Non saremmo mai giusti se non fossimo liberi; la libertà è la condizione del dovere. Ma siamo noi liberi? La coscienza ci rivela la nostra libertà, ci attesta l'indipendenza morale dell'io; nessuno può contestarci il sentimento della nostra indipendenza; e non pertanto, se si interroga la coscienza tutta intera, si trova, in un coll'apparenza della libertà, l'apparenza opposta della fatalità. Se si dice: Io posso scegliere, accettare, rifiutare, si dice altresì: sono sforzato, i miei interessi m'impongono di accettare, di rifiutare. Se la libertà è l'una delle mie credenze, la necessità di cercare una causa ad ogni effetto trovasi egualmente nelle mie credenze. Da una parte l'io si decide per un atto spontaneo della volontà e tiensi indipendente: dall'altra, la riflessione domina gli atti della volontà, li subordina alla ragione, e la libertà svanisce signoreggiata dalla serie delle cause e degli effetti. Prima e durante l'azione, l'io si crede libero di tutte le alternative del bene e del male; l'azione è dessa compita? essa è l'effetto di una causa, è dettata da un motivo, rientra nella serie degli eventi naturali; l'apparenza della fatalità si sostituisce a quella della libertà. Dunque sotto l'impero della logica ogni azione è libera e fatale; il merito suppone la libertà, il fatto suppone la causa; le due ipotesi si escludono; quale preferiremo? Anche qui, come dovunque, il motivo di scegliere vien meno, e noi siamo in balia di un dilemma.
Ogni legge riproduce la contraddizione della libertà e della fatalità. La legge approva, biasima, incoraggia, umilia, crede che l'uomo sia libero, e gli perdona quando la libertà scompare. Nel medesimo tempo la legge punisce, compensa, calcola i nostri interessi; ci suppone interessati, e non si crede forte se non quando ha conosciuti tutti i motivi che determinano la nostra volontà. Lo stesso contrasto si trova nelle religioni. Esse parlano di merito, di virtù, di libertà: vogliono scandagliare la coscienza, si dirigono alla parte più spontanea del nostro essere; e nel tempo stesso ci dominano materialmente con un sistema di pene e di ricompense a cui non si può resistere senza follìa. I legislatori ed i profeti ci considerano essi come agenti liberi, o come automi? dobbiamo noi meritare la nostra sorte? dobbiamo subirla? Siamo noi gli artisti o gli istrumenti della natura? L'apparenza è doppia.
Poniamo la libertà, dimentichiamo l'antitesi della fatalità; sotto l'impero della logica il dovere diventerà impossibile. Il libero arbitrio ci rende indipendenti dalla natura, superiori ai nostri interessi, alle nostre affezioni, alla nostra propria ragione; col libero arbitrio le nostre azioni emanano direttamente dall'io, senza causa, senza motivo, fatta astrazione dalle azioni anteriori. Quindi col libero arbitrio le nostre azioni diventano altrettanti miracoli, non hanno antecedenti, escono dal nulla. Se siamo veramente liberi sarà impossibile di apprezzare l'influenza delle cose sull'uomo, il dolore ed il piacere cesseranno di governare il mondo, il legislatore non saprà più se le ricompense possano incoraggiare, se le pene possano atterrire; non ci sarà dato di prevedere le azioni dei nostri simili. Lungi dallo spiegare il mondo morale, la libertà lo rende impossibile; per renderci virtuosi ci rende sragionevoli; invece di essere la condizione del dovere, la libertà si riduce alla facoltà del male. Finchè l'uomo sceglie il bene, la ragione e la volontà bastano a spiegarlo; ma quando l'uomo vuol perdersi senza motivo, quando vuol rivoltarsi senza causa contro l'evidenza de' suoi interessi, allora bisogna supporgli una nuova facoltà e dargli la libertà per renderlo moralmente irresponsabile.
Così la libertà segue la regola generale di tutte le condizioni. Sotto l'impero della logica lo spazio esclude il corpo, il tempo esclude il moto, l'esistenza esclude l'alterazione; la sostanza e la qualità, la causa e l'effetto, l'io e il pensiero, il soggetto e l'oggetto si respingono a vicenda. Nella morale, se la libertà esiste, il dovere è impossibile; la giustizia è distrutta dalla condizione della giustizia.



Capitolo III

LE CONTRADDIZIONI DELLA GIUSTIZIA

Nella lotta tra l'interesse ed il dovere, la logica ci domanda qual motivo ci obbliga a scegliere il dovere? Non già che la logica neghi il dovere, lo riconosce un fatto primitivo; il dovere si rivela in noi, nostro malgrado; segue, giudica, approva, biasima le nostre azioni. L'apparenza della giustizia ci è data evidente quanto le altre apparenze. Però anche l'interesse esiste, nasce colla vita, la ispira; ci vuole una ragione, un motivo per sottometterlo al dovere, e questo motivo ci manca.
Obbediremo noi al dovere per procacciarci le soddisfazioni della moralità, per risparmiarci la pena del rimorso o della vergogna? Qui il dovere si degrada, cade nella classe dei nostri interessi; qui non si evita il vizio che per evitare un dolore, non si cerca la virtù, ma il contento della virtù. Il dovere non è più che un bisogno, come la fame; vien governato dall'interesse, il quale non ci obbliga, ci lascia liberi, ammette la varietà dei piaceri, nè pretende imporci alcuna soddisfazione. Dunque è lecito ad ognuno di seguire il proprio istinto: l'ambizioso cerchi il successo, il giusto porti la croce, a ciascuno il suo capriccio. Le vespe vivono di frode, le api di lavoro.
Se il sentimento del dovere fa vergognare quelli che gli resistono, se rode col rimorso, anche l'interesse trae al suo seguito una legione di pentimenti e di dolori; anch'esso ci punisce col suo rimorso, e si vale della vergogna per farsi obbedire. Guardate ai fatti: quella fanciulla geme, le pesa la sua virginità; quel re è afflitto, ha commesso l'errore d'esser giusto; quel generale è dolente perchè non fu perfido; quel ministro è infelice, vorrebbe aver violata la fede. Tito era mesto il giorno in cui non era stato benefico; il condottiero Gabrino Fondulo moriva disperato per non aver morto il papa e l'imperatore quando li aveva ospitati a Cremona. Dobbiamo imitare Tito, o il condottiero? La logica ci vieta di rispondere.
Al cospetto della logica i caratteri del dovere e quelli dell'interesse sono eguali. Come il dovere, l'interesse cambia, cede all'abitudine, all'educazione, alle circostanze; varia coi costumi, col clima, coll'incilivimento. Qualche volta l'interesse è dubbio, incerto, riflette; sono gli stessi fenomeni del dovere; nel medio evo esso invocava la casuistica della Chiesa e quella della cavalleria; esso riclama dovunque lo studio della giurisprudenza e le decisioni dei tribunali. L'interesse può scomparire almeno parzialmente: possiamo diventare insensibili ai piaceri più attraenti, possiamo privarcene lietamente; nell'amore, un essere vive nell'altro, e l'interesse sospende il regno dell'interesse. Lo stesso fenomeno si riproduce nel dovere: il rimorso scompare coll'abitudine del delitto; intere nazioni possono disconoscere i primi principj dell'umanità; nell'antichità tutto il genere umano ha consacrato l'ingiustizia della schiavitù; la stessa ingiustizia trovasi ancora consacrata nelle più vaste regioni del globo. Ivi l'uomo è una macchina; viene flagellato, ferito, ucciso; le leggi del giusto restano sospese nel santuario stesso della coscienza: quelle del pudore son vane; lo schiavo non ha sesso per sedurre la donna libera, nè per farla vergognare. In qual modo obbligheremo noi l'uomo pervertito a seguire un sentimento che non ha?
I due istinti dell'interesse e del dovere riduconsi a due impulsi, a due forze; se manca il motivo per preferire l'una all'altra, la scelta sarà dettata dall'intensità delle forze. La logica dà ragione alla meccanica. Dunque l'impulsione più forte avrà il diritto di trarci seco; dunque l'azione, risultato necessario del più forte impulso, sarà sempre giusta; dunque sarà giusto d'essere ingiusto, quando la fatalità dell'egoismo prepondera sulla forza del dovere. Non si chieda se devesi onorare il virtuoso o l'iniquo, se vuolsi imitare Seneca o Nerone. La quistione non ha più senso; siate ciò che siete, stimate ciò che riesce: il fatto è il diritto.
Fin qui la virtù lotta solo coll'interesse; poniamola in presenza del vizio; la contraddizione sarà ancora più profonda, perchè il vizio è disinteressato, perchè è ascetico: il vero scellerato non è solamente egoista; la sua coscienza assapora la gioia dell'ingannare; nel successo sente una soddisfazione d'artista. Egli vive negli altri. Voi piangete, egli ride; voi siete felici, egli geme; il suo odio sfida i pericoli del combattimento: accetta la fatica del nuocere; il suo cinismo costa quanto il pudore; la sua misantropia è laboriosa quanto la beneficenza. L'interesse ci rende ragione dei popoli che dimenticano la virtù, non di quelli che adorano il vizio. È il sentimento del sacrificio che fa passare i popoli da un contrario all'altro; esso dà alla virtù il nome di vizio, e chiama vizio la virtù: non v'ha gloria che non sia accagionata d'infamia, nè iniquità che non vanti il suo Erostrato. Coriolano immolavasi al senato, i Gracchi sacrificavansi alla plebe; noi onoriamo la ragione, il lavoro, il matrimonio; il monaco è devoto all'autorità, all'ozio, al celibato. Dov'è la virtù? nel vizio o nella virtù?
La poesia, fida interprete della coscienza dei popoli, è doppia come il vizio e la virtù. Nel dramma essa prodiga le sue simpatie all'innocente, nella tragedia ingrandisce il tiranno, nell'idillio ci invita alla pace, nell'epopea ci chiama alla guerra. Canta Mario e Silla, Cesare e Bruto, i Musulmani e i Cristiani; Satana ha i suoi poeti come l'Altissimo; l'inferno i suoi poemi come il cielo. - Dunque la coscienza non può nè ricompensare, nè punire senza confondersi coll'interesse; non può predicare l'abnegazione senza confondersi col vizio; non può svilupparsi nella storia senza alternare a vicenda il bene e il male; non può splendere nella poesia senza celebrare le proprie contraddizioni.



Capitolo IV

LA RAGIONE DISTRUGGE LA GIUSTIZIA


La coscienza non può scegliere nè il bene nè il male, che trovansi egualmente nel fondo della coscienza . Per fissare la scelta bisogna cercare nella ragione i termini medii, i quali possano dominare l'interesse e la giustizia. Prima d'indicare le equazioni imaginate dai filosofi per ridurre i due contrari della morale, noi possiamo assicurare che la scelta sfuggirà a tutti gli sforzi. Di fatti, la ragione si restringe al conoscere; si riduce ad affermare, a negare: quando il vero è stato distinto dal falso, la ragione ha finito la sua parte. Dunque per essa la lotta del bene e del male non e che l'uno dei mille episodi della guerra universale, delle cose e dei pensieri: il male è vero quanto il bene; non vi ha motivo per preferirlo o per posporlo al bene. Per la ragione, due termini sono concetti ad un tempo; una è la scienza dei contrari: la medicina insegna simultaneamente le due arti di salvare e di perdere; in politica non conosce l'arte della libertà chi ignora quella della tirannide. Con qual diritto la ragione sceglierebbe tra i due contrari dell'interesse e del dovere?
Il primo termine scoperto nella ragione per distinguere il bene dal male, consiste nella stessa verità, che si confuse a disegno colla giustizia. L'ingiustizia, fu detto, mente; essa conosce il bene e lo disconosce, lo confessa e lo nega, dà l'essere a ciò che non è, e lo toglie a ciò che è. La ragione, la logica identificano il bene colla verità; convien essere giusto, perchè è necessario di essere veridico. Sia.
- Qual'è dunque la vostra regola?
- Quella di non mentire.
- Condannate voi l'uomo che inganna il suo simile?
- Lo condanniamo.
- Condannate voi chi mente per semplice gentilezza, dichiarandosi l'umile servo d'un suo corrispondente?
- Non lo accusiamo, tutto al più, che di leggerezza.
- Condannate voi chi sfugge ai sicari, ingannandoli?
- Lo scusiamo perchè si difende.
- Condannate voi l'uomo che inganna i sicari per salvare una vittima?
- Egli è innocente, deve essere scusato.
- E se per salvare la vittima mentisse coraggiosamente, esponendosi alla collera dei sicari, vi limitereste a scusarlo?
- Dovrebbesi lodare.
Qui la menzogna diventa alternativamente il vizio e la virtù, non essendo per sè stessa nè l'uno, nè l'altra.
Identificando l'ingiustizia colla menzogna, conviene trasformare in delitti le menzogne della poesia, conviene perdonare al cinismo che non mente, bisogna assolvere le scelleratezze in cui la giustizia è schiettamente violata. Per sostenere l'equazione dell'ingiustizia colla menzogna, fu detto che il ladro nega la verità della mia proprietà, che l'assassino mente al diritto della mia vita; si è falsata l'ingiustizia con sottigliezze stolte, in cui si scambia la nozione della verità con quella della sincerità. No: chi mente conosce il vero; chi inganna lo conosce; chi commette un misfatto si fonda sulla verità delle cose quanto l'uomo che pratica la virtù; il conquistatore che viola i diritti di un popolo, deve essere istruito quanto un liberatore. La verità è in tutto ciò che è; trovasi egualmente nel bene e nel male, nella virtù e nel vizio, nel dovere e nell'interesse; non evita, ma riproduce la contraddizione della giustizia e dell'ingiustizia.
La teorica della verità prende una forma più dotta quando ci impone di riconoscere il vero valore delle cose. Si dice essere la ragione che stima i valori, che apprezza l'importanza di ogni oggetto; tolta la ragione non possiamo determinare, nè paragonare i valori; un bene non accettato, o da noi giudicato sciagura, non sarà mai un bene. Se ne conclude, che devesi ascoltare la ragione, per dare alle cose il verace loro valore, e per vivere secondo la verità: vere vivere. Di là l'equazione tra il vero ed il dovere; il vero fissa i valori, il valore fissa l'azione; il dovere è l'azione determinata del valore. Questa è la dottrina degli stoici. Nel suo principio essa non c'impone di preferire il dovere all'interesse; ci impone di apprezzare i valori, di scegliere i bene preferibili; precetto inutile, perchè nessuno vuole il male, nessuno fugge il bene, nessuno vuole ingannarsi a disegno sulla stima dei valori. Dov'è dunque il bene che devesi preferire? Nella giustizia o nell'interesse? Ecco il problema: dinanzi all'interesse la giustizia non ha valore; dinanzi alla giustizia è l'interesse che non lo ha: la giustizia e l'ingiustizia intervertono a vicenda la nozione del valore. Del resto, l'intelligenza, per parlare con precisione, non determina i valori; ma accetta, afferma la stima fatta dal desiderio, dall'istinto, dalle passioni; togliete i miei dolori, i miei piaceri, la mia intelligenza perderà le nozioni stesse del bene e del male; per essa i beni non hanno valore, essa non ha motivo di preferire la gioia all'afflizione, o il destino del genere umano al destino d'un grano d'arena. Concediamo che l'intelligenza possa scegliere il bene, concediamo che l'intelligenza scelga il dovere come il migliore dei beni, l'intelligenza divien folle; ci dice che il sacrificio è un bene, che il dolore è un piacere; inventa la gioia del soffrire, il contento della disperazione, una felicità equivalente ad una sventura. Poi questa sciagurata felicità non è ancora la virtù; offerta come un bene, condurrebbe ad un egoismo altiero, fantastico, ad una vita orgogliosamente impossibile. Essa lotta contro l'istinto, contro il cuore; ci fa rinunciare alla famiglia, alla patria; finisce con l'interventire i sentimenti sotto pretesto di perfezionare l'uomo lo rende immorale. Diffidiamo delle virtù che escono da un sillogismo.
Con un nuovo tentativo si vuol rendere positiva e reale la vuota felicità della giustizia degli stoici, consigliando di porre il bene supremo in Dio, ed esigendo il sacrificio di tutti i beni effimeri dell'interesse. Credesi che il bene assoluto soddisfaccia l'intelligenza e improvvisi l'equazione col dovere, respingendo per sempre l'ingiustizia, che si fa eguale al falso interesse. Ma il bene assoluto, lungi dal soddisfare l'intelligenza, è l'inconcepibile, l'inintelligibile, l'assolutamente impossibile; si riduce a un bene senza beni; sorge superiore ai nostri istinti, ai nostri sentimenti, ai nostri gaudi; non tocca il senso, nè la coscienza; non impone la giustizia, non respinge l'ingiustizia. Il perchè tutto è permesso al fakir; la sua follìa è santa, e la sua persona santifica l'adulterio. Quando cessa d'essere inconcepibile, il bene assoluto è un genere; lungi dal consigliarci il sacrificio di un interesse qualsiasi, emerge dalla riunione di tutti gli interessi morali e immorali, durabili ed effimeri.
Sia pure possibile di raggiungere il bene assoluto col sacrificio de' beni relativi; ammettiamo, se occorre, tutte le speranze del prete, del devoto e del frate; sia stabilito che rinunziando ai beni, si ottenga il bene. Infinito o finito, assoluto o relativo, celeste o terrestre, il valore è sempre il valore, sempre interessato. Quindi il prete, il monaco, il devoto si ridurranno a cambiare il relativo nell'assoluto, a dare il presente per l'avvenire; non saranno che egoisti trasmondani, i quali mutueranno i loro valori a cento, a mille per uno: dov'è il sacrificio? dov'è la virtù? L'orgoglio dello stoico è più disinteressato dell'umiltà del monaco: che dico? lo stesso libertino è più ascetico del devoto mezzo cupido, mezzo stupido, in traccia de' piaceri per la via del digiuno, della preghiera e della macerazione. Don Giovanni si avventura; nella sua ribellione sfida l'universo; malgrado Dio, egli vuol essere quello che è colla sua natura e colla sua responsabilità; la statua del commendatore non può atterrirlo. Il devoto senza cuore e senza spirito si spiega coll'interesse: il vero scellerato, nella sua degradazione, ci mostra le vestigia di una moralità superiore.
Così nel dilemma del bene e del male la ragione conosce senza scegliere; colla verità illumina il vizio quanto la virtù, apprezzando i valori delle cose stima egualmente il bene ed il male, in traccia del bene assoluto, predica una follía senza forma, e un egoismo senza limiti.



Capitolo V

L'ORDINE È MORALE ED IMMORALE

L'idea dell'ordine offre un nuovo pretesto per forzare la ragione a scegliere nell'alternativa dell'interesse e della giustizia e si disse: la ragione non è soltanto contemplativa; dal momento che ci proponiamo uno scopo, essa diventa artista, ci addita i mezzi per raggiungere lo scopo, ci dà l'idea dell'ordine, che consiste nella disposizione de' mezzi necessari a raggiungere lo scopo. Si volle dunque presentare la giustizia sotto la forma dell'ordine necessario alla felicità dell'uomo; si disse che chi vuol essere felice deve esser giusto; che i doveri sono i mezzi indispensabili per giungere alla felicità, i sacrifizi necessari al nostro proprio interesse. Fu tolta la contraddizione tra il dovere e l'interesse, trasformandola nella differenza tra il mezzo e lo scopo.
La logica ritorce l'idea dell'ordine contro lo stesso dovere. Da che dipende, in ultima analisi, l'idea dell'ordine? dallo scopo, dall'interesse, dalla nostra propria felicità, la quale richiede una serie di mezzi per attuarsi. A che si riduce la giustizia identificata colla idea dell'ordine? All'arte di essere felici. Qual'è il dovere da essa imposto secondo l'idea dell'ordine? è l'obbligo tecnico di servirci di certi mezzi per giungere ad un fine; l'ordine consiglia al pittore di prendere il pennello, allo scultore di prendere lo scalpello; l'ordine suggerisce al savio di fare alcuni sacrifici apparenti per ottenere il maggior numero di benefici reali. Ora, la necessità che subordina le nostre azioni alla natura delle cose, alla forza degli stromenti, ai mezzi di cui possiamo disporre, la necessità, dico, tecnica e razionale che collega il mezzo col fine, si applica egualmente alla virtù ed al vizio, alla giustizia ed all'interesse, all'arte della libertà e a quella dell'oppressione. Questa necessità traccia egualmente i doveri della virtù e quelli del vizio. Sono essi veri doveri? No, certo; incatenano la mano senza toccare il cuore. Se vuolsi che l'ordine ci obblighi, bisogna stabilire la giustizia come scopo; allora soltanto l'obbligazione morale si estenderà ai mezzi, i doveri saranno doveri, i sacrifici sacrifici; ma se lo scopo è l'interesse, io sono l'autore del mio destino, sono libero di concepirlo come voglio; l'ordine dipenderà dal mio volere, ciò che è l'ordine per Bruto è il disordine per Tarquinio. Il dovere dettato dall'ordine ripete la contraddizione dell'interesse e della giustizia, del vizio e delle virtù; se viene disconosciuto, vi è errore senza peccato; se viene violato, vi è demenza senza delitto. Da ultimo, il dovere identificato coll'ordine riduce la giustizia all'abilità, la santità alla destrezza: quindi la virtù passa tutta nel successo; biasima la sventura come un vizio, il martirio come una follìa: eccoci alla apologia de' fortunati, alla morale dei condottieri.
Il vizio radicale della teoria dell'ordine consiste nello scambiare il dovere morale col dovere tecnico, il dovere che obbliga col dovere liberissimo di ogni artista che si propone uno scopo. I moralisti della teoria dell'ordine pensarono di sottrarsi all'equivoco sostituendo lo scopo della natura allo scopo personale, l'ordine dell'universo all'ordine del mio interesse; essi esigono che l'uomo dimentichi sè stesso per immolarsi al bene generale. Si dica adunque perchè io dovrò preferire l'ordine universale all'ordine individuale? perchè dovrò sacrificare il mio interesse all'interesse del mondo? Vien risposto, che il nostro interesse trovasi implicato nell'interesse universale, nella stessa guisa che la salvezza del cittadino suppone la salvezza della patria; vien risposto in altri termini, che, parte integrante dell'ordine universale, io sono costretto di cercare il mio bene cercando il bene di tutti gli esseri. Io voglio crederlo; di buon grado ammetterò che un mio peccato possa oscurare lo splendore del sole, che un mio delitto possa turbare le leggi della natura. Si spieghi dunque l'ordine della natura; qual'è lo scopo, il pensiero dell'universo; si sveli il segreto della creazione; nulla havvi di più urgente se il mondo dipende dall'opera mia. Infine, suppongo che venga rivelato il secreto dell'universo, e che, nuovo Atlante, io sia destinato a sostenere il cielo sulle mie spalle; perchè dovrò io portarlo? Io sono libero, l'interesse non obbliga; io sarei il ministro dell'Altissimo; il bene ed il male della creazione dipenderebbero da me; con un sacrificio minimo potrei salvare tutti gli uomini; un mio capriccio potrebbe perderli perdendo me stesso; io sarei come Adamo nel paradiso terrestre dinanzi all'albero del bene e del male, che per costringermi a scegliere tra me e l'umanità, bisognerebbe sempre un motivo, una prova, una ragione. Nè la mia ipotesi si dica esagerata e mostruosa; è l'ipotesi dell'umanità che si prosterna innanzi a divinità le quali potevano salvare il mondo con un pensiero, e, preferendo sè stesse ad ogni cosa, abbandonarono la terra al genio del male: e appellavansi Dei di misericordia. Dunque l'ordine nulla c'impone, non determina alcun dovere; se individuale, ci raccomanda la virtù di Macchiavelli; se universale, dà nuova forma al dilemma del bene e del male.



Capitolo VI

LA PERSONALITÀ È MORALE ED IMMORALE

Non potendosi evitare il dilemma morale nè colla verità, nè colla stima dei valori, nè col bene assoluto, nè coll'ordine, la filosofia sottopose la ragione a un nuovo tormento, perchè determinasse la morale coll'idea della personalità o della libertà. Per Kant questa teoria toccò il sommo della perfezione e dell'errore.
La libertà nega ogni vincolo, ogni obbligazione, ogni suggezione; in una parola è compiutamente libera; vasta quanto la volontà, non protegge che la nostra persona; indefinita nella sua carriera, lungi dallo spiegare il dovere, sviluppa l'interesse. In qual modo potrebbe essa strapparci all'interesse? Per la necessità, risponde Kant, di rispettare la libertà degli altri. Perchè devo io rispettare la persona, la libertà de' miei simili? La mia libertà è il mio interesse, quella degli altri lo limita; rispettando la mia libertà sono felice, rispettando quella ne' miei simili sono sacrificato. Kant scambia i termini; sostituisce la libertà de' miei simili alla mia; ma la libertà è libera, e il contrasto della mia libertà con quella de' miei simili riproduce, in termini giuridici, il dilemma del bene e del male. Kant pretende di costringermi al dovere per la necessità di esser coerente; mi domanda se voglio vilipendere la libertà che rispetto, se voglio rifiutare agli altri ciò che domando per me. Sì, certo; se la mia libertà è un principio, io voglio essere assolutamente libero, e non posso essere accusato di contraddizione rifiutando di rispettare negli altri la libertà che esigo rispettata in me. La contraddizione si verificherebbe se cadesse su di un identico oggetto, se nemico di me stesso fossi deliberato a reclamare e a respingere la mia propria libertà, allora soltanto, per esser logico, sarei costretto a scegliere d'esser libero o schiavo, persecutore o vittima. Ma, violando la giustizia, io domando per me la libertà, per gli altri la servitù; e messo da parte il dovere, rimango logicamente fedele al principio della mia propria indipendenza. Nulla v'ha di più naturale: la Chiesa si dichiara oppressa quando non ha la libertà di comandare; l'imperatore si dice insultato se non ha la libertà di opprimere; tutti gli esseri viventi dimandano per sè stessi ciò che rifiutano per gli altri; le fiere vivono di stragi, e nell'opinione generale l'uomo più libero è quello che, superiore ad ogni persona, si pone al di sopra di ogni legge. Per dare a Dio una libertà infinita, non lo si è forse assolto da ogni obbligo, emancipato da ogni legge? Non vi è dunque contraddizione alcuna se rifiutiamo agli altri ciò che dimandiamo per noi. Al contrario, la contraddizione si palesa quando la libertà si vuole limitata dalla libertà; allora si afferma una nozione per negarla; allora una stessa causa, la libertà, ci fa liberi e servi; uno stesso principio ci fa attivi e inattivi, inviolabili e violabili. L'ingiustizia non è contraddittoria; il delinquente fruisce logicamente della sua libertà; è la giustizia che si contraddice, è il savio che manca a sè stesso, che crede alla libertà e la limita, che libero si sottomette al dovere; è re, e diventa suddito; no, se il potere naturalmente regio della libertà viene riconosciuto, il dovere non ha più la sua ragione d'essere, la giustizia è impossibile.
Kant sentiva che da sè la libertà non poteva limitarsi, e pensò di limitarla col rispetto che incute: da esso vedeva costituita in noi la dignità del nostro volere, fuori di noi, l'inviolabilità dei nostri simili; in noi il diritto di esser fine a noi stessi, fuori di noi la necessità di lasciare che ognuno sia fine a sè stesso, non mezzo, non istromento, non vittima della nostra volontà. Ma l'espediente di Kant torna inutile. Il rispetto che impone la libertà si riduce ad un sentimento; e se obbliga, se costituisce il principio del dovere, al certo non è la libertà, ma il sentimento che impone l'obbligazione morale. Quindi si ricade nella contraddizione del sentimento. Il rispetto si sviluppa, come tutti i sentimenti, in due sensi opposti; si stima la virtù, ma si stima l'uomo che combatte per la libertà, ma havvi un rispetto istintivo per i potenti; è desso che crea i re. Rispettando noi stessi, qualche volta vorremmo essere i servi dei servi e immolarci all'umanità: altre volte vorremmo invece essere i padroni della terra per sottometterla a' nostri propri disegni. Perchè tra due sentimenti sceglieremo l'uno piuttostochè l'altro? La logica ci vieta di rispondere. In ultima analisi, la teorica della libertà lascia riprodurre in noi tutte le antinomie dell'interesse e del dovere.



Capitolo VII

L'UTILE RENDE IMPOSSIBILE IL DOVERE

Disperando di eludere il dilemma tra l'interesse ed il dovere, si pensò di negarlo sopprimendo il dovere, ed apertamente identificandolo coll'interesse quasi fosse una forma del nostro tornaconto. L'identificazione logica si ottenne spiegandolo coi quattro vantaggi che se ne ricavano. Difatto il dovere: l° ci ricompensa col benessere personale; 2° ci rende moralmente contenti; 3° crea la società; 4° ci permette d'intravedere l'identità dell'interesse personale e dell'interesse universale nell'ordine della natura. Da questi vantaggi procedono quattro teorie.
Nella prima teoria il dovere protegge il benessere, la morale è l'arte di essere felici, diventa la dottrina del piacere, e presso i diversi filosofi varia come il piacere stesso. Epicuro modera la voluttà per soddisfarla, respinge gli eccessi per regolare i godimenti. Antistene non vuol prevedere l'avvenire per essere tutto alla felicità del presente. Egesia fugge la vita per fuggire il dolore. I moderni non diedero nuovi precetti al piacere, ma ne spiegarono meglio i diversi fenomeni. Larochefaucault, Mandeville, Helvetius scandagliarono quel fondo di egoismo che si scopre in ogni nostra azione; fecero dell'amor proprio il principio unico del nostro vivere; negarono la tendenza al sacrificio, e presentarono tutti i sentimenti generosi siccome altrettante fasi del nostro interesse. Un motto di Mandeville basta a distruggere la teoria del piacere. Secondo Mandeville tutti gli uomini sarebbero vili se lo osassero; perchè dunque non osano far mostra della loro viltà? perchè si lasciano condurre alla battaglia? perchè si recano sul campo per avventurare la vita in un duello? Nella teoria del piacere, non si deve forse preferire il vivere da vile al morire da prode? Io accetto tutte le analisi date dai moralisti del piacere. Egli è vero che l'entusiasmo può svilupparsi al seguito della cupidità. Io vedo nei difensori della patria i difensori del loro interesse; vedo nell'ascetismo del monaco un epicureismo ingannato; vedo in Mosè un'ambizione smisurata, e presso gli uomini più virtuosi un calcolo d'interessi. Pure il calcolo, l'ambizione, gli interessi sì sviluppano contemporanei di una forza che ci spinge a sacrificare tutto, piuttosto che cedere. Il piacere governa solo la metà della nostra vita, e nessuno sulla terra vorrebbe sottomettergli l'altra metà. Il piacere ci vieterebbe ogni sentimento disinteressato; c'imporrebbe di fuggire ogni pericolo, ogni lotta, ogni giuoco; esigerebbe la più profonda indifferenza alla stima de' nostri simili; l'apatia più profonda all'onore, alla gloria, agli uomini che ne circondano; e non havvi anacoreta che possa sottomettersi a martirii maggiori di quelli dell'uomo che volesse sancita dal piacere ogni sua azione. Nell'ultima sua conseguenza, la teoria del piacere considera la virtù come un delitto, come un attentato contro il nostro destino; il perchè, i moralisti dell'antichità impugnarono l'onore, la gloria, la patria, la vita stessa indivisibile dal dolore. Ai nostri tempi l'uomo che diede al piacere i più splendidi precetti ripristinando le scienze occulte del medio evo, Carlo Fourier, dichiarò iniqua la moralità, empio il dovere. Ecco il sentimento del dovere irrompere nell'atto stesso in cui vien negato. La contraddizione rimane.
Il secondo vantaggio che si trova nella giustizia è la soddisfazione morale: qui il piacer fisico cede al piacer morale; e qui ricadiamo nel dilemma dei sentimenti. Per gli uni la vendetta è il piacere degli Dei, per gli altri nel perdono ci rendiamo simili a Dio. L'orgoglio della virtù trova la sua antitesi nell'orgoglio del vizio; qual'è il motivo di preferenza tra la soddisfazione morale e la soddisfazione immorale? Odo parlare della tranquillità del savio, della serenità del giusto; la sapienza, la giustizia sono esse sorgenti di felicità? Lo sono di dolore: il giusto sentesi trafitto da tutte le ingiustizie della società. Non parlo del martirio di Socrate o di Cristo; leggete Geremia e Rousseau; erano i più infelici fra gli uomini. Se possiamo esser felici col sentimento della benevolenza, che spesso somiglia al sentimento dell'amor proprio, non possiamo forse essere egualmente felici col deridere i nostri simili, col sentimento dell'ironia, colla tranquillità mefistofelica, che si fa giuoco della commedia della vita? Ritorna così il dilemma tra il bene ed il male.
I primi due vantaggi della giustizia, il piacere e la soddisfazione morale, non possono sostituirsi alla legge del sacrificio, nè sopprimerla: il terzo vantaggio offerto dalla giustizia, l'ordine della società, costituisce la terza fase della teoria dell'utile di cui Hobbes e Bentham furono i più illustri rappresentanti. Il primo analizza gli interessi che spingono l'uomo verso la società; la dimostra ordinata per metter fine alla guerra eslege; sottoposta al governo perchè rimanga solo la guerra legale, Bentham, compiendo l'analisi di Hobbes, mostra la guerra industriale che si fanno tutti gli interessi, e scopre nell'utile i principj generali che comandano la probità al cittadino. Anche la libera concorrenza e tutta l'economia politica storicamente intermediarie tra Hobbes e Bentham, possono essere considerate come analisi psicologiche dell'egoismo sociale, preso ne' suoi più minuti particolari; analisi in cui l'interesse pubblico emerge dal conflitto di tutti gli interessi personali, dallo sforzo di ogni privato per superare e vincere il suo vicino. I pubblicisti dell'utile rendono ragione di tutti i fenomeni dell'utile, ma spiegano solo la metà della società civile. L'onore e la vergogna, la gloria e l'infamia, forze invisibili le quali dominano il legislatore, e che il legislatore può sanzionare, non vincere, non sono afferrate, nè dominate, nè avvertite dagli utilitarj. L'antinomia tra l'interesse ed il diritto ricompare.
Spesso viene osservato che se tutti i cittadini fossero giusti, tutti sarebbero felici. Io osserverò, che la mia coscienza non guarda alla giustizia degli uomini che mi circondano per rischiararmi e per dirigere le mie azioni; e quand'anco tutti gli uomini fossero ingiusti, i principj del diritto e del dovere resterebbero indomiti nel fondo del mio cuore. Forse il regno della giustizia potrebbe essere il regno della felicità; ma gli uomini non sono giusti, ma la perfidia può esser utile, ma lo Stato medesimo può commettere utilissimi misfatti. Il bene pubblico creò la ragione di Stato; esso dettò quelle inique parole: necesse est ut unus homo moriatur pro populo; Roma condannava a morte Spurio, benchè innocente e benefico; Roma sorgeva sulle ruine delle antiche repubbliche. All'interno il ben pubblico sacrifica l'uomo al cittadino, all'esterno l'umanità alla patria; e rinveniamo il dilemma del giusto e dell'utile nell'antitesi dell'interesse pubblico e dell'interesse privato, poi nell'antitesi dello Stato e dell'umanità.
La teoria dell'utile, fallita ne' tre beni del piacere, della soddisfazione morale e dell'interesse pubblico, si riabilita col quarto bene, dell'ordine universale. Abbiamo veduto che invocare l'ordine universale torna lo stesso che invocare l'ignoto, o far luogo agli interessi iperbolici proposti dalle religioni; e quanto più l'interesse si fa grande, tanto più il dovere protesta contro l'interesse. Ho già menzionato l'egoismo del devoto, e la fatua immoralità del monaco; ora citerò Platone. Egli eccelle nell'opporre il giusto all'utile; nessuno l'oltrepassa nello svolgere l'antitesi della morale e della politica; e a dispetto della sua propria analisi, vuole che il più gran bene sia la giustizia, e che il mártire sia l'uomo più felice. Secondo Platone dobbiamo sdegnare i piaceri perchè falsi, variabili e fugaci: ma chi vorrebbe accettare una vita digiuna di ogni piacere? chi vorrebbe accettare l'esistenza, quando le fosse negata ogni voluttà? Platone vuole che ai piaceri si preferiscano i beni scevri di ogni dolore, quelli che trovansi nella nostra mente: ma il pensiero non può tormentarci e moltiplicare i nostri dolori? la tradizione non ci parla forse di Aristotele che si getta in un lago, disperato di non comprenderne il mistero? Platone ci fa invidiare la tranquillità del giusto: ma que' savi, que' profeti sì dolenti dei dolori del genere umano, non provano forse che la giustizia è più sventurata dell'egoismo? Platone dice ch'egli è bello l'esser giusto, più bello l'essere perseguitato che il perseguitare, l'essere giustiziato che lo sfuggire alla giustizia: ma l'idea della bellezza non potrebbe forse essere capovolta? Non v'hanno di belle ingiustizie? e spesso l'arte, la pittura, la poesia, non isviluppano forse in senso inverso la bellezza, dando al male le forme di un terrore che affascina? Platone ci parla della potenza di una repubblica governata dalla giustizia, fondata sull'ascetismo che abolisce la proprietà e la famiglia: ma non potremmo forse sviluppare la potenza coll'ingiustizia, colle conquiste, coll'industria, con tutti gli elementi degli Stati moderni che Platone esiliava dalla sua Repubblica? Platone ci parla della potenza del savio, che da niun evento può essere turbato. Ma il condottiero che s'impadronisce di uno Stato sarebbe forse un debole? Diremo che non sa dissimulare nè dominarsi per dominare i suoi simili? Inoltre, se la giustizia è un bene, se trova in sè stessa la sua mercede, perchè prometterle un premio celeste? Perchè Platone, esausta la sua dialettica, invoca una teodicea? Perchè ci narra una favola sulla vita trasmondana, egli che voleva tutti i beni posti nella virtù, egli che aveva accettato la sfida di annichilare l'utile separato dal giusto? D'altronde, che troviamo noi nel cielo di Platone? Troviamo il bene supremo, la bellezza, l'ordine dell'universo: ma Platone non s'innalza se non scegliendo arbitrariamente tra il dovere ed il piacere, tra il savio ed il tiranno, tra il bello e il deforme. Giunti al bene supremo, possiamo colpir nel cuore tutto il suo sistema, sostituendo al bene supremo tutti i piaceri, tutti i gaudj tutti gli interessi da lui prescritti; possiamo sostituire al tipo della saviezza perfetta il tipo di una infinita tirannia; in una parola, possiamo surrogare al supremo bene, ciò che Platone avrebbe chiamato il male supremo. Le due idee del bene e del male sono concette ad un tempo, s'intervertono reciprocamente, diventano a vicenda il bene e il male: qual principio, qual ragione potrebbe vietarci la interversione del platonismo? Lo stesso Platone l'autorizza. Nel Parmenide accenna la possibilità di sviluppare in ordine inverso il mondo delle idee; confessa che l'antitesi rende dubbia ogni cosa; riconosce che, tolta a' suoi veri parenti, la dialettica è potente nel male quanto nel bene. Nel pensiero di Platone i veri parenti della dialettica sono i tipi, ed ogni tipo può essere capovolto; secondo Platone, il tipo del bene è il padre generatore dell'ordine; e secondo l'inesorabile dialettica, il bene astratto può intervertirsi e svolgersi nel male. Havvi di più; la dialettica s'innalza al disopra dei tipi, all'idea dell'essere nè buono, nè malo; e anche qui il non-essere opponendosi all'essere, organizza un'ultima volta il rivolgimento per gittarci in quell'abisso senza fondo, su cui Platone s'imponeva un silenzio superstizioso. Il travolgimento è sì facile, che Fourier lo attua predicando la morale del piacere, col linguaggio stesso di Platone combatte la virtù; quando seguiamo la giustizia ci accusa di cercare il bene nel male; ci consiglia le delizie della gastronomia e quelle della doppia poligamia, certo che la terra emancipata dal dovere si scioglierà dalle influenze che la incatenano nella civilità.
Quindi la teoria dell'utile prende quattro forme, seguendo i quattro beni contenuti nella giustizia: prima sensuale, poi sentimentale, in seguito minacciosa, infine risibile, lascia vivere l'eterno dilemma dell'interesse e del dovere, che riappare di continuo senza che termine alcuno possa domarlo.



Capitolo VIII

LA SANZIONE DELLA GIUSTIZIA ESCLUDE LA GIUSTIZIA


L'irriducibile distinzione del giusto e dell'utile si presenta una ultima volta se paragoniamo la legge morale colla sua sanzione. Secondo i nostri sentimenti, ogni virtù merita il suo premio; secondo la logica, la virtù è un sacrifizio, la ricompensa è un benefizio; e i due termini, sempre opposti, escludonsi a vicenda. Assicuriamo un premio alla virtù? essa è venale, non è più virtù. Perchè accusiamo l'ipocrita? perchè il suo sacrifizio è calcolato, simulato per conseguire un benefizio e la sua virtù è menzogna. Premiate, punite: distruggete la nozione stessa del merito; si opera coll'aspettazione del premio e della pena; si segue l'unico principio dell'interesse: la sanzione annullerà la giustizia, nella stessa guisa che l'invulnerabilità ridurrebbe a vana ostentazione il coraggio del soldato.
La sanzione apre un vero mercato tra i cittadini e la cosa pubblica; mercato in cui è tacito patto che nulla sarà fatto per nulla. Con qual diritto si parlerà di merito, di virtù, se ogni azione viene tariffata e mercanteggiata? E chi ha il diritto di esser pagato non è forse padrone delle sue azioni? Non ha forse la facoltà di rifiutarsi al mercato, di resistere al legislatore? Se vien punito, la pena sarà un'ingiustizia: tutta la forza della pena sarà nella forza meccanica della legge; tutte le parole con cui la legge biasima il vizio della colpa, esprimeranno l'atroce derisione del legislatore, che punisce chi non si vuol vendere. Di là una alternativa alla quale non si sfugge: devo esser ricompensato delle mie azioni? la pena è una profonda ingiustizia: sono io tenuto ad obbedire? la ricompensa è oziosa e contraddittoria. La pena e il premio si escludono scambievolmente.
Potrà dirsi che la sanzione ristabilisce una specie di equilibrio tra il bene e il male, dando un bene a chi si è privato di un bene, un male a chi si è privato di un male, rifiutando il sacrifizio. Ma perchè ricompensare il sacrifizio? perchè punire l'egoismo che non vuol cedere alla legge? se l'utile deve essere l'unica nostra legge, l'uomo che la segue merita un premio, e non una pena, bisogna premiare l'egoista: se il dovere è la nostra legge unica, l'uomo che si sacrifica merita una pena (e non un premio), affinchè il sacrificio continui. Perchè compensare nella sanzione il bene col male, e il male col bene? Se lo spostamento del bene e del male era necessario, la sanzione lo viola, ritorna le cose allo stato primitivo, supposto falso e dannoso. Se lo spostamento era accidentale, non essendovi legge alcuna che lo reclamasse, la sanzione è un fatto senza causa e senza motivo. Sarebbe mestieri farci meritare il bene e il male? Sarebbe forse questo lo scopo dello spostamento operato dalla sanzione? Allora, noi lo ripetiamo, il merito consisterà nell'opporci a noi stessi, nel negare la nostra propria natura, nei violare la legge della felicità, e tosto ristabilirla. Il merito sarebbe un controsenso, e in ogni modo la sanzione e la legge si escluderebbero vicendevolmente.
Concludasi: alla fine del dramma della moralità, in presenza della sanzione, troviamo sotto nuova forma la stessa contraddizione che ci fermava al primo passo, quando il primo sguardo sul nostro destino ci mostrava il dilemma dell'interesse e del dovere.



Capitolo IX

DIO SOPPRIME IL DOVERE

Le religioni ci rappresentano il destino dell'uomo come un dramma che comincia colla pena del lavoro, e in cui Dio finisce per premiare o per punire: qui, come altrove, il deismo conferma tutte le contraddizioni, esagerandole all'infinito.
Dio non poteva imporre una legge senza creare la distinzione del bene e del male; dunque ha creato il male, dunque ha peccato; per malvagità, o per impotenza, poco ci cale; il peccato sarà eterno come Dio; e lo sperare una riparazione o una redenzione sarebbe sperare il bene vedendo il male, o credere che il male possa un giorno conciliarsi col bene, oppure crearlo.
Dio, diventando legislatore, deve renderci liberi: dunque ci dà facoltà di ribellarci alla sua legge, di dannarci: e se bisognava un demonio per tentarci, al certo bisognava oltrepassare il genio stesso del male per rendere possibile la vittoria del demonio. Per la libertà, Dio perde una parte della sua previdenza, gli sfuggono le nostre azioni, lascia limitare la sua potenza, e da ultimo pubblica una legislazione a bella posta perchè venga violata. Che se non siamo liberi, se Dio stesso opera nella nostra persona, è Dio che combatte colle nostre armi; i nostri vizi, le nostre virtù, sono i vizi e le sue virtù di Dio, il quale deve solo punire o premiare sè stesso nel dramma che rappresenta sulla terra, seguendo o violando la sua propria legge. Egli è empio nel crearci liberi, empio nel rifiutarci la libertà.
Anche ponendo la legge divina e la nostra libertà, il comando di Dio non può obbligarci. Se anche Dio stesso discendesse sulla terra, lo vedessimo co' nostri occhi, ne intendessimo la voce, mancando un principio anteriore d'obbligazione, saremmo sempre liberi di resistere agli ordini suoi.
Con qual diritto Dio potrebbe imporci codesti ordini? non trovo questo diritto nella sua potenza, e s'anco fosse infinita non potrebbe creare il diritto: la giustizia consiste appunto nella forza morale per la quale ci opponiamo alle potenze che vogliono incatenarci.
Il diritto di Dio non si fonda nemmeno sull'onniscienza. Che importa la superiorità intellettuale dell'autore del mondo? Per comandare vuolsi un titolo, per obbedire, un dovere; nè la scienza è un titolo, nè un dovere l'ignoranza.
Non ci corre nemmeno il debito di obbedire a Dio per un motivo di gratitudine. Dio, si dice, ci diede la vita: ma ci consultò egli? Abbiamo noi contratto l'obbligo di obbedire prima di nascere? La riconoscenza potrebbe essere trasformata in dovere giuridico? Molte volte i profeti, maledicendo l'empio dicevano, meglio per lui che non fosse nato. Qual riconoscenza devesi a Dio per aver ricevuto il mal dono di un'esistenza sventurata?
Nella presenza di Dio restiamo assolutamente liberi: volendosi obbedito, egli oltrepassa il suo diritto, diventa tiranno; domandandoci omaggio, diventa cupido e vanitoso; sottoponendo il giusto ai patimenti, compiacendosi dell'infortunio de' suoi eletti, sente la gioia di un carnefice improvviso; punendo i ribelli, diventa iniquo; e certamente, se vi ha una legge morale, se ci è dato concepire una lotta dell'uomo contro Dio, non solo la lotta è giusta, ma il delinquente diventa sublime pel coraggio, pel sacrificio, per la fede nel suo diritto. Non a caso la poesia santificava colla magia del bello i Titani che combattevano Giove e le legioni di Lucifero che lottavano contro gli angeli; dal momento che Dio comanda senza diritto, la giustizia s'interverte, il vizio diventa virtù.
Abbiamo veduto che la giustizia e la sanzione si escludono vicendevolmente; e in Dio i due termini si escludono con forza infinita. Domandare un sacrifizio, e immediatamente largire una mercede dieci volte, mille volte maggiore, non è atto senza causa e senza moralità? Perchè Dio premia se domanda un sacrifizio? D'altra parte, perchè domanda un sacrifizio se vuol premiare? Intendiamo bene che un governo possa ricompensare; esso onora la virtù senza pagarla, il suo premio non distrugge i pericoli a cui si espone il cittadino; la ricompensa in Dio assolutamente certa non lascia dubbio, annulla il pericolo, sopprime compiutamente il sacrifizio, e lo trasforma in un calcolo interessato, avaro, infallibile, senza generosità, senza moralità. Il premio suppone la pena; come giustificare la pena? Un governo deve punire; costretto a difendersi, deve combattere, atterrire: Dio ha forse bisogno di difendersi, di combattere, atterrire? Vogliam noi che la pena sia una espiazione? Il concetto dell'espiazione è atroce; corrisponde alla vendetta, al male gratuito; si riduce ad una forza spietata e divoratrice, il cui primo principio fa inorridire la ragione. Un Dio vendicatore sarà un demone; un Dio che punisce per atterrire coll'esempio sarà un Dio impotente; in ogni modo, la pena che sanziona una legge arbitraria, altro non sarà che il dolore al servizio dell'ingiustizia: la giustizia di Dio sarà una spaventosa tirannia nell'universo.
Egli è dunque palese che sotto l'azione della critica la commedia della vita si dissolve in Dio che non può distinguere il bene dal male, nè dare la libertà all'uomo, nè divenir legislatore, nè ricompensare, nè punire.
Non si resiste a tanta assurdità se non col principio della fede; anche per noi la fede sarà l'ultima áncora di salvezza, e siamo lungi del negarne la forza creatrice. La fede santifica, ispira; la sua azione è materialmente innegabile; nella famiglia, nello Stato chi è morto alla fede, è morto all'umanità. Ma dinanzi alla logica la fede si riduce alla facoltà di credere; la credenza segue fatalmente la verità; trovasi determinata dalle cose che sono, dalle leggi dell'intelligenza; noi non siamo mai liberi di credere; il dono della fede non può mai dipendere da noi; tocca al vero a determinarla, a informarla. Dunque esigere la fede, torna lo stesso che esigere di credere quando non si crede; torna lo stesso che ammettere un vero che per noi non è il vero. La fede è dunque la credenza all'incredibile, l'ostinazione che resiste all'evidenza, che giustifica il fanatismo, che combatte per l'errore; e si traduce nell'irragionevolezza che si oppone alla ragione.
Contraddittoria nella sua essenza, la fede combatte sè stessa nel momento di attuarsi. Se il cristiano ammira la fede di san Paolo, ammiri altresì la fede pagana; essa aveva bene il diritto di rimproverare all'apostolo ch'ei lasciasse la fede de' suoi padri, e disertasse una religione antica quanto il mondo, rinnegandola per seguire la moda. Dinanzi alla fede pagana san Paolo mancava di fede.
Contraddittoria nell'essenza, contraddittoria nell'attuarsi, la fede moltiplica tutte le contraddizioni morali se trasportata nei rapporti fra l'uomo e Dio. Senza fermarci a determinare quali possano essere i suoi precetti o i suoi articoli, egli è certo che essa non si manifesta che per oltrepassare l'evidenza. Se Dio, se il cielo, se l'inferno fossero posti innanzi a noi, se potessimo vedere cogli occhi, toccare colle mani, la potenza di Dio, il premio del cielo, le pene dell'inferno, il pensiero di resistere alla legge divina sarebbe sì assurdo, che nessun essere, angelo, uomo o demonio, non vorrebbe mai peccare. La fede sarebbe inutile: la sua missione non comincia che là dove l'evidenza scompare, là dove l'incertezza ci preme. La fede suppone che il cielo e l'inferno non sono certi; che la forza morale identificata con Dio, non è sicura, nè evidente; la fede suppone che il dubbio signoreggi il dramma della vita; in ultima analisi, la fede suppone che Dio abbia steso sull'universo un velo, che abbia voluto farsi indovinare dall'uomo. Qui Dio diventa un legislatore capzioso e feroce; illumina ed inganna; vuol essere obbedito, e ci angustia col dubbio, ci sospende tra il cielo e la terra, si fa giuoco del nostro credere, della nostra certezza; vera sfinge, propone il mistero della eternità, e precipita nel Tartaro i miseri che non possono penetrarlo. Qui, per un'ultima volta, la resistenza a Dio diviene legittima ed eroica diviene la resistenza di Edipo, la lotta dell'uomo che svelle l'ultimo arcano a un Dio sorto dall'inferno per ricacciarlo negli abissi del nulla.
Sogliono i moralisti innalzarsi a Dio perchè l'obbligazione morale non trova principio nel mondo; invocano la teodicea per incoronare la morale; tanto varrebbe compiere la teoria morale coll'apologia del vizio.
Riassumiamo: il nostro destino si sviluppa pei due termini del sacrifizio e della felicità; sotto l'impero della logica, i due termini, sempre distinti, sempre opposti, ci fanno impossibile la scelta. Si vuole forse obbligarci al sacrifizio in nome del sentimento, della libertà, del vero? l'utile resiste: cerchiamo spiegare il dovere coll'utile? Ci sentiamo migliori del nostro egoismo. La contraddizione tra l'utile ed il giusto si riproduce tra la sanzione e la legge; e se s'invoca Dio, s'impone un tiranno all'universo, l'empio è santificato.



Capitolo X

LA FELICITÀ È IMPOSSIBILE


Dimentichiamo la giustizia come assurda, fermiamo la nostra attenzione sull'interesse; corriamo all'unico scopo della felicità; la logica ci raggiungerà ancora; in traccia della felicità, ci troveremo avviluppati da nuove contraddizioni. L'arte di vivere non è possibile, e se esiste rende impossibile la felicità.
Il primo passo dell'arte di vivere si è di scegliere tra il bene e il male, che ormai considereremo come sinonimi di utile e di danno. Perchè scegliamo solo il bene? Perchè evitiamo il male? Il motivo della decisione ci manca, la natura ci trascina; si abbraccia il bene, si evita il male; la logica non ha motivo di preferenza.
L'impossibilità di scegliere tra il bene e il male riappare sotto nuove forme, ove vogliasi definire il bene. Di fatto, non si può definirlo, nè concepirlo se non col mezzo del male: sopprimendo i nostri dolori, sopprimiamo i nostri piaceri; senza la fame il cibo è odioso; chi non conosce la miseria non desidera la ricchezza; la sventura è la migliore maestra della felicità. Ne risulta, che per godere è d'uopo soffrire; per moltiplicare i piaceri, fa d'uopo moltiplicare i bisogni, i dolori. Chi è satollo non mangia; Salomone non trova più diletti; l'uomo felice si ritempra più col dolore che col piacere: cerca i pericoli del giuoco, dell'amore; l'epulone investito dallo spleen divien suicida. Quindi un dilemma: volete essere felici moltiplicando i beni che vi circondano? sarà necessario moltiplicare i vostri dolori e la possibilità d'essere infelici. Il ricco può essere offeso nella sua terra, nel suo danaro, in ogni suo avere; l'uomo felice per la famiglia, per l'amicizia, per la patria, può essere infelice quante volte ha moltiplicato la sua esistenza fuori di sè. L'arte di vivere aumentando il numero dei piaceri, ci allontana dallo scopo. Al contrario volete voi evitare l'infelicità, raccogliervi in voi, circoscrivere, per così dire, la superficie della vostra sensibilità? allora vi fia d'uopo rinunziare alla ricchezza, all'amicizia, alla famiglia, alla patria; vi fia d'uopo rinunziare a tutte le ricchezze dell'animo, per isolarvi nello stomachevole egoismo dei cinici. E troveremo noi la felicità in questa solitudine? Vi troveremo l'esistenza senza piaceri, la vita spoglia d'ogni gaudio, il bene affatto privo d'ogni bene, una felicità che è una miseria. Dunque noi restiamo sempre nel dilemma, o di accrescere i nostri dolori nell'atto che cerchiamo la felicità, o di sopprimere ad un tempo la felicità e i dolori.
La turba cerca i beni senza curarsi dei mali che li seguono: si ragiona talvolta della felicità del povero e dell'infelicità del ricco; nondimeno, a malgrado della logica, ognuno sorride e la natura la vince. Cediamo dunque all'impulso della natura, raccogliamo intorno a noi il maggior numero di beni: sarà sempre vero che non possiamo darci ad un tempo a tutti i piaceri; è forza scegliere tra i diversi beni, e la logica c'investe di nuovo ripetendoci l'inevitabile sua contraddizione. I beni sono diversi, distinti; sono irreducibili; il motivo della scelta ci manca assolutamente. Si paragoni la voluttà coll'ambizione. La voluttà si fonda sul senso, chiede solo il piacere, consulta solo il capriccio; l'ambizione vuole il comando, l'ordinamento degli interessi, la signoria dello Stato. La voluttà e l'ambizione si escludono stimando in senso opposto ogni valore. Per la voluttà il denaro è la chiave de' piaceri, l'amore è l'imagine suprema della felicità, la gloria una fonte di dolcezze: per l'ambizione il denaro è la chiave delle coscienze, l'amore un espediente, la gloria un mezzo onde affascinare i popoli. Se anco la gloria e l'ambizione fossero sole sulla terra, se la contenderebbero senza nemmeno intendersi. Per l'uomo sensuale l'ambizione è un affetto che si svolge in mezzo ai tumulti; è un morbo della vanità; essa ci sottopone a fatiche esose, a intollerabili privazioni; è una forza che ci strugge. D'altra parte, il politico disprezza la felicità dell'inerte, lo lascia a' suoi piaceri insipidi, alle sue soddisfazioni neghittose e domina l'ozioso come sua cosa. La voluttà e l'ambizione si accusano scambievolmente di follìa; il bene dell'una è il male dell'altra; e viceversa. La stessa opposizione si rinviene tra tutti i beni, si moltiplica nella varietà degli istinti, delle passioni, delle ispirazioni, e ci toglie ogni motivo di scelta.
Non potendo scegliere, non possiamo scambiare un bene coll'altro, nè cangiare, nè vendere, nè determinare alcun valore. E che? si dirà, ogni cosa ha un valore; vi ha il commercio, vi ha il denaro che rappresenta tutte le cose, e lo scambio sarà impossibile? Non nego l'esistenza del valore, concedo che vi ha nell'oro un valore universale, stabilito anticipatamente dalla natura nell'istinto misterioso che spinge l'uomo a cercare le materie preziose: anzi supporrò che ogni sentimento possa comprarsi e vendersi, che nulla possa resistere alla forza dell'oro e che nessuno resisterebbe se la natura non avesse nascosto le ricchezze necessarie per vincere tutte le affezioni, e per contraccambiare i valori di tutti gli istinti. Vedesi che accordo l'impossibile; eppure la impossibilità logica, di scegliere tra i beni, sussiste a malgrado dello scambio, a malgrado del denaro, a malgrado delle equazioni stabilite di continuo tra i diversi valori: non si negano le preferenze, non si nega il fatto dello scambio; si nega la spiegazione logica del fatto, il sillogismo della deliberazione, la stima matematica dei valori, la possibilità di stabilire il più o il meno quando i beni sono diversi.
La contraddizione che separa un bene dall'altro si rinnova nel concetto stesso del cambio dei valori. Perchè scambiate una cosa coll'altra? Perchè differiscono; se non differissero, lo scambio si ridurrebbe a un atto vano, si opererebbe senza operare; sempre lo scambio suppone la differenza, suppone ad un tempo l'eguaglianza e l'ineguaglianza, suppone due cose che si escludono.
Invano la filosofia si sforza di determinare l'arte della vita, e di dare un criterio che serva alla stima di tutti i valori. Essa ha proposto il piacere, il vivere beato dell'animale; ma variano i piaceri, sono diversi, nè abbiamo motivo alcuno di preferire il ballo al canto, la commedia alla tragedia, un piacere ad altro piacere. Inoltre, perchè preferire la felicità animale a quella che si trova nei nostri sentimenti? - Preferite i sentimenti? anch'essi variano, ognuno di essi si sviluppa in due sensi opposti; i dilemmi si aumentano. - Volete voi che il principio della felicità stia nella ragione? L'arte di vivere si dilegua di nuovo; la ragione ci offre la felicità nella scienza; ma anch'essa varia, chè le scienze ci largiscono soddisfazioni speciali, distinte, opposte le une alle altre: dobbiamo noi preferire la storia o la filosofia? la matematica o la fisica? Non sappiamo. La ragione vuol renderci felici colla verità; ma la verità rende forse felici? Non vi sono forse verità tristi, funeste? la realtà non ci può trafiggere con mille dolori? Al contrario, l'illusione può colmarci di gioia; la speranza sparge di fiori il cammino della vita, che sarebbe un deserto se non ci fosse permesso l'ingannarci. La stessa follìa ha i suoi momenti lieti, mentre la saggezza è amareggiata dagli eventi, dal male, dalle ingiustizie. Dobbiamo preferire la tristezza del savio alla felicità del pazzo? Non si scioglie il dilemma. - Finalmente, può l'intelligenza proporsi di vegliare sulla nostra conservazione, di toglierci ai piaceri micidiali, alle gioie struggitrici per prolungare la nostra esistenza. Ma la longevità è forse un bene? Dobbiamo forse preferire una vita lunga, squallida e mesta alla felice agitazione di una vita breve, forte e splendida? Temuta è la morte, lottasi per vivere con tutte le forze della natura; pure ad ogni occasione sprezziamo la salute, aneliamo al pericolo, e spesso siamo pronti a dare parte della vita pel trionfo di un principio od anche di un capriccio. Come scegliere? La logica si tace. Adunque godere è soffrire; non si può nè scegliere il male, nè scegliere il bene, nè scegliere tra i beni, nè preferire la morte alla vita, o la vita alla morte. Se tracciamo ad ogni patto l'arte di vivere, volendo imporci i suoi precetti, ci imporrà piaceri che non saranno piaceri, contenti che saranno dolori, delle felicità che saranno sventure.
I deisti cercarono in cielo la felicità che ci sfugge in terra: vollero toglierci alla terra per renderci felici altrove; non li seguiremo nella loro corsa trasmondana. La critica deve applicarsi alla evidenza, sprezzar l'errore. Del resto, se il cielo pur si vedesse, ancora non potremmo penetrarvi; i beni del cielo cadrebbero sotto la stessa contraddizione dei beni della terra; perchè non si concepisce felicità senza infelicità, nè ci è dato imaginare un bene infinito; e se Milton e Dante sanno parlarci dell'inferno, non possono dipingerci i gaudj celesti senza cadere nella monotonia di un tedioso idillio.

SEZIONE QUINTA

LA LOGICA



Capitolo I

LA LOGICA E LA MATERIA DELLA LOGICA
SI ESCLUDONO

Le cose, i pensieri, il dovere, l'interesse, la teoria, la pratica tutto fu da noi sottoposto all'esperimento della logica, e tutto ha ceduto alla sua forza. Ci resta di sottomettere la logica stessa al proprio impero, onde esaminare l'istrumento dell'universale demolizione.
Abbiamo dato il nome di logica alle tre forme della certezza, dobbiamo chiamare materia della logica tutto ciò che non è nè l'identità, nè l'equazione, nè il sillogismo. La materia della logica abbraccia dunque le cose, i pensieri, tutte le verità, tutti i concetti possibili. La logica e la materia della logica, lo abbiamo visto, si respingono mutuamente: la logica rende impossibile la natura, il pensiero, il dovere, gli interessi; se la logica esiste, tutto deve perire; e viceversa, se la natura, se l'uomo, se tutti i fenomeni sono, non fossero che semplici errori, è la logica che trovasi impossibile e che devesi annullare, come la forma ingannevole del nostro intelletto, come l'errore della nostra ragione. Quindi la logica e la materia della logica costituiscono i due termini di un immenso dilemma: credete alla logica? rinunciate alla natura: credete alla natura? rinunciate alla logica.
La logica e la natura vanno insieme intimamente collegati; senza la materia della logica, senza la natura, senza il pensiero, la logica resta sconosciuta; non si ha idea nè dell'identità, nè dell'equazione, nè del sillogismo; senza la logica non si perviene a conoscere nè la natura, nè il pensiero; si confonde l'identico col diverso, l'eguale col diseguale, il tutto colla parte. La logica è la condizione della natura e del pensiero; e sta alla sua propria materia, cioè all'universo insensato e pensato, come lo spazio al corpo, come il tempo al moto, come il genere all'individuo, come la causa all'effetto. Ma sotto la pressione della critica, ogni rapporto si capovolge; l'effetto può diventare l'antecedente della causa; l'individuo può primeggiare sul genere, il corpo può dominare lo spazio, il moto può essere la condizione del tempo. Istessamente la logica e la sua materia possono intervertirsi scambievolmente, e considerarsi condizione l'una dell'altra; la materia della logica può dirsi condizione della logica. Quindi la perfezione dell'immenso dilemma: la logica e la materia della logica non possono dividersi non possono concordare; l'una esclude l'altra, l'una è la condizione dell'altra; e quando si vuol scegliere, entrambe aspirano egualmente al primato.



Capitolo II

I CRITERI DELLA VERITÀ


L'idea di cercare il criterio del vero si riduce ad un tentativo per sopprimere la contraddizione tra la logica e la materia della logica. Ben considerato, il criterio del vero mpn può essere che la regola infallibile contro l'errore e contro i dilemmi; non può raggiungere lo scopo, se non facendo concordare il processo della logica con quello delle cose. Il criterio della verità suppone uno il principio dell'alterazione e quello della deduzione, uno il principio del rapporto e quello dell'identità, una la logica e la sua materia. Pure ogni criterio non si può trovare se non nella natura o nella logica stessa: nel primo caso il criterio respinge la logica, nel secondo caso respinge la natura. I criteri proposti dai filosofi, lungi dal dominare il dilemma della logica e della natura, lo confermano, aggiungendovi nuove forze.
La sensazione è l'uno dei criteri che furono presi nel seno della natura, e fu proclamata perchè trovasi indivisibile dalla vita e dal pensiero; egli è in forza del senso che le qualità si rivelano e che le cose esistono. Vogliamo noi verificare i nostri pensieri? dobbiamo tornare ai fatti, e non vi si ritorna se non col mezzo del senso sensi. Vogliamo dirigere le nostre azioni? dobbiamo interrogare le cose, e non s'interrogano che per la sensazione. Bisogna diffidare delle nostre idee, dei nostri giudizi, dei nostri pregiudizi; chè tutte le chimere sorgono nel pensiero dell'uomo lungi dalla sensazione; dinanzi ai fatti l'errore svanisce. Questa è la voce della natura; il senso si presenta a prima giunta come verificatore, e pare che voglia identificare l'essere col pensare. Ebbene si segua. Qual'è l'ultima conseguenza del principio della sensazione? Il senso varia secondo il soggetto, secondo l'oggetto, secondo il punto di vista, secondo il mezzo in cui si vive. Dunque se il senso è giudice delle cose, se è il solo ed unico giudice, ciò che appare sarà vero; anche il falso sarà vero. Tutti gli oggetti ingrandiranno e impiccoliranno nello stesso tempo, perchè ingrandiscono avvicinandosi a noi, e impiccoliscono allontanandosi; tutti si muoveranno in senso inverso, perchè la nave fugge la riva, e la riva fugge la nave. L'illusione avrà il diritto di soggiogarci, di imporci tutte le sue contraddizioni; nè si dovrà tener conto della contraddizione, perchè la logica stessa sarà obbligata di cedere all'apparenza sensibile. Così la sensazione, criterio preso nel seno della natura, ci conduce a disprezzare la logica, siccome cosa frivola ed inutile. Volendoci far conquistare la materialità del fatto, ci fa perdere il principio che lo giudica; ci immerge nella natura, e ci lascia senza luce.
Lo stesso deve dirsi di tutti i criteri empirici. Scegliamo l'ispirazione: se essa fosse il criterio della verità, ogni idea dal sentimento suggerita sarebbe vera, ogni entusiasmo sarà sacro; ogni settario sarà infallibile. Quindi la fede del Buddista inviolabile come quella del Cristiano: il fanatismo sacrificatore di una casta sacerdotale, rispettabile come la tenera affezione della madre per il figlio. Quindi tutti i dogmi saranno veri, tutti i sentimenti saranno giusti; quindi non si terrà conto delle innumerevoli contraddizioni che li separano, che li oppongono gli uni agli altri; quindi si dovrà disprezzare la logica: e da ultimo, il principio preso nella materia della logica darà per conseguenza inevitabile la guerra contro la logica.
Alla sua volta il criterio dell'autorità, preso anch'esso nella materia della logica, si rivolta contro la logica. Che l'autorità sia fissata da un libro, da un pontefice, dalla maggioranza o dalla unanimità del genere umano, l'autorità è sempre un fatto, una cosa empirica presa nel seno della natura. Dal momento che l'autorità è costituita giudice del vero, la ragione perde ogni diritto, la dimostrazione ogni forza; non è più lecito parlare a nome della logica. Havvi di più: il regno dell'autorità, preso al di fuori della logica, si lascia intervertire in tutti i sensi. Volete che il luogo scelga per voi l'autorità? Costantinopoli dà criterio dell'islamismo, Roma del cristianesimo: a Roma si onora ciò che a Parigi si vilipende. Volete che l'autorità sia scelta dall'interesse dell'incivilimento? Porrete l'autorità del genio in contraddizione colla autorità della maggioranza: da una parte il novatore è necessario, è autorevole, è legislatore; l'individuo pensante è il principio primo d'ogni legge; dall'altra parte, l'autorità legittimata dalla maggioranza è indispensabile per combattere i traviati, i visionari, gli egoisti, gli sfrenati, gli scellerati. Non si può neppure scegliere tra l'autorità della religione e quella dello Stato, tra l'autorità del perito e quella della legge. In generale ne' criteri empirici il punto stesso di partenza rimane arbitrario, e non abbiamo motivo di preferire la sensazione all'ispirazione, o l'ispirazione all'autorità: ogni fatto è fatto, e non havvi mala causa che non possa essere patrocinata.
La pretesa de' criteri presa nel seno della logica è precisamente quella di sopprimere le contraddizioni di tutti i principj della natura, di tutti i criteri empirici. I criteri logici si riducono alle forme stessa della logica, ed anzi alla prima forma dell'identità. Ogni cosa dev'essere identica con sè stessa: una cosa non può essere e non essere nel tempo stesso; due attributi opposti non possono appartenere nel medesimo momento allo stesso oggetto; questi sono gli assiomi che vengono presentati quali criteri del vero; e noi sappiamo già che sono gli assiomi distruttori della natura; lungi dal guidarci quando cerchiamo il vero, lo rendono impossibile quando è scoperto. Astrazione fatta dalla loro applicazione critica, presi nella loro espressione più semplice, più inoffensiva, più volgare, gli assiomi dell'identità si circoscrivono a metterci nell'alternativa di affermare o di negare, si ristringono a stabilire il dilemma dell'essere o del non-essere; e non offrono alcuna nozione per isciogliere lo stesso dilemma. Giusta il principio di contraddizione gli antipodi esistono o non esistono; l'una delle due asserzioni è assolutamente vera, perciò si chiede se vi sono antipodi: il principio di contraddizione stabilisce il dilemma: ci insegna esso se vi sono gli antipodi? Non risponde. Ogni evento accadrà o non accadrà: dimani Parigi sarà o non sarà assediato: il principio di contraddizione ci dice che l'una delle due asserzioni è necessaria; che importa? questa necessità è straniera all'evento. Parigi sarà egli assediato veramente? Il principio di contraddizione lo ignora, e limitasi a stabilire la contraddizione dell'essere e del non-essere. Il pianeta di Giove è abitato? Lo è o non lo è. Il principio della differenza ci costringe a scegliere il sì o il no, e resta indifferente alla scelta, estraneo al motivo che la decide. A chi spetta dunque la soluzione? Ai dati, agli indizi, alle probabilità; in altri termini, alla natura, che ci mostra se vi sono gli antipodi, se Parigi è assediato, se Giove è abitato. La realtà, la verità sfuggono dunque interamente agli assiomi logici, e si rifugiano nella natura, nella materia della logica. Qual'è l'ultima conseguenza? Gli assiomi sono la logica; impadronendosi di una cosa reclamano ch'essa sia eternamente ciò che è: esigono che Parigi sia sempre assediato o sempre libero; che Giove sia sempre abitato o sempre deserto; giusta gli assiomi ogni cosa è un dilemma; non si passa da un termine all'altro del dilemma; la mutazione, il rapporto sono impossibili e quindi si arriva all'ultimo risultato che la mutazione, il rapporto sono falsi. Che ci resta di vero sulla terra, se ciò che varia è falso?
Descartes proponeva il criterio della chiara e distinta percezione; criterio equivoco ed ondeggiante tra la logica e la materia della logica. La chiara e distinta percezione di Descartes abbraccia tutte le verità che non possono essere messe in dubbio. Descartes non fissa mai il numero di queste verità, non le determina con precisione, non le descrive; pure abbiamo il diritto di ridurle a due classi distinte: la prima classe contiene gli assiomi della logica, cioè l'identità, l'equazione e la deduzione: la seconda classe contiene tutte le nozioni evidenti e necessarie della materia della logica, quali sono lo spazio, il tempo, il principio che nulla viene da nulla, che la qualità suppone la sostanza. In ultima analisi, la chiara e distinta percezione appartiene egualmente alla logica e alla materia della logica: quando s'identifica colla logica, ogni fenomeno è falso, ogni nozione impossibile; quando s'identifica colla materia della logica, tutto è vero, anche il falso. Così la chiara e distinta percezione di Descartes scorre insidiosamente dal significato logico al significato materiale. Nella prefazione del suo sistema, Descartes immedesima la chiara e distinta percezione colla chiarezza logica, quindi divien critico e dubita di tutto. Disprezza la storia, la politica come cose per sè incerte e variabili; considera la morale come un accidente su cui bisogna prendere a caso la decisione che dirigerà la nostra vita. Descartes sdegna le verità tutte della tradizione che il minimo sforzo della nostra mente può mettere in dubbio; disdegna quindi ogni autorità, ogni governo, ogni legge, perchè la via al dubbio rimane sempre aperta là dove manca la certezza matematica. Sotto l'impero della logica, il filosofo francese non sa distinguere il sogno dalla veglia, dubita della esistenza del mondo, pensa che l'universo possa essere un errore del nostro spirito; e che un genio qualunque, ingannandoci col mezzo de' nostri organi, potrebbe creare l'apparenza di un mondo che non esiste. Sotto l'impero della logica tutto è falso, tutto incerto, non vi ha limite alla critica. Ma la chiara e distinta percezione s'identifica, d'altra parte, colla chiarezza della materia della logica; e allora la scena si muta, il moto s'interverte, tutto è certo. Descartes passa arbitrariamente dall'evidenza del suo pensiero a quella della sua esistenza, dal suo concetto di Dio all'esistenza di Dio: Descartes assevera arbitrariamente che Dio è creatore; che quanto appare esiste, che Dio non saprebbe ingannarci, nè per mezzo della natura, nè per mezzo de' nostri sensi; sostituisce così la percezione materiale, travisata da' suoi dogmi, alla percezione logica; sostituisce la materia della logica alla logica, e di corollario in corollario, giunge a soppiantare l'assioma logico che tutto è falso, coll'assioma materiale che tutto è vero. Dal momento in cui Descartes diventa dogmatico, non è più angustiato dall'assenza del vero ma lo è dalla presenza del falso, di cui non sa più render ragione, non potendosi dare che l'uomo guidato da Dio possa ingannarsi. Descartes non ha mai chiarito la distanza che lo separava dall'errore; e se lo avesse osato, avrebbe distrutto il suo sistema, si sarebbe accorto che la logica annullava quanto sorge dalla materia della logica. Difatto, la chiarezza materiale comincia dal giustificare ogni cosa e dal renderci infallibili: «Dio è un essere perfetto, dice Descartes; non può volermi ingannato; l'impulsione che mi fa credere che i miei concetti corrispondono ai corpi, viene da Dio». Dio è perfetto, dunque il mondo è verissimo: quale ne è dunque la verità? oscura, secondo Descartes, in guisa che le cose non sono forse intieramente quali si manifestano ai nostri sensi: ed ecco una verità che non è verissima, che non è forse una verità. Che c'insegna l'impulsione naturale, e si può dire divina? Che vi sono dei corpi, risponde Descartes, e che io ho un corpo: in breve l'impulsione naturale ci svela le qualità primarie e geometriche della materia, l'estensione, la resistenza, la figura, la mobilità. Qui la sincerità di Dio trovasi soppressa per metà, perchè nelle qualità secondarie, cioè ne' colori, ne' suoni, ne' sapori, in tutti i fenomeni della visione, del tatto, de' sensi, della passione, il Dio cartesiano non ci guida, e ci lascia assolutamente liberi d'ingannarci. Descartes si sforza di giustificare Dio di questa negligenza. Che importa, dice egli, di saper il vero sulle qualità secondarie? Il senso deve limitarsi a dirigerci nella scelta del bene e del male; se crediamo che il dolce, l'amaro, il bianco, il nero sono nelle cose stesse l'errore è nostro, e non nuoce. Misera astuzia! vera sconfitta! Noi domandiamo che si spieghi l'errore, diventato impossibile, grazie alla sincerità di Dio, e ci si risponde: «I nostri errori non cadono se non sulle qualità secondarie, sono di poco momento». Non si tratta dell'estensione del nostro errore, si tratta del fatto dell'errore. Il senso ci inganna nella scelta degli alimenti, nelle malattie, nelle allucinazioni, nel pregiudizio universale, che attribuisce le nostre sensazioni alle cose; il dolce alle cose dolci, il bianco alle cose bianche; questi sono errori innumerevoli, quotidiani; sono errori spesso funesti e micidiali; come sono essi possibili? Descartes, continuando, ci assicura che certi inganni erano necessari alla economia della nostra macchina, che le illusioni di ottica erano inseparabili dalle leggi della visione. Resta però sempre che Dio ha permesso l'errore, che nella sua legislazione il falso si confonde col vero, che ci inganna per impotenza, che noi non sappiamo dove finisca l'inganno, e che infine l'errore imposto da un essere infinito può svilupparsi all'infinito. Sotto il predominio della logica tutto è falso.
Aggiungasi, che le verità sottratte da Descartes al dubbio universale, a quel genius aliquis che poteva ingannarci facendoci apparire l'illusione di un mondo che non esiste, si trovano in balia d'un'incognita che può di nuovo annullarle. Da che dipende il vero cartesiano? Da un Dio assolutamente libero, e quindi superiore ad ogni legge, superiore alla verità stessa, e non obbligato di essere fermo ne' suoi propositi, nè sincero nelle sue manifestazioni. – «Le verità metafisiche», dice Descartes, «che voi chiamate eterne, sono state stabilite da Dio, e ne dipendono interamente, come ne dipendono tutte le creature. E difatto, si parla di Dio come di un Giove o di un Saturno, si sottopone allo Stige e al destino, quando si afferma che le verità metafisiche sono da lui indipendenti. Non temete, ve ne prego, di assicurare, di pubblicare dovunque che Dio stesso ha proclamate queste leggi nella natura, nel modo stesso con cui un re stabilisce le sue leggi nel suo regno.» Dunque la più chiara verità, la più distinta percezione dipendono da un atto di un Dio che può revocarle; le verità che sembrano eterne, non sono eterne; gli errori che sembrano impossibili, non sono impossibili. Descartes lo confessa: «Quanto alla difficoltà di concepire come fosse libero e indifferente a Dio di fare che non fosse vero che i tre angoli di un triangolo non fossero eguali a due retti, o generalmente che le contraddittorie non potessero stare insieme, la si può togliere facilmente, considerando che il potere di Dio non può avere alcun limite, e che d'altronde il nostro intelletto è finito e creato in guisa, che può concepire come possibili le cose che Dio volle essere veramente possibili; ma non è creato in tal maniera ch'egli possa altresì concepire come possibili le cose che Dio avrebbe potuto rendere possibili, ma che nondimeno egli ha voluto rendere impossibili». Almeno siamo noi rassicurati sulla permanenza delle verità eterne, sulla bontà, sulla sincerità di Dio? No; Dio è assolutamente libero, è superiore al bene e al male, «non essendovi alcuna idea che rappresenti il bene o il vero, ciò che bisogna credere, o fare, od ommettere, la quale idea possa fingersi essere stata l'oggetto dell'intelletto divino prima che la sua natura fosse costituita, come lo è da un atto della volontà divina... Per esempio, non è per aver visto ch'era meglio che il mondo fosse creato nel tempo piuttostochè dall'eternità, ch'egli ha voluto crearlo nel tempo; e non ha voluto che i tre angoli di un triangolo fossero eguali a due retti per aver egli conosciuto che non poteva darsi altro, ecc. Ma al contrario, perchè Dio ha voluto creare il mondo nel tempo, per questo il mondo è migliore che se creato dall'eternità; ed in quanto Dio ha voluto che i tre angoli di un triangolo fossero eguali a due retti, per questo, è ora vero, e non può essere altrimenti; così di tutte le altre cose.» Dunque il bene è creato da Dio, il bene non è bene se non perchè egli lo vuole. Se egli avesse voluto il male, il male sarebbe stato il bene, ed il bene il male. Vorrà egli sempre il bene? non lo sappiamo; non possiamo impor limite alla sua volontà; egli può ingannarci colle leggi morali, col mondo fisico, colle idee che ci dà della sua stessa natura; e la libertà di Dio ci toglie quella verità che nel sistema cartesiano ci sembra concessa dall'esistenza di Dio. Non ci resta nemmeno quel primo vero, quell'aliquid inconcussum, quel felice cogito, ergo sum, che inebriava i cartesiani. Il cogito è nelle nostre facoltà, ed è Dio che legittima le nostre facoltà: Dio può voler ingannarci, questa volontà può svilupparsi all'infinito. In che dunque differisce egli dal genio del male? Perchè non potrebbe esser egli quel genius aliquis che potrebbe illuderci col fantasma di un mondo che non esiste?
Per Descartes ogni cosa dipende da Dio: Dio è l'unico principio; senza di lui la matematica è incerta, perchè il matematico può dubitare della legittimità della sua ragione. Tolto Dio, il mondo può non essere che un sogno, perchè nessuno ci rassicura della verità dei nostri sensi; tolto Dio, nessun assioma potrebbe esser vero; lo stesso principio io penso, dunque esisto, potrebbe essere falso. Sotto il rapporto della creazione, sotto quello della conservazione, tutto dipende da Dio, che è l'unico criterio del vero; e questo Dio che riassume la materia della logica, può ingannarci, c'inganna, e ci ingannerà forse all'infinito. Eccoci dunque respinti nel dubbio, fra le braccia del genius aliquis, del genio dell'errore; eccoci di nuovo all'assioma tutto è falso, tutto impossibile.
Tormentato dal mistero dell'errore, Descartes ha imaginato una seconda teoria psicologica, nella quale attribuiva l'errore alla nostra volontà. Ma la volontà non pensa, non giudica, l'errore è nel pensiero e nel giudizio: la volontà genera la menzogna; l'illusione è sempre involontaria. Lo stesso Descartes non credeva ottima la sua teoria psicologica dell'errore; e altrove cercava nella memoria ciò che Malebranche avrebbe chiamato la prima occasione dell'errore. Qui ancora un altro scoglio lo attendeva: se abbiamo in noi il criterio della chiara e distinta percezione, come mai gli avversari del signor Descartes possono resistere alle sue dimostrazioni? Per rispondere Descartes fu costretto di creare una parola, che ebbe poi gran fortuna, la parola di pregiudizio, colla quale pretendeva di vilipendere a priori ogni obbiezione come frutto di nozioni ciecamente preconcette o ciecamente difese dalla sola forza dell'abitudine. Secondo Descartes le cause dei pregiudizi erano: 1° l'infanzia, 2° l'abitudine, 3° la stanchezza, 4° le parole. Ma come l'infanzia, l'abitudine, la stanchezza, le parole potrebbero turbare la memoria? come ogni errore potrebbe essere un errore di memoria?
Non si evita il dilemma tra la logica e la materia della logica, perchè non v'ha criterio che possa togliersi all'alternativa di appartenere alla logica e alla materia della logica. Se vi fosse un principio superiore ai due termini, anch'esso mancherebbe, non potrebbe signoreggiare il dilemma. Principio unico, eternamente identico con sè stesso dovrebbe discendere colla equazione e colla deduzione di cosa in cosa per generare tutta la varietà e tutta la realtà degli esseri. Dovrebbe partire dall'uno e giungere al multiplo, partire dall'identico e diventare l'alterazione, partire dal genere e arrivare all'individuo; infine dorebbe essere inalterabile e alterabile, immortale e perituro, generale e particolare, soggetto ed oggetto, cosa e pensiero; lungi dal dominare il dilemma, ne sarebbe dominato e riassumerebbe in sè le contraddizioni dell'universo. L'abisso che scorre tra la logica e la materia della logica è troppo profondo perchè possa essere colmo da alcun principio.



Capitolo III

LE FORME LOGICHE SI DISTRUGGONO DA SE


Isolatamente considerate, le forme della logica non resistono alla stessa loro azione. Dimentichiamo la natura, dimentichiamo la creazione, svanisca ogni fatto materiale. Il dilemma sorge nuovamente dal seno stesso dell'identità, dell'equazione e del sillogismo.
Prendiamo la prima forma dell'identità. Finch'essa lotta contro la natura, siamo nell'alternativa di sacrificare i suoi assiomi o l'esistenza della natura; ma quando l'isoliamo essa ci sfugge di nuovo. Per afferrarla, bisogna applicarla a qualche cosa, bisogna opporla a ciò che non è identico. Accettiamo questa necessità, che è già contraddittoria, qui ancora non si dice mai. che un oggetto è identico con sè stesso; affermando che: il sole è identico col sole, si cadrebbe in una vôta tautologia. Bisogna che l'oggetto cambi, che scompaia momentaneamente, che un velo qualunque s'interponga tra noi e l'oggetto, e ne alteri così i rapporti nello spazio o nel tempo, e allora soltanto l'identità sia concetta, invocata e possa constare. Dunque essa non esiste se non quando ha cessato di essere; l'identità suppone il difetto di identità, suppone la differenza; essa non è eguale a sè stessa, non può essere dedotta da sè stessa, e conviene che si contraddica per essere intesa.
Sviluppiamo il principio dell'identità. Dopo di aver affermato che una cosa dev'essere eternamente la stessa, dopo di aver negato la possibilità del cambiamento che la farebbe essere e non essere, l'identità, sempre in balia dell'oggetto, prende una nuova forma, e si applica non più alla sostanza, ma alle qualità delle cose. Qui diventa il principio della differenza, e dichiara che due qualità opposte non possono appartenere in pari tempo a un medesimo oggetto. Si ammette dunque che le due qualità possano appartenergli l'una dopo l'altra, si accorda dunque che l'oggetto può cessarc di essere ciò che è, per diventare altro. Dunque l'identità è in balia di ciò che non è identico e si distrugge sviluppandosi.
L'equazione subisce il medesimo destino. Essa si fonda sull'eguaglianza: ma due cose assolutamente eguali non possono distinguersi, e sarebbero per noi la stessa cosa. L'eguaglianza che credesi di affermare coll'equazione, non è l'eguaglianza, è l'identità di una stessa cosa sotto due forme diverse, l'identità di un numero nella diversità dei termini; e la differenza ferma l'eguaglianza nell'atto stesso in cui dovrebbe svilupparsi. Se A è eguale a B; B è A: l'apparenza di B è un errore, B non esiste; se A non è eguale a B, dov'è l'equazione? Insomma l'equazione ci presenta la contraddizione dell'eguaglianza e dell'ineguaglianza. La vera eguaglianza non può essere afferrata perchè identifica i due termini: l'ineguaglianza escludendo l'eguaglianza, ci impedisce di sviluppare l'equazione: quindi la contraddizione si manifesta nella seconda forma della certezza.
Lo stesso si dica del sillogismo. Il sillogismo si compone di tre termini, il primo de' quali contiene il secondo, che contiene il terzo termine. Dunque esso suppone già che i tre termini siano distinti, e che nel tempo stesso gli uni sian contenuti negli altri; dunque suppone i suoi termini gli uni negli altri, e gli uni fuori degli altri. Così il sillogismo si trova esposto, per la sua stessa costituzione, alle inconseguenze dell'identità e a quelle dell'equazione. Si propone di dedurre una cosa dall'altra, e accettando la distinzione delle cose non si può nulla dedurre, siamo nella necessità di dover ottare tra la differenza dei termini e la loro identificazione. Se A è fuori di B, e B fuori di C, non dite che v'ha un rapporto fra i termini, non dite che si uniscano nella conseguenza. Che se A è in B, e B in C, i tre termini non sono distinti, sono un termine solo, havvi identità; il sillogismo è impossibile. Passiamo oltre. Chi dà i termini al sillogismo? la natura. Chi li dispone? ancora la natura, che unisce a due a due i termini per formare le proposizioni delle premesse. Quando si dice il peso è materiale, la pietra pesa, dunque la pietra è materiale; le premesse dinanzi alla logica sono affatto arbitrarie; tra il peso e la materia, tra la pietra e il peso non havvi identità, nè eguaglianza, nè deduzione. La necessità matematica del sillogismo si trova solo nella conclusione, e questa necessità non si fonda se non sul capriccio della natura, la quale suggerisce le due premesse; con altre parole, non si fonda se non sulla materia della logica. Il sillogismo è dunque sottoposto a tutti i dilemmi della natura. Cieco sul proprio punto di partenza, può venire soggiogato da tutti i contrari, può essere dominato dall'identità, dalla differenza, dall'eguaglianza e dall'ineguaglianza, dalla sostanza e dalla qualità, dal bene e dal male; esso deduce egualmente la verità e l'errore, ed è l'istrumento naturale di tutte le interversioni possibili. Il sillogismo parte dalle nozioni più astratte per giungere alle più concrete: la più alta di tutte le astrazioni è quella dell'essere; è sempre combattuta dalla nozione opposta del non-essere; dunque, parallelo ad ogni sillogismo affermativo, potrà sempre svilupparsi un sillogismo negativo; dunque il sì ed il no stanno rinchiusi nella forma stessa del sillogismo.
Lo ripeto: tutta la necessità del sillogismo sta nella conclusione; ma l'idea della necessità non può restare nella conclusione. Sotto l'impero della logica il sillogismo s'interverte e ritorna alle sue proprie premesse. Se la conclusione è eguale alle premesse, le premesse debbono essere eguali alla conclusione nei limiti in cui il contenente e il contenuto coincidono; dunque in ogni premessa i due termini debbono restare insieme per una necessità eguale ed identica alla necessità che collega i due termini della conclusione. In questo moto regressivo la conclusione necessaria distrugge le premesse arbitrarie. Il sillogismo vuole dunque che si dimostrino le sue proprie premesse; e qui la contraddizione interiore del sillogismo si svela in tutta la sua forza. Che cosa è la premessa? È una proposizione generale. Ora, se non è dimostrata, è arbitraria; se è dimostrata, bisogna supporre sempre un sillogismo anteriore al sillogismo: eccoci indotti al dilemma di una premessa arbitraria o di un regresso all'infinito. Del resto, anche circoscrivendoci nella sfera dell'esperienza, la premessa suppone l'impossibile, perchè la proposizione generale suppone l'induzione, e l'induzione non si accerta se non osservando tutti gli individui, perlochè il sillogismo ci costringe al percursus rerum naturae, all'impossibile.
Il vizio del sillogismo è sì evidente, che Aristotele, suo primo legislatore, alla teoria del sillogismo aggiungeva la teoria della dimostrazione. Secondo Aristotele, la deduzione non è valida se non fondata su principj veri, primitivi, notorj, anteriori alla conclusione, e causa della conclusione stessa. Ciò posto, non havvi dubbio che il sillogismo diventi interamente necessario; ma qui non è più il sillogismo, è la stessa verità, è una filosofia che determina i principj primitivi, veri, notorj. Qui il sillogismo suppone già scoperti i principj anteriori alla conclusione, e causa della stessa conclusione; il che torna a dire, che qui esso suppone già chiuso per sempre il circolo di tutte le interversioni, e quindi sciolti per sempre tutti i dilemmi della natura. - Continuando a spiegare l'essenza del sillogismo dimostrativo, Aristotele dichiara che le premesse devono essere necessarie, essenziali, universali e generiche: non v'ha dubbio che, scoperta una volta l'universalità, la necessità e l'essenza, si domina l'universo. Ma dove prendere l'universalità, la necessità, l'essenza? non sono esse straniere al sillogismo? In sentenza d'Aristotele il termine medio per dimostrare dev'essere causa: d'accordo; se voi avete la causa, avete l'effetto: dov'è dunque la causa? Supponiamola trovata. La causa è generatrice, fluente; si áltera, e implica contraddizione; la causa è una potenza, e quindi contiene in sè i contrari, contiene ciò che può diventare e non diventare, ciò che può affermarsi e negarsi, essere e non essere. Se spetta alla causa a generare, a dimostrare, a creare la conclusione; se dipende dal termine medio della causa, tutta la forza del sillogismo, non è più il sillogismo che dimostra, è la realtà vivente delle cose che dà la conclusione. Per sè il sillogismo resta straniero al processo dimostrativo, e si riduce ad una mera estimazione di vuote grandezze. La dimostrazione della causa crea, passa dal padre al figlio, dal germe al frutto; la dimostrazione del sillogismo passa dal contenente al contenuto, dal più grande al più piccolo, dal tutto alla parte; i quali rapporti sono violati nella generazione, in cui il tutto è più grande della parte, il contenuto oltrepassa la natura del contenente, e le leggi della quantità aritmetica sono di continuo falsate. Dunque da una parte Aristotele è il legislatore del sillogismo matematico, e in presenza del sillogismo matematico, tutto è impossibile; il diventare è un assurdo, l'alterazione non può essere. D'altra parte, Aristotele è il legislatore dalla dimostrazione, dove tutto dipende dalla causa, dall'alterazione, dal diventare; dove tutto è possibile, tutto è vero. Da una parte basta al termine medio essere una grandezza contenuta dal gran termine, e contenente il piccolo termine. D'altra parte, il termine medio dev'essere una causa, generare e creare realmente la conclusione. Così Aristotele ha dato due teorie distinte, l'una logica, l'altra naturale; l'una rappresenta la forma, l'altra la materia della logica; e le due teorie si escludono e si contraddicono su tutti i punti, perchè condannate a riprodurre la lotta che sussiste tra la forma e la materia della logica.



Capitolo IV

LA CRITICA CONFERMATA DAL DOGMATISMO

Non potrei accettare il rimprovero di avere esagerato la critica con sofismi; ho combattuto con armi leali. Il mio processo è stato semplice; ho cercato l'identità, l'equazione e la deduzione nelle cose e nei pensieri, poi nella logica stessa. Non poteva raggiungere la certezza se non a questo patto, e la logica ha tutto distrutto; come il fuoco, essa ha divorato sè stessa. Per confermare la mia critica ho solo ad invocare la storia della filosofia e della religione.
Si esamini ogni sistema metafisico; vi si troveranno due momenti; l'uno dogmatico, l'altro critico.
Nel momento dogmatico si stabilisce un principio; lo si mostra in tutti i fenomeni; si dimostra ch'essi ne dipendono, che ne derivano, che ne sono generati; il perchè ne restano spiegati. La spiegazione non si ottiene se non sotto la condizione d'ammettere che il principio è generatore, che si áltera, poco importa in qual modo, e che prende la forma di tutti i fenomeni. Concedete voi che una cosa possa cessare di essere ciò che è per diventare una nuova cosa? Non havvi più freno che vi ritenga: l'alterazione regna sola, trascina seco l'identità, l'equazione, il sillogismo: va dove vuole, e forza il sillogismo a dare una falsa apparenza logica a tutte le sue metamorfosi. Qual principio alterandosi non potrebbe creare tutti i principj? Alterandosi, l'idea di Platone genera il mondo, l'entelechia d'Aristotele cambia il non-essere in un essere positivo, reale e individuale; la monade di Leibnitz può diventare una pietra, un albero, un uomo, ogni cosa. Grazie all'alterazione, l'universo di Condillac è una sensazione trasformata; l'universo dei deisti è un'opera che s'oppone a sè stesso. Dunque il momento dogmatico di ogni sistema si fonda l'alterazione, e in generale sulla materia della logica governata dall'assioma: tutto è possibile.
Il momento critico dei sistemi è quello in cui la deduzione dev'essere forzata; alcuni fatti sono ribelli al principio, la logica non li vede omogenei; e cercando l'identità, l'equazione e il sillogismo, li trova in contraddizione col principio. Che fare? La logica li nega. La scuola di Elea, per difendere l'ente unico, dichiara illusorj tutti gli enti, falso ciò che nasce, falso ciò che muore. Platone ed Aristotele si difendono anch'essi, abbandonando il mondo sensibile alla contradizione. Seguasi Descartes: si vedrà l'applicazione della logica al non-io, che scompare; seguasi Leibnitz: si vedrà che la logica annichila i rapporti, la materia, il moto. I filosofi più dogmatici, sapendolo o ignorandolo, hanno tutti collaborato alla demolizione universale. Non era loro concesso di dar forma logica al loro principio generatore, senza che tosto o tardi non Fossero addotti a negare tutti gli altri principj. Senofane, Platone, Aristotele, Descartes, Leibniz dimostrano che tutto è impossibile, tranne i loro dogmi. Ecco l'assioma della logica: e deve universalizzarsi perchè i principj che si vogliono sottratti alle contraddizioni della natura, contraddiconsi alla loro volta. È lecito a Leibniz d'illudersi accordando alla monade la facoltà di generare ogni cosa alterando sè medesima; ma deve subire la critica del principio della materia posto da altri; quindi la monade e la materia distruggonsi a vicenda; così gli altri principj; ed ogni filosofo divien critico per ciò stesso che è dogmatico: ed ogni dogma viene divorato dalla critica.
La storia della metafisica si riduce così ad una lotta tra l'alterazione e la logica, tra la materia della logica e la logica, tra il possibile e l'impossibile.
La religione è una vera metafisica, e subisce la legge della metafisica. Qualunque sia la sua origine, essa comincia col dogma, si stabilisce assoluta, non dubita mai di sè. Qual'è dunque la base su cui poggiano le religioni? Se sono dogmatiche, se spiegano l'universo, se sono sistemi (e non havvi religione che non sia tale), bisogna necessariamente che abbiano per base l'alterazione, e che si sviluppino col processo del possibile.Di là gli Dei dell'India, che presiedono all'ordine universale. Il Dio cristiano è creatore nella persona del Padre, riparatore nella persona del Figlio; l'alterazione ammessa, non può più essere contenuta: Dio s'incarna, soffre, geme, è crocifisso, muore, ed è inalterabile. Come gli Dei di tutte le religioni, il Dio cristiano domina di continuo colla forza del possibile le contraddizioni che sorgono dalla natura. Opponetegli nuovi miracoli; saranno i miracoli del genio del male permessi da lui per rivelarsi con nuove vittorie: opponetegli la storia; il Buddismo che accusa il Cristianesimo di plagio, il Buddismo sarà un'invenzione di Satana, che travisa la tradizione della Bibbia: opponetegli una nuova religione che l'oltrepassi con nuovi prodigi, sarà la religione profetizzata dell'Anticristo. Ogni religione spiega l'universo col suo proprio principio, ed è architettato in modo da vivere per sempre, potendo il suo principio prendere tutte le forme e trovarsi in tutti i fenomeni.
Il momento critico non manca alle religioni; e pure in esse comincia quando la religione devesi difendere. Allora essa s'impadronisce della logica; se ne serve contro le assimilazioni, contro le induzioni, diventa scettica, non esiterà ad avventurare la propria esistenza per dimostrare che tutto è impossibile. Strano spettacolo che ci presenta l'umana natura! L'uomo è inceppato dalle favole più assurde; vive di credulità e di superstizione; non havvi enormità ch'egli non adori; è stupido di fede, ma assalito, si difende colla penetrazione del genio; distingue, e fa indietreggiare la filosofia; ragiona, e atterisce il senso comune; critica, e la religione più puerile sa distruggere il mondo per salvare il suo Dio. Se il cattolicismo ridotto agli estremi, ferito a morte, ha potuto ancora ispirare alcuni uomini, non fu se non per dimostrare che tutto era impossibile, tranne la fede in Gesù Cristo.
La nostra critica, legittima per sè stessa, non è dunque se non la critica esercitata involontariamente dai filosofi più dogmatici, e dai profeti più ardenti nella loro fede. Il doppio movimento dogmatico e critico che si è sviluppato nelle scuole e nei tempj ha scomposto più volte e ricomposto il mondo, ed ha trasformato la ragione umana in una scacchiera, sulla quale si possono disporre tutti gli elementi della natura e del pensiero secondo tutte le combinazioni possibili, salvo a distruggerli in pari tempo con tutte le combinazioni possibili.
Le contraddizioni sono sì molteplici, sì equivalenti su tutti i punti del creato, che non si può enumerarle, nè classificarle, nè svolgerle con ordine. Dove sarebbe il punto di partenza? Trovasi dovunque. La critica comincia dove si vuole, in quella guisa che s'incomincia a misurare lo spazio prendendo un punto a caso: non havvi ragione per prenderlo più vicino o più lontano, più alto o più basso. Inoltre, ogni scienza ha le sue contraddizioni: le antinomie della fisica debbono esse signoreggiare quelle della chimica? oppure le antinomie della chimica devono forse primeggiare su quelle della fisica? Tutte le contraddizioni aspirano alla supremazia, tutte sono reciproche, tutte scambievoli; io sono partito dall'alterazione per giungere al rapporto, e di là alla causa e all'effetto: la causa e l'effetto alla volta loro dominano il rapporto, e col rapporto l'alterazione. Classificare le antinomie è un disconoscerle, è ignorare che la classificazione si fonda sulla nostra maniera di vedere, sulla base di un sistema preconcetto. D'altronde, da una classe all'altra le transizioni sono innumerevoli, impercettibili; e quivi l'antinomia ingrandisce; poi le classi sono reciproche, e la reciprocità ristabilisce il dilemma riconducendoci al punto di partenza. Separate la scienza dell'interesse da quella del dovere; questa scomparirà; tolto l'interesse, son tolti l'utile, il danno, la possibilità stessa di violare la giustizia; il concetto stesso del dovere scompare. Istessamente tutti i contrari nascono e muoiono insieme; ma qual nozione si sottrae al loro dominio? Lo scetticismo che si fonda sopra un dato numero di sofismi, o di luoghi comuni, o sopra certe considerazioni psicologiche, o sui contrari della ontologia, non è vero scetticismo; conserva le traccie dei dogmi di una metafisica presupposta, ne ritiene l'ordine, si ricorda troppo dell'origine delle sue proprie negazioni. La critica può e deve intervertirne le regole, il metodo, la direzione, l'ordine, i precetti per ridurlo alla formola unica: la logica applicata alla materia della logica distrugge tutto, distruggendo sè stessa.



Capitolo V

LA CRITICA NELLE TEORIE SCETTICHE


Ogni teoria scettica si riduce al momento critico di un sistema staccato dal dogma e rivolto contro il dogma stesso. Per difendere l'ente, la scuola di Elea nega la distinzione delle cose; questa negazione è il momento critico degli eleati; afferrate la negazione, rivolgetela contro l'ente; avrete le teorie scettiche dei sofisti. Platone e Aristotele spiegano il mondo colla ragione, sacrificano alla ragione le cose sensibili; questo sacrificio costituisce il loro momento critico. Staccatelo dal platonismo e dal peripatetismo; rivolgetelo contro la ragione, avrete le teorie di Pirrone e de' suoi successori. Il cartesianismo dubita della natura, del non-io, del senso di tutto ciò che non è nè chiaro, nè evidente; crede solo alle idee e a Dio, l'idea di tutte le idee. Isolate il dubbio cartesiano, applicatelo alle idee e a Dio, sarà lo scetticismo di Berkeley e, più tardi, di Davide Hume.
La nostra formola, la dominazione della logica che si distrugge da sè, abbraccia, riassume e oltrepassa tutte le toerie scettiche. Per dimostrarlo basterà analizzare la tradizione scettica.
Presso i sofisti l'arte del dubbio è nell'infanzia. I sofisti ignorano compiutamente l'istrumento della critica; non conoscono nemmeno il sillogismo, trascurano l'equazione, e sono ridotti alla dialettica dell'identità. Questa è la dialettica dell'essere e del non-essere. Gorgia dice: «La verità non esiste; se esistesse, non potrebbe essere conosciuta; se fosse conosciuta, non potrebbe essere insegnata.» Perchè? per la ragione che sarebbe la verità della distinzione delle cose. Per esistere, le cosedevono separarsi le une dalle altre; per nascere, per morire, per muoversi devono distare le une dalle altre. Dunque esistere è essere limitato, non-essere; conoscere è conoscere la separazione, il nulla, ciò che non è; dunque la verità sarebbe ciò che non è; dunque non havvi nè verità, nè cognizione, nè insegnamento. Gorgia ha ragione; il suo torto è di fermarsi all'essere e al non-essere: egli li suppone veri; dev'esser lecito di supporli astratti, apparenti, relativi. Invece di considerare l'essere nel cavallo, considerate il cavallo, cioè l'individuo, il genere, il corpo, le sue l'unzioni, la sua organizzazione; fate del cavallo una materia intelligibile, poi dite a Gorgia: L'essere e il non-essere non sono se non gli accessorj di quest'ente intelligibile: non si tratta di sapere se il cavallo sia o non sia, si tratta di riconoscere la nozione del cavallo, di accettarne tutte le conseguenze. Gorgia sarà vinto, la sua critica si fermerà, i dilemmi svaniranno, i sofisti cederanno il passo a Platone e ad Aristotele. Il primo si sottraeva all'essere e al non-essere coll'idea; il secondo coll'essenza. Il dogmatismo trionfava di una critica imperfetta.
Lo stesso dicasi di Protagora: come Gorgia, stabiliva un principio che facilmente s'interverte. «L'uomo,» diceva egli, «è la misura delle cose; tutto è relativo, tutto cambia, tutto si riferisce a me, alla mia maniera di vedere; il vero è nella mia mente, nella mia opinione; dunque tutto è vero, e l'errore non è.» Anche in questo ragionamento havvi un punto di partenza preconcetto, un punto dove la contraddizione è afferrata, ma limitata. Tutto cambia, dice Protagora; e se tutto non cambiasse? e se vi fossero cose eterne e invariabili? Tutto si riferisce a me; e se tutto non si riferisse a me? e se vi fossero cose esistenti per sè? La mia persona è la misura delle cosa; e se la misura delle cose non fosse la mia persona? se io non fossi se non un accessorio, un'apparenza, la forma di una misura universale, impersonale, qual'è la ragione? Protagora sarebbe vinto, e lo fu realmente, dal genere inalterabile di Platone, dalla ragione di Socrate; fu vinto perchè al di là del rapporto s'intravvede l'oggetto, perchè il mondo si rivela, astrazion fatta da me, e perchè io non sono se non una relazione e forse un errore dcl mondo. Per Protagora l'anima non è se non la collezione de' diversi momenti del pensiero; d'onde viene dunque l'apparenza dell'unità? essa è incontestabile quanto la distinzione de' pensieri. Giusta Protagora, il bene in sè è l'utile; perchè non sarebbe egli il danno, il sacrificio? Noi ci figuriamo la virtù come un bene, il sacrificio esce spontaneo dalla nostra volontà. In breve, i sofisti non conoscono l'istrumento della critica; fanno aggirare la critica sul punto di una tesi, non sanno intervertire la tesi, nè reciprocare i dilemmi alternando i termini. Per trionfare, il dogmatismo ebbe solo a rizzare la sua tenda alquanto più lungi sopra nuove tesi.
La teoria del dubbio si avanza d'un passo con Pirrone, che mette in opposizione i generi cogli individui, l'intelligibile col sensibile. La contraddizione si estende, e ingrandisce; con qual processo? Non si vede; lo scetticismo resta ancora confinato in certo numero di tesi e di luoghi comuni per dimostrare che le nostre opinioni cambiano secondo la varietà degli animali, degli uomini, dei sensi, delle circostanze; secondo la posizione, la combinazione, il rapporto, il soggetto, l'abitudine, ecc. E se tutto non cambiasse? Pirrone sarebbe vinto; ma per noi la contraddizione resterebbe, perchè l'identità, l'equazione e la deduzione riprodurrebbero i dilemmi anche nell'apparenza eterna, anche nell'apparenza isolata, sensibile o intelligibile, anche nella percezione infallibile, anche nel caso in cui la varietà delle opinioni e l'inganno dell'errore fossero fenomeni sconosciuti. Non è l'io, non è il moto, non è il rapporto, non è l'errore che mi confondono, ma rimango confuso da ciò che esiste. Pirrone propone la felicità nella quiete, nella tranquillità; lascia il mondo al suo corso, e si riposa sul guanciale del dubbio; e se io voglio osservare, lottare, credere, ingannarmi, se cerco le delizie dell'errore? Ciò si vede, ciò è possibile, e ciò distrugge la morale di Pirrone. Poi, perchè cercate l'equazione della felicità? Per difetto di critica. Pirrone ignora adunque l'istrumento della critica, e l'arte di intervertire ogni tesi col mezzo di tutte le altre.
Enesidemo, Agrippa e Sesto Empirico toccarono i primi dell'istrumento della critica, ma solo per inventare i luoghi comuni che contestano la possibilità della dimostrazione. «Non si può nulla dimostrare» dicono essi, «perchè o dimostrerete scambievolmente una cosa per l'altra, grazie ad un circolo vizioso, o cercherete sempre la prova della prova, e cadrete nel regresso all'infinito: di là l'insufficienza di tutti i principj.» Sia; perchè dunque volete dimostrare ogni cosa? Qual'è dunque l'istrumento che esamina la dimostrazione, e la trova circolare o regressiva all'infinito? I nuovi scettici non s'accorgono che tale istrumento è la logica, la quale vuoi dominare i fenomeni, e si rivolta contro la materia della logica. Se nulla può essere dimostrato, la nozione della prova non può essere completa; se siamo sempre nella necessità di cadere in un circolo vizioso, e nel regresso all'infinito, accetteremo i fatti evidenti, non dimostreremo l'evidenza, e la scienza si ristabilirà sopra una base non dimostrata. Enesidemo replica che in questo caso il dubbio si ripresenta, i fatti sono gratuitamente assenti; Quod gratis asseritur, gratis negatur. Ma non sussiste una differenza tra l'affermare un essere imaginario, e il riconoscere un essere reale? tra il mentire e il vedere? Accettando quanto appare non l'inventate, resta vero per sè. Enesidemo suppone che la verità vuol essere dimostrata, l'ipotesi contraria è egualmente legittima, e non si decide a priori se il vero debba precedere o succedere alla dimostrazione. Supponiamo che sia possibile di dimostrare ogni cosa, e che un filosofo risponda a Enesidemo: ho vinto l'infinito, ho scoperta la pietra prima, dove comincia e finisce ogni dimostrazione; supponiamo che questo filosofo nè inganni, nè sia ingannato; Enesidemo sarà vinto, la critica non lo è. Essa opporrà la conseguenza alle premesse; e l'identità, l'equazione ed il sillogismo non cesseranno di dimostrarci la contraddizione nel seno dell'evidenza universale. Lo ripeto; non è l'incertezza, non è l'oscurità che turbano il nostro intelletto, è l'evidenza stessa, la quale mi confonde egualmente, sia che si presenti d'intuito, sia che venga conquistata colla dimostrazione.
Come si vede il dogmatismo, più abile a tormentarsi, che lo stesso scetticismo, gli eleatici, Platone, Aristotele sono i veri inventori del criticismo antico; gli scettici posteriori si restrinsero a staccarlo dai sistemi che lo supponevano. Istessamente, Descartes, è il maestro del criticismo moderno, che s'ingrandisce staccandosi dal sistema cartesiano
La filosofia trovavasi immersa nel probabilismo e nel disordine della tradizione scolastica, quando Descartes pensò di darle la precisione della matematica, e così la spinse involontario nella via della critica. Il suo melodo svolgesi equivoco quanto il suo criterio; la duplice evidenza logica e materiale, da lui assunta come regola sotto il nome di chiara e distinta percezione, dà per conseguenza un metodo doppio sotto di un'apparenza unica. Questo metodo raccomanda l'analisi; e l'analisi può prendersi in due sensi opposti: da un lato può essere l'esame attento, minuto, regolare di tutti i fenomeni; esame che si riduce ad un'osservazione senza critica, all'osservazione del chimico o del fisico: dall'altro lato, l'analisi può essere la separazione matematica di tutti i fatti che non sono riuniti dall'identità, dall'equazione e dal sillogismo. Descartes che vuol raggiungere coll'analisi la certezza matematica propende verso la seconda direzione, e la certezza che si propone abbraccia egualmente due procedimenti opposti, quello d'ogni scienziato che deduce conseguenze incontestabili da un principio prestabilito, e il procedimento della critica che distrugge l'evidenza nell'atto stesso in cui pretende dimostrarla, le sue abitudini matematiche.
Le regole del suo metodo sono le seguenti: «1.° Non ricevere mai alcuna cosa per vera, a meno che non sia per tale riconosciuta, sì che il dubbio diventi impossibile. 2.° Dividere le difficoltà in tante parti numerose quanto si può ed è richiesto per meglio scioglierle. 3.° Procedere con ordine cominciando dagli oggetti più semplici e più facili a conoscersi. 4.° Fare dovunque enumerazione sì complete e riviste sì generali, che ne restiamo assicurati di nulla aver ommesso.» Queste regole sono equivoche. Le tre ultime riescono scolastiche, incerte e di mera prudenza nell'applicazione. Come sapere se tutte le difficoltà sono divise? se l'ordine è vero, naturale? se l'enumerazione è compiuta? se nulla fu ommesso o trascurato? Qual uomo non si propone di ben riconoscere le difficoltà? chi ricusa di procedere con ordine? chi vuoi fare enumerazioni incompiute? Nessuno: le tre ultime regole abbracciano dunque la precisione della matematica e quella di una scienza senza rigore e permettono egualmente il dubbio e il dogma. La prima regola più rigorosa reclama l'evidenza: quale evidenza? Quella dei fatti o quella dell'identità, della equazione, della deduzione? Descartes scambia la prima colla seconda, varia colle occasioni, or logico or trascinato dalla materia della logica.
Nell'equivoco Descartes sperava l'equazione dell'universo; sperava l'evidenza di una premessa e di una deduzione, l'intuito della verità prima, e delle sue conseguenze. Tale convinzione vien supposta dal suo dubbio: Descartes dubita dei suoi pensieri e non del pensiero, è incerto delle sue cognizioni; non lo è della matematica, nè della logica, nè della ragione.Il suo dubbio si limita ad avverare la possibilità dell'errore, la nostra fallibilità. Descartes non spinge l'analisi fino a separare la qualità dalla sostanza, la causa dall'effetto; non interverte le tesi, non dimostra la contraddizione che strazia l'alterazione, il rapporto, la materia e lo stesso pensiero, fatta astrazione della nostra fallibilità e pensa solo all'errore; divenendo dogmatico, non cerca se non di vincere l'errore colla forza dell'equazioni dedotte dal suo pensiero. Crede a Dio perchè nella nostra mente dal concetto di Dio si transisce all'esistenza di Dio; crede al mondo perchè la sincerità di Dio è eguale alla verità della creazione: in sua sentenza il mondo si conserva per una continua creazione, perchè tra il conservato e il creato havvi distinzione di tempo ed eguaglianza di effetto. Dichiarando eguali lo spazio e la materia, Descartes si apre l'adito per transire dalla metafisica alla fisica; e svolgendo poi una lunga serie di equazioni meccaniche, rende ragione della formazione dei mondi e dell'organizzazione degli esseri viventi. Lo stesso principio cogito ergo sum, non rassomiglia forse a un'equazione tra il pensare e l'esistere? Per Descartes l'essenza dell'anima non consiste forse nel pensiero?
Il metodo che accettava l'evidenza dei fatti, accetta in pari tempo l'evidenza dell'identità, dell'equazione e della deduzione; e ne segue che, progredendo, sottomette all'identità, all'equazione, alla deduzione gli stessi fatti prima dichiarati evidenti. Dopo di aver ammessa preliminarmente la chiara e distinta percezione della nostra esistenza, dopo di aver preso il suo punto di partenza nel pensiero, Descartes vuol dimostrare la verità stessa del pensiero: dopo d'aver adottata preliminarmente la matematica, vuol dimostrarne la verità: dopo di aver accettato il dato della ragione, confessa che la sua ragione potrebbe ingannarlo, che gli assiomi potrebbero essere falsi, che i teoremi matematici potrebbero non contenere se non un valore soggettivo, ed essere solo errori dell'uomo; riconosce, infine, che la chiara e distinta percezione da cui il dubbio vien reso impossibile, potrebbe essere una percezione umana, un'illusione dell'io. Il movimento delle equazioni porta Descartes molto al di là del criticismo esposto nella prefazione del suo sistema, nell'analisi del dubbio preliminare. Descartes resta sempre dogmatico: ma a qual patto? a patto d'un miracolo continuo: nel suo sistema io son certo di esistere perchè Dio lo vuole; la matematica è vera perchè Dio l'ha decretata tale; il mondo non inganna la mia percezione, perchè l'inganno fu respinto dalla volontà di Dio: havvi un rapporto tra i miei pensieri ed i corpi, perchè Dio ha prestabilito questo rapporto: Dio, un prodigio perpetuo della volontà divina; ecco il termine medio della metafisica cartesiana. E Descartes come dimostrava l'esistenza del gran genio della verità, di Dio? Col pensiero; in guisa che nel suo sistema il pensiero prova Dio, e Dio prova il pensiero; la matematica conduce alla teodicea, e la teodicea conduce alla matematica; la divinità è figlia dell'evidenza, e l'evidenza è figlia della divinità. La logica accetta e distrugge alternativamente i pensieri, gli assiomi, la matematica; però colla differenza, che la demolizione è naturale, e la ricostruzione soprannaturale; la prima è provata, la seconda supposta. Poi la supposizione stessa si trova, da ultimo in balia di un'incognita, per la ragione già detta che questo Dio creatore, conservatore, sincero, veridico, è assolutamente libero, assolutamente superiore alla creazione, alla conservazione, alla sincerità, alla verità; potrebbe voler ingannarci, potrebbe correggere i suoi disegni, pentirsene, rinnegarli. E forse furon già cambiati, e il mondo appare il contrario di quello che è nella presenza di Dio.
Dopo Descartes la critica è come la freccia nei fianchi della balena; la metafisica deve morire; nè Spinosa, nè Leibnitz potranno salvarla. La critica è assicurata, che tra i pensieri e le cose, tra l'anima e il corpo, tra lo spirito e la materia, havvi la distanza della contraddizione; è assicurata, che la storia, che la tradizione, che la morale, che la politica sono scienze congetturali, negate, disdegnate dalla filosofia cartesiama,esse svelano ogni giorno le antinomie che le straziano. Il dubbio sull'esistenza dell'io e della natura resta invincibile, l'intuizione è sospetta, nè può essere garantita da Dio: si dubita di ciò che si vede: e Dio, che sfugge alla visione, non può toglierci dalle incertezze. Non sarà difficile l'oltrepassare la critica di Descartes tentando di oltrepassare il dogma.
Malebranche, Spinoza e Leibni abusarono di Dio: i tre sistemi sono tre confessioni implicite e progressive della contraddizione universale che li opprime. Perchè Malebranche dichiara essere il mondo percetto in Dio? Perchè esagera egli i miracoli del cartesianismo? perchè dimostra l'impossibilità di ogni relazione tra lo spirito e il corpo, tra il pensiero ed il suo oggetto: dunque deifica questa relazione, e spiega la percezione divenuta impossibile colla teoria della visione in Dio. Presso Spinosa la contraddizione tra il pensiero e la sostanza che pensa è scoperta, proclamata; quindi il sistema di Spinoza è già il sistema della contraddizione universale. Presso Leibniz la confessione è ancora più esplicita; le sue monadi, la sua armonia prestabilita, la sua teodicea suppongono che lo spirito e il corpo non possono fra di essi comunicare, che il pensiero non può avere alcun rapporto col suo oggetto; che il mondo fisico, anche considerato negli elementi i più semplici della materia e del moto, è assolutamente impossibile per chi non rinuncia alla logica.
Berkeley e David Hume separano infine il momento critico dal sistema di Descartes e de' suoi successori. Berkeley applica il metodo alla natura, la nega, resta solo colle sue idee, col suo Dio, primo a proclamare lo scetticismo psicologico. Ma nella psicologia lo scetticismo erra a caso, il non-io è evidente quanto il suo contrario, l'io pensante: non v'ha dunque ragione per sacrificarlo, nè per preferirglielo. D'altronde, possiamo accettare Dio quando neghiamo il mondo? La separazione matematica delle nozioni non conduce a sacrificare una nozione all'altra: dimostra l'impossibilità d'ogni sacrifizio, d'ogni scelta, d'ogni punto di partenza. Berkeley non possedeva il metodo, ed il buon prelato era la vittima del metodo. Con David Hume lo scetticismo psicologico fa un nuovo passo. Meglio istrutto, David Hume nega Dio, le idee, il mondo; non vede fuori di sè nè generi, nè esseri soprannaturali, nè cose naturali. Poi, confinato nella psicologia, ripete sotto altre forme gli errori di Berkeley. Quando combatte Dio, combatte un errore, e non un'evidenza; fa atto di buon senso, e non di critica: quando nega le idee di sostanza, di causa, di tempo, di spazio perchè non adeguate alla sensazione, non si accorge che sono evidenti come la sensazione, e che hanno il diritto di intervertire tutte le sue tesi; quando nega il mondo, non s'accorge che il mondo è evidente quanto l'io, e che l'io è incerto quanto il mondo. David Hume non giunge mai ad afferrare nè l'istrumento della critica nella sua purezza, nè la contraddizione ne' dilemmi, nè l'interversione dialettica nelle sue antitesi: non separa mai la critica dell'evidenza dalla critica dell'errore.
Era riserbato a Kant di compiere il momento critico cartesiano; e Kant ebbe il doppio merito di afferrare l'analisi nella sua forza, e di mostrare l'evidenza nelle sue contraddizioni. Egli cominciò dall'afferrare l'analisi, separò matematicamente l'uno dall'altro tutti gli elementi del pensiero, tra cui non havvi identità; e le nozioni da lui separate non furono più ricongiunte, qualunque sia la forza occulta che le combina e non rimasero più se non fatti uniti a caso, senza che se ne sappia la ragione. Dopo Kant, la sostanza non ha più rapporto alcuno colla qualità, nè la causa cogli effetti; il tempo, lo spazio, le condizioni dell'universo, non tengono più all'universo stesso. Dopo Kant è ben inteso che la scienza finisce dove comincia la sintesi; dove comincia la cognizione, la scienza è distrutta; non è più concesso l'affermare che il mondo esiste o che noi esistiamo; questi più non sono se non giudizi fatali, empirici, i quali rimarranno in eterno fuori della scienza..
Il secondo merito di Kant fu la scoperta delle antinomie ridotte all'opposizione del finito e dell'infinito, della libertà e della fatalità, della natura e di Dio; e aprivasi così la serie dei dilemmi. Nè Descartes, nè David Hume, nè alcuno tra i filosofi moderni aveva mai sospettato che la contraddizione potesse trovarsi ordinata a priori nell'universo. Nessun uomo prima di Kant aveva concetto il pensiero di por fine ad un errore infinito, rivelando i dilemmi originari dello spirito umano.
Riconosciuti i due meriti di Kant, non dimentichiamo che il principio della critica è la dominazione della logica, che distrugge sè stessa; e ci sarà facile di scorgere i difetti della critica kantiana.
La critica di Kant ha un punto di partenza, l'io pensante di Descartes: è critica psicologica: è dunque una critica imperfetta, falsa e iniziata a caso, perchè il punto di partenza dev'esser dovunque, fuori di noi come in noi. Kant attribuisce le contraddizioni alla mancanza di armonia tra le nostre facoltà e le cose esteriori: per lui le contraddizioni sono errori del nostro intelletto e suppone che non possano essere nelle cose. Perchè? non lo dice: la sua asserzione è gratuita, l'edifizio che si fonda su questa asserzione poggia sul falso. - Dissolvendo le nostre cognizioni nei loro elementi, l'analisi di Kant è esatta: ma quale ne è il processo? chi lo fa? non vedesi: la separazione si termina negli elementi, il dubbio sovrasta a tutti i giudizi non analitici, a tutte le sintesi; Kant non si spinge più oltre, non fa giuocare la logica, non cerca un passaggio matematico da un elemento all'altro, da un giudizio all'altro. Dunque non oltrepassa la dissoluzione, non iscopre le vere contraddizioni dell'evidenza, non rivolge le condizioni di ogni cosa contro la cosa subordinata, non rivolta le condizioni dell'universo contro l'universo, non giunge all'assioma dell'impossibilità di tutte le cose e di tutti i pensieri. Non progredendo apertamente coll'istrumento della logica, Kant non coglie al vero le antinomie. L'io e il pensiero non solo s'uniscono arbitrariamente, ma si escludono scambievolmente: il non-io non è solo affermato gratuitamente, ma è affermato contraddittoriamente, dovendo io ignorare ciò che è fuori di me. - Quali sono le antinomie di Kant? Riduconsi al finito e all'infinito, alla libertà ed alla fatalità, a Dio ed alla natura; antinomie che il filosofo tedesco annovera e classifica artificialmente sotto le diverse categorie della ragione. Nuovo errore. Le antinomie sono in noi e fuori di noi; non si riducono nè a tre, nè a dieci, nè a venti; non possono essere nè classificate, nè coordinate; la stessa idea di ordinare le antinomie si oppone alla critica, e la distrugge. Dio è il termine più importante dell'antinomia di Kant, e Dio non doveva mostrarsi nella critica; non è un fatto, non è un'evidenza, ma un'iperbole che conferma la critica, un sotterfugio che compromette quelli che vi ricorrono. - Infine Kant pretende sciogliere le antinomie; ed evita le une imputandole a un difetto del nostro intendimento; scioglie le altre scegliendo una tesi malgrado l'antitesi, per la ragione che la necessità di operare ci impone certe credenze. Nel primo caso continua l'errore psicologico, che imputa le antinomie a un difetto della mente. Quando poi sceglie certe tesi perchè la necessità di agire legittima certe credenze, egli disconosce e l'antinomia e l'azione. L'antinomia non ci lascia liberi, il suo dilemma è impassibile, eterno, nè si lascia piegare da alcuna convenienza, da alcun interesse: il vero è vero; il fatto, fatto; torna esso a nostra ruina? tanto peggio, nè ci è dato di mutano. L'azione poi trovasi in balia della critica quanto il vero; è stretta dalle antitesi del dovere e dell'interesse, del dolore e del piacere, della felicità e dell'infelicità; l'impossibilità dell'azione sorge dal fondo stesso dell'azione; fosse pur vera l'esistenza dell'io, della natura e dello stesso Dio, fossero pur evidenti la ricompensa della virtù, la pena del delitto. Più logico era Descartes quando di proposito deliberato dichiarava di voler rimanere onesto a dispetto della critica. Kant vuol frodare una conseguenza incalcolabile, eterna, a un istinto della volontà, a una nobile ispirazione, a un sofisma che accoglie il nostro destino spaventato dalla critica. Posto il sofisma, cammina da sè, vuole stabilito l'essere dove vi ha il non-essere; vuol l'io benchè incerto, il non-io benchè irrito, Dio benchè annullato; e con Dio vuole la grazia, la salvezza, il paradiso, forse l'inferno; e un primo errore evoca lo spettro del Cristianesimo, e il lavoro della critica cade al disotto di Descartes.



Capitolo VI

L'IMPOSSIBILITÀ DI OLTREPASSARE
LA CONTRADDIZIONE

La filosofia riconobbe in ogni tempo la necessità di ammettere alcune contraddizioni, onde poi vincere le altre oltrepassandole. Dopo Kant sperasi di scoprire il vero per la forza stessa dell'assurdo; il concetto di oltrepassare la contraddizione preme le scuole della Germania, e l'ultima di esse, quella di Hegel, è lo sforzo più grande per domare ogni dilemma col disprezzo anticipato della logica.
Non ci è dato di penetrare al di là della contraddizione, e ogni tentativo su questa via incontrerà sempre due ostacoli insuperabili. Dapprima il punto di partenza sarà arbitrario, in eterno. Quando la logica è soppressa, l'uomo trovasi solo nella varietà delle cose e delle idee: come dunque scegliere un punto di partenza? Coll'ipotesi. Che l'ipotesi sia una storia sacra come quella del peccato di Adamo, che sia figlia di un'estasi, che si riduca ad una nozione dialettica, quale sarebbe la compenetrazione dell'essere col non-essere; l'origine, il punto di partenza sarà sempre arbitrario, e quindi si progredirà senza direzione. La filosofia si ridurrà ad un gioco più o meno ingegnoso e terribile, in cui la vittoria resterà, non alla verità, ma al più forte, voglio dire a colui che avrà sorpassato gli altri nella potenza di affascinare col misticismo o d'intervertire ogni concetto per mezzo della dialettica.
In secondo luogo, lo sviluppo della filosofia, della contraddizione sarà arbitrario come il punto di partenza. Tolta la logica, non abbiamo più guida, non havvi più processo, nè progresso; si erra a caso; il freno stesso dell'impossibile scompare; quindi la filosofia della contraddizione sarà grande a forza di assurdità, camminerà sfrontatamente colle religioni, o colla fede, o coll'estasi, o con una dialettica di sua invenzione, senza che regola alcuna possa governarla. Non potrà nemmeno dirsi che la filosofia della contraddizione si sviluppi; sarà obbligata di ricominciare di continuo il suo lavoro: arbitraria nel punto di partenza, lo sarà altresì in ogni suo punto, sempre strascinata dal capriccio delle analogie.
I due vizi del punto di partenza e dello sviluppo rinvengonsi nella filosofia di Hegel, benchè mascherati con maravigliosa destrezza. Hegel vide che la filosofia non poteva progredire se non identificava la logica colla materia della logica, se l'istrumento che giudica non si compenentrava colla cosa giudicata. Egli intese, d'altronde, che questa compcnetrazione doveva invadere l'universo, perchè se limitata, la scienza era vinta, l'istromento si separava dalla natura, e ogni vero conquistato poteva vedersi intervertito. Il sillogismo hegeliano identifica dunque la natura e la logica, compenetra it movimento logico col materiale; vuol conoscere e fare nel tempo stesso tutto quanto esiste: svolgesi colla forza stessa dei contrari, afferma e invoca la loro ripulsione reciproca. Il suo primo termine è una tesi, e questa tesi ci conduce fatalmente all'antitesi che vien concepita nello stesso momento. Il finito e l'infinito, la causa e l'effetto, la luce e le tenebre, tutti i contrari non sono essi indivisibili, correlativi, simultanei? Dunque stabilito un termine, Hegel passa al termine opposto, che lo nega, vi passa fatalmente la contraddizione trovasi organizzata, l'antitesi distrugge la tesi. Collo stabilire l'infinito, si concepisce il finito, si passa al finito, e il finito nega l'infinito. Giunto all'antitesi, Hegel nega l'antitesi stessa, nega la negazione, e ristabilisce così il primo termine, che non è più il primo, ma bensì il primo modificato, il primo in azione, il primo operante; in una parola, il termine in cui il sillogismo e la materia del sillogismo, sempre identificati, creano un nuovo oggetto. Tale è il processo dell'hegelismo.
Hegel prende il punto di partenza nella nozione più evidente e più primitiva, quella dell'essere; e sembra difatto, che non si possa accusarlo di partire da una ipotesi arbitraria. Hegel stabilisce a primo termine del suo sillogismo l'essere, passa fatalmente al non-essere il quale concepito nel medesimo tempo che l'essere, ne è l'antitesi naturale. Poi nega l'antitesi, dicendo: il non-essere non esiste. Ora, se il non-essere non esiste, che ne risulta? ne risulta l'essere il primo termine, ma l'essere modificato, dice Hegel, dalla negazione del non-essere, e quindi l'essere non assoluto, non vuoto, che fu distrutto dal non-essere, ma l'essere che diventa, il diventare. Il diventare, alla sua volta ci conduce all'antitesi; è la qualità che, negata dalla diversità, riproduce il diventare modificato, e trasformato in un nuovo termine, l'essere limitato. Così, partendo dall'essere con una serie di trinità che si concatenano, Hegel spiega la natura, l'uomo, la storia, Dio; per lui l'universo non ha secreto alcuno; egli sa perchè la terra gira intorno al sole, perchè gli esseri organizzati si succedono gli uni agli altri nella storia del globo. Nulla sfugge al suo sillogismo hegeliano.
I due inconvenienti della filosofia della contraddizione si manifestano patentemente nell'hegelianismo. Il suo punto di partenza è arbitrario, il suo sviluppo non è uno sviluppo.
Il sillogismo hegeliano stabilisce una tesi, e passa ad una tesi opposta e fin qui la logica non è punto oltrepassata, essa trionfa; Hegel ne accetta la critica, e mostra che tutto è contraddittorio, che le nozioni si presentano per dilemmi, e che ogni cosa trovasi avvolta ne' contrari. Qual'è il momento in cui il sillogismo di Hegel oltrepassa la logica e crea una filosofia della contraddizione? è il momento del terzo termine, quando negasi l'antitesi per ristabilire la tesi modificata. Ma negando l'antitesi devesi ritornare alla tesi pura e semplice, e per conseguenza al primo termine del sillogismo, senza che un nuovo essere possa sorgere dal conflitto della tesi e dell'antitesi. Stabilite voi l'essere? Sia; l'essere è dato; l'antitesi del non-essere si presenta immediata, la contraddizione sorge figlia della natura. Hegel la prova colla forza della logica, e in ciò egli resta sotto l'impero della maniera abituale di ragionare. Hegel non vi si sottrae se non negando il non-essere. Ora, quando la filosofia di Elea ha negato il non-essere, fu dichiarato esservi un solo ente, il tutto formare una sola cosa; il primo termine del sillogismo hegeliano ha dovuto restar solo. Hegel, deducendo dalla negazione del non-essere il diventare, aggiunge artificialmente un nuovo termine a due termini che non lo contengono. Il diventare non è l'essere, nè il non-essere, nè la loro sintesi; le nozioni logiche dell'essere e del non-essere si limitano ad accusarlo di contraddizione. Nel tempo stesso il diventare si distingue talmente da questa contraddizione, che ne rimane separato per sempre, com'è separato dalle qualità, dal limite, dal tempo, dallo spazio e da tutti gli altri fenomeni. Il sillogismo hegeliano mette in evidenza una contraddizione, e quando vuole oltrepassarla negando la negazione, si riduce ad un movimento artificiale, a una astuta disposizione di termini, in cui il terzo termine sembra generato, e in cui la generazione è interamente arbitraria.
Un hegeliano dirà: «Non sono io, è la natura che inventa l'artifizio e che oltrepassa la contraddizione. Potete voi negarmi il fatto del diventare? potete voi negarmi la contraddizione del diventare? I termini di questa contraddizione non sono essi l'essere e il non-essere? il non-essere non contiene egli la sua propria negazione? Confessate dunque che il diventare è la sintesi dell'essere e del non-essere; riconoscete il fatto della natura, che si sviluppa oltrepassando la contraddizione.» Io accordo l'artifizio della natura, e nego l'artifizio hegeliano. La natura si manifesta coi fenomeni; ogni fenomeno sotto l'impero della critica è in contraddizione con sè stesso e cogli altri fenomeni. Quando ho scoperto: 1° il fenomeno, 2° le sue contraddizioni, tutto è scoperto, e le contraddizioni, conducono a dilemmi, in cui il sì e il no restano eternamente immutabili. Ecco l'artifizio della natura. Quello di Hegel consiste nel combinare, nel concatenare le contraddizioni; crea un processo fantastico per forzarle a spiegare i fenomeni creandoli. Qui tutto è inventato, tutto fittizio. Io non so se fra le contraddizioni che si svolgono intorno al diventare debba scegliere quella dell'essere e del non-essere, piuttosto che quella del limite e della qualità, o della qualità e della sostanza, o dell'uno e del multiplo; tutte contraddizioni egualmente distinte e separate dal diventare. Io non so se l'essere e il non-essere si combinano realmente nel diventare, se lo creano per un miracolo, o se, al contrario, è il diventare che crea questo miracolo dell'essere e del non-essere nel mio intelletto. D'altra parte, io so che, negando il non-essere, resta solo l'essere, come negando l'essere resta solo il non essere. La contraddizione dialettica trovasi nell'essere, che rende impossibile il non-essere, il diventare e tutti i fenomeni: la contraddizione trovasi nel non-essere, che rende impossibile il diventare e tutta la natura: la contraddizione trovasi nel diventare, che mente all'essere, al non-essere, come alla sostanza, alla qualità, al limite, a tutto. Il sillogismo hegeliano non concatena mai le contraddizioni, non contiene mai la ragione che suggerisce la scelta de' suoi termini; la sua negazione della negazione deve farlo retrocedere all'affermazione primitiva. Quando Hegel dice che la sintesi è l'affermazione prima modificata, dice, in sostanza, ch'essa è la stessa senz'essere la stessa, che le rassomiglia e che ne differisce; l'incertezza di questo ritorno equivoco, lungi dall'oltrepassare la contraddizione, la conferma, benchè apra l'adito a mille analogie artificiali ed arbitrarie. Se credete alla logica, la prima metà del sillogismo hegeliano è vera, l'essere si concepisce col non-essere, che lo distrugge; e accettata la logica, essa vi condanna a rifiutare come spuria e fantastica la seconda metà del sillogismo, dove il primo termine è lo stesso e non è lo stesso; e dove la contraddizione che annienta due contrari, crea per un miracolo d'inconseguenza, una nuova affermazione. Se non credete alla logica, potete accettare la seconda metà del sillogismo hegeliano, ammettere clic la sua conclusione è il primo termine identico e non identico; vi è permesso di dire che l'annientamento reciproco di due contrari crea un nuovo fenomeno: sciolto da ogni dovere verso la logica, siete assolutamente libero; ma in tal caso la prima metà del sillogismo è stravagante e insensata, per ciò stesso che trovasi rigorosamente dettata dalla logica, che ne esprime il più rigoroso risultato.
Si dirà ancora: «La natura cambia; non potete impugnare che il cambiamento si attua negando uno stato anteriore, e che una serie di cambiamenti si traduce in una serie di negazioni, le quali si negano successivamente fra loro. Ma che fate voi quando negate una negazione? Ristabilite l'affermazione primitiva, il fatto primordiale, che troverete modificato perchè la natura cambia. Dunque la natura cambia, essa stabilisce un primo termine; cambia ancora; seguitela, la vedrete negare il secondo termine; accade un terzo cambiamento; seguite sempre la natura, essa ha negato la negazione anteriore; dunque dovete cercare e scoprire nel terzo cambiamento le traccie dell'affermazione primitiva. Questo è il movimento della natura, questo è il processo del sillogismo hegeliano.» La distanza è grande tra la negazione dialettica e la negazione positiva. La prima è una contraddizione pura e semplice; il sì e il no si stabiliscono e restano eternamente, quindi la negazione dialettica è sterile, è il non-essere che si oppone all'essere, il finito che si oppone all'infinito, la libertà che si oppone alla fatalità. Negando la negazione dialettica, si ristabilisce l'affermazione; negando il non-essere, si ristabilisce l'essere; sopprimendo il finito, resta l'infinito; togliendo il non-uomo ritorna l'uomo. Nulla di più naturale; soppresso l'uno de' termini di un dilemma, l'altro trionfa. Al contrario, la negazione positiva stabilisce una cosa nuova; non è più una mera negazione, nega una cosa sostituendole un'altra. La negazione positiva oppone al feto il neonato, al neonato il fanciullo, al fanciullo l'adolescente, all'uomo il cadavere, al cadavere la cenere del sepolcro. Qui la negazione della negazione non ritorna mai al punto di partenza. Direte che la cenere d'un sepolcro è l'uomo ristabilito e modificato? direte che l'uomo è il feto ristabilito e modificato? Sarebbe far giuoco di parole, e dare in vuoti sofismi. Dunque il sillogismo hegeliano si sviluppa in aria, e la natura si sviluppa coi fatti; il sillogismo hegeliano è metafisico, e la natura è fisica: il sillogismo hegeliano opera sul vuoto, sulla negazione delle antitesi; la natura opera sulle realtà, emettendo tesi sempre nuove, voglio dire creando esseri sempre nuovi.
Il sillogismo hegeliano ha il solo merito di svelare la contraddizione dialettica. In sentenza dialettica, la contraddizione incede a testa alta nella natura: Hegel ed egli disdegna, degrada la logica, la condanna a strisciare per terra dal simile al simile. Tratta dal sillogismo della natura, la logica è ridotta a scorrere sul piano inclinato di ogni tesi; arrestata dall'urto dell'antitesi, deve scorrer di nuovo sul nuovo termine. Il sillogismo della natura la sospinge sulle sue linee traversali; essa perviene, senza saperlo, attraverso al sì e al no, a sintesi inaspettate, emergenti da contraddizioni incessanti. L'artifizio del sillogismo hegeliano finisce adunque per disconoscere il diritto della logica e l'universalità della critica. La logica non si lascia degradare dal sillogismo hegeliano; tocca ad essa il dominarlo, il degradarlo: nel sillogismo hegeliano vi è un primo, un secondo e un terzo termine; nella logica non havvi ne primo, nè ultimo; tutti I termini sono eguali: nel sillogismo hegeliano havvi una affermazione ed una negazione, una tesi ed un'antitesi; dinanzi alla logica non havvi negazione nè affermazione, nè tesi nè antitesi, perchè a vicenda la negazione ha diritto di figurare come affermazione, l'antitesi come tesi. Nel sillogismo hegeliano vi ha processus, progresso e creazione; e la logica gli oppone il regresso, la decadenza e l'annientamento: dinanzi ad essa nessun principio, nessun progresso, nessun metodo. Hegel ha disconosciuta la logica, e la logica intervertirà l'hegelianismo.
Nel fatto l'hegelianismo è arbitrario nel punto di partenza. Il sillogismo hegelianodeve cominciare da una tesi: dove la prenderà? quale principio sceglierà? Le tenebre o la luce, il freddo o il caldo? Hegel sceglie l'essere. Perchè incominciare dall'antitesi dell'essere e del non-essere, invece di scegliere quella del bene e del male? L'essere, si dirà, è la nozione più semplice: rispondo, ch'essa è altresì la nozione più vuota. Voi supponete che la natura passi dal meno al più, dall'imperfetto al perfetto, dalla potenza all'atto, dall'uovo alla gallina: mi è permesso di pensare che la natura passi dalla gallina all'uovo, dall'atto alla potenza, dal perfetto all'imperfetto, dal più al meno. In questo caso il punto di partenza sarebbe l'essere il più perfetto, una natura edenica, da cui il mondo attuale deriverebbe per una degenerazione successiva che potrebbe continuare all'infinito, e riuscire con la perdita delle sue qualità alla semplice esistenza, al solo essere, ad una mera possibilità. Non opponetemi i progressi del globo, la testimonianza della geologia, e quella della storia naturale, la serie degli animali che s'innalzano di grado in grado per riuscire all'uomo. Non mi si opponga il progresso della storia umana, che passa dallo stato selvaggio ad un incivilimento senza limite assegnabile. La questione non è questa; non si tratta di alcuni fatti oscuri, equivoci, confinati in un angolo dell'universo, nel nostro misero pianeta; la questione hegeliana è metafisica, incomincia prima dell'origine del globo, prima della materia, nel seno dell'eternità; non finisce colla terra, e oltrepassa ogni previsione possibile. Noi siamo in presenza dell'immensità, dell'ignoto; il regresso è possibile come il progresso. Se la terra non è antica potrà invecchiare, deve raffreddarsi; la fisica può predire il giorno in cui sarà rappresa del gelo della morte; si può supporre che gli astri si spegneranno, si deve supporlo. Perchè dunque scegliere il punto di partenza nell'essere eguale al nulla, piuttosto che in una natura perfetta? perchè supporci figli d'un progresso continuo, mentre forse siamo figli d'una degenerazione, d'una decadenza progressiva che condurrà la natura all'essere indeterminato eguale al nulla? Gli antichi partivano dal perfetto per giungere all'imperfetto: interprete di un sentimento moderno, Hegel parte dall'imperfetto per arrivare al perfetto; gli antichi sacrificavano l'uomo alla natura, i moderni sacrificano la natura all'uomo; il dogma del progresso si è sostituito al dogma della caduta; il nostro dogma è più utile, più morale, più umano. Ma l'interesse dell'uomo è egli l'interesse della natura? Ecco la questione.
Arbitrario nel punto di partenza, l'hegelianismo deve esserlo nel suo sviluppo. Ad ogni istante Hegel deve creare un terzo termine, che rappresenti la trasfigurazione della tesi negata dalla sua antitesi; mai non prosegue il suo lavoro, ma lo ricomincia incessantemente. Tutto il sistema consiste in una grande trinità, in un immenso sillogismo: nel primo termine vien posto l'essere metafisico; nel secondo, l'essere opponendosi a sè stesso, cioè la materia e tutte le sue leggi; finalmente, la negazione della negazione conduce all'uomo, in cui l'essere (o Dio) finisce per acquistare la coscienza di sè stesso. I progressi di questa coscienza sono quelli della storia, che s'incorona collo stesso hegelianismo, il quale dà all'uomo la coscienza d'esser Dio. Il sublime e l'avventato s'intramettono così nella conclusione: il sublime è la religione dell'umanità, l'avventato è la deificazione dell'uomo: forse v'ha alcun che di vero, e certo un grand'atto di fede; ma questo vero è l'ignoto, la fede si perde nel nulla. Tutto il sistema forma adunque un unico sillogismo, che si prova colla sintesi dei contrari, e in cui la conclusione è ignota: qual'è adunque il risultato dello hegelianismo? la sintesi dei contrari, cioè la contraddizione universale, e la conclusione nell'ignoto, cioè l'assenza del vero.
Niun filosofo, tra i moderni, ha eguagliato il genio di Hegel; niuno è stato di lui più ardito, più preciso, più infaticabile nella invenzione metafisica: siamo presi d'ammirazione nel considerare questo uomo, che, senza ristarsi mai, si apre la via a traverso l'impossibile; egli è sempre solo, ed esce sempre grande da una lotta disperata; egli è sempre vittorioso tanto da renderci attoniti. Pure la forza dell'hegelianismo sta tutta non nella metafisica, ma nell'interpretazione della storia. Quando Hegel cerca il sillogismo del moto della terra o l'antitesi che crea i minerali, il suo procedere è sofistico, e qualche volta puerile; ma quando spiega Socrate, il Cristo, la riforma di Lutero, la rivoluzione di Francia, allora sale a grandezza sublime. Ma d'onde questa grandezza? Non dal sillogismo hegeliano, non dall'arte di oltrepassare le contraddizioni dialettiche, ma dalle contraddizioni positive. Per esse la natura si sviluppa, il pensiero si estende, il vero trionfa del falso; per esse non havvi sintesi, non ritorno a una tesi precedentemente negata; havvi solo la cieca necessità, la quale sacrifica il debole al forte; e poco importa che ciò venga dalla forza della pietra, della spada, o del pensiero trionfante per mezzo degli uomini o dei popoli.
Su questo campo Hegel non è più metafisico, è fisico, storico; segue l'evidenza; il suo sillogismo, lungi dal soccorrerlo, lo imbarazza, lo svia, è la fonte prima di tutti i suoi errori nella filosofia della storia. Gli fa separare i momenti del pensiero secondo il caso dei continenti, delle guerre, delle razze, dei fortuiti eventi, gli fa sostituire cavillosi concetti alle transizioni che gli mancano. La logica opprime il titano che la vuoi vinta.
Se adunque una filosofia, stando alla logica, è cosa impossibile, la filosofia, in onta alla logica, è impresa insensata; il pensiero non potrà mai svincolarsi dalla contraddizione che scaturisce sotto il peso della ragione.

PARTE SECONDA

DELLA RIVELAZIONE NATURALE




Ci è impossibile il lottare contro il dubbio universale; non potremo mai vincerlo, nè dimenticarlo; non ci rimane che ad evitarlo, a fuggirlo, riparandoci sul campo stesso ove la natura ci chiama. Noi viviamo sicuri in mezzo ad un caos di contraddizioni; prima di imprendere il lavoro della critica eravamo certi della nostra esistenza e di quella delle cose; la critica si è sforzata di svellere dalla nostra mente, l'una dopo l'altra, tutte le nostre credenze. Le ha essa distrutte? cessiamo noi di cercare il bene e di fuggire il male? dubitiamo noi realmente di noi medesimi, della famiglia o dello stato? La critica ha distrutto ogni cosa, e nondimeno ogni cosa alla critica sopravive. Tutte le apparenze che la critica dichiarava impossibili, sussistono; la guerra universale di tutte le cose e di tutti i pensieri è stata inoffensiva; nessun oggetto è sparito, nessun fenomeno svanito. Havvi dunque una via di salvezza, e ci è indicata dalla critica stessa. Perchè ci sospinge essa alla contraddizione? perchè abbiam dato lo scettro dell'universo alla logica: l'identità, l'equazione, la deduzione non si trovano in nessuno luogo, e ne risulta che l'intera natura si sviluppa per l'assurdo. Vogliamo noi porre in disparte la logica? Tentiamo noi di accettare i fenomeni naturali a dispetto dell'identità, dell'equazione e del sillogismo? allora sì che l'universo è possibile; ma nel tempo stesso tutto è possibile: tale è l'assioma della natura francata dal giogo della logica. Questo assioma appartiene egli di fatto alla natura? No, la natura vi è straniera, non è una semplice possibilità: l'assioma che tutto è possibile non è ancora che l'assioma della logica: se per una finzione della mente si abolisce la logica, essa dichiara che tutto è possibile, perfin l'impossibile, e noi ci troviamo di nuovo nel dubbio. Regina della natura, la logica nega ogni cosa, ogni pensiero, non potendo soffrire le contraddizioni che fa sorgere; rivale della natura, ci confonde di nuovo, sfidandoci a proclamare la contraddizione universale se l'osiamo.
Non possiamo tollerare la logica, o comandi o gareggi colla natura: sottomettiamola alla natura, onde serva d'istrumento ai fenomeni; i dubbi, le contraddizioni svaniranno, l'assurdo si troverà confinato in una sfera esteriore a quella della nostra azione. Questo partito non è arbitrario; ci è suggerito dall'indole stessa della logica. L'esperienza c'insegna che la logica, non era predestinata a comandare; essa non precede i fenomeni, ma li seguita: l'identità non è che l'identità di una data cosa; l'equazione svela il rapporto tra due termini presupposti; il sillogismo è sempre in balia delle sue premesse, che lo spingono verso la conclusione: la nostra mente, la nostra vita, tutto comprova che, subordinate all'impero dei fatti, la logica coordina i nostri pensieri e determina le nostre cognizioni. Il disordine della contraddizione non si è mostrato che nel giorno in cui la filosofia ha loro chiesto l'origine dei fenomeni; in questo giorno fu commesso un errore; ne sarà eterna la pena. L'affermazione e la negazione, che furono attinte nel seno delle cose e accozzate insieme dalla dialettica, resteranno sempre sospese sovr'ogni cosa, sovr'ogni pensiero. Per riprendere quello che ci resta, voglio dire il fenomeno materialmente indistruttibile, e per mantenere la proprietà di quell'evidenza che ci illumina, bisogna che la logica sia soggiogata.
È antica l'idea che la logica deve servire ad una rivelazione, che un'autorità divina deve signoreggiare il sillogismo; quest'idea si trova nel fondo di tutte le religioni; il genere umano ha sempre compreso che il mistero era alle origini, che le origini ci sfuggono, e devono restare nel seno dell'eterno. Quindi si obbediva ai rivelatori, si accettavano i profeti; e un libro sacro, un'impossibilità logica, un assurdo era il primo principio alla scienza e all'azione. Il tempo dei miti è passato; noi non crediamo a nessun libro sacro, a nessun profeta o rivelatore. Noi dobbiamo credere alla rivelazione della natura; essa non è scelta a capriccio, viene a noi, ci inviluppa, ci invade e ci trascina nella sua corrente; nè la volontà, nè la ragione possono resisterle? Adunque la rivelazione naturale s'impadronisca dell'istrumento della logica, e domini per sempre le tre forme della certezza. Non ci sarà mai dato di riconquistare l'innocenza primitiva; il dubbio resterà invitto nella nostra mente; pure non potrà toccare se non la regione trascendente, ove si formano i mondi; sulla terra non potrà falsificare la forza delle cose, nè alterare quella della giustizia.
Triplice è la rivelazione naturale, essa si manifesta in primo luogo negli oggetti, poi nella vita, e da ultimo nell'ispirazione morale: noi seguiremo passo passo le tre forme della rivelazione.



SEZIONE PRIMA

LA RIVELAZIONE DEGLI ESSERI



Capitolo I

NELLA RIVELAZIONE L'ESSERE E IL PARERE
SONO IDENTICI

La rivelazione è tutta nelle apparenze, che sono tutte indistruttibili, che la critica combatte senza annientareTutte le apparenze sono egualmente forti: le immagini de' sogni sono incontestabili quanto lo spettacolo della natura. Dunque ogni apparenza è una realtà.
A torto si dice che l'apparenza c'inganna; non può ingannarci: l'errore nasce precisamente quando vogliamo oltrepassarla colle induzioni, colle congetture, colle ipotesi. Io m'illudo sulla grandezza del sole, l'errore sorge perchè non mi fermo alla sua grandezza visibile, perchè gli suppongo una grandezza tangibile, paragonata a quella svelatami dall'occhio, una materia solida corrispondente alla visione. Quanto appare è vero, quanto suppongo è falso.
In qual modo rettifichiamo noi gli errori? coll'osservazione, col moltiplicare gli esperimenti, coll'aderire ai fatti; è adunque l'intuizione, è l'apparenza che c'instruiscono. Non contesto la possibilità dell'errore; no, certo; contesto la possibilità di separare l'apparenza dalla realtà. L'errore non cade se non sull'ordinamento delle apparenze, non si sviluppa se non col lavoro dell'intelletto, che pretende oltrepassare il fenomeno. Non alteriamo le apparenze, prendiamole quali si presentano all'intuizione, saranno tutte infallibili; l'essere e il parere si troveranno identici.
Chiedere se le apparenze sono la realtà, se sono ciò che appariscono, se possono ingannarci, torna lo stesso che il chiedere se gli oggetti sono oggetti, se lo spazio è lo spazio, se il tempo è il tempo. Con tale indagine noi trasportiamo ai fenomeni una distinzione che non è legittima, se non quando noi compariamo le nostre ipotesi e le nostre congetture coi fenomeni stessi. Possiamo paragonare le nostre supposizioni cogli oggetti ai quali si riferiscono; possiamo verificare l'idea che ci formiamo di una nave, guardando la nave: ma a che paragoneremo noi l'apparenza stessa? la nave che si guarda? Col pretendere di verificar l'apparenza si finisce a considerarla come il segno, come l'indizio di una cosa sconosciuta: si pone così un problema artificiale; per iscioglierlo si interroga la logica, e la logica risponde cercando l'identità, l'equazione, il sillogismo tra il noto e un ignoto imaginario. Quindi le assurdità metafisiche, le apparenze che non appariscono, e da ultimo le contraddizioni eterne.
Se non si deve distinguere l'apparenza dalla realtà, la ragione vuole che non si abbia a cercare onde vengono le apparenze. I fenomeni appaiono, dunque sono. Così i problemi sull'origine del mondo, sulla nostra propria origine, ci conducono a cercare i fenomeno al di là dei fenomeni, e per conseguenza ci conducono a supporre un fenomeno ignoto, imaginario, che si suppone al di sotto di ciò che appare. In questa ricerca noi siamo vittime della dialettica, perchè non abbiamo verun dato, verun punto d'appoggio. Donde viene il mondo? bisognerà dedurlo da ciò che non è il mondo, da Dio o dal caos o dal nulla e in ogni modo generarlo assurdamente. Or bene, dite che il mondo viene da sè; appare, dunque è: la ragione non ha nulla a cercare, nulla ad apprendere al di là dell'apparenza.
I fenomeni bastano a sè stessi, si provano da sè, in essi tutto è vero. Si cessi adunque dal cercare un criterio della verità. Che sarebbe esso? sarebbe un principio, un'idea, un fatto, una regola unica, che dovrebbe dominare tutte le cose e tutti i pensieri. Tale dominio supporrebbe la possibilità di trovare qualche cosa d'identico in tutti i fenomeni, di passare logicamente dagli uni agli altri, e ogni criterio finirebbe a condurci sotto l'impero della logica, nel regno della contraddizione. No, non havvi criterio; ogni apparenza serve sè stessa di criterio: la sensazione giudica le sensazioni, la vista giudica la visione, la ragione giudica la ragione, le verità non si verificano e son tutte irreducibili.
Ogni apparenza annunzia da sè la parte che sostiene in mezzo alle altre apparenze: un fenomeno è qualità, l'altro è sostanza; la luce illumina, i corpi sono illuminati: perchè? non lo sappiamo, conosciamo solo il fatto, e dobbiamo fermarci nel fatto. La qualità s'annunzia come qualità, la sostanza fa le funzioni di sostanza, la causa si dice condizione dell'effetto, lo spazio si dichiara condizione del corpo, il tempo, del moto; ciò pare, ciò è.



Capitolo II

DEL METODO

Le regole del metodo devono ridursi tutte al precetto di accettare le apparenze, di non parlare nè del possibile, nè dell'impossibile quando siamo in presenza de' fatti. Da che si oltrepassa una sola apparenza, l'azione della logica si sviluppa, guadagna, e sovverte uno a uno tutti i fenomeni; la contraddizione si fa universale.
Accettiamo adunque il fato delle apparenze, restiam servi del fenomeno; è assurdo, pure dobbiam ripetere con Tertulliano: credo quia absurdum.
L'idea di fermarsi al fatto, di non chiedere la dimostrazione del vero, di non cercare di risalire al di là delle verità primitive non è in alcun modo idea nuova. È antica quanto la filosofia: Aristotele la raccomanda; Bacone non cessa di predicare l'osservazione; Reid non si stanca di accusare i filosofi che pretendono di spiegare i fatti primitivi della ragione e del senso comune. Pure il nostro metodo non è il metodo di Aristotele, nè quello di Bacone, nemmeno quello di Reid; se questi filosofi annunciavano un principio vero, pure non sapevano, non potevano farlo valere.
Per soffermarsi al fenomeno bisogna conoscere il momento in cui si sta per oltrepassarlo, il momento in cui la logica ci trascina nel suo vortice; in altri termini, bisogna conoscere la critica e sapere che il fenomeno è assurdo nella sua essenza, nella sua origine, nelle sue trasformazioni, nelle sue combinazioni. Chi ignora la critica, incomincia a dare dimostrazioni legittime, fisiche; l'equazione e la deduzione scoprono in qualche modo la contraddizione: allora il filosofo resta sorpreso e sconcertato.
Che importa il predicare l'osservazione quando si ignorano tutte le insidie che l'attendono? Non havvi filosofo che non voglia fondarsi su alcuni fatti presi in un punto qualsiasi della rivelazione, e da lui dichiarati non doversi dimostrare. Ma quando la critica è ignorata, i fatti che il filosofo adotta trovansi, per così dire, sfidati a dare l'equazione dell'universo, sono fatti primi, universali, e ne risulta che devono spiegare o contraffare ogni cosa e ogni pensiero. Così Aristotele non vuole dimostrare nè la materia, nè il moto, nè l'essenza, nè il fine: e nondimeno, assumendo questi fatti come primitivi, li trasforma in principj primi d'ogni essere; deve derivarne la costituzione delle cose; dunque cerca in essi e per essi l'equazione di tutti i fatti; dunque lascia il terreno dei fatti nel tempo stesso in cui si propone di rimanervi; dunque i suoi quattro principj devono essere eguali al tempo, allo spazio, all'alterazione, alla vita, alla morte, ec.; dunque ogni essere deve scomporsi e ricomporsi in modo da obbedire alla matematica dei quattro principj. Che più? i quattro principj di Aristotele subiscono nella mente stessa di Aristotele la reazione dell'universo previamente alterato, per ricevere la spiegazione. I quattro principj non sono più apparenze, sono fenomeni mezzo imaginati, mezzo falsati. La materia di Aristotele non è la materia de' fisici, la sua essenza è un'ipotesi, il suo scopo, Dio, è un'altra ipotesi; il moto stesso, che pur dovrebbe restare nel regno delle apparenze, nel sistema di Aristotele si scompone, e per obbedire alla teoria dell'atto e della potenza diventa l'atto del possibile in quanto è possibile. L'oscura definizione rende il moto eguale all'atto e al possibile combinati insieme, e l'evidenza del modo per tal modo scompare, benchè Aristotele si fondi sull'osservazione
Anche Bacone vuoi osservare i fatti, vuol essere positivo, e le sue opere sono la prefazione di quella filosofia che ai nostri tempi si potrebbe dire positiva. Ma ad essere osservatore e positivo non basta volerlo. Bacone non conosce la critica, non la sospetta nemmeno; e ciò vale a dire, che non sa fermarsi nei fatti. nè. Il suo metodo è interamente fisico, non è dunque abbastanza positivo, non esplora quei fatti che Bacone chiama sottili come le tele del ragno; non esplora nè i generi, nè il pensiero, nè la vita. Il suo metodo pretende dare a tutti l'arte di inventare, di fare scoperte; in altri termini, pretende di rendere quasi inutile il genio stesso. Bacone non è dunque osservatore, non ha osservato nè il genere, nè l'istinto, nè il pensiero; e la conseguenza sarà che i discepoli di Bacone cercheranno l'equazione della vita, della morale e del pensiero prendendo il loro punto di partenza nei fatti esteriori e fisici. Invece di osservare, saranno i falsari dei fatti più importanti.
Finalmente ho citato Reid, il filosofo dei collegi, il patriarca dei luoghi comuni, l'uomo caro agli accademici; Reid ha il merito di aver proclamate alcune comunissime verità; volle seguitare l'osservazione, e spinse la mania dell'osservare fino a ridursi ad un sistema di minuti particolari tecnici, rinserrandosi nella sfera della psicologia. Possiamo noi considerare come un filosofo osservatore Reid, che non sospettò mai la critica, e che propose il senso comune puro e semplice come l'ultimo limite della scienza? No; Reid non è stato più che un onest'uomo, una specie di Petrarca filosofico, un professore eminentemente classico amico dell'equivoco e della confusione. Per difetto di critica, fu spinto verso le equazioni metafisiche; per difetto di critica, volle procurarsi un fatto primitivo, al quale dovessero ridursi tutti gli altri; scelse la percezione come il il termine primo del suo sistema, ne volle dedurre il pensiero, la morale, il bene, il male; schivò con inaudita prudenza mille scogli; rifiutò come lavori spurj della mente tutti i grandi sistemi tormentati dalla critica; poi, spinto esso stesso dalla critica che ignorava, ci diede un deismo vago, senza carattere, senza forza, e certamente fuori della percezione, che Reid proclamava come suo principio. Era pensiero di Reid di mettere tutti d'accordo e di fondare la filosofia del senso comune, ed il suo senso comune non è un fatto esatto, non è un fatto determinato, è un fenomeno immenso, complesso, inconsistente; contiene in germe il vero ed il falso, lascia passare tutte le religioni, non ne rettifica alcuna, e riceve la mentita più solenne dall'eucarestia, dalla trinità, dal cristianesimo e dal Buddismo che il genere umano accetta ad onta degli assiomi del dottor Reid e senza che il dottor Reid vi ponga mente. Tolta la critica l'osservazione non basta.



Capitolo III

LA LOGICA SOGGIOGATA DALLA RIVELAZIONE

Al suo apparire la rivelazione soggioga la logica. Scegliamo esempio: un albero appare; è una rivelazione primitiva e inesplicabile che, manifestandosi, s'impadronisce delle forme logiche. L'albero costringe l'identità a provare la sua esistenza, si vale dell'identità per distinguersi da tutte le altre cose, ed a riclamare tutte le conseguenze inerenti alla sua individualità. Ne risulta che l'albero è identico con sè stesso; che lo spazio da lui occupato non sarà occupato da altri corpi; che le sue qualità sono sue, distinte da quelle degli altri oggetti, e che non sarà possibile di affermarle e negarle nel tempo stesso. Poi l'albero s'impadronisce della seconda forma della logica. Ha una figura, una estensione; si può contare il numero de' suoi rami, delle sue foglie; esso adunque ci offre numeri e figure; dunque si potrà paragonare matematicamente con altri alberi, con altre cose egualmente suscettive di essere numerate e misurate. Quindi tutte le equazioni possibili tra le proprietà geometriche e numeriche di quest'albero, e le stesse proprietà degli altri oggetti. Finalmente l'albero è una sintesi di più qualità, per conseguenza ci presenta più termini; è verde, pesante, flessibile, ecc., e questi son termini di proposizioni naturali che possono diventare elementi del sillogismo. È così che un oggetto qualunque s'impadronisce della logica; è così che la logica, soggiogata dalla rivelazione sensibile, genera tutte le cognizioni sensibili. Da sè la logica non conta, non agisce, non ha verun officio, e non è se non sovvertitrice; considerata come l'irradiazione delle cose sensibili, come l'istrumento della natura, esprime la fatalità dell'esperienza, e impone alle cose di essere ciò che sono.
Stando alla logica, nulla può cominciare, nulla può finire; ogni oggetto deve essere eterno. Le cose sono esse eternamente ciò che sono? Non interroghiamo la logica, ma sibbene l'apparenza; sono le cose stesse che devono dominare la logica. Le cose mutano, s'alterano; l'alterazione discende, lo concedo, dalle regioni dell'impossibile; ma appare, dunque è; e devesi considerare come un fenomeno, cioè come una cosa. Qui il nascere, il perire il moversi, ogni metamorfosi fa le funzioni di un atto unico, che dev'essere preso nella sua totalità. A questa condizione l'alterazione si impadronisce della logica, e signoreggia le tre forme dell'equazione, dell'identità e del sillogismo. Manifestandosi qual fatto, l'alterazione si distingue per l'identità da tutti gli altri fatti, è ciò che è; l'uomo che muore non risana; la terra che gira non è immobile; e così l'istessa identità difende il fatto dall'alterazione. Sarà esso eterno? ogni cambiamento sarà sempre per durare? stiamo di continuo all'apparenza, alla rivelazione; essa pone il fatto dell'alterazione; ci dice quando il fatto comincia, ci dirà quando finisce; ci insegnerà quando il mobile si ferma, quando la vita cessa, quando l'uomo perviene all'età della ragione. Vogliam noi oltrepassare l'apparenza, esser più forti dell'intuizione? cerchiamo noi l'ora, il minuto in cui l'adolescente diventa uomo? Mancando l'apparenza percettibile, ci sarà forza interrogare la logica astratta; dovremo cercare di discernere l'apparizione della ragione in un momento indiscernibile, e in questo momento noi troveremo che l'uomo ha e non ha la ragione, e diremo che l'ultimo minuto dell'adolescenza avrà dato la ragione all'adolescente. Così cadremo nel sofisma del cumulo. Aderiamo dunque all'apparenza, questa ci dà l'alterazione, la fa essere; e quest'essere ha il diritto di dominare l'identità, reclamando tutte le conseguenze dell'esistenza. Anche l'equazione è dominata dal fatto dell'alterazione; il cambiare, il muoversi sono soggetti a una misura, a una direzione; ci offrono diverse quantità, possono tradursi in figure; quindi cadono sotto la legge della figura, quindi si impadroniscono dell'equazione. Da ultimo, l'alterazione ha le sue qualità; il moversi, il vivere, il morire ci danno più termini analoghi alle qualità, ai termini dell'albero, del sasso, dell'animale; e l'alterazione può entrare co' suoi termini nel sillogismo, e dominarlo.
L'apparenza ci rivela i rapporti fra le cose nel modo stesso con cui ci rivela l'esistenza e l'alterazione dei fenomeni. Le cose influiscono le une sulle altre, si mescono, si confondono, si separano; e questo è un fatto nel tempo stesso incontestabile e inesplicabile. Quando lo si vuol spiegare, si oltrepassa l'apparenza, si resta senza dati, cade in balia della logica, e, lungi dallo spiegare il rapporto, si ricade a negarlo. Secondo la logica, nessun oggetto può uscire di sè, quindi nessuna cosa può influire su altre cose, quindi il rapporto riesce logicamente impossibile.
Scuotiamo il giogo anticipato della logica, aderiamo all'apparenza: i rapporti fra le cose discendono dalle regioni dell'impossibile, ma non sono da noi inventati, ci sono imposti; e la loro evidenza si manifesta nelle affinità chimiche, nelle influenze vitali, nell'urto, nelle attrazioni della natura. Dunque i rapporti sono, la logica deve obbedire: e il rapporto s'impadronisce della triplice forma dell'identità, dell'equazione e del sillogismo. I rapporti esistono, e per l'identità si distinguono tra loro: si distinguono da tutti gli altri fenomeni, e reclamano le conseguenze logiche della loro esistenza. Così l'attrazione è ciò che è, non potrebbe essere e non essere nel tempo stesso; non è l'affinità chimica, non l'attrazione vitale dell'amore. Ogni influenza esercitata da un oggetto è una forza. Che s'intende per forza? la potenza di muovere, di spostare, di trasformare; ora, il moto cade sotto il calcolo; tra le forze havvi eguaglianza e ineguaglianza, e pertanto i rapporti dominano l'equazione. Infine, i rapporti sono proprietà, sono termini; sono dunque elementi che hanno diritto di mostrarsi nel sillogismo, per guidarci verso nuove conclusioni.
Egli è dunque evidente che l'apparenza è nell'essere, nell'alterarsi, nell'influire; costituisce il nostro solo ed unico a priori, sul quale si fondano tutte le scienze; la natura pone la base, la logica dà l'edificio; noi non abbiamo in nostro arbitrio nè la base, nè la costruzione.



Capitolo IV

LA CRITICA NEGATIVA E LA CRITICA POSITIVA

Negando le conseguenze della logica sottoposta alla rivelazione, cadiamo, non più in una contraddizione critica, ma in una contraddizione positiva, che ci rende insensati. Se affermasi che un albero è nel tempo stesso a Parigi ed a Vienna, l'albero, il fenomeno è materialmente distrutto; la contraddizione lo rende positivamente impossibile, l'impossibilità distrugge persino l'apparenza.
Possiamo tollerare la contraddizione critica; essa è insolubile, eterna, senza uscita, senza speranza; pure essa è senza risultato; trovasi nella natura, vi resta, noi l'imputiamo alla fatalità. Al contrario la contraddizione positiva è in noi, l'imputiamo a noi stessi, non è mai nella natura. Nella natura il fenomeno non cambia se non per dar luogo ad altro fenomeno; l'apparenza succede alle apparenze; se il gelo scompare, l'acqua appare; se l'acqua svanisce, diventa vapore; che se il vapore si annullasse, gli succederebbe almeno la nuova apparenza del vuoto. La rivelazione è una cosa o l'altra. Ignorate voi se quel fenomeno è tale o tal altro, se quel punto che appare all'orizzonte è nave o scoglio, accusate voi stessi; sarà nave o scoglio. Che se voi vi trovate a fronte di contraddizioni critiche, l'affermazione e la negazione sono contemporanee, coesistenti negli oggetti, i quali saranno finiti e infiniti, possibili e impossibili. Accusate la natura, siete giustificato.
Accusandoci, la contraddizione positiva diventa intollerabile, ci opprime, ci rende insensati e ci costringe a cercarne la soluzione. Se un monte pare alto, basso bisogna investigare se è alto o basso, le due apparenze non sono contemporanee; esse si succedono; ciò basta a spiegarle. Se nell'osservare gli oggetti la terra pare immobile, se nell'osservare gli astri essa par mobile, vuolsi aderire all'apparenza, la quale non mancherà di mostrare che la contraddizione è in noi, nei nostri giudizi. La natura cambia di continuo; essa s'invola, per così dire, alla contraddizione positiva; ne rende successivi i due termini nella serie delle sue trasformazioni, è sempre nuova nella sua forma. Il nostro tardo intelletto non può seguirla, e indietro si rimane; i due termini successivi della contraddizione positiva diventano contemporanei nella nostra mente; e allora la contraddizione positiva ci accusa di demenza. E così ci condanna a metterci in cerca del vero.
La scienza nasce dalla soluzione delle contraddizioni positive; la falsa scienza nasce dalla soluzione imaginaria delle contraddizioni critiche: le due specie di contraddizioni non possono distinguersi compiutamente se non quando si esamina il modo con cui si formano. La contraddizione critica esce dalla logica, che domina la natura; l'altra esce dalla natura, che domina la logica. Dimenticate questa formola, non saprete più distinguere le due antinomie; gli errori di un chimico, le contraddizioni di un politico avranno il diritto di figurare tra le contraddizioni dell'individuo, del moto e del rapporto: voi cercherete una conciliazione, e nascerà, per natural conseguenza, che il dubbio positivo e il dubbio eterno saran confusi, che i problemi positivi e i problemi insolubili saranno messi insieme, scambiati gli uni cogli altri, e che le ricerche sulla natura si troveranno in balia d'altre ricerche, nelle quali la scoperta è impossibile. La metafisica sorge da questo procedere. Non è nella sua origine altro che una fisica ignorante: immersa in errori di fatto, spera dominarli; non sospettando la logica, intravede nuove oscurità nel fondo de' suoi errori: al di là del dubbio fisico vede un nuovo dubbio, e crede di uscire perfetta dalla lotta se vince ad un tempo i due nemici. Ma l'uno è effimero, l'altro eterno. Trascinata ad oltrepassare l'apparenza, la metafisica prende un termine qualunque, che penetri o sembri penetrare a traverso tutti i dilemmi, veri e falsi, solubili e insolubili: per meglio raggiungere lo scopo, deve porsi prima o dopo, al disopra o al disotto dei fenomeni, mai nel fenomeno stesso. Errante, estravagante, vedesi avviluppata da contraddizioni ognora crescenti; ignorandole eterne, le confonde colle contraddizioni di un giorno, colle contraddizioni positive, figlie de' nostri errori; ed è così che si addentra in un errore senza fine, transportando le nostre speranze nell'impossibile.
Gli antichi e i barbari del medio-evo dovevano la loro ignoranza nelle scienze fisiche alla confusione delle due specie di contraddizioni. Le verità della natura erano velate da fantastici problemi; gli alberi, gli animali dovevano germogliare nelle astrazioni, uscire dal fango delle nozioni scolastiche. La natura involavasi all'uomo che voleva dimostrarla. Il mondo moderno non cominciò di fatto che quando si sentì la necessità di separare la fisica dalla metafisica, separazione che i filosofi moderni non si stancano di consigliare questa separazione. Galileo e Newton seguirono felicemente il consiglio: pure non distinte le due specie d'antinomie, la distinzione tra la fisica e la metafisica non è possibile, non è scientifica, è un tentativo empirico.
Si possono staccare dalla metafisica alcune teorie, alcuni frammenti di scienza; si può dissimulare per prudenza l'intervento temerario della metafisica nel regno dell'esperienza: finchè le due antinomie restano confuse, la critica lasciò una speranza, anzi ci condanna a sperare una soluzione, e conviene che la metafisica s'intruda nella fisica. Lo stesso vero, a contatto col falso, diventa errore. Perchè la fisica possa vivere, la metafisica deve perire; e non si spegne, se non colla generalizzazione compiuta della critica, che distingue per sempre le antinomie critiche dalle positive.
Se l'apparenza svela la verità, ne consegue che all'apparenza sola spetta di combattere l'errore, che nella sua sterilità la critica non combatte, non distrugge alcun errore, alcun'illusione, non si applicando se non a un dato fenomeno; per essa questo fenomeno è materialmente incontestabile, per ciò stesso che è concesso. Lo si pone come, e la critica lo accetta evidente; lo analizza, e ne cerca l'identità, l'equazione, il sillogismo. Il fenomeno esiste realmente? è veramente evidente? La critica lo ignora, non appartiene ad essa di verificare materialmente i fatti. Sia sottoposta alla critica l'esistenza di un animale, come l'aquila, la troverà contraddittoria; siale sottoposta la esistenza della fenice, la troverà egualmente contraddittoria, cioè finita e non finita, una e multipla, identica e variante, in relazione e senza relazione cogli altri esseri, ecc. Trattasi poi di verificare se la fenice esiste? Interrogate, non più la critica, ma i fatti; paragonate il testimonio dei poeti con quello dei naturalisti; la contraddizione si mostra, e questa volta è positiva, le si deve un'uscita; e la logica, soggiogata dalla rivelazione, arriva alla scienza.
Non havvi pregiudizio che non possa resistere alla critica. Vi sono gli angeli, gli arcangeli, i troni, le dominazioni? Per la critica tutto è possibile, tutto è impossibile; gli angeli possono esistere come gli uomini, contraddittorj quanto gli uomini. Il Cristo è egli incarnato? La stessa risposta; il fenomeno dell'incarnazione non è più assurdo che non lo sia l'unione dei generi cogli individui. L'eucarestia ci amministra la carne e il sangue sotto le forme del pane e del vino? Questo miracolo non è più prodigioso, che il miracolo della qualità che si unisce alla sostanza. Sotto l'impero della logica non si nega nulla, perchè si nega tutto; non si prova nulla, perchè si prova tutto. Il Cristianesimo potrebbe essere materialmente vero, benchè logicamente impossibile; è l'apparenza, è la storia, è la natura che distruggono il Cristo del pari che la fenice.
Gli enti stessi inventati dai metafisici sfuggono alla critica. Essa ignora se i numeri di Pitagora esistono, se l'idea di Platone è un sogno; se devesi accettare il mediatore plastico di Cudworth o l'armonia prestabilita di Leibniz o l'esistenza di Dio. Se la critica sembra competente, se lo diventa di fatto, si è che le invenzioni metafisiche sono trovate per isciogliere le contraddizioni eterne. La critica vi prende in parola, accetta i vostri trovati, il vostro Dio, solo si restringe a continuare la sua azione. Pensate voi evitare le contraddizioni dell'alterazione attribuendola ad una causa divina? La critica vi dimostra: 1.° che l'alterazione è contraddittoria; 2.° che, imputata ad una causa, resta ancora contraddittoria; 3.° che la causa stessa è una nuova contraddizione, perchè si áltera producendo l'effetto. Se vi sforzate di togliere quest'ultima contraddizione replicando che la causa non s'áltera perchè infinita, la critica accetta ancora il vostro infinito, e si limita a dimostrarvi: 1.° che l'alterazione è assurda, 2.° che la causa lo è alla volta sua, 3.° che l'azione della sostanza infinita è assurda quanto l'alterazione, quanto la causa, quanto il passaggio dalla causa all'effetto. Egli è certo che la critica produce in voi l'effetto di distruggere la credenza a una causa infinita, e di obbligarvi ad abbandonare un'ipotesi concepita per evitare la contraddizione vedendola inutile. Ma quest'effetto non è dovuto direttamente alla critica, è dovuto a voi stesso: dunque se la critica distrugge gli enti della metafisica, il risultato è indiretto, dipende dall'essere questi enti inventati per mettere fine alla mia contraddizione, che rinasce sempre più forte.
Dunque non la filosofia, ma la fisica dei filosofi spegneva gli Dei del paganesimo. Quando la scuola di Elea dimostrava che tutte le cose erano una cosa unica, e che la distinzione degli oggetti riducevasi ad un'illusione, combatteva la distinzione degli Dei, e dava la prima scossa all'Olimpo di Omero. Ma l'assalto era inutile; gli uomini che credevano impossibile e incontestabile la distinzione delle cose della terra, dovevano credere la distinzione degli Dei incontestabile, benchè impossibile nel cielo. L'assalto di Platone è più decisivo. Platone accusa gli Dei d'essere ingiusti, di essere inferiori ai savi e condannati nella coscienza dell'uomo. Pure sussistono ancora, sono malefici, quindi temuti. Epicuro si spinge più innanzi studia la fisica per liberarsi dal timore degli Dei, e la mitologia è atterrata dalla rivelazione naturale.
Possiamo fare le stesse riflessioni sul Cristianesimo; non havvi obbiezione critica contro la Bibbia, che non si trovi nei dottori: e, certo, gli scolastici non ignoravano le contraddizioni della trinità, dell'incarnazione, dell'eucarestia. Anzi la scolastica è la critica del Cristianesimo sottoposto alla logica; critica alla quale i dottori rispondono con una metafisica semi-astratta e semi-istorica. Qual'è il risultato della scolastica? le sue credenze sussistono; le antinomie dei miracoli inventati si confondono colle antinomie dei miracoli naturali, cercasi nel tempo stesso di conciliare le contraddizioni della trinità, e quelle dell'individuo in genere; tentasi di spiegare ad un tempo l'eucarestia e l'universale. La metafisica cristiana si compenetra colla metafisica profana; la lotta è sterile, la fede trionfa. Più tardi Pomponaccio e Vanini erano i primi a scuotere realmente il Cristianesimo; essendo fisici, sono potenti: e questa volta dinanzi alla natura la tradizione cessa di mentire, la leggenda è surrogata dalla storia, e la contraddizione positiva annienta l'errore cristiano.
Così vi sono due critiche, l'una negativa, l'altra positiva; la prima ci getta in un'eterna irresoluzione, la seconda ci sforza di continuo a prendere una decisione; nella prima non si fa che distruggere, la seconda edifica nel tempo stesso in cui distrugge. Dinanzi alla critica negativa la natura si confessa contraddittoria, dinanzi alla critica positiva la natura ci accusa di contraddizione; e ci accusa di aver resi contemporanei nel nostro spirito i fenomeni successivi fuori di noi.
Due sole cose ci sono: il dubbio e la scienza: la critica negativa e la positiva: la contraddizione universale e la contraddizione fisica. La è l'illusione dei filosofi che vollero conciliare la critica e la fisica, e sciogliere fisicamente le contraddizioni critiche. Noi evitiamo l'illusione della metafisica, distinguendo le due specie di antinomie, esaminando se la contraddizione è nella natura o nell'intelletto, se è figlia della logica che domina la natura, o figlia della natura che domina la logica, e per noi l'apparenza sola decide, perchè ogni fenomeno si spiega da sè.



Capitolo V

LA RIVELAZIONE DEL GENERE

I fenomeni si rassomigliano, le loro rassomiglianze formano i generi. Il genere è in contraddizione coll'individuo e con sè stesso; ma appare; dunque è.
Il genere esiste là dove si vede negli individui: negli animali havvi l'animale, ne' cavalli il cavallo; perchè l'animale non appare che negli animali, il cavallo non appare che nei cavalli. Gli individui possono moltiplicarsi, diminuire; il genere resta indifferente al numero, alla diminuzione, alla moltiplicazione degli individui; sempre uno, indivisibile, incorruttibile. Ma quando non havvi più alcun individuo, il genere perisce; se non vi fossero più cavalli, il genere del cavallo sarebbe spento: noi ne avremmo l'idea, potremmo concepirla; pure sarebbe un'idea subiettiva, come quella che ci formiamo del Minotauro. La nozione di un genere che perisce ripugna ai metafisici, i quali dopo di avere ammesso il genere come appare, uno, indivisibile, incorruttibile, non possono concedere che perisca. Come mai, dicono, ciò che è superiore al numero, alla diminuzione, alla moltiplicazione, potrebbe svanire? Il genere perisce come ogni cosa che cessa di parere; finchè pare è uno, indivisibile, incorruttibile; quando scompare, ha cessato d'esistere; le rivoluzioni cosmiche, rinnovando le razze e la vegetazione, rimutano i generi.
Quanti sono i generi? Ve ne hanno quanti ne appaiono, senza che sia possibile di fissarne il numero. Tra due classi, tra due generi la natura ci offre sempre mostri, eccezioni, creazioni intermediarie, transizioni impercettibili, gradazioni che ci confondono; vediamo meno di quel che esiste, pure i generi intermediari non cessano di esistere, benchè indiscernibili. I nostri errori non alterano la natura delle cose. L'impossibilità di numerare i generi, l'impossibilità di trovare una linea di separazione tra una classe e l'altra non distrugge le separazioni impercettibili, nel modo stesso che la transizione impercettibile dall'infanzia all'età della ragione non distrugge la separazione delle due età.
Vi hanno tre specie di somiglianze: la somiglianza degli esseri organizzati, quella delle qualità e quella dei rapporti. - L'uso riserva il nome di genere alla somiglianza degli esseri organizzati, dove trovasi una germinazione che fa somigliare gli individui in mille modi, e che nel tempo stesso li congiunge col legame materiale della produzione. Così l'uomo genera l'uomo, e in pari tempo gli uomini si rassomigliano nella statura, nel corpo, nei sentimenti, nella ragione, in tutte le loro facoltà. La somiglianza delle qualità è più vaga e più semplice; nella sua massima complicazione costituisce le classi dei gas, dei liquidi, dei solidi, e in generale di tutte le materie primitive, che sono le materie trattate dalla chimica come elementari. In ciascuna materia vi hanno di molte somiglianze; dunque vi ha genere; ogni pezzo di ferro è ferro, ogni volume di ossigeno è ossigeno. In terzo luogo, le cose si somigliano sotto il rapporto della posizione, della disposizione, della distanza, della grandezza; giacchè la somiglianza appare, il genere esiste ne' rapporti come ne' corpi organizzati, come nelle qualità; diremo solo che qui il genere è fugace come l'ombra. Un olivo è nella classe delle grandi cose considerato in un campo arato, poi passa nella classe delle piccole cose accanto a una selva. Chi può tener conto di questa classificazione?
Se la metafisica ha trasformato il genere in uno stranissimo mostro, deve l'origine dell'errore ad aver considerato le contraddizioni critiche del genere siccome contraddizioni positive alle quali conveniva trovare un'uscita. Platone, il primo a scoprire il genere, lo cercò per sottrarsi alla contraddizioni eterne della scienza. Egli non poteva trovare la scienza nell'ente della scuola di Elea, nè fuori dell'ente, nella natura. L'ente della scuola di Elea sopprime la distinzione delle cose, nega l'oggetto stesso della scienza; dandoci una verità, distrugge tutte le altre verità, distrugge la scienza. D'altra parte, la natura è inconsistente, si muta e rimuta, non mai è quella che è, e di ciò che si áltera non havvi scienza. Così Platone trovavasi tra l'antinomia dell'ente e quella dell'alterazione, credeva che le due antinomie fossero illusioni della mente, imputavale ad un proprio errore, non poteva tollerarle, ne ignorava l'origine e l'universalità; quindi doveva cercar un'uscita come se fossero problemi solubili. Il genere gli apparve come la terra promessa della scienza; i generi erano inalterabili come l'essere, distinti come gli oggetti; e sembravagli che, impossibile nell'essere, impossibile nell'alterazione, la verità si liberasse coi generi da ogni contraddizione.
Tutto il sistema esce dai generi che distinguono e specializzano le verità assorbite dalla verità dell'ente, onde poi generare la diversità e la varietà delle cose naturali. Ne risulta che il genere presso Platone cessa di essere un'apparenza; dovendo spiegare ogni cosa, diventa più vero dell'essere, più vero degli oggetti, diventa un principio metafisico. Vien dotato di un'esistenza privilegiata; esiste per sè; due generi, il piccolo e il grande, creano la materia, altri generi formano gli esseri della natura disegnati sul velo matematico, mutabile e variabile della materia. Siamo già lungi dall'apparenza, e tanto non basta. La natura è bella, e il genere deve diventar bello, deve diventare un tipo per comunicare la bellezza agli esseri, ed è questa nuova falsificazione dell'apparenza; chè il genere non è nè bello, nè brutto, ma abbraccia gli individui tutti, fatta astrazione dalle perfezioni e dalle imperfezioni: il cieco e il sordo cessano forse d'essere uomini? Infine, la scala dei generi trasformati in tipi, presso Platone s'innalza nella gradazione della bellezza ideale, e non giunge al genere supremo delle astrazioni se non trasportarvi tutte le bellezze, tutte le perfezioni. Nuova fallacia, perchè l'essere non è nè bello nè brutto, ed abbraccia senza preferenza tutti gli esseri buoni e mali. Il genere si trasforma così in un idolo, poi in un Dio, poi diventa attivo, creatore, e sempre per dare un'uscita alla scienza, impossibile nell'essere, impossibile nella natura. Questa è l'ultima falsificazione, e la più pericolosa, perchè l'essere non è più attivo dell'uomo o dell'albero; egli è, ed ecco tutto; non ha scopo, nè mente, nè azione alcuna.
L'opera di Platone restò dubbiosa nella mente stessa di Platone, che nel Parmenide avvisò esservi delle contraddizioni irreducibili. Aristotele sviluppò, distrusse l'edificio de' generi platonici; ma per cercare, alla maniera di Platone un'uscita alla scienza per, che non deve mutarsi, non ostanti le variazioni della natura. L'uscita di Aristotele fu l'individuo; ma l'individuo che si sottrae alle sue contraddizioni eterne, sempre tenute per contraddizioni positive. Quindi Aristotele deve stabilire un individuo che non muta, che resta sempre lo stesso, superiore al suo apparire e al suo sparire. Aristotele deve stabilire un individuo fuori dell'individuo apparente, un'essenza indivisibile, un'entelechia, un'energia, un'anima. Eccoci di nuovo nel movimento metafisico, con un essere più vero del parere; l'individuo metafisico deve spiegare gli individui realmente apparenti, e i generi diventano meno veri, meno reali. L'individuo che appare in un genere, per Aristotele è l'individuo metafisico che si unisce alla materia, e la materia è il suo genere. Il bronzo è la materia della statua, il metallo è la materia del bronzo; quanto più generalizziamo, tanto più ci allontaniamo dalla verità. Giunti all'essere, siamo alla materia pura, che è l'essere in potenza, ma il non-essere in atto, come l'individuo metafisico (essenza) è un essere in potenza, e congiunto alla materia è un essere in atto. Platone trasportava le antinomie al sommo della scala de' generi; Aristotele le trasporta nell'identità dell'essere e del non-essere, al più basso della scala delle cose. D'onde lo spostamento? Sempre dalla necessità di sciogliere l'antinomia dell'individuo, che s'unisce a un genere. Di là l'individuo metafisico, più la materia generica; le quali due cose congiunte danno la più strana equazione dell'apparenza quale si presenta. Aggiungevasi così le contraddizioni nuove ed artificiali, dell'individuo metafisico e della materia generale, alle contraddizioni eterne dell'individuo e del genere realmente apparenti.
Il genere-tipo di Platone sopravisse, divenne or un eone, or il pensiero di Dio, ora il verbo divino; per render ragione dell'apparenza si allontanò sempre più dall'apparenza. Lasciamo la scuola d'Alessandria, in cui la metafisica del genere troppo si complica con altri problemi: sarà meglio seguirla nel medio-evo noi la rinveniamo nel dramma della scolastica. La scolastica era una metafisica, dunque combinava le questioni del giorno colle questioni eterne; la questione del momento era il cristianesimo, la questione eterna era la antinomia dell'individuo e del genere. Ecco il problema qual fu posto dalla dotta ignoranza degli scolastici: «Dio,» dicevasi, «è uno e trino; la eucarestia è una e multipla; il genere è in opposizione coll'individuo: ora questi sono fatti illogici; bisogna scoprire il principio che li spiega come fatti naturali e necessari: qual'è dunque il principio che fa essere ad un tempo uno e multiplo il fatto di Dio, quello della eucarestia e quello del genere?» La questione era assolutamente metafisica..
Roscellino diede la prima soluzione. Non riconosce se non l'individuo; secondo lui nulla esiste se non alla condizione di esser un individuo uno e intero; i generi, le qualità, i rapporti non esistono; non ci presentano nè l'unità, nè l'integrità individuale. In primo luogo, diceva Roscellino, se l'individuo è reale, il genere non è che una parola, flatus vocis, non si concepisce l'uomo che sotto la nozione dell'individuo; se fosse altrimenti, vi sarebbero due uomini in un uomo. In secondo luogo, la qualità non è individuale, dunque non esiste; il colore non è che un corpo colorato - la saggezza dell'uomo non è che un uomo saggio - non si deve fare alcuna distinzione tra il cavallo e il suo colore. - finalmente, secondo Roscellino, il rapporto non si presenta come individuo, quindi non esiste; dunque la relazione del tutto colla parte è una chimera; dunque non havvi che il tutto uno e intero, la parte non esiste. Se esistesse, il tutto non sarebbe tutto, la parte sarebbe tutto e parte, il che indicavasi da Roscellino dicendo: Se havvi la parte, sarebbe una parte di sè stessa, una cosa essendo quella che è soltanto date tutte le sue parti; d'altronde, la parte, esistendo, dovrebbe precedere il tutto e precedere sè stessa; se non precede il tutto, non lo forma; se non è preceduta dal tutto, non è parte. La conseguenza cristiana era evidente; la trinità non può comporsi nè di tre parti, nè di tre generi; quindi non esiste, non vi sono che tre Dei.
L'individuo di Roscellino offriva due inconvenienti: negava un fatto incontestabile, l'esistenza del genere, della qualità e del rapporto; e di più, negava un pregiudizio incontestato, l'unità di un Dio Trino. Guglielmo di Champeau svelava il primo punto; la Chiesa, col punire Roscellino, dimostrava il secondo: oramai l'individuo di Roscellino, condannato dalla critica e dalla Chiesa, non poteva più reggere; una nuova soluzione era necessaria. Che dimostravasi? l'assurdità dell'individuo che tendeva impossibile il genere e la chiesa: dunque l'uscita doveva trovarsi nel genere che difendevasi, e nell'unità di Dio. Guglielmo di Champeau stabili dunque per principio la realtà del genere e della qualità, li trasformò in esseri metafisici, e ad essi spettò di spiegare l'individuo. La tradizione dice «che Guglielmo di Champeau pensava che l'universale risiede essenzialmente negli individui, che li costituisce, e che tra gli individui dello stesso genere non havvi differenza essenziale, ma solo una differenza dovuta alla pluralità degli accidenti.» Dunque l'individuo esiste per accidente; per accidente si compone di parti: per accidente si distingue dagli altri individui; solo il genere esiste, ed esiste come un essere indipendente. Roscellino aveva stabilito un individuo diverso dall'individuo apparente, e di cui non potevasi dire che avesse qualità, rapporti e che dovesse appartenere ad un genere: Guglielmo stabilì un genere ch'era diverso dal genere apparente, perchè solo esistente, mentre l'individuo è un genere senza differenza.
La conseguenza della dottrina di Guglielmo era evidente, e Abelardo la smascherava. Se il genere solo esiste realmente, se esiste indifferentemente negli individui, se l'individuo si riduce ad un accidente del genere, il genere assorbirà in sè tutti gli individui; Socrate sarà ad Atene e nel tempo stesso a Roma; se l'animale è ammalato in Socrate, dovrà esserlo egualmente in Platone. Non basta: se gli individui si distinguono per mezzo degli accidenti, diremo noi che Dio è trino per accidente? diremo noi ch'egli è sottoposto all'accidente? Era inteso che Guglielmo trionfava di Roscellino, era inteso che bisognava un genere; in pari tempo il genere di Guglielmo mostravasi impotente a spiegare l'individuo. Occorreva di trovare una nuova uscita. Questa volta il problema consisteva nel cercare un genere abbastanza discreto perchè se ne potesse trargli dal seno l'individuo: ed Abelardo impose alla metafisica la stravagante missione di spiegare l'origine dell'individuo cioè l'individuazione. Dicendo cogli eclettici che Abelardo confutò, l'uno coll'altro, Roscellino e Guglielmo di Champeau, aggiungendo che fu concettualista, non s'intende nè la sua missione, nè la sua influenza, nè la fase metafisica che rappresenta. Abelardo entra nella storia della metasica per aver primamente proposto il problema dell'individuazione. La sua soluzione fu che: l'universale non è se non la collezione degli individui - l'uomo è negli uomini - il genere è la materia degli individui - l'individuo fa parte della collezione come differente dalla collezione stessa, - Il linguaggio comune prova quest'equazione, perchè quando noi vediamo una massa di ferro d'onde si deve trarre un coltello e uno stile, noi diciamo questo sarà la materia del coltello e dello stile, quantunque la massa non debba tutta prendere le due forme, ma bensì diventare in parte coltello, in parte stile. - Applicando questa individuazione alla trinità, Abelardo conchiudeva che il padre, il figlio e lo spirito erano le parti di un Dio, cioè di una totalità.
Alberto Magno succede ad Abelardo. Egli è sottile, verboso, disordinato; da lui non si attende un processo rigoroso e intimamente collegato ad una dottrina anteriore. Pure, interrogato sulla metafisica del genere, mostra che il suo punto di partenza è il problema dell'individuazione. Egli non può accettare la dottrina del suo predecessore: presso Abelardo il genere è una collezione, una totalità, un composto, e l'individuazione si spiega con una specie di equazione tra il tutto e le parti, tra il composto ed i componenti. L'equazione non regge alla critica, è fittizia; il genere non è una collezione, nè una totalità, nè un composto; il primo termine dell'equazione fu falsato a disegno, col sostituire la totalità al genere, la collezione all'universale. Alberto svela questa falsificazione quando «La totalità», dice Alberto, «perchè totalità non esiste fuori degli individui che abbraccia; l'universale, perchè universale, è distinto dagli individui. Di più, una totalità perchè totalità si valuta misurando le parti, di cui ciascuna appartiene alla sua sostanza. Di più, la natura della totalità non ne costituisce gli elementi, ma la natura dell'universale li costituisce, essendo il tutto costituito dalle sue parti, mentre le parti dell'universale non lo costituiscono, ma ne sono costituite. Così la totalità non può mai diventare elemento del suo elemento, a differenza dell'universale, che, costituendo i suoi oggetti, diventa parte essenziale di essi. Di più, la totalità non è intera in ciascuna delle sue parti separatamente presa, l'universale è tutto in ciascuna delle sue parti: di più, la totalità non è intera se non quando le sue parti sono presenti; l'universale è l'universale, siano le sue parti presenti o assenti. Infine la totalità è una collezione di parti finite, l'universale si estende a parti infinite.» Havvi dunque una vera contraddizione tra il genere e la collezione che poteva spiegare l'individuo: Alberto non sospetta che sia l'istessa contraddizione che separa il genere dall'individuo; non pensa che dinanzi al genere, gl'individui, siano essi riuniti o dispersi, restano sempre individui; solo pensa che l'equazione essendo fallita per errore di Abelardo, bisogna cercare una nuova invenzione, un nuovo espediente per discoprirla.
Onde meglio sgombrare il campo, Alberto dimostra che l'universale non può confondersi neppure colla materia, e che non può paragonarsi al ferro che è nel coltello e nello stile. «Che l'universale non sia nella materia, risulta», dice Alberto, «da questa considerazione, che la materia non dà agli oggetti in cui si trova nè l'essere, nè il nome, nè la ragione; cose tutte che l'universale sostanziale dà agli oggetti di cui è l'universale. L'universale non è dunque la materia. Di più, ciò che affermasi come predicato della cosa in cui trovasi, è forma; ora l'universale si afferma come predicato delle cose in cui trovasi; dunque l'universale è forma. Di più, nulla può essere comunicato a una pluralità di ciò che trovasi in queste cose, se non l'essenza, la forma.» Egli è dunque impossibile di confondere l'universale colla totalità o colla materia; e bisogna che la metafisica scopra una equazione tra il genere e lo individuo, creando una nuova individuazione. Di là ll sistema di Alberto.
«L'universale è la forma, dice egli, l'essenza di ogni cosa; non è una sostanza indipendente; non esiste alcuna casa separata da tutte le case particolari e materiali, a meno che noi non la vogliamo stabilire nell'anima dell'architetto.» La forma è dunque un pensiero di Dio. «Essa è raggio e luce dell'intelligenza attiva, è semplice, pura, immateriale, immobile, incorporale, incorruttibile e causa d'azione;» è dessa che particolarizza gli oggetti nella materia, li modifica e loro dà un nome; ed in ciò consiste l'individuazione. Qui il genere s'allontana sempre più dall'apparenza. Per generare l'individuo, a malgrado della contraddizione per cui ne resta separato, diventa causa d'azione, luce, pensiero di Dio; l'equazione non è scoperta se non nell'entità disperata e miracolosa di Dio.
La critica degli scolastici, che non cade mai sull'apparenza, cade sempre sulle entità metafisiche, e sulle loro equazioni; la scolastica si trova in piena metafisica, e vi rimane; imputa sempre ai dottori le contraddizioni della natura. Guglielmo di Champeau critica l'individuo di Roscellino: Abelardo critica l'universale indipendente di Guglielmo: Alberto critica il genere collettivo di Abelardo: il successore di Alberto, Tomaso d'Aquino, segue lo stesso metodo, e continua la metafisica del genere. Ammettevasi che l'universale forma l'individuo, che deve formarlo, se non sapevasi ancora il come, il torto era dei filosofi; e questo appunto fu il torto di Alberto, a fronte di Tomaso d'Aquino. Alberto asseriva che l'universale crea l'individuo, e non diceva come lo crea. Certamente, l'universale crea gli oggetti particolari unendosi alla materia; ma la materia non ha forma, è indefinita; non vedesi dunque come l'universale possa creare un oggetto nella materia, qui piuttosto che là, oggi piuttosto che dimani. L'individuazione si specifica nel tempo e nello spazio, l'universale non è specializzato, la materia non lo è; in qual modo l'universale indeterminato e una materia indefinita unendosi potrebbero creare un individuo determinato e finito? San Tomaso cerca dunque un'uscita all'equazione fallita, e la sua uscita consiste nella nuova invenzione della materia segnata. Spetta alla materia, dice egli, il determinare l'individuazione e il determinare la sostanza nel luogo e nel tempo, determinat ad hic et nunc, e la misura, secondo lui, specifica quanto trovasi indeterminato nell'universale. Però una obbiezione si offriva immediatamente; la materia è indefinita, fluente, inconsistente: come mai potrebbe dare un limite preciso all'universale, sì che l'individuo emerga dall'unione dell'universale colla materia? Il dottore risponde: «La materia indeterminata non è principio d'individuazione. Sciendum est quod materia, non quomodo libet accepta, est principium individuationis, sed solum materia signata;» cioè giusta Cajetano, la materia capace di tale e di non tale altra quantità. Citiamo ancora S. Tomaso: «Il principio della diversità degli individui della stessa specie è la divisione determinata dalla quantità: difatti la forma di questo fuoco non differisce dalla forma d'un altro fuoco, se non dalle parti nelle quali si divide la materia, nec aliter sine divisione quantitatis, sine qua substantia est indivisibilis.» Così l'universale, agendo sulla materia segnata, crea ogni cosa, cioè: 1.° gli esseri della natura fisica, 2.° le anime, 3.° gli angeli.
L'individuo sfuggiva ancora alla materia segnata, l'equazione era fallita; Duns Scoto lo fece osservare. «Se la materia», diceva egli, «è causa d'individuazione, laddove si troverà la stessa materia si troverà lo stesso individuo; e come la materia è la stessa «in generato et in corrupto, l'essere che nasce e l'essere che si corrompe saranno un medesimo oggetto: - la causa d'individuazione è causa di distinzione; ma la materia non è causa di distinzione, dunque non individualizza. - Le anime, gli angeli sono individui; sono essi materiali? No; dunque non è la materia che li individualizza.» La materia indeterminata distruggeva l'individuo, la materia segnata o misurata lo distrugge egualmente; bisognava dunque cercare altrove il termine medio che permettesse al genere di giungere all'individuo. Scoto inventò un nuovo espediente. «Il principio dell'individuazione,» secondo lui, «non è nè la materia, nè la forma, nè la quantità; è una proprietà individuale, un'ecceità.» L'universale esiste per sè, non è l'individuo, ma si contrae, diventa l'ecceità, forma un sol essere colla cosa, resta inseparato dalla cosa; esso è nella cosa, non in atto, ma in potenza prossima, potentia propinqua.
Nel sistema di Duns Scoto la metafisica dell'individuazione tocca l'apogeo; è impossibile andar più oltre. Il dramma dell'individuazione scotistica comincia, si svolge e si compie al di fuori dell'apparenza. Per Duns Scoto il punto di partenza non era il genere apparente, era il genere d'Alberto Magno, un raggio dell'intelligenza divina. Questo genere è attivo, a malgrado dell'apparenza che mostra i generi impassibili: in secondo luogo, il genere si contrae, benchè l'apparenza non ci permetta nemmeno di concepire la contrazione nei generi. In terzo luogo, il genere diventa un quid, una ecceità, e l'ecceità è un principio d'individuazione che non è ancora l'individuo apparente e materiale, ma si limita a simularlo; il perchè l'ecceità e l'individuo hanno due nomi distinti. Qui la dottrina dell'individuazione metafisica è esausta; Occam pose termine alle individuazioni imaginarie. - Voi andate errati, disse egli agli scolastici; l'individuo non sorge dall'universale di Guglielmo di Champeau, perchè non è un accidente; non sorge dal genere collettivo di Abelardo, perchè il genere non è una collezione; non sorge dall'idea di Alberto Magno congiunta colla materia, perchè il genere indeterminato e la materia indefinita hanno caratteri opposti all'individuo; non sorge dalla materia segnata di San Tomaso, perchè la materia segnata e misurata è ancora indefinita, e può diventare individui diversi: - da ultimo, l'individuo non sorge dall'ecceità assolutamente impossibile di Duns Scoto; siete nell'assurdo, l'individuazione è impossibile perchè l'individuo esiste.
Per mala ventura Occam tocca la riva per ingolfarsi di nuovo nel pelago metafisico, s'impadronisce dell'apparenza dell'individuo per assolire risolutamente il genere. Lo combatte fuori delle cose, nelle cose, nello spirito (extra res, in re, in intellectu), ne riassume le contraddizioni, le imputa a Guglielmo di Champeau, ad Abelardo, ad Alberto Magno, a San Tomaso, a Duns Scoto; nega il genere; in sua sentenza solo l'individuo esiste. Stabilito l'individuo come fatto primo e metafisico, Occam accetta l'assunto di spiegare l'apparenza del genere. Ecco una nuova metafisica che incomincia; ma incomincia dubitando di sè. Si può dire in una maniera probabile, sono parole di Occam, che l'universale non esista? È probabile che l'universale non esista? dunque potrebbe esistere. Come? «Fuori dell'anima,» continua Occam, «l'universale non è nè qualità nè sostanza. Quando l'intelligenza percepisce una cosa fuori dell'anima, si rappresenta una cosa simile, e se possedesse il potere creatore produrrebbe questa seconda cosa: l'universale è dunque una finzione, una chimera, con le concezioni degli artisti e de' logici.» Ma fuori di noi le cose non si somigliano forse? e se somigliansi, non è in forza de' generi? che è dunque la scienza se non è la classificazione degli esseri giusta le loro somiglianze? «La scienza» risponde Occam, «non volge che sulle parole; talora le parole esprimono sè stesse, e la scienza è puramente grammaticale; talora esprimono le concezioni astratte della mente, e la scienza è puramente logica; talora esprimono le cose, e la scienza è reale: grammaticale, logica o reale, la scienza cade solo sui segni. – Nel fatto, dice Occam, la scienza non cade se non sulle proposizioni, e solo le proposizioni sono oggetto del sapere.» Ma le proposizioni sono generali; se i generi non sono altro che parole, se fuori di noi non vi hanno somiglianze, se l'universale si riduce ad una finzione, ad una chimera come le concezioni degli artisti e dei logici, la scienza non diventa forse una finzione, una chimera, una poesia, un vero soliloquio? Occam replica: «Poco importa alla scienza del reale che i termini della proposizione siano fuori dell'anima o solo dell'anima, purchè i termini siano riferiti alle cose stesse; quindi l'interesse della scienza non richiede che ammettiamo le nature universali distinte dalle particolari.» No, importa che i termini si riferiscano alle cose; importa dunque che le parole generiche si riferiscano ai generi; importa che il genere esista come appare, come è nel discorso, nè più, nè meno: se non è, la nostra scienza parla di somiglianze che non sono, e si riduce al soliloquio d'un insensato. Vedesi, dall'indecisione, dagli espedienti di Occam, che il nuovo problema della generalizzazione sorge per trascinare la psicologia in una nuova scolastica.
Tale è la metafisica del genere; vera scolastica, che prende le contraddizioni dell'apparenza per contraddizioni positive, e lotta disperatamente per discoprire l'impossibile: la lotta cambia di forma presso Descartes e presso Locke, agita ancora i nostri scolastici. Essa deve tramontare al levarsi della critica, la contraddizione deve metter foce nell'apparenza. I generi esistono dunque perchè appaiono; il genere non diminuisce nè aumenta, quando gli individui diminuiscono o aumentano; dispare quando scompaiono.



Capitolo VI

I PRIMI GENERI

Lo spazio e il tempo sono due apparenze primitive, universali e necessarie. Ogni apparenza ci annunzia la funzione ch'ella compie. Lo spazio si annuncia come condizione dell'esistenza dei corpi; egli è dunque condizione dei corpi, condizione dell'intera natura. Istessamente non possiamo concepire alcuna successione di fenomeni senza concepirla nel tempo; dunque ogni successione si attua nel tempo. Io vivo nello spazio e nel tempo, io morrò senza che il tempo e lo spazio possano cessare; se non fossi nato, il tempo e lo spazio sarebbero egualmente; il tempo e lo spazio sono indipendenti da chi li contempla: questa è l'apparenza, questa la realtà.
Abbiamo veduto le antinomie del tempo e dello spazio; esse sono; è mestieri accettarle: chi tentò di scioglierle, cadde necessariamente nella metafisica dello spazio e del tempo.
In generale la metafisica dello spazio e del tempo ha subito le evoluzioni stesse della metafisica del genere; ed era naturale; il tempo e lo spazio sono due generi. Lo spazio contiene il corpo esteso, l'estensione essendo in tutto ciò che è esteso, nel modo istesso che l'uomo è in ogni uomo, la bianchezza in ogni cosa bianca. Il tempo contiene ogni successione, nessuna successione potendo sfuggire al primo e più astratto genere della successione. Chi cerca l'equazione dell'individuo col genere deve cercare l'equazione dello spazio generico collo spazio reale, del moto ideale col moto materiale. Di là lo spazio or fatto eguale alla materia, e in fondo negato, or affermato come principio primo, e poscia ridotto il corpo a non essere in essenza altro che spazio, ond'essere poi negato alla sua volta. Di là il tempo or fatto eguale al moto, e poscia soppresso nella sua essenza generica, mentre altri, al contrario, faceva eguale la successione al tempo, negando così la successione. Di queste teorie il numero è grande, l'atteggiamento varia co' filosofi, ma la lor natura è pur sempre la stessa, poichè suppongono che le eterne contraddizioni del tempo e dello spazio siano errori de' filosofi.
Il tempo e lo spazio sono necessari, perchè è impossibile negare la necessità che impone all'individuo di essere nel genere, al contenuto di essere nel contenente. Io sono uomo perchè sono nell'uomo, io sono nello spazio perchè sono esteso, io sono nel tempo perchè la mia esistenza persiste e cambiando, dura. Io sono necessariamente nel tempo e nello spazio perchè è dato che io vivo, corpo tra' corpi, mobile in mezzo a innumerevoli moti, è dato che il corpo, che la successione sono i primi elementi che costituiscono il mio essere, e quello degli oggetti che mi circondano; non posso nè concepire me stesso, nè concepire le cose fuori dei due generi della estensione e del moto. Lo stesso ragionamento si applica all'universalità del tempo e dello spazio, che sono universali, ogni cosa essendo estesa e duratura; fuori di questi due generi nessuna cosa essendo.
Se vi fosse un oggetto senza estensione o senza successione, quest'oggetto, creatore e creato, non patirebbe punto le condizioni del tempo e dello spazio; il tempo e lo spazio cesserebbero d'essere universali, nè più sarebbero necessari. Qui, come dovunque, l'apparenza si stabilisce sola, regna sola, e l'interregno dell'apparenza sovverte tutte le nozioni. Così il tempo e lo spazio sono le condizioni universali della natura, sono indistruttibili, si stabiliscono superiori alla natura e eterne. Ma dinanzi a un'altra natura potrebbero non essere universali, non essere necessari; la loro eternità non è dunque se non quella dell'ipotesi, che collega il genere coll'individuo. Finchè l'individuo esiste, il genere gli è immanente, necessario, universale, infinito, eterno; se l'individuo scompare, l'ombra del genere svanisce. Il tempo e lo spazio sono come l'ombra ideale, inseparabile dalla nostra esistenza; se vogliam sopprimerli, noi diventiamo positivamente inconcepibili a noi stessi.
Si dirà: «Il tempo e lo spazio erano prima di voi, saranno dopo di voi; sono adunque universali, necessari per sè stessi, astrazione fatta dalla natura e indipendentemente dal nostro modo di concepire. Io rispondo: che sono necessari, universali, eterni, infiniti, relativamente al nostro modo di concepire, relativamente alla apparizione ed alla disparizione della natura dinanzi a noi. Finchè restiamo su questo teatro, il tempo e lo spazio sono le condizioni della nostra scena; sia il teatro pieno o vuoto, il tempo e lo spazio restano. Se al teatro succedesse un nuovo teatro, una nuova creazione, la quale si opponesse alla creazione attuale e la smentisse colla forza di una contraddizione positiva, se all'universo succedesse un nuovo universo nè esteso, nè successivo nel suo sviluppo particolare, il tempo e lo spazio potrebbero svanire alla loro volta, come il genere antidiluviano del mastodonte è scomparso dinanzi al genere umano. La possibilità di concepire una creazione superiore al tempo e allo spazio è implicata nell'esistenza di un genere che si pone superiore al tempo e allo spazio. Parlo dell'essere: il tempo è, lo spazio è; l'essere è dunque comune al tempo ed allo spazio, dunque li abbraccia, li oltrepassa e li domina.
L'essere è il genere supremo, la condizione ultima o prima di tutto ciò che può concepirsi o imaginarsi; ci è dato col pensiero; basta pensare perchè appaia, basta che appaia possibile perchè sia.
Le antinomie dell'essere si riducono alle antinomie del genere. Si contrappone agli esseri, come l'uomo agli uomini: dunque è infinito, inesauribile dal numero degli esseri, unico, indivisibile come gli altri generi; l'essere è necessario, come il contenente lo è al contenuto: è universale, non potendosi dare alcun fenomeno che, esistendo, non cada sotto l'impero di questo genere supremo.
La metafisica dell'essere ha seguito passo passo la metafisica del genere. Gli eleatici furono i primi a considerare le antinomie dell'essere quali contraddizioni del nostro intelletto; le scioglievano coll'equazione del non-essere, col nulla. Perchè col non-essere era negato ogni intervallo tra le diverse cose, negata la distinzione delle cose, negata la natura. Quindi l'essere non fu più l'apparenza prima, fu più che l'essere apparente, più che tutti gli esseri. Tanto valeva domandare se il non-uomo esiste; e poichè non esiste, negare ogni cosa.
L'essere, divenuto primo principio, tiranneggia Platone, che si assume di spiegare la distinzione delle cose. Platone di aperse uno scampo co' generi. Qui l'essere si allontana ancor più dall'apparenza; i generi di Platone abbellisconsi per interpretare la bellezza, e l'essere diventa bellissimo: i generi di Platone sono attivi per penetrare la formazione delle cose; quindi il genere dei generi diventa attivo, acquista la bontà, si trasfigura; è principio dell'ordine universale; è Dio.
La metafisica dell'essere progredisce di nuovo con Aristotele. I generi, dice egli, non ispiegano gli individui: non sono belli, nè buoni, nè attivi. Dunque il genere non è un principio. Solo l'individuo è principio primo; quanto più ci allontaniamo dall'individuo, tanto più ci allontaniamo dalla verità; dunque il genere esiste meno dell'individuo, e l'essere, che è l'ultimo di tutti i generi, esiste meno d'ogni genere. Non basta; l'essere deve conciliarsi col non-essere; e Aristotele spiega ad un tempo l'apparenza dell'essere e la contraddizione del non-essere, mettendosi al di fuori dell'apparenza, creando una cosa nuova, un oggetto nuovo, la materia, che è l'essere in potenza e il non-essere in atto. Per uno strano rivolgimento toglieva così l'essere alla materia, mentre le dava la potenza. I neoplatonici si allontanano sempre più dall'apparenza. Accordano ad Aristotele che l'essere non è bello, nè buono, nè attivo, che riducesi al genere dei generi, al genere di tutti gli esseri. Accordano a Platone che la bellezza, la bontà, la forza, svolgendosi nella serie de' tipi, si riassumono in un tipo perfettissimo. Il tipo e l'essere sono distinti; l'uno è Dio, l'altro l'esistenza di Dio: ma uno è Dio, una l'esistenza di Dio; dunque l'uno e l'altra sono nell'unità, ne sono le ipostasi; ed ecco trasformato l'essere in un'ipostasi dell'Uno. La metafisica dell'essere vagava tra l'estasi e l'ineffabile; più tardi, presso i santi Padri, presso gli scolastici, si confondeva colla formola della trinità cristiana.
Alla caduta della scolastica la metafisica riprende il volo, oltrepassa il realismo ed il nominalismo; cammina sola, fatta astrazione dalla religione. Descartes entrò il primo nella nuova via. Io concepisco la perfezione, diceva egli, posso oltrepassarla all'infinito; vi aggiungo la nuova perfezione dell'essere, io concepisco un essere perfetto come possibile, dunque esiste. Questa dimostrazione dell'esistenza di Dio mescola la verità colla follìa: la verità sta nell'equazione dell'essere e del parere meravigliosamente afferrata nel genere di tutti i generi; la follìa sta nell'artificio, che moltiplica le perfezioni per fare dell'essere un Dio. Descartes non errava riducendo l'essere ad un'apparenza, ma errava dando all'essere la divinità. L'apparenza era nell'essere; Dio non era nell'apparenza, non era nella verità; era la soluzione imaginaria di tutte le contraddizioni della natura e del pensiero.
È superfluo il dire che, lungi dallo sciogliere antinomia alcuna, presso Descartes, l'essere supremo è in contraddizione con tutti gli esseri; solo può esistere, solo è sostanziale, solo necessario; da lui agli esseri non v'ha identità, non equazione, non deduzione. Descartes, che pretendeva di procedere per equazioni, fece emergere meglio degli altri metafisici che dall'essere non può dedursi veruna sostanza, verun atto, veruna creazione. Come mai un essere necessariamente uno, indivisibile, impassibile, necessario, universale, potrebbe trarre da sè la divisione, l'azione, la contingenza, l'individualità e la distinzione di tutti gli esseri e di tutte le sostanze? Oramai l'antinomia ingrandiva: l'ente di Elea riappariva nell'unità del Dio cartesiano, il cartesianismo rovinava: Spinosa, che se ne accorse, volle evitare la contraddizione sviluppando Descartes.
Vi hanno due momenti nel sistema di Spinosa; il primo ammirando: egli rettifica la metafisica cartesiana, il secondo fallace: egli2 lotta contro l'antinomie.
Nel primo momento, Spinosa afferra la verità, che si trova in fondo alla dimostrazione di Dio data da Descartes, l'eguaglianza dell'essere e del parere, l'identità dei due termini, la necessità d'ammettere l'esistenza dell'essere, che Spinosa concepisce sotto la forma di una sostanza, una, indivisibile ed eterna. Spinosa mostra dunque la verità là dove appare realmente, nella sostanza universale; in mano sua la dimostrazione dell'esistenza di Dio non dà se non ciò che realmente contiene: la sostanza necessaria ed infinita. L'immensità di Dio diventa l'immensità della sostanza, le perfezioni divine diventano le perfezioni apparenti del mondo, la fatalità si sostituisce alla provvidenza, un ente astratto soppianta il Cristo e comprendiamo la meraviglia il terrore dei teologi che videro sorgere dal seno delle loro dimostrazioni il più geometrico ateismo.
Ma nel rettificare la metafisica cartesiana Spinosa volle sciogliere le contraddizioni sollevate dalla geometria dell'essere; e qui incomincia il suo fallire: qui deve spiegare le contraddizioni della sostanza, stabilirla come principio, unica realtà essa deve trarne l'esistenza del mondo. Dacchè essa sola è la sostanza, il tempo, lo spazio cessano di essere ciò che sono, cioè apparenze primitive quanto la sostanza, e divengono attributi del primo principio. Noi cessiamo d'esser sostanze, e più non siamo se non modi; la natura perde l'essere suo, e vedesi tradotta in una serie di modi dell'essere. Spetta alla sostanza a trasmetterci il mondo come sua propria equazione; dunque il mondo si scinde in due parti; vi ha una natura naturante, la sostanza, ed una natura naturata, la creazione.
La sostanza è necessaria, dunque la natura apparente, la natura naturata, dev'essere necessaria, adeguata al principio d'onde esce, benchè appaia contingente. Nella sostanza, la necessità abbraccia tutta la realtà, si estende all'infinito, vasta quanto il possibile; dunque nel mondo la necessità abbraccia tutta la realtà, è vasta quanto il possibile; la possibilità è un'illusione come la contingenza. In questa guisa, la deduzione di Spinosa abbraccia il mondo, nuovo Leviathan lo divora, falsandone le apparenze, creando un mondo che non è quello della natura, un uomo che non è del nostro genere, un pensiero che non è della nostra intelligenza. Fatica inutile, perocchè l'antinomia della sostanza non è se non quella dell'essere, quella del genere, e annienta egualmente i modi e le sostanze, gli esseri e gli individui. Arroge che il lavoro si svolge arbitrariamente; se la vostra sostanza rende il mondo impossibile: esatto è il dilemma; avete scelto il termine della sostanza; perchè non scegliere le sostanze, le cose della natura? Apparenti quanto la natura, esse hanno diritto all'onore di signoreggiare la sostanza.
Queste considerazioni spinsero i filosofi del decimottavo secolo alla nuova impresa di spiegare l'essere e la sostanza quali concezioni dello spirito. Non si pensò più a dedurre il mondo dalla sostanza, a trarre il genere dall'individuo; si volle al contrario, il genere dedotto dall'individuo; la sostanza dalle sostanze, l'essere dagli esseri: al problema dell'individuazione fu sostituito quello della generalizzazione. Capovolgevasi l'errore con nuova metafisica. Se voi generalizzate, si è perchè i generi esistono; se classificate gli oggetti, si è perchè le classi esistono; senza i generi vedreste solo individui, senza la sostanza l'apparenza della sostanza non si offrirebbe all'intelletto, l'essere non si manifesterebbe in mezzo agli esseri. I filosofi del secolo decimottavo si credevano uomini molto positivi, osservatori della natura; avrebbero riputato vergogna il credere ai tipi, alle ecceità, agli angeli: combattevano fieramente la metafisica. Ma ignoravano la critica, consideravano le contraddizioni eterne quali errori dell'uomo, le volevano sciolte; erano logici, e la metafisica era una necessità del loro metodo e della loro ignoranza. Osservatori, non osservavano i generi; uomini positivi, non s'accorgevano essere il genere positivo quanto l'individuo. La preoccupazione di rendere ragione di tutto, conducevali a cercare un'apparenza che fosse prima; al suo cospetto le altre apparenze cessavano di essere quelle che erano, e si menomavano. Collo stabilire un principio, i filosofi del decimottavo secolo prendevano l'assunto, come Descartes, come Spinosa, di scoprire la grand'equazione dell'universo; l'assurdo cartesiano ripetevasi capovolto quando essi passavano dall'individuo o piuttosto dalla sensazione al genere e all'idea. Essi non possono potevano limitarsi a dichiarare che il genere è una nostra maniera di vedere; devono penetrare il processo con cui si forma nel nostro intelletto. Locke dice che formasi per astrazione: così una facoltà dell'anima si sostituisce alle somiglianze delle cose, o almeno le supplisce. Esistono esse realmente? o sono nostre illusioni? Se non esistono, l'astrazione non può afferrarle; se esistono, i generi sono, non si formano. Adamo Smith risponde che non esistono, che noi generalizziamo colla forza sola della parola, che la parola sola è generica, che il genere non è. Sia; in qual modo la parola sola sarebbe generica? in qual modo produrrebbe essa l'illusione del genere? È convenuto che il genere non è; è inteso che l'illusione del genere esiste; ma se essa sorge dalla parola, bisogna mostrarci in qual modo la parola oltrepassando le cose percette, le fa parere come non sono, nei generi. Hume risponde, che la parola corrobora l'associazione delle idee, cioè l'abitudine; e l'illusione del genere esce dall'abitudine, la quale riunisce gli individui distinti e li afferra nell'ordine del loro apparire, sì che ogni uomo ci richiama gli uomini. La risposta non vale: gli uomini non sono l'uomo; la moltitudine non è il genere; la unione non è la generalizzazione. L'abitudine restringesi a riunire i fenomeni: li generalizza? li rende essa somiglianti? può essa trasportare il simile nel diverso? l'identità nella differenza? L'unione di due cose opposte è forse una generalizzazione? In qual modo l'abitudine diventerà il tempo, lo spazio, l'essere, la sostanza, la causa, generi primitivi universali, superiori ad ogni abitudine, e contenenti necessariamente le abitudini, giacchè ogni essere, ogni associazione appare contenuta dal tempo, dallo spazio, dalla sostanza, dalla causa? Se Spinosa, costretto a individuare la sostanza, dichiarava essere noi modi dell'eterno, Davide Hume, impegnato a generalizzare la sensazione, dichiara essere la sostanza un modo dell'io: se Spinosa crea la natura traendola dal vuoto della sostanza, David Hume la crea traendola dal vuoto dell'abitudine. Dai due lati il processo è lo stesso, l'impossibilità torna la stessa, e i nuovi filosofi non possono distruggere la metafisica che aborrono e che s'insinua, a loro dispetto, ne' loro sistemi; riluttando all'apparenza, rimangono avvolti nel vortice della critica.
Il genere fu ristaurato da Kant; ma poco giova se l'eclettismo, fondandosi sui generi, pretende di avere sconfitta la critica. Gli eclettici si rallegrano di avere conquistate le nozioni eterne dello mspazio, del tempo, della sostanza e della causa: le adorano, ne parlano giubilanti come di principj assolutamente certi, i quali, giusta Platone, danno alle cose la potenza di essere conosciute, all'anima quella di conoscerle. Codesti nuovi scolastici si pascono di parole, e vendono un inganno. Lo spazio, il tempo, la sostanza, la causa non ispiegano nulla, non attestano, non istabiliscono che sè stessi; sono vuote generalità, da cui nessun oggetto può essere determinato o vincolato in modo alcuno. I corpi sfuggono alla generalità dello spazio, i moti a quella del tempo, le sostanze alla sostanza, gli effetti alla causa: certissimi dei quattro principj, a cui devesi almeno aggiungere il quinto dell'essere, restiamo incertissimi sui corpi, sui moti, sulle cose, sulle generazioni, su tutti i fenomeni della natura, i quali potrebbero attuarsi al rovescio, intervertirsi in tutti i sensi, senza che lo vietino i principj che chiamansi conquistati sullo scetticismo. A che dunque si riduce la celebrata vittoria sulla critica? a una millanteria. Poi, la critica non si sviluppa negando l'evidenza dei generi sommi o inferiori; al contrario, si sviluppa accettandoli, e opponendovi un'evidenza contraria, opponendo allo spazio il corpo, al tempo il moto, alla sostanza le sostanze, alla causa gli effetti: ivi trovasi la contraddizione: chi vanta festivo la conquista dei generi supremi, provoca illuso i supremi dilemmi dell'universo, quelli appunto che a priori rendono il mondo impossibile. E come l'eclettismo resiste alla contraddizione? Affermando che la sostanza è attiva, che il nostro percepirla la suppone operante su di noi, quindi energica, generatrice di effetti; quindi generatrice della natura, e causa di tutte le sostanze: la causa diventa così il termine medio con cui si transisce dalla sostanza alle sostanze. La sostanza è dessa veramente attiva? Appare sostanza e non altro, sta in sè, fatta astrazione dal nostro percepirla; sebbene percetta, si dice indipendente, non ha bisogno delle sostanze, come lo spazio che non ha bisogno dei corpi, benchè percetto all'occasione dei corpi. Dunque la sostanza eclettica non è la sostanza che appare, è un genere attivo, un'invenzione metafisica, dunque dalla sostanza non si procede necessariamente alla causa. Dato il passaggio alla causa, giungiamo noi logicamente alle sostanze? L'affermarlo vale quanto affermare la contraddizione con parole che la travisano ignorandola. La causa si áltera, riassume le stesse contraddizioni dell'alterazione, e noi coll'affidarle l'origine del mondo facciamo dipendere tutta la natura dal principio stesso della contraddizione. L'eclettismo ricade ciecamente nella metafisica; ma col cuore palpitante d'ipocrisia, ci mostra Dio nella sostanza, affinchè lo spettro della religione riappaiaseno della filosofia. Questa èla sua vittoria. Spinosa impugnava la religione colla metafisica, l'eclettismo raccozza i cenci di Spinosa perchè profittino alla Chiesa. Stiamo all'erta, che la filosofia non c'inganni. La causa non è se non il genere delle cause, il genere delle sostanze considerate nell'operare, un genere non di esseri, ma di relazioni, non di equazioni, ma di contraddizioni. Causa significa lotta, combattimento, alterazione, gravitazione, affinità, generazione; significa vivere, morire, nascere, perire, ipparire, scomparire. Vacua per sè, ci lascia nell'ignoranza delle cause, nulla insegna alle scienze, non afferra la verità, non è reale, non positiva, non determinata: non è il Dio padre che guidava i nostri padri, nè la ragione che guiderà i nostri figli.



Capitolo VII

LA RIVELAZIONE DELLA MATERIA

I nostri sensi non percepiscono se non materie minerali, vegetali, solide, liquide, aeriformi, fluide, imponderabili: la materia propriamente detta non è se non il genere delle materie; ma appare tostochè una materia si vede.
Considerare la natura sotto l'aspetto della materia, torna lo stesso che considerarla sotto l'aspetto di un genere, di un'astrazione, e precisamente sotto l'aspetto della quantità, fatta astrazione dalle qualità. Un metro cubo assolutamente pieno sarà sempre la stessa quantità, la stessa materia: cento libbre di peso, siano esse oro o ferro o pietra, sono sempre cento libbre di materia.
Mentre la materia rimane inalterabile, le forme, le qualità, cambiano; gli esseri, nascono, periscono, si trasformano; un mondo permanente nella quantità diviene successivamente mille mondi diversi nelle qualità. Questo appare, questo è, nè altro sappiamo.
La metafisica della materia incominciò dal primo tentativo per sciogliere le antinomie che sovrastavano alla rivelazione materiale. Nei primi giorni della filosofia si chiese già qual fosse la materia che generava tutti gli esseri. Il cambiamento destava maraviglia, e se ne cercava il principio che restava, quale il termine che desse l'equazione o la deduzione delle metamorfosi della natura. Talete pensò che la materia è l'acqua, e che l'acqua trovasi nel fondo di tutti gli esseri. Essa inumidisce i germi, feconda la terra colle piogge, coi fiumi, coi laghi; la terra stessa è un deposito dell'acqua; evaporandosi, l'acqua genera l'aria, alimenta il fuoco; quando il freddo l'assorbe, genera i metalli, che sono liquidi consolidati. Dovunque l'acqua dispensa la vita alla superficie della terra, come nel fondo dell'Oceano e intendiamo come Talete vedesse la forza generatrice dell'acqua in tutti i fenomeni; essa sembrava rivelargli il sillogismo occulto di tutte le metamorfosi.
S'incontra un'obbiezione, primo cenno d'una critica che ignora sè stessa: perchè l'apparenza dell'acqua deve signoreggiare tutte le apparenze? Invece di esser causa, perchè non sarebbe l'effetto d'altra materia più sottile, più variabile, più penetrante? Di là i sistemi d'Anassimene e di Diogene d'Apollonia: ivi l'aria succede all'acqua, invade l'universo, crea il freddo, il caldo, si condensa; i gradi di densità formano gli elementi; essa nutre la vita, la governa. Onde meglio spiegare il mondo, Diogene d'Apollonia vuole l'aria intelligente e ragionevole; non è più l'aria atmosferica, essa sa molte cose, è quasi un Dio. La genesi del mondo per mezzo dell'aria, dedotta di fenomeno in fenomeno, rendeva ragione della terra, del pensiero, dell'uomo.
La critica s'avanza d'un passo: l'aria, domanda essa, è realmente la materia universale? è il più forte, il più sottile degli elementi? non havvi forse un momento in cui la forza dell'aria vien superata da una materia più vivificante? Si; havvi il fuoco, ed il fuoco succede all'aria nel sistema di Eraclito. Il fuoco, ardendo e spegnendosi con misura, genera tutto; il fuoco è nel moto, nella vita, nella morte di tutti gli esseri. Esso è creatore e divora i suoi parti; Giove si trastulla quando fa il mondo, e la guerra eternamente rinnovata dal fuoco che si riaccende, costituisce l'armonia. Se tutte le dissensioni degli Dei e degli uomini avessero fine, tutto perirebbe, perchè l'alto, il basso, l'acuto, il grave fanno l'armonia, e la vita esce dalla antitesi del maschio e della femmina. Sostituito all'aria intelligente di Anassimene e di Diogene d'Apollonia, il fuoco di Eraclito diveniva la mente dell'universo, che l'anima scintilla del fuoco eterno, imprigionata nel corpo, può sola divinare.
La critica distrugge anche il fuoco di Eraclito come l'aria di Anassimene. Non havvi ragione perchè una materia primeggi su tutte le altre, perchè un'apparenza domini tutte le apparenze. La scelta del principio materiale era arbitraria. Nè il principio rimaneva fedele alla sua stessa apparenza; l'acqua di Talete non era più l'acqua; l'aria di Anassimene, e soprattutto di Diogene d'Apollonia, non era più l'aria; e il fuoco d'Eraclito, non era quel fuoco che ci scalda. Trovavasi sempre fallita la deduzione dalla materia alle diverse metamorfosi della materia; Eraclito stesso lo sentiva, non passava da un fenomeno all'altro se non per la lotta dei contrari, per la contraddizione, per la negazione della scienza, per la negazione del suo principio, il quale, già chimerico per sè, cessava sempre di essere quello che era. Così la creazione e la distruzione della qualità non era spiegata, ma solo verificata ed erasi verificato l'impossibile secondo la logica. Ora, la logica reclamava, al contrario, una materia permanente, costante; non concedeva la deduzione se non subordinata alla condizione di mostrar sempre lo stesso principio in tutte le conseguenze. Bisognava dunque una nuova materia per sottrarsi alle contraddizioni che attribuivansi all'impotenza de' filosofi. La materia persistente, fissa, sempre identica, trovasi presso i filosofi della scuola meccanica, presso Anassimandro, presso Anassagora, presso Empedocle. Il primo non vuol più, come Anassimene, dedurre le diverse materie da una materia unica; egli ammette una diversità primitiva nel seno degli elementi; la sua vera materia è la confusione, il caos; la sua genesi del mondo non è più creatrice, è un lavoro di mescolanza e di separazione, Anassagora dice apertamente, che nulla nasce, nulla perisce, tutto è nella materia, tutto in ogni germe, in ogni omeomeria, e l'ordine sorge dalla confusione universale in forza d'una separazione, in cui il filosofo greco invoca per la prima volta l'intervento di un'intelligenza posta fuori dalla materia. Lo stesso caos, la stessa confusione formano la materia d'Empedocle; colla differenza, che presso di lui il lavoro si attua in forza dell'odio e dell'amore.
Il caos non resiste alla critica: la confusione esclude la separazione; la separazione esclude la confusione: se due cose si fondono, la logica vieta di distinguerle; la distinzione è pure una creazione, anch'essa genera qualità nuove, che escono dal nulla. Era mestieri d'un'uscita a questa contraddizione, ch'era presa per una contraddizione dei filosofi, e la nuova uscita fu l'atomo di Democrito, l'atomo che non nasce, non perisce, che fissa la materia nella sua quantità inviolabile, e la cui variazione si riduce al rapporto, alla figura, alla disposizione. L'atomo appagava la logica, e in pari tempo riproduceva la contraddizione più forte e più aperta. E in qual modo l'atomo è desso percepito? Vien supposto, ma non appare; trascende l'apparenza; il nostro senso non percepisce che le immagini (e?´?d??a), che si staccano dagli atomi, o piuttosto dagli atomi combinati. La materia è dunque un'ipotesi imaginata per ispiegare le variazioni del mondo: ma l'atomo spiega il cambiamento con una materia che non cambia: spiega l'apparire delle qualità variabili, con una materia invariabile; spiega la fusione, l'individuazione, la vita con una materia, le cui parti rimangono disunite, senza azione continua. Per render ragione del cambiamento, Talete avea cercato la materia del cambiamento; per render conto della diversità delle materie, Anassimandro avea posto il caos; per uscire da una confusione impossibile, proclamavasi l'atomo: e l'atomo dava una formale mentita alla natura, la rendeva impossibile.
Quando Platone ed Aristotele ebbero ben intesa la contraddizione, la metafisica della materia subì una compiuta rivoluzione. Era convenuto che la materia rendeva impossibile la formazione e la distinzione degli esseri; era convenuto che la quantità fissa, che chiamasi acqua, aria, fuoco, caos, omeomeria, atomo, rendeva impossibile la diversità delle cose: era evidente che prima di tutto bisognava render ragione di ciò che appare, della diversità, del cambiamento, dell'alterazione, della vita, della ragione. Fu dunque spogliata la materia di tutte le qualità; le si tolse persino la quantità determinata e invariabile, e s'inventò una nuova materia in nessun modo materiale, che fu confinata tra il non essere e lo spazio, come un'astrazione, come una mera possibilità. L'equazione dell'universo doveva trarsi da altri principj, dai tipi, dalle essenze, da Dio. Giusta Platone, la materia è la combinazione del grande e del piccolo: Aristotele la definì il non-essere in atto, e l'atto in potenza; l'assioma che nulla nasce, nulla perisce, fu trasferito agli altri principi, ai tipi, alle essenze, a Dio; quasi non restò alla materia altro officio se non quello di render possibile la distruzione e la morte. Se i corpi si dissolvono, se gli esseri si corrompono, in sentenza di Aristotele e di Platone, si è che sono uniti alla materia, corrosi dal nulla; questo nulla li rende visibili, pure li condanna dall'origine a scomparire per ritornare alle loro regioni invisibili, in cui nulla nasce, nulla perisce. Tale fu la materia per il corso di duemila anni; indigente, avida d'una forma per apparire, ridotta alla mera inconsistenza, alla condizione per cui le forme possono scomparire, essa non contò per nulla; la fisica venne compiutamente soverchiata dalla metafisica. I fenomeni sono governati dall'astrazione; ciò che appare da ciò che mai non appare; l'invenzione è surrogata ai fatti, vivesi nel mondo del peripatetismo, frammisto qualche volta al platonismo.
Nel decimosesto secolo la critica riprende il suo impero. Telesio svela tutte le contraddizioni della fisica di Aristotele, mostra l'assurdo della materia senza qualità, senza quantità, eguale al nulla. Bisognava una nuova materia. Telesio, Campanella, Gassendi cercano, finalmente Bacone scopre e l'addita là dove essa è, nella materia. «Noi dobbiamo sottomettere,» egli dice, «il nostro intelletto alle cose, e Platone sottomette il mondo a' suoi propri pensieri; Aristotele sottomette gli stessi pensieri alle parole; egli inventa una materia la quale è la materia delle discussioni, e non quella del mondo. La materia non è informe, nè astratta, nè possibile; la materia, la forma, il moto si uniscono; haec tria nullo modo discerpenda.» Per noi Bacone è il rivelatore della materia, da lui comincia la fisica moderna; egli è il messia del mondo materiale; Telesio, ch'egli chiamava il primo degli uomini nuovi, era solo un precursore, non aveva visto la necessità di sottoporre l'intelletto alle cose, non aveva dedotto da questa necessità il dovere di accettare la materia quale appare indivisibile dalle sue trasformazioni, non aveva proclamata la natura come rivelazione materiale. Egli staccava ancora dalla materia il freddo, il caldo; trasformavali in principi incorporei, deduceva il mondo dall'eterna guerra che si fanno nel seno dei corpi; in altri termini, egli era metafisico, cercava equazioni, deduzioni e i suoi principj stavano ancora al di là dell'apparenza, in un calore, in un freddo diversi dal calore e dal freddo della materia. Bacone arresta la metafisica, la detronizza; vuole che la fisica incominci col fatto della materia formata ed attiva. Pure Bacone non sospettava che tale fatto fosse la più grave delle contraddizioni, non sospettava che quella metafisica da lui spregiata non avesse la sua ragione d'essere se non negli sforzi de' filosofi per sottrarsi a tale contraddizione.Non giungendo a discernere la contraddizione critica dalla positiva, non valse a difendere la sua propria rivelazione contro i metafisici, i quali ben valevano ad intendere la contraddizione della materia formata e attiva, vale a dire determinata e indeterminata, immobile e mobile, figurata e senza figura, estesa ed inestesa. Quanto Bacone era superiore ai metafisici proclamando il regno dell'apparenza, altrettanto era loro inferiore ignorando le antinomie dell'apparenza; la metafisica non poteva soffermarsi dinanzi alle pretensioni d'un novatore inconscio della propria forza; l'insegnamento di Bacone, riservato a' fisici, si trovò differito il diritto d'insegnare appartenne ancora agli uomini che conoscevano le contraddizioni della materia.
Quando Descartes cercò l'equazione dell'universo, non mancò di accusare d'inconsistenza la materia; e poichè dopo Telesio, dopo Gassendi, dopo i progressi della fisica, l'antinomia presentavasi sempre più forte. Descartes egli rinnovò l'atomismo; egli che prendeva per primo ed unico dato il pensiero, poi l'essere, Dio, lo spirito, come poteva dedurre dal proprio principio l'atomo esteso, mobile, poi il corpo e l'azione e la reazione degli esseri corporei? L'atomismo di Descartes rimase qual episodio staccato dal sistema, in contraddizione col principio cartesiano; quest'episodio fondavasi sopra un'ipotesi in cui la materia diveniva eguale allo spazio, e mobile per servire di punto di partenza ad una nuova serie d'equazioni naturali affatto estranee alle equazioni del pensiero, le quali si fermavano neI mondo dello spirito. L'atomismo cartesiano chiarì solamente: 1.° che non havvi equazione, nè transito logico dal pensiero all'estensione, dallo spirito al corpo, 2.° che non havvi neppure passaggio logico dagli atomi invariabili e distinti alla formazione de' corpi variabili e continui. Laonde due problemi: l.° in qual modo si può transire dal pensiero al corpo? 2.° in qual modo si può transire dal corpo variabile e continuo agli elementi che lo compongono? Due risposte erano necessarie; le due risposte furono due sistemi.
1.° In qual modo si può passare dal pensiero al corpo? Malebranche dimostra che non havvi passaggio. L'oggetto materiale è fuori del pensiero, non può toccarlo, lo spirito non può trasmettergli alcuna impressione, alcun'immagine, la visione del mondo è impossibile: che è adunque? è la visione delle cose in Dio, il quale è il creatore dell'impossibile. Berkeley si spinge più oltre: neppure in Dio, egli dice, noi vediamo la materia; dunque essa è un nostro pregiudizio, non esiste.
2.° In qual modo si può passare dal corpo variabile e continuo a suoi elementi? L'elemento del corpo, risponde Leibniz, non può essere un corpo; nel qual caso l'interrogazione si ripeterebbe all'infinito; dunque l'elemento del corpo non è corporeo, non è esteso, non è un atomo, è un punto indivisibile, una monade, un'anima. La monade, dominante, costituisce il corpo, lo fa uno e distinto; dominata, è l'elemento del corpo, lo fa multiplo e continuo. Rimane a sapere come si possa passare dalla monade dominante alla dominata; in altri termini, come l'uno si congiunga col multiplo, il finito coll'infinito, l'esterno coll'interno; problemi che si traducono l'uno nell'altro: Leibnitz risponde traducendoli tutti nel problema dell'io in relazione colle cose che percepisce senza poterle toccare, nè esserne tocco. L'io è in sè, vede in sè l'universo, l'universo corrisponde alla sua visione per un'armonia prestabilita: istessamente, ogni oggetto è un io, una monade, che può divenir l'io e più che l'io, e intanto fa l'oggetto in sè, per sè, non ha parti, non si estende alle parti; le altre monadi rispondono al suo impero, e si dispongono in modo di simular le parti corrispondendo a tutto in forza di un'armonia prestabilita. Così si formano il continuo e il discreto, l'uno e il multiplo, l'infinito potenziale e il finito fisso, il tutto e le parti, per cui la materia vive di pensieri in ogni monade, e fuori delle monadi non è materia.
Dove siamo giunti? Siamo giunti alla visione in Dio, alle anime, a Dio o dovunque piaccia, ma certo fuori dell'apparenza, oramai accusata e convinta d'essere falsa e assolutamente impossibile. Qui la metafisica della materia non è nemmeno la metafisica della materia, è la scienza di ciò che non esiste, di ciò che non appare, di una moltitudine di entità in contraddizione colla realtà, e apertamente in contraddizione con sè stessa.
Dopo Malebranche e Leibniz la metafisica venne disprezzata, lo scherno oltrepassò la confutazione, i suoi rappresentanti subirono il martirio della derisione. Fu deciso ch'era mestieri attenersi al buon senso; e lo stesso Kant accordava poi lettere patenti che sanzionavano la satira volteriana ispirata dal buon senso contro la metafisica della materia. Oggi possiamo oramai accettare la rivelazione naturale di Bacone, e sottomettere l'intelletto alle cose; noi sappiamo quando e come le cose sottomesse all'intelletto, sottomesse alla logica, diventano teatro della contraddizione universale; sappiamo quando e come questa contraddizione presa per l'errore di un giorno, di un uomo, di una scuola, ha sospinto lo spirito umano nell'evoluzione metafisica e questa finisce coll'universalizzare, col dimostrare l'eternità dei dilemmi, e la necessità di sottoporre la logica alla rivelazione naturale.



Capitolo VIII

LA RIVELAZIONE DELLE MATERIE

Lo stesso materialismo è una vera metafisica. Quando il fisico dice che la visione è l'effetto della luce che cade sull'organo della vista, divien metafisico, se questa descrizione è da lui tenuta come una spiegazione. Per far ritorno alla metafisica, non è necessario tornare al fuoco d'Eraclito, all'aria d'Anassimene, all'acqua di Talete; basta imitare Darwin, e porre nella contrazione il principio della sensibilità e del moto; basta imitare Cabanis, e porre il pensiero in una secrezione; se al primo passo una simile metafisica si riduce ad un errore positivo, se le sue contraddizioni sono affatto personali e positive, al secondo passo esse si confonderanno colle contraddizioni critiche e coi dilemmi eterni. Il perchè noi esporremo le apparenze della materia.
La prima apparenza della materia non trovasi nelle qualità che variano. ma nella persistenza di una quantità determinata, che si mostra nella resistenza, nella mobilità, nell'estensione e nella figura. Qui la materia rivelasi come un'estensione che resiste, che si move, come uno spazio solido distinto da uno spazio vuoto: quando abbiamo detto che tale apparenza è un quantum inalterabile, un genere in cui havvi equazione tra il genere e la somma degli individui tutti indiscernibili e indistinti gli uni dagli altri, il nostro potere di conoscere e di astrarre tocca l'estremo suo limite. È lecito dare un nome alle parti della materia considerate in questa prima apparenza, è lecito di chiamarle atomi, purchè si confessi che l'atomo è una astrazione della mente, un modo di dimenticare tutte le qualità della materia, tranne l'estensione, la mobilità, la resistenza e la figura.
La seconda apparenza della materia è la diversità delle materie prime; spetta alla chimica il noverarle. L'atomo è passivo, sì passivo che può essere concepito come un oggetto il quale riceve il moto; le materie sono attive e dotate di proprietà: l'atomo è per sè in riposo, la sua facoltà di ricevere il moto non suppone il moto, le materie agiscono, e non hanno che ad essere per dare il moto. Le parti delle diverse materie, considerate nella diversità loro, chiamansi non più atomi, ma molecole: quante sono le materie, altrettante le classi delle molecole. Non havvi proprietà alcuna che sia comune a tutte le molecole: nemmeno il peso, nemmeno l'attrazione può essere concessa a tutte le molecole: se i corpi gravitano gli uni verso gli altri, alla gravitazione resiste l'apparenza opposta delle forze centrifughe. Gli astri conservano le loro distanze rispettive, non si avvicinano, non tendono a fare un tutto unico e compatto: se l'attrazione fosse legge naturale delle molecole, se la forza centrifuga fosse l'effetto d'un impulso, di uno slancio accidentale i mondi finirebbero a concentrarsi; l'attrazione, benchè affievolita dalle incommensurabili distanze, avrebbe avuto l'eternità per operare il concentramento di tutte le materie. Le molecole differiscono dunque secondo le materie alle quali appartengono. Quante sono le materie o le classi delle molecole? Nessuno potrà dirlo mai; la chimica potrà sempre suddividere le materie conosciute, e scoprire nuove materie sconosciute. Quante sono le proprietà di una materia determinata, per esempio, dell'ossigeno? È impossibile indovinarlo; nuovi oggetti posti in contatto coll'ossigeno potrebbero provocare in esso la manifestazione di nuove proprietà; dunque nulla di definito; il possibile in tutta la sua estensione s'apre dinanzi ad ogni molecola.
La terza apparenza della materia è il germe, principio di organizzazione dal seme più informe fino all'animale più complicato. Ogni molecola è essa un seme, un germe? può essa divenirlo? Nessuno può rispondere; l'origine dei semi è indiscernibile. Egli è certo che tutte le specie d'animali e vegetali formano di continuo nuovi germi, è certo che se ogni specie non incontrasse ostacoli estranei alla sua moltiplicazione, potrebbe assimilare l'universo: i germi che essa produce e che periscono per miriadi, sono essi formati o preformati? Esciamo noi dal seme de' nostri padri o dal seme della eternità? L'apparenza è per la prima alternativa, la logica per la seconda; ma la logica non ha diritto alcuno, nè sul noto, nè sull'ignoto: la stessa ragione che vieterebbe al seme di essere formato, gli vieterebbe di svilupparsi. Ogni sistema sull'eternità dei germi è parto della metafisica. Le masse delle materie inerti e inanimate, come la sabbia o il granito, sono esse spoglie d'ogni vitalità, o sono semi, o semi in potenza, o molecole che attendono il giorno della vegetazione o della vita? Ci è impossibile di rispondere, l'apparenza è muta. La impossibilità di rispondere continua quando si tratta di sapere se ogni seme ferma il suo sviluppo in una classe determinata di esseri, o se può oltrepassare la propria classe progredendo indefinitivamente. Platone, Aristotele, Cuvier stavano per la prima alternativa; i filosofi della scuola jonia e Lamarck stavano per la seconda: la questione non può essere decisa, l'apparenza non la decide. Che diventa il germe nel momento della sua dissoluzione? Si scioglie; se volete che rimanga, che si conservi a dispetto dell'apparenza, se lo volete immortale, proclamate l'assioma che nulla nasce, nulla perisce, l'assioma della logica che vieta alla rosa di spuntare e che le vieta di perire, che rende il mondo impossibile.
Crederemo noi all'esistenza degli esseri immateriali? Sì, quando si rivelano e si percepiscono; no, se gli esseri immateriali sono l'opera della nostra intelligenza. Io non vedo altri esseri immateriali, tranne gli esseri indivisi dalla stessa materia: vedo i generi; l'uomo, l'animale, la rosa, la pietra, cose intangibili, ma esistenti; e quando non vi sono più uomini, nè rose, nè pietre, il genere scompare cogli individui. Vedo altresì l'unità di ogni individuo organato, unità immateriale, intangibile quanto il genere, benchè io possa toccare le diverse parti dell'individuo; dunque ogni individuo organato è immateriale, e quando muore, cessa di essere: il disparire della sua apparenza lo uccide.
Se si tratta dell'anima umana, il ragionamento è lo stesso; l'unità dell'uomo è immateriale, deve essere riconosciuta quando appare, deve cessare quando scompare. In questo senso lo studio della natura non respinge lo spiritualismo de' teologi, ma lo utilizza; non lo confuta, ma lo rettifica. Ecco la rettificazione:

IL TEOLOGO.


Il vostro giudizio, la vostra volontà, la vostra coscienza attestano l'unità del vostro io; dunque è uno, indivisibile, dunque immateriale.

IL NATURALISTA.


Il giudizio, la volontà, la coscienza dell'animale mostrano l'io dell'animale uno e indivisibile; se mi volete immateriale, accordatemi che ogni animale lo è.

IL TEOLOGO.


Ma voi siete ragionevole.

IL NATURALISTA.


Ma l'animale pensa, ha una coscienza, paragona, giudica; il suo io è come il mio, dunque è immateriale; io non posso ammettere l'immaterialità dell'anima umana senza ammettere l'immaterialità di tutti gli animali.

IL TEOLOGO.


Vi accorderò l'immaterialità di tutti gli animali, almeno allora mi accorderete che l'anima dell'uomo è immateriale.

IL NATURALISTA.


Voglio di più; voglio che l'anima della rosa, che quella d'ogni fiore siano immateriali: difatto, rispondetemi, perchè la mia anima è immateriale?

IL TEOLOGO.


Lo ripeto; le nostre sensazioni si riferiscono ad un punto uno ed indivisibile; il nostro giudizio ravvicina due idee, e suppone il punto unico e indivisibile della loro cognizione: lo stesso si dica della volontà, della memoria, delle altre facoltà, tutte diverse e distinte, eppure concentrate in un punto unico.

IL NATURALISTA.

Benissimo. La congiunzione, l'identificazione di due cose, di due facoltà, ci sforzano adunque a supporre un io indivisibile; ora io vedo nel fiore più forze che cospirano, vedo una cosa unica che si diversifica e si svolge nelle foglie, nei petali, senza cessare d'essere unica e di dominare il complesso del fiore. La rosa è come un animale, essa opera; grande o tenue nel suo sviluppo, mostra l'unità di un'essenza che domina la diversità materiale; assorbe la terra, sceglie le molecole, le coordina, le orna di qualità inesplicabili: da che riservate alle anime il privilegio di identificare, di subordinare ad un punto unico e indivisibile la pluralità de' fenomeni, è forza supporre un'anima in ogni rosa.

IL TEOLOGO.

Promettete voi il paradiso alle rose?

IL NATURALISTA.

Nè alle rose, nè a' teologi; ma se le anime esistono sono dappertutto, nell'uomo, nell'animale, nel fiore, nella pietra, nel cristallo, che suppone un principio dominatore, un principio che sceglie e ordina. Lo scegliere, l'ordinare, suppongono il dominare più cose ad un tempo, suppongono l'unità: fatale o volontaria, vivente o inanimata, l'unità si mostra nell'uomo come nell'animale, nell'albero come nel sasso. Quando il seme produce l'animale, l'essenza è una e indivisibile, opera fatalmente, come il seme che produce la quercia; quando l'animale vive, si sente uno come il filosofo che pensa.

IL TEOLOGO.

Voi non mi combattete: vedete le anime dappertutto; voi mi esagerate.

IL NATURALISTA.

Con questa differenza, che le mie anime sono indivise dai corpi, quando scompaiono confesso umilmente di più non sapere ove sono; di modo che in loro nome non fo male ad alcuno.

IL TEOLOGO.

Le vostre anime sono le essenze di Aristotele.

IL NATURALISTA.

No, sono fatti, apparenze indivise dai corpi, e quindi dalla materia.

IL TEOLOGO.

Esse formano le rose, i corpi; sono dunque le monadi di Leibniz.

IL NATURALISTA.

La monade di Leibnitz è un'anima separata dal corpo, un'anima che pensa sempre, che diviene un giorno una rosa, l'altro giorno un frammento di tavola, più tardi l'uomo e forse un mondo. Leibnitz affermava a buon diritto che le anime sono in tutti gli esseri; l'error suo era di darsi in balia alla logica, che lo adduceva a negare i corpi.

IL TEOLOGO.

Insegnatemi adunque a distinguere l'anima dal corpo.

IL NATURALISTA.

Il cielo me ne guardi.

IL TEOLOGO.

Dunque voi confondete l'anima col corpo.

IL NATURALISTA.

Senza dubbio: riconosco l'anima là dove appare, nell'albero, nel cristallo, nel sasso, in ogni germe, in ogni molecola capace di subordinare al suo impero due o più molecole per farne un oggetto unico, o, come si dice, organizzato.

IL TEOLOGO.

Così ogni molecola, ogni seme, ogni corpo organizzato o dominante, sarà nello stesso tempo spirito e materia: e come ogni seme è materiale, potrà alla sua volta comporsi di altri semi o molecole, le quali alla loro volta saranno spirito e materia, e noi avremmo anime composte di anime.

IL NATURALISTA.

Non vi sono forse dei corpi composti di corpi? Se per caso il seme della rosa contenesse altri semi più sottili, momentaneamente inerti, ma pronti a germogliare in un ambiente più etereo, trasportati in questo ambiente non mancheranno di fiorire, e la rosa perirà.


IL TEOLOGO.

Avete dimenticato che l'anima è indivisibile.

IL NATURALISTA.

E voi, che il corpo è divisibile.

IL TEOLOGO.

Or ora avete esagerato il principio della indivisibilità, ed io accordava alle rose un'anima per salvare la vostra; tra me pensava esser meglio immortalizzare le rose, che lasciar morire gli uomini; adesso voi negate il principio che mi avete accordato, cioè l'indivisibilità delle anime.


IL NATURALISTA.

Io era nell'apparenza, e rimango nell'apparenza. Vi ho detto che la mia anima non era l'essenza di Aristotele, nè la monade di Leibniz, nè l'anima della teologia; essa riducesi all'unità indivisibile di quanto appare uno e indivisibile. Quando io costruisco un edifizio, quando io ne traccio il disegno uno e indivisibile, io sono l'anima dell'edifizio: ma chi vi dice che il disegno non possa essere l'opera collettiva di più architetti, come una leggenda imaginata da più poeti, come una religione decretata da più concilj? L'unità che pare nel seme, nel germe, può essere una specie d'irradiazione che parte da un centro realmente indivisibile; può essere altresì come la convergenza d'innumerevoli raggi che partono da tutti i punti di una data circonferenza per toccare il centro. Forse la mia esistenza risulta da un'anima ignota, che domina realmente il mio cuore e il mio cervello; forse il mio cuore e il mio cervello cospirano verso quell'unità, che chiamasi la mia anima. I due casi sono egualmente impossibili nella logica, egualmente possibili nella materia della logica; io non seguo la logica, nè il possibile, sto alla apparenza; riconosco l'unità dove si mostra, e quando scompare, l'anima per me scompare. Il mio spiritualismo comincia colla mineralogia, e finisce colla storia naturale dell'uomo.



Capitolo IX

LE LEGGI DELLA MATERIA

La rivelazione materiale è tripla, meccanica, molecolare e organica: vi hanno dunque tre classi di leggi, le une meccaniche, le altre molecolari, le ultime organiche.
Il movimento scientifico si concentra nel meccanismo, si attiene alle leggi meccaniche dei corpi. Se le proprietà molecolari e organiche sono nel loro manifestarsi molecolari e organiche, nondimeno nella loro azione relativamente a noi non sono se non forze, nè si misurano che colle leggi della forza e del moto meccanico. Nel fatto tutte le forze producono finalmente lo stesso effetto: il moto; sono equivalenti, subiscono la stessa misura; la forza del bue e quella del pensiero si valutano egualmente dalle quantità che materialmente spostano. La mente di Socrate fu grande perchè dominò gli uomini e le cose e trasmise un impulso, il cui moto materiale si è propagato di generazione in generazione, da Platone fino a Cristo, e da Cristo fino a' nostri tempi. La psicologia verificherà la natura della forza di Socrate, solo la meccanica ne verifica l'azione. In generale, le leggi molecolari e le leggi organiche, appena qualificate dalle scienze naturali, sono analizzate, esaminate, cadendo sotto il dominio della meccanica.
Siamo già meccanici dal momento in cui incominciamo a verificare una legge molecolare o organica. Tal legge non è se non la manifestazione, l'evoluzione di una forza inerente ad un corpo: noi la seguiamo dividendola in più fasi o momenti: noi enumeriamo le sue trasformazioni, non vogliamo confonderle; servi dell'apparenza, vogliamo che l'una faccia luogo all'altra, e sia esclusa dall'altra. Ma chi verifica i diversi momenti della forza che si manifesta? chi li distingue gli uni dagli altri? Si è la logica, soggiogata dalla rivelazione, incatenata al fatto, che distingue l'ossigeno dall'ossido, la ghianda dalla quercia, il feto dal fanciullo. La logica distingue una evoluzione, considerata nella sua totalità, da tutte le altre evoluzioni; essa vieta di affermare un'altra evoluzione, là dove si manifesta quella dell'ossigeno, della ghianda o del feto. Questa distinzione è assolutamente meccanica, tutta esterna; nega la ghianda quando appare la quercia, nega il feto quando appare il fanciullo, nega un oggetto quando fa luogo ad altro oggetto; annienta una qualità perchè l'altra possa sorgere. Dunque l'evoluzione molecolare e organica si attua dominando la logica, e nella logica diviene ad ogni istante una questione di essere e di non-essere che si alternano, questione essenzialmente meccanica. Non si può scioglierla, senza invocare la quantità, il numero, la misura; se il naturalista descrive l'evoluzione di un genere, deve dire il tempo necessario al germogliare, il frutto che produce; deve contare, pesare, misurare i frutti: senza la misura tutto è incommensurato, e l'incommensurato è l'indeterminato, il caos.
Le dimostrazioni dei chimici e dei naturalisti sono affatto meccaniche. Dimostrare, servirsi del sillogismo, è un mostrare che il contenuto trovasi nel contenente; togliete la necessità de continente et contento, necessità che afferra le cose, considerandole sotto l'aspetto della grandezza, il sillogismo non ha più senso, non dà dimostrazione. Così il chimico quando osserva una sostanza, è chimico; quando dichiara ciò che essa è, la classifica, la trasporta in un dato genere, è un vero meccanico. Il naturalista è naturalista finchè descrive. Classifica egli gli oggetti? li dispone egli in una data serie di generi? Allora decide qual'è il genere più vasto, quale il meno vasto, e la meccanica scioglie il problema. Il politico che ci pone in una data classe di cittadini, il giudice che ci dichiara condannati dalla legge, trovansi nel caso del chimico e del naturalista. Poco importa che i generi siano oggetti immateriali, che siano intelligibili, essi sono grandezze, le classi si determinano secondo la gradazione delle grandezze: esse guidano il sillogismo per la necessità che fa contenere o escludere una cosa dall'altra in forza della proporzione delle grandezze; la dimostrazione è dunque meccanica.
Quanto più una scienza si concentra sulle grandezze o sulle quantità, tanto più s'avvicina alla esattezza desiderata dalla scienza. La astronomia non considera gli astri come tante quantità di una materia sconosciuta; non pensa alla materia, pensa alle masse, al volume, al moto degli astri e dei pianeti. Essa è una meccanica celeste, un portento d'esattezza. La meccanica propriamente detta non considera se non le masse e i moti, sta fedele al suo dato; e quindi si svolge coll'equazione e col sillogismo. Havvi una scienza della luce, perchè la luce si misura come il moto: havvi una scienza del calore, perchè il calore si move come la luce. Da ultimo, noi scopriamo una scienza in cui la materia viene affatto dimenticata, e si valutano le sole quantità sia nel numero, sia nell'estensione; ed è questa l'unica scienza che meriti tal nome, voglio dire la matematica.
La scienza della natura non si è svincolata dalla metafisica se non da qualche secolo; la scienza e la metafisica stavano talmente intrecciate, che la storia della scienza leggesi in quella della metafisica. Il deismo fu l'ultima schiavitù subita dalle scienze naturali: quando si videro i numeri, gli atomi, i semi impotenti a rivelare la sognata equazione dell'universo, quando poi fu posto in Dio il primo principio di quanto appare, fu data un'intenzione ad ogni evento, un pensiero ad ogni cosa, e fu stabilito un infinito errore, di cui le traccie restano oggi nello stesso ateismo. Di là il pregiudizio de' naturalisti che deificano la natura, da Vanini chiamata regina e dea dei mortali: anche dopo riconosciuta la non esistenza di un Dio re dell'universo, venne supposta al mondo un'intenzione, quasi avesse un anima, o fossero noti i suoi pensieri, o fosse noto il fine della natura. Quindi disconosciuta la guerra universale degli esseri, le stragi della natura, che viene osservata col proposito deliberato di non vederne il male, di non conoscerne se non il bene, di trasportare i nostri miseri concetti al creato intero, e di volerlo tutto inteso alla nostra felicità. Quindi l'ipotesi delle scempie finalità supposte negli esseri ad ogni incontro fortuito o misterioso, sempre spiegato coi nostri pregiudizi, dimenticandosi che l'aria è creata per noi, quanto noi per l'aria; il maschio per la femmina, quanto la femmina per il maschio, l'uomo per la terra, quanto la terra per l'uomo; le fiere per divorarci, quanto noi per distruggerle: chè non havvi dato, non indizio, non sintomo alcuno per isvolgere gli esseri piuttosto in una serie progressiva, che in una serie retrograda o circolare. Quindi l'ipotesi iperbolica che suppone nell'universo un progresso continuo, che attribuisce agli esseri viventi il destino di migliorarsi e di far migliore l'ambiente in cui vivono, a tutte le anime una risurrezione, forse una trasmigrazione nei diversi astri, quasi che gli astri dovessero profittare di ogni scossa, di ogni rivoluzione compiuta in una piazza di Roma, di Parigi o di Londra. La metafisica prolunga la sua agonia avviticchiata alle incertezze della geologia e dell'anatomia comparata, ostinandosi a contrafare la religione, a crearsi un suo paradiso astratto, e ad attribuire all'impassibile destino, all'inerte alternarsi dell'essere e del non-essere le speranze, i timori e le passioni del genere umano.
Più circospetta, e non più saggia, un'altra metafisica si restringe ad annunziarci che le leggi dell'universo sono costanti, uniformi: che la costanza, l'uniformità delle leggi mondiali viene assicurata dallo spazio, dal tempo, dalla sostanza, dalla causa, dall'essere che dominano gli oggetti e che non cambiano. Ma l'unità dell'essere, le forze della sostanza, della causa, dello spazio, del tempo, stanno egualmente coll'ordine e col disordine, col progresso e col regresso dell'universo; sono condizioni di quanto esiste, e non sono nulla. contengono tutto, e non impongono ad alcun essere di restare quello che è. La terra che abitiamo non sorge da queste entità generiche, il globo non è figlio dell'essere più di quello che le acque siano figlie dell'acqua. Il governo poi della terra spetta alle anime; esse ordinano le pietre, i fiori, gli animali; esse dominano la materia, da cui non sono separate, perchè la forza non si separa mai dal corpo. Ma anche le anime nella loro corsa a traverso l'eternità, uscendo le une dalle altre col progresso e col fato della guerra, non sono ancora se non la natura, sono ancora cieche e ignoranti del destino che le spinge, della sorte che le attende. Non si pensi che ogni essere debba compiere il suo destino: intorno ad ogni albero hannovi miriadi di semi e di germi sacrificati per nudrirlo; intorno ad ogni animale mille e mille esseri periscono perchè viva; nella natura l'essere che compie il suo destino gode di un fortunatissimo privilegio. A che tante declamazioni sul destino dell'umanità, quando ignoriamo i dati, l'ordine, lo scopo, in una parola, il bilancio dello spaventevole sacrificio che si attua di continuo nel vasto oceano della creazione? Lo stesso concetto del destino è travisato se lo prendiamo a nostro profitto: il destino si compie in due sensi opposti, servendo a sè, servendo ad altri, godendo e soffrendo. Spiegate qual'è il destino dell'agnello, vi spiegherò qual sia il vostro; e vedrete forse uscire dall'esterminio dell'umanità immolata il progresso della terra concessa ad una razza migliore.
Finalmente, a che si riducono l'uniformità e la costanza delle leggi in mezzo alla metamorfosi della natura? Alla nostra ignoranza; quanto più ci illuminiamo, tanto più la costanza delle leggi mondiali è scossa, e scorgiamo che un fluido alterato può cambiare la faccia dell'universo. Accettiamo dunque l'uniformità e la costanza quali si rivelano, nè cerchiamo nei generi una fatalità che le corrobori, poichè non havvi equazione tra la sostanza e la costanza dell'universo; i due termini esprimono solo la necessità del contenente e del contenuto, e per una nuova rivelazione potrebbe sparire questa stessa necessità. Che se per eternare il mondo attuale si allega la prova della nostra convinzione istintiva, della fede naturale, della aspettativa ingenita e invincibile, che s'attende a veder perpetuate nell'avvenire le leggi presenti della materia: si ponga mente alla fede, alla sicurezza con cui vive ogni insetto dell'estate, senza sospettare il disastro che lo distruggerà nell'evoluzione dell'inverno. Lasciamo la natura alla natura.



Capitolo X

IL PENSIERO

La rivelazione degli esseri si raddoppia in noi; quante sono le cose fuori di noi, altrettanti pensieri scopriamo in noi stessi: le cose e i pensieri formano così una doppia serie di fenomeni correlativi, gli uni esterni, gli altri interni; gli uni fisici, gli altri intellettuali.
Il rapporto tra i pensieri e le cose trovasi determinato dall'apparenza stessa dei pensieri e delle cose; il pensiero si stabilisce come percezione, non si riferisce mai a sè ma si rapporta immediatamente agli oggetti; senza di essi non sorge; pensare a nulla è non pensare. Gli oggetti del pensiero non esistono per noi se non percetti; eppure appena percetti si stabiliscono, fatta astrazione del pensiero. Così l'apparenza stabilisce il pensiero, l'apparenza lo fa corrispondere agli oggetti, l'apparenza lo rende servo degli oggetti, in fine l'apparenza mostra il pensiero nella dipendenza delle cose, e le cose indipendenti dal pensiero che le rivela.
Lo stesso pensiero ci dichiara quello che è, quello che fa. Manifestasi come inerente alla persona; afferma gli oggetti distinguendosi dagli oggetti; afferma il mio essere distinguendosi dal mio essere: colla memoria addita il passato distinguendosi dal passato: addita il mio proprio passato distinguendosi dal mio proprio passato. Per analizzare il pensiero basta seguire il pensiero stesso, che si giudica, si distingue da sè, senza che possiamo sapere in qual modo.
L'unico precetto della psicologia dev'essere di seguire l'apparenza, e di non pretendere ad altra funzione se non a quella destinatagli dall'apparenza. Deve seguire la fisica, e distinguersi da lei; deve abbracciare il complesso dalle nostre credenze, e supporne fuori di sè gli oggetti, affermare le cose senza toccarle: tale è l'apparenza, tale la realtà.
Il primo apparire del pensiero consiste nel vedere gli oggetti; il qual atto del vedere chiamasi percezione se gli oggetti sono fuori di noi, appercezione se sono in noi: interna, o esterna, la percezione è sempre la stessa, riducesi ad affermare ciò che appare, riducesi ad un mero giudizio affermativo. È desso istintivo, immediato, irresistibile, e per esso si passa dal vedere all'essere, dal percipiente al percetto; in breve, si aderisce fatalmente alla realtà, qualunque ne sia la forma: materia, qualità: cosa o individuo.
Data la percezione, si va più oltre: si riflette, si paragona, si astrae, si generalizza, si fanno le altre operazioni a cui il linguaggio più rigoroso riserva la denominazione generale di pensare, come se il vedere gli oggetti e l'affermarli non fosse già il pensare. La distinzione tra il percepire ed il pensare viene dedotta dalla libertà che sembra accordata dalla riflessione, la quale vien mossa dalla volontà, sembra libera, credesi indipendente. Questa indipendenza non è reale, non apparente. Non siamo mai liberi nel discernere il vero dal falso, nell'affermare, nel negare, nel dubitare; il nostro giudizio, sia che si applichi all'oggetto materiale che lo captiva, o ad un pensiero lungamente elaborato che sorga nella nostra mente, resta sempre signoreggiato dagli oggetti. Qual'è dunque la libertà del riflettere? Siamo liberi nel riflettere, come lo siamo nel percepire; possiamo por mente alla scena delle nostre ricordanze, come possiamo andare o non andare su quel monte, da cui si scopriranno più città. La libertà resta dunque esterna allo stesso pensare, non ne áltera la natura; il pensare nella percezione e nella riflessione rimane sempre fatale, sempre percezione, sempre immediato: può essere o non essere, trovarsi più o meno agevole, esigere uno sforzo di concentrazione e nessun sforzo. Ciò solo fa differire la percezione propriamente detta, dalla nostra riflessione, dove la memoria, le astrazioni, le classificazioni sempre immanenti siccome altrettanti oggetti materiali, forzano di continuo l'affermazione, la negazione, l'equazione, il sillogismo. Noi raccoglieremo dunque ogni nostro studio sull'atto unico del pensare, nè parleremo d'altro, lasciando i particolari di una distinzione più minuta.
Vi hanno due cose da notare nel pensiero: gli elementi e il movimento: cominciamo dall'esaminare gli elementi.



Capitolo XI

GLI ELEMENTI DEL PENSIERO


Gli elementi del pensiero corrispondono agli elementi degli oggetti; quanto appare nella natura, appare nell'intelletto; l'intelletto è lo specchio della natura; quanto trovasi nell'oggetto conosciuto, ritrovasi nella cognizione. Le cose della natura si dividono nelle due grandi classi degli individui e dei generi, hannovi dunque nel pensiero gli individui e i generi, cioè le senzazioni e le idee.
La percezione è captiva della cosa percetta, non è se non la cosa sotto la forma della sua propria affermazione; istessamente le idee sono captive dei generi, e non sono se non i generi sotto la forma della loro concezione in noi. Quindi hannovi idee in ogni percezione, come hannovi generi in ogni cosa percetta; quindi ogni percezione subisce le condizioni ideali dello spazio e del tempo, e trovasi contenuta negli stessi generi, che contengono l'oggetto che le corrisponde.
Si dimanda se le nostre idee sono innate o acquisite: questo è il problema capitale della psicologia. Tutte le idee sono acquisite, perchè tutte sono elementi della percezione necessariamente acquisita. La sensazione è acquisita, e non suppone in noi se non la facoltà di alterarsi, per sentire e percepire; anche le idee non suppongono in noi se non la facoltà di alterarsi per concepire e percepire i generi. Finchè noi percepiamo gli oggetti, le nostre idee sono frammiste alle percezioni; e per parlar con rigore, noi non abbiamo ancora un'idea; cioè una nozione non affermata, non negata, e semplicemente concetta; quando classifichiamo i generi, allora togliamo le idee dalle nostre proprie percezioni, allora si astrae, si analizza; e le idee sono acquisite, per la seconda volta, e stabilite come idee. Dunque le idee nella loro concezione primitiva sono acquisite, nella loro concezione astratta e scientifica sono ancora acquisite, e talmente acquisite, che abbisognano moltissime spiegazioni per insegnare ad un uomo rozzo l'idea dell'essere.
Il problema dell'origine delle idee fu mal inteso e male sciolto da una psicologia ancora signoreggiata dalla metafisica.
Platone suppone che le idee sono innate: perchè? Perchè le idee sono generali: non si può estrarle dagli individui: esse non si alterano, e gli individui si alterano; esse non periscono, e gli individui periscono. Dunque le idee non sono originate, non nascono, sono innate. Il ragionamento di Platone era rigoroso, esatto, pure diffidiamo di quest'esattezza; collo stesso procedere dimostrasi l'impossibilità di trasmettere le sensazioni, dimostrasi l'impossibilità di trasmettere il moto; qui l'origine delle idee vien negata insieme con tutte le origini, e la negazione si svolge in forza della critica. Non ci è dato di resisterle, convien cedere: non è assurdo il diventare? non è assurdo che l'intelletto acquisti un'idea che non ha? che sia alterato dalle idee trasmessegli dall'esperienza? Platone prendeva quest'assurdo per un problema, il problema era d'altronde letteralmente proposto dai sofisti. «Non s'impara», dicevano essi, «nè quanto si conosce perchè noto, nè quanto s'ignora perchè ignorato.» Platone rispondeva colle idee innate; alla contraddizione critica dei sofisti opponeva una scienza innata, la quale è una vera reminiscenza, per cui non impariamo nulla, e ci limitiamo a ricordarci le nostre proprie idee senza che alcuna di esse venga trasmessa dalla natura. Ma questa scienza innata non appare; prima d'aver veduta la luce, non si ha l'idea de' colori; se le idee fossero innate, se non avessero origine, non sarebbero esse sempre presenti alla nostra mente? La soluzione platonica abbisogna di una nuova soluzione; essa nega l'origine delle idee, e, giusta l'apparenza, le idee nascono: come possono nascere se sono innate? Le idee, replica Platone, sono latenti nell'intelletto, esse devono essere risvegliate in noi dal senso, dal discorso; la rivelazione esterna non le trasmette, ma ne provoca la manifestazione. Ecco le ipotesi moltiplicate: ad onta dell'apparenza, l'idea è innata, ad onta dell'apparenza, il sapere è ricordarsi, ad onta dell'apparenza, le cose non ci trasmettono le idee, ma le risvegliano in noi: sia pure, ammettiamo tutte le ipotesi per vincere la critica, che vieta alle cose diverse, individuali e variabili di diventare idee nel nostro intelletto, attraversando i sensi. Qual profitto trarremo noi dalla idea innata e latente? Essa appare all'occasione della sensazione, dunque subisce l'influenza della sensazione, dunque il passaggio dall'idea latente all'idea che appare non è logico, dunque è contraddittorio quanto l'origine delle idee. Trascuriamo quest'antinomia, ammettiamo la scienza innata e latente, avremo per conseguenza l'uniformità e l'unanimità della scienza presso tutti gli uomini: abbiamo noi tutti le stesse idee intorno al bene, al male, la giustizia, la politica e la religione? L'idea di Platone, presa fuori dell'apparenza, rimane fuori dell'apparenza, non ispiega la varietà delle opinioni, degli usi, dei costumi, delle leggi; la rende impossibile; non ispiega le nostre idee apparenti, le rende impossibili. Nè giova l'invettiva del filosofo contro le passioni accusate di travisare le idee di mostrarci il vero, il bello, il giusto, il bene là dove non sono, nel male, facendo per tal guisa variare i capricci degli uomini e de' popoli con un delirio multiforme. No; se il bello, il giusto, il bene sono idee, devono essere le stesse in tutti, devono mostrarsi identiche presso tutte le nazioni, devono rendere la ragione infallibile come l'istinto. Accusate voi le passioni di turbare le idee? perchè non accuseremo piuttosto la confusione, il disordine, il delirio delle idee innate, sempre vinte dagli accidenti esterni e dal variare della sensibilità? Se le idee sono sì deboli, se non possono fissarsi, se formano un vero caos, in cui il distinguere i generi spetta al senso, questo caos senza forma non è forse il difetto d'ogni idea?
Volendo rendere possibile il variare delle opinioni e l'insegnamento dell'esperienza, Aristotele negava la teoria della reminiscenza: mostrava ogni scienza acquisita, ogni idea trasmessa all'intelletto dalla sensazione, stabiliva l'assioma nihil in intellectu quod prius non fuerit in sensu. L'asserto non bastava, il peripatetismo procede per via di equazioni; conveniva dichiarare il processo con cui il genere, fatto eguale da Aristotele alla materia d'ogni oggetto, potesse, a traverso il senso, deporre un'idea nel nostro intelletto. D'indi il problema: in qual modo le idee possono derivare dalla sensazione? Il sistema peripatetico dà due risposte distinte. Giusta il trattato Dell'Anima, il senso non percepisce se non l'individuo, voglio dire l'essenza, fatta sensazione dalla materia, la quale è il genere d'Aristotele. Ora, se nel senso havvi solo l'individuo, l'intelletto non dedurrà alcuna idea generale dalla sensazione, la generalizzazione sarà impossibile, le idee saranno impossibili. Tale era la conseguenza rigorosa della metafisica peripatetica; per evitarla, Aristotele áltera il suo concetto, e alla fine degli Analitici Postremi formula la seconda risposta. «Gli individui», dice Aristotele, si succedono nella sensazione come i soldati nell'esercito; lasciano una traccia nell'intelletto attivo, e le idee escono dagli individui, praetereaque ex universali quiescente in animo.» Qual'è questo universale? qual'è l'azione dell'intelletto attivo? In qual modo l'intelletto passivo contiene l'universale?... Eccoci ritornati ad una idea innata, ad un platonismo confuso, voglio dire, ad una teoria la quale permette nuove fasi e nuova carriera ai discepoli di Platone. L'assioma nihil in intellectu quod prius non fuerit in sensu nel trattato Dell'Anima riusciva all'impossibile, negli Analitici Postremi veniva contradetto; in ogni modo rimaneva sterile sino alla fine del risorgimento.
La psicologia si rinnova con Descartes. Quando Descartes, staccato da ogni tradizione, da ogni autorità, solo colla sua mente, egli trasse da sè ogni scienza, accettò implicitamente le idee innate: senza analizzarle cedeva alla necessità logica, con cui rivelavansi nel ragionamento matematico; la chiara e distinta percezione accoglievale e santificavale rendendole inviolabili, a patto di generare logicamente ogni cosa, l'io e il non-io, l'uomo e la natura. Ma che può generare l'idea? nulla, tranne sè stessa; ponendo l'idea, si resta nell'idea; e procedendo logicamente, si rende assurdo ciò che non è l'idea. Ne consegue, che l'altissima equazione cartesiana, colla quale in Dio l'essere e l'apparire erano fatti eguali, non regge: conviene ottare tra l'idea dell'essere o l'essere stesso, che è genere. Quindi il cartesianismo sempre o confinato nell'idea o tolto all'idea, e confuso coll'essere (il genere), colla necessità di scegliere tra l'idea e il genere, colla necessità di prendere l'una o l'altro come principio primo, colla necessità di degradare, di menomare, di adeguare a zero il termine reietto. Degradando, menomando l'essere, il genere, si diminuisce la verità del mondo, che finisce a trovarsi negato; e resta l'io solo, sede dell'idea: degradando, menomando l'idea, si diminuisce la verità dell'idea, che finisce a trovarsi negata, e l'intelletto resta identificato col mondo, sede dell'essere, del genere. Da quest'alternativa scaturisce poi mediatamente la negazione della sensazione per l'idea o dell'individuo pel genere: chi ammetteva l'idea, non negava la natura? e negando la natura, non negava le proprie sensazioni? chi ammetteva il genere e l'essere o la sostanza universale, non negava l'io, e coll'io ogni individuo nella sua esistenza particolareggiata, opposta al genere? Così l'idea cartesiana (se non negata) metafisicando, negava la sensazione, e quanto corrisponde all'idea ed alla sensazione, non potendosi da essa transire logicamente ad altra nozione qualsivoglia.
La contraddizione tra l'idea ed ogni cosa era patente, matematica; Locke la prende per un errore personale di Descartes, e cerca un'uscita alla metafisica cartesiana, che trasportavasi tutta fuori dell'apparenza. D'onde veniva l'assurdo? dall'idea; Locke pensò di evitarlo, ponendo per primo principio la sensazione; così sottraevasi alla logica dell'idea, la lasciava trascorrere sola negli spazi imaginari dell'errore, credeva rimanersi nei fatti. Pure Locke seguiva lo stesso metodo di Descartes, accettava l'assunto di dare spiegazioni matematiche; invece di avverare l'apparenza, la sensazione quale appare, l'idea quale sorge, opposta al senso e correlativa ai generi, egli stabiliva la sensazione siccome principio primo. Fu mestieri che le idee fossero dedotte dalla sensazione, che le sensazioni originassero l'universo; e Locke fu il primo inventore di quella dialettica che si trascina di cavillo in cavillo, negando ogni idea che pretende spiegare. D'indi presso i filosofi del decimottavo secolo l'origine delle idee, che nega ogni cosa; le equazioni fantastiche, in cui il tempo è fatto eguale al moto, lo spazio al corpo, la sostanza al riunirsi di più qualità: si affermano i generi eguali alle parole, le astrazioni eguali all'abitudine, e in generale il concepire si traduce nell'imaginare: e nulla di più fastidioso di quella serie di equivoci studiosamente elaborati, in cui la dialettica, respinta di rifugio in rifugio, non si stanca mai d'inventare nuovi espedienti per isfuggire al vero. L'assurdo cartesiano ripetevasi intervertito; chè la sensazione non era eguale se non alla sensazione, e dovevasi sempre restare nel senso: dunque l'individuo esterno svaniva, il mondo cadeva a zero, e la sola immagine restavane in noi; dunque i suoi generi, il suo essere sparivano; dunque la sensazione, con l'intermediario del mondo e senza, negava, da ultimo, le idee e l'idea stessa dell'essere, che ci permette di affermarci esistenti.
Per difetto di idee la sensazione stessa di Locke diventava impossibile, sottraevasi al giudizio che ne afferma l'esistenza: Kant cercò un'uscita perchè la sensazione potesse stare, e dichiarò innate le idee necessarie al giudizio. In sentenza di Kant, vi sono idee innate ed havvene d'acquisite: sono idee acquisite tutte quelle che riferisconsi al mondo sensibile; sappiamo di certo che ci sono trasmesse dalla sensazione, nè si potrebbe contestarne l'origine esperimentale. Sono idee innate quelle che non possono essere date dalla sensibilità, che sono anteriori all'esperienza e supposte dall'esperienza. Così un corpo suppone lo spazio, l'idea del corpo è acquisita, l'idea dello spazio innata; il moto suppone il tempo, l'idea del moto è acquisita, quella del tempo innata. Se lo spazio, il tempo ed altre idee non fossero ingenite nell'intelletto, il conoscere non sarebbe possibile; al contrario, le idee dell'uomo, dell'animale non sono necessarie, non universali, non presupposte, e non sono innate.
Fermiamoci: siamo solo al punto di partenza della teoria di Kant, e già siamo nell'errore, perchè egli rimane nella sfera del dibattimento tra l'idea di Descartes e la sensazione di Locke. L'idea cartesiana si surrogava alla natura, sostituendosi ai generi; la sensazione di Locke si surrogava alla natura, sostituendosi agli individui; le due teorie circoscrivevano l'apparenza, la mutilavano per metà, ci rinchiudevano in noi stessi, ci facevano dimenticare i generi e gli individui, distinti dalle idee e dalle sensazioni, quanto le percezioni lo sono dalle cose percette. Bisognava esaminare nel tempo stesso i pensieri e le cose, quindi le idee e i generi, gli individui e le sensazioni; conveniva non istaccarsi un istante dalla correlazione continua tra le idee e i generi, tra le sensazioni e gli oggetti. La nostra prima missione non è di giudicare la lotta tra l'idea e la sensazione: dobbiamo prima stabilire la differenza e la correlazione tra l'idea e il genere, tra la sensazione e l'individuo. Non si tratta di sapere se le nostre idee vengano dalle sensazioni, ma bensì se vengano dagli oggetti; quando vedo un uomo, vedo l'uomo, l'essere, lo spazio; questa rivelazione mi trasmette sensazioni, idee sensibili, idee non sensibili che si mostrano quali condizioni della natura. Se tale rivelazione vien dimenticata, l'idea o la sensazione avranno un valore superiore all'apparenza loro, diventeranno principj metafisici, aspireranno a dare l'equazione dei generi e delle cose; la doppia metafisica psicologica di Descartes o di Locke dovrà riprodursi sotto nuova forma.
Nel fatto, sviluppandosi, la teoria di Kant sviluppa il vizio che trovasi nella sua origine. Giusta Kant, le idee innate, che egli chiama idee pure o forme della ragione, presentano caratteri che escludono la sensazione; sono universali, e la sensazione è limitata; sono necessarie, e la sensazione è contingente: nessun oggetto sensibile si sottrae all'idea di tempo, nessun oggetto è necessario come il tempo. Lo stesso ragionamento si applica a tutte le idee innate; e Kant conclude, che innate, universali, necessarie, non possono essere dedotte dalla sensazione. Ma chi ci obbliga a riferirle alla sensazione? chi ci astringe ad ottare tra l'idea innata e l'idea sensibile? È la psicologia di Descartes e di Locke, non la rivelazione: fuori del pensiero hannovi le cose, e nelle cose gli individui e i generi: le idee possono forse esserci trasmesse dalla natura? Questo è il problema. Nella natura hannovi il tempo, lo spazio, l'essere e tutti i generi che cattivano il pensiero; perchè non ci fornirebbero le idee correlative di tempo, di spazio, di essere, nella stessa guisa che ci forniscono la idea dell'uomo? L'universalità e la necessità di certe idee non sono in noi, non sono nel nostro pensiero, sono nei generi, da cui ci vengono imposte: la mia idea del tempo, non è necessaria, nè universale; la mia idea dello spazio alla sua volta non è universale, nè necessaria; le due idee nascono con me, periscono con me, turbansi ne' miei sogni, si dileguano nel mio sonno. L'universalità e la necessità appartengono al tempo ed allo spazio, all'essere, senza che si possa dire il come, nè il perchè; solo sappiamo che tutta la natura rivelasi contenuta nei primi generi, appare nel tempo, nello spazio; appare subordinata al genere primo dell'essere. Raddoppiandosi nel pensiero, la natura vi si trasporta quale appare; i suoi oggetti divengono percezioni, i suoi individui sensazioni, i suoi generi idee; e la necessità e l'universalità dei generi primitivi si riproduce in noi. Se può affermarsi che alcune idee sono innate, non è per essere queste necessarie ed universali, chè allora tutta la matematica sarebbe innata, i suoi teoremi dichiarandosi necessari ed universali. Non possono affermarsi innate certe idee se non considerando che sono contemporanee d'ogni pensiero, perchè nella natura il genere che loro corrisponde trovasi contemporaneo di ogni essere.
Kant difende le sue idee innate con un nuovo artifizio: afferma che la sensazione sia l'unico veicolo pel quale la rivelazione esterna giunge a noi, e asserisce la sensazione individuale, senza unità, senza generi, senza somiglianze, indefinitamente diversa in tutti i suoi punti. Ma la natura in sè rivelasi cogli individui, coi generi; in noi rivelasi colle sensazioni e colle idee; nella natura ogni individuo è contenuto da un genere; istessamente in noi ogni sensazione è contenuta in un'idea, non fosse che quella dell'essere. La sensazione di Kant, sfuggevole, non affermata, inconsistente, sempre diversa, non è che un'astrazione inconcepibile, una finzione metafisica; non è la sensazione che appare, la quale è un colore, un suono, un sapore, una qualità, quindi una cosa che corrisponde già alle somiglianze generiche. Se la sensazione imaginata da Kant esistesse, non solo le forme della ragione sarebbero innate, ma tutte le idee lo sarebbero. I generi della natura non sarebbero nella natura, non apparirebbero, sarebbero in noi: che più? noi stessi non potremmo formarli; in qual modo creare generi, fissare classi, fondandosi sopra una sensazione variabile e diversa all'infinito? Dunque nessuna astrazione. perchè da una sensazione essenzialmente diversa non si può trarre alcuna somiglianza; nessuna generalizzazione non potendosi generalizzare là dove non vi sono astrazioni; nessuna classificazione, per il motivo che, tolte le astrazioni e le generalizzazioni, le classi diventano impossibili; dunque tutte le idee sarebbero innate, imposte alle sensazioni, a priori, fatalmente, arbitrariamente; e per colmo di contraddizione non darebbero nemmeno l'apparenza dei generi, in guisa che non potremmo distinguere la nozione del tempo dal tempo stesso. La teoria di Kant incomincia da un'apparenza equivoca, e finisce a rendere l'apparenza impossibile.
Con un ultimo sforzo, Kant tenta di fermare la sensazione sfuggevole, da lui creata al di fuori dei generi, e vuoi fissarla col mezzo degli schemi. Gli schemi sono idee dimezzate, fantasmi intellettuali che riuniscono più sensazioni, e dando loro unità, ne traggono gli individui e le classi. Per Kant l'uomo è uno schema; tutti i generi sono schemi creati da una facoltà intermediaria tra la ragione e l'imaginazione, o da una imaginazione intellettuale che disegna gli schemi secondo i diversi modi della quantità. L'ipotesi degli schemi è dessa un espediente per difendere una teoria vinta o la confessione di una vera sconfitta? Quanto si dice contro l'idea di Kant, si deve ripetere contro lo schema. Là dove trovasi sola la differenza, nessuna facoltà può creare l'unità; se la natura non facesse i generi, non potremmo mai imaginarli: il genere esiste, il genere signoreggia il pensiero, vi depone l'idea; tale è l'apparenza; l'idea è data; perchè volete crearla? perchè impossibile il suo originarsi? perchè non si transisce dal genere all'idea senza contraddizione? Sia pure: l'origine dell'idea sarà contraddittoria come tutto quanto appare; ma la facoltà degli schemi è forse possibile? può essa creare l'unità nella diversità senza contraddirsi? può essa creare le idee o i generi senza trarli dal nulla? Lo schematismo è contraddittorio quanto la trasmissione delle idee all'intelletto per mezzo dei generi; colla differenza che nello schematismo il fatto contraddittorio è inventato, fantastico, superfluo, collegato con altri errori nati dall'inutile pretensione di sopprimere una contraddizione eterna.
Quale è l'analisi delle idee, tale è la psicologia di Kant. Kant aveva avvisato assurdo il concetto di Descartes, che volea transire dalle idee alle sensazioni; aveva trovato assurdo il concetto di Locke, che si sforzava di transire dalle sensazioni alle idee; aveva evitato l'uno e l'altro assurdo, rifiutandosi di dedurre certe idee dalle sensazioni, certe idee dalle idee innate; non erasi mai proposto il problema che sfuggiva a Descartes e a Locke, cioè di analizzare la correlazione tra le idee e i generi, tra le sensazioni e gli individui. Quindi la doppia metafisica di Descartes e di Locke, riprodotta nella psicologia di Kant. In quella guisa che Descartes e Locke deducevano matematicamente i generi e gli individui, l'uno dalle idee, l'altro dalle sensazioni, per cui il lavoro matematico conduceva le due scuole a negare il non-io e l'io, Kant, trascinato da' suoi propri antecedenti, dedusse i generi e gli individui dalle idee innate e dalla sensibilità. D'indi la necessità che il pensiero, composto d'idee e di sensazioni, sorgesse non correlativo a nulla, ma bastante a sè stesso; d'indi la necessità che il pensiero imponesse alle cose le proprie idee, che il pensiero costituisse la natura, che l'affermasse creandola fatalmente, che l'universo dei generi e degli individui uscisse dal pensiero, quasi che l'ipotesi opposta, la quale avrebbe tratto dai generi e dagli individui le nostre idee e le nostre sensazioni, non dovesse trovarsi egualmente imperiosa, o almeno atta a far sostare il filosofo tedesco nel suo procedere dalla psicologia alla metafisica. Da ultimo, circoscritto Kant, dai dati anticipati di Descartes e di Locke, nell'io pensante, non vedendo la contraddizione se non nelle idee e nella sensazione, usciva ad affermare essere la contraddizione nell'uomo, non nella natura; la restringeva alla nostra ragione, e anche nella ragione limitava il contraddirsi dell'uomo alle rozze antinomie colle quali alcune idee respingono, in forza della loro universalità e della loro necessità, le tesi che ci vengono offerte dalla scienza esperimentale. Quindi nel seguito la critica di Kant, sorpresa da dilemmi improvvisi, travolta, intervertita a profitto del non-io, è divenuta, nelle mani de' successori di lui, la filosofia della contraddizione; e il fondatore della critica fu trasformato così nel precursore del più temerario dogmatismo.
Concludiamo: hannovi due elementi del pensiero: l'idea e la sensazione: entrambi sono acquisiti, irreducibili ed indivisibili. Pure, se tutte le idee sono acquisite, ve ne hanno di acquisite nell'atto stesso in cui si acquistano le prime sensazioni; e sono le idee del tempo, dello spazio ed altre, soprattutto l'idea dell'essere, contemporanea della prima sensazione. Quest'ultima idea può considerarsi innata, non perchè lo sia veramente, non perchè sia negato agli oggetti di trasmettercela, non perchè l'esperienza la supponga in noi; l'essere è innato solo nel senso, che trovasi contemporaneo del pensiero. Una volta acquisite, una volta penetrate in noi, le idee devono essere nuovamente conquistate, cioè tratte da ogni pensiero, da ogni percezione; ed allora soltanto chiamansi astratte, e colle astrazioni compiesi poi il lavoro della generalizzazione.



Capitolo XII

IL MOVIMENTO DEL PENSIERO

Abbiamo esposto gli elementi del pensiero: ora dobbiamo mostrare come il pensiero procede: qual'è dunque il suo movimento?
Per sè, il pensiero riducesi al giudizio; afferma quanto pare, nega quanto dispare; rimane sempre servo del fenomeno; quindi il suo movimento riducesi all'esatta ripetizione del moto delle cose, e costituisce una specie di meccanica intellettuale. Il pensiero non penetra le metamorfosi molecolari ed organiche; dinanzi ad esso non havvi se non il grande o il piccolo, il contenente o il contenuto, il sì o il no, l'essere o il non-essere; nel pensiero un germe che si sviluppa è un germe che scompare, un albero che appare; noi seguiamo lo sviluppo molecolare ed organico, gli esseri, con una serie d'affermazioni, di cui l'ultima distrugge sempre le precedenti. Quel fanciullo cresce: affermasi l'uomo negando il fanciullo; quell'uomo muore: affermasi il cadavere negando l'uomo: qual'è la causa, la legge interna dello sviluppo che spinge il fanciullo alla gioventù, il vecchio alla morte? Noi l'ignoriamo, ristretti ad asserire meccanicamente i diversi stati dello sviluppo, la loro successione, la loro disparizione. Benchè la successione, la disparizione non siano meccaniche, pure accettiamo il fatto come fatto, come quantità, come cosa che deve essere o non essere, che devesi affermare o negare, che deve contenere o essere contenuta.
In ultima analisi, il movimento del pensiero è il meccanismo logico, il meccanismo dell'essere. L'identità consiste nell'essere che è; - l'equazione consiste nell'identità sotto due forme diverse; - il sillogismo consiste in una doppia equazione che conduce dal più al meno. La natura, soggiogando il pensiero, soggioga la logica e si rivela meccanicamente al nostro intelletto, riservandosi il segreto impenetrabile delle sue manifestazioni, delle sue qualificazioni, delle sue differenze, di cui non lascia giungere a noi se non l'essere o il non-essere.
Noi vorremmo ogni nostro pensiero certo, come se il suo oggetto fosse materialmente dinanzi a noi; aneliamo alla percezione immediata, alla rivelazione immediata. Alcuni mistici sperano uno stato di perfezione, in cui il nostro occhio potrà penetrare nelle profondità dell'universo. La percezione immediata essendo ristrettissima, dobbiamo divinare, congetturare, supporre quanto sfugge alla vista; il percepire viene supplito col riflettere. Anche nella riflessione il movimento del pensiero rimansi lo stesso; procede meccanicamente dal presente all'assente, dal noto all'ignoto, dalle premesse alle conseguenze. Lasciasi guidare dalla rivelazione che domina la logica, colla differenza che non afferma più ciò che appare, ma ciò che deve apparire; non nega più ciò che dispare, ma ciò che deve disparire. Questa necessità per cui le cose non viste devono essere o non essere in un dato momento, non è se non la necessità della logica, che vieta a una cosa d'occupare il luogo occupato da un'altra cosa, di essere in due luoghi diversi; in una parola, di trovarsi in contraddizione colla propria rivelazione. Escludere la contraddizione positiva da un complesso di apparenze che non ci è dato verificare per una ragione qualunque: ecco la funzione del pensiero. Accordato il pensiero, il suo movimento conduce dunque ad un sistema, cioè ad un insieme di apparenze armoniche, ordinate, e senza contraddizioni materiali.
Il menomo congetturare già forma un sistema, la persuasione di essere nella città, nella casa che si abita, già componsi di pensieri coordinati in modo da escludere la contraddizione. Sarà agevole l'ordinamento, non si farà attenzione al processo mentale; per ciò non cessa di essere sistematico: poichè quando un evento, un accidente qualsiasi, un delirio, un rapimento, ci rende difficile il verificare in qual città, in qual casa noi siamo; gli stessi oggetti, le stesse cose, le torri, le cupole, l'architettura degli edifizi, le apparenze più note trasformate in indizi ci faranno riconquistare, col sentimento del sistema che formiamo, le convinzioni che non avvertiamo sistematiche, tanto sono immedesimate col nostro vivere. Hannovi gli antipodi? la terra è immobile. Le risposte a tali questioni saranno sempre un sistema. Qual'è l'origine dei fiumi? che havvi al disopra delle nubi, al di là degli astri? qual'è l'origine dell'uomo? dove abitavano i nostri progenitori? chi ci ha date le prime leggi? chi ha inventate le arti? Rispondendo a tali interrogazioni, semplici e naturali, indefinite nel loro sviluppo, il pensiero si estende, e sempre sistematicamente. Può confondere i problemi eterni coi problemi di un giorno, può lottare colle contraddizioni critiche prendendole per contraddizioni positive; ma procede sempre nella stessa maniera, vuol sempre giungere ad un sistema; volontà tanto naturale, tanto profonda, che rimane inconscia di sè, e suppone il sistema nella stessa rivelazione, credendo limitato il nostro lavoro a coordinare le apparenze più sfuggevoli, perchè occupino nel nostro intelletto il luogo correlativo a quello da esse realmente occupato nella natura.


Capitolo XIII

DELL'ERRORE


Il movimento dell'errore è lo stesso movimento del pensiero, lo stesso procedere meccanico che coordina le apparenze per escludere la contraddizione.
Il fenomeno dell'errore dividesi in quattro fasi. Nella prima la rivelazione ci invade, cattiva il nostro pensiero, che l'afferma e la percepisce; qui tutto è vero; isolate ogni pensiero, l'errore scompare; circoscrivetevi alla percezione, all'apparenza immediata; se anche la vostra percezione abbracciasse l'universo, l'inganno sarebbe sempre impossibile.
Nella seconda fase si procede a coordinare le apparenze come se fossero tutte immediate; si giudica il passato, l'avvenire come se presenti; si arguiscono dal presente, e l'errore s'insinua fatalmente nella concatenazione de' nostri pensieri, che cessa di corrispondere alla realtà. Supponiamo negli astri una grandezza tangibile, eguale alla loro grandezza visibile; ci inganniamo sulle distanze, sulle dimensioni, sulle qualità, sulla durata; affermiamo ancora le cose quando son già scomparse, ignoriamo quelle che vengono apparendo. Qui l'errore s'ignora, la contraddizione non è sospettata come nella prima fase, ci crediamo nel vero, supplendo alla percezione col trasportare il noto nell'ignoto,
Nella terza fase vediamo apparire fenomeni nuovi o ignorati; la rivelazione ci apporta nuovi dati; la torre che pareva rotonda appare quadrata, il nostro pensiero si trova apertamente contraddetto. Questo è il momento del dubbio, dell'incertezza; se durasse, rimarremmo nell'incertezza, accetteremmo la contraddizione siccome un fatto; diremmo che la torre è rotonda e quadrata, nella stessa guisa che accettiamo tutte le contraddizioni eterne della materia molecolare ed organica.
Infine, nell'ultima fase ci togliamo alla contraddizione con una congettura, con un dato nuovo; l'errore vien confinato in un punto dello spazio o del nostro proprio pensiero; la torre è tonda vista da lungi, quadrata vista da vicino; la contraddizione scompare, il meccanismo trionfa, la verità vien conquistata. Nessuna apparenza fu distrutta; l'ordine solo ha variato, perchè tutti gli elementi dell'errore erano veri senza costituire la verità.
La cosa è patente: la rivelazione imponsi a noi, essa è la verità, il nostro spirito la sviluppa, l'errore s'insinua nel nostro pensiero; la rivelazione si estende, e la contraddizione ci avvisa del nostro errore: da ultimo, la rivelazione si estende di nuovo, e l'errore vien surrogato dalla verità. Così la terra appare immobile, e lo è realmente per noi; il sole si leva, e crediamo al moto del sole intorno alla terra; c'inganniamo. La natura, aggrandita dalla scienza, rende dubbio il moto del sole nelle scuole dell'antichità; havvi contraddizione: da ultimo, le scoperte dell'astronomia moderna confinano l'apparenza del moto solare nella visione, e pongono il sole nel centro del nostro sistema planetario; siam giunti al vero. Il movimento dell'errore dipende tutto dalla rivelazione; non siamo mai liberi di non ingannarci; tutti siamo necessariamente figli della nostra patria, del nostro incivilimento, dell'epoca in cui viviamo; tanto era inevitabile nel medio-evo l'errore dell'astrologia, quanto lo è in oggi il vero dell'astronomia.
Il cambiamento, l'alterazione, ecco la prima causa de' nostri errori; non accusiamo la rivelazione; essa è essenzialmente vera; non accusiamo le nostre facoltà, sono tutte infallibili quanto la rivelazione; accusiamo solo il variare degli oggetti. Nel momento in cui penso, la natura cambia, si áltera, non è più quella delle mie ricordanze; invece d'essere da lei cattivato, voglio cattivarla, renderla immobile, eternarla; quindi il mio pensiero invecchia dinanzi alla eterna giovinezza di una natura sempre nuova. Dimandate a chicchessia perchè si è ingannato; risponderà perchè credeva, pensava le cose fossero disposte in quel modo; risponderà come il cavaliere il quale torna nel suo castello risvegliandosi da un sonno di molt'anni: credevasi giovane, e si accorge di esser vecchio; la sua fidanzata era fanciulla, ora è decrepita. La natura ha cambiato. S'anca rimanesse immobile, il nostro pensiero la farebbe variare: non può abbracciarla se non portandosi successivamente da un punto all'altro, tessuto col filo delle Parche, cangiante come il velo di Maya, il pensiero spargerebbe l'errore nel cielo stesso di Platone. In pari tempo ogni sua affermazione si stabilisce eterna, e universale: diciamo che la neve è bianca, non diciamo che sia bianca sulla terra, relativamente a noi; il nostro dire è sempre semplice, dictum simpliciter, non mai relativamente, secundum quod. Tale è la formula dell'errore. Io rendo eterno ogni pensiero, lo fo essere puramente e semplicemente: come il cavaliere della leggenda, credo al perdurare di una cosa che cambia, e lo credo naturalmente, perchè l'essere è meccanico, logico; per l'essere, quanto appare deve rimanere. Io universalizzo ogni pensiero perchè lo stabilisco puramente e semplicemente: imito il pastore il quale estima dalle sue mandre la ricchezza dei re, e lo imito naturalmente, perchè l'essere e universale, se non vien limitato, se non è interamente cattivato dalla natura. Ma l'essere, quest'idea che giunge la prima nel mio pensiero, non può venire interamente padroneggiata; non havvi termine alcuno concepibile che possa adeguarla o pareggiarla. In noi e fuori di noi, principio primo dell'identità, dell'equazione e del sillogismo, contiene tutti i fenomeni reali, ma contiene anco il possibile, essendo impossibile di eguagliarlo e di scoprire una natura che possa riempierlo. Parliamo come se l'affermazione fosse una equazione tra l'essere e le cose affermate, mentre non fa che ravvicinare due termini riuniti dalla natura; parliamo come se l'affermazione fosse necessaria, mentre è contingente; come se l'affermazione fosse universale, mentre è sempre relativa a noi. Di là l'errore che incomincia dove comincia la dissidenza tra la logica e la natura, cioè nell'atto stesso del giudicare, che la logica desidera matematico, e che la natura vuole arbitrario.
In qual modo sopprimere il dissidio tra la logica e la natura? Possiamo combatterlo in due modi: possiamo lottare cercando l'identità, l'eguaglianza, la deduzione tra i due termini d'ogni giudizio; vi abbiam diritto, siamo autorizzati ad esigere che ogni pensiero divenga logico e ragionevole: questa è la via più naturale, ed essa conduce alla metafisica, e quindi all'assurdo. D'altra parte, possiamo sforzarci di specializzare l'essere in tutti i minuti particolari della creazione, quasi che sia dato agli stessi particolari di riempirlo, di adeguarla, di equipararlo. Questa è la via dell'assurdo, e conduce alla scienza: cercando d'esaurire l'infinito, di vederne tutte le possibili manifestazioni, si esplora il creato, il rivelata in tutta la sua estensione.



Capitolo XIV

UN SISTEMA ESSENDO DATO, TUTTI I SISTEMI
SONO POSSIBILI

Rettificato l'errore, si giunge alla verità: che è dessa? un nuovo ordinamento de' nostri pensieri suggerito dalla rivelazione che si estende; pel nuovo ordinamento l'intelligenza non cede alla rettificazione se non formando un nuovo sistema che reputa eterna e universale come il precedente. Così ogni sistema non è distrutto se non dal sistema che gli succede; e l'intelligenza rimane sempre sistematica in tutta la serie indefinita dei dogmi che può accettare ed oltrepassare.
Per noi l'errore sta sempre nel sistema rejetto, la verità nel sistema accettato; egli è impossibile che si trovi altrove. Ne nasce una obbiezione: «Voi disperate del vero, si dirà; chi ne assicura che il sistema al quale crediamo debba essere il definitivo? qual'è il criterio, qual è il criterio, quale la malleveria che ci protegga contro l'alterazione? Dinanzi a noi la serie de' sistemi futuri si apre vasta quanto l'infinito. Finchè una nuova scoperta sarà passibile, sarà possibile un nuovo sistema; finchè sarà dato all'alterazione di manifestarsi nel mondo della natura, un'alterazione intellettuale dovrà corrisponderle nel mondo della riflessione; finchè l'intelligenza non avrà la visione immediata della totalità degli esseri resi permanenti, nuovi sistemi potranno sempre sorgere dalle regioni dell'ignoto per rappresentare una realtà per lo avanti ignorata. Come dunque fidarci d'un sistema oggi abbracciata e forse dimani respinto? Non sappiamo nemmeno se la serie de' sistemi sia progressiva, siamo in balia delle case. Il fanciullo impara ma il vecchio dimentica; gli esseri nascono, ma la morte li attende; la generazione e la corruzione si contendono alternamente tutte le cose della natura; anche già pervenuti alla verità, possiamo ripiombare nell'errore. La difesa contro l'errore potrebbe trovarsi solo nell'equazione esatta tra la riflessione e la realtà; tra i pensieri e le cose; qualora questa equazione fosse assicurata dall'altra equazione, in cui l'universo adeguerebbe l'essere, in guisa che il possibile stesso perisse vinta da ciò che è. Allora sì che l'alterazione sarebbe vinta nelle cose e nei pensieri, in noi e fuori di noi. L'universo sarebbe eguale alla pienezza dell'essere, la rivelazione sarebbe necessaria e logica quanto la logica stessa. Ma in qual modo trovare l'equazione dell'essere colla totalità dei fatti? Sarebbe 1'equazione dell'infinito colle cose finite, dell'infinitamente grande coll'infinitamente piccolo; non potendola raggiungere, voi permettete di supporla nel fatta, di seguirla nelle cose, quasichè fossero assolute. Quindi la fallibilità nell'uomo riappare necessaria: dinanzi all'avvenire la rivelazione resta incerta, cessa; l'avvenire è vuoto. Quindi le due idee del falso e del vero si ripresentano sole, divengono i due termini di un dilemma, e i motivi della scelta ci mancano. L'avvenire, rivelatore sempre nuovo, ci accuserà forse dell'errore? o sanzionerà, confermerà l'ordinamento attuale de' nostri pensieri? L'ignoriamo. Tutto è passibile, tutto impossibile.»
Non ho dissimulata l'obbiezione, essa contiene in sè la risposta: noi non possiamo vincere il dubbio, non possiamo trovare un criterio del vero, non possiamo sciogliere alcun dilemma critico; quando un dubbio ci arresta, non ci rimane altro se non d'investigare se il dubbio sia critico o positivo. Lasciando a chi vuole la cura di sciogliere il dubbio critico, pretendiamo di evitarlo, di sottrarvici, come lice quando si dà un'apparenza positiva a un ragionamento critico. Qual'è dunque l'accusa che vien mossa? traducesi nella sola frase: la vostra verità non è vera, perchè variabile, perchè dimani sarà falsa, perchè anche dimani direte vero relativamente ad oggi, ciò che dimani dichiarate falso, perché dichiarate vero nell'antichità il paganesimo oggi da voi detto erroneo. Or bene, traduciamo la traduzione in parole scientifiche; l'accusa si ridurrà ad accusarci di ammettere il variare della natura, il fallire dell'uomo. Non havvi risposta; il vero e il falso, la fallibilità e l'infallibilità sono termini che, messi alle prese, generano una contraddizione astratta, senza uscita veruna; nel fatto non ci toccano, non ci commovono: l'insetto vive credendo eterna l'estate, noi viviamo come se fosse eterno l'ambiente in cui siamo. Nè havvi filosofo o teologo che valga a fermare l'alterarsi delle cose, il fallire dell'uomo. L'obbiezione esposta è una mera ribellione della logica; deve essere compressa, soggiogata dalla rivelazione. In presenza della realtà, non dobbiamo trattare del possibile e dell'impossibile; il sistema attuale è figlio della rivelazione; accettato, divien vero di quella verità relativa che trascina seco i filosofi e i popoli, scansando così tutti i dilemmi del vero e del falso. Nel fatto, non basta a dire al Musulmano che può ingannarsi, che è fallibile, che la religione di Maometto può cambiare; bisogna dimostrare con ragioni positive che vive ingannato, che il suo profeta ha mentito, che il suo culto è combattuto dalla natura. Anche quando un sommo pontefice vuole l'infallibilità accusando d'errore tutti i viventi, non si vale della logica astratta: non lotta contro il dilemma del vero e del falso; ma si giova di un titolo che trova nella parola di Dio, nei prodigi, nei profeti, in una rivelazione speciale che gli largisce il privilegio di una grandezza unica sulla terra. Oppongonsi sempre fatti a fatti, principj a principj, e nel corso della vita non s'invoca mai la sola logica; il creditore può ingannarsi, il credito può essere vero o falso, ma il titolo decide, il dilemma è sciolto dalle cose; gli oratori di un'assemblea possono essere tutti nel vero o nel falso, ma non si confuterebbero mai accusandosi reciprocamente di essere fallibili: voglionsi ragioni positive, motivi reali che governino la discussione, senza mai lasciarla in balia dell'astratto.
La metafisica, promettendo di più, riesce a nulla; credendosi assoluta, mente a sè stessa; apportando vuote astrazioni nella vita per dominarne il corso, rimane vittima delle antinomie, e non si sa più distinguere il bene dal male, il sì dal no. Egli è sotto quest'aspetto che il movimento dei sistemi filosofici e religiosi riducesi all'alternarsi del possibile e dell'impossibile, ai due momenti di una stravaganza senza limite, e di una demolizione senza termine. Qui ogni filosofo che s'impadronisce dell'alterazione può rendere inviolabile la propria follìa: dato che cosa alcuna possa uscire dal nulla, che havvi d'impossibile? In pari tempo, lo stesso filosofo, combattendo gli altri sistemi, dichiara che tutto è impossibile, perchè l'alterazione ritorce i loro sistemi contro le tre forme dell'identità, dell'equazione e del sillogismo. No; se i sistemi dei filosofi hanno avuto una missione, un senso istorico, se sono stati sistemi, se hanno signoreggiata la ragione degli uomini, se l'impulso dei più antichi è giunto fino a noi, non è perchè uscissero dall'inane moto del possibile e dell'impossibile. È perchè, mentre falsificavano la rivelazione, l'accettavano; mentre credevano momentanee le contraddizioni eterne, cercavano di scioglierle con nuovi fatti indagati nel seno della natura; mentre pensavano d'incatenare la natura tutta intiera alle loro scoperte positive, le scoperte stesse s'aggiungevano alla tradizione dello scibile, e positivamente trasformandola rinnovavano la società.



Capitolo XV

LA SOCIETÀ E UN SISTEMA


Nell'uomo isolato la rivelazione è limitata, fugace; ma l'uomo non nasce solitario, vive co' suoi simili; e la rivelazione si sviluppa nella società.
Se dimandate alla logica l'origine della società, troverete che non può essere dedotta nè dal pensiero, nè dalla volontà dell'uomo. La società non può essere dedotta dal pensiero, perchè l'uomo, per desiderarla, avrebbe dovuto conoscerla prima, per imaginarla avrebbe dovuto provarne i vantaggi; quindi l'origine della società diventa impossibile su tutti i punti, mercè l'assioma che non s'impara se non ciò che si conosce. La parola non è forse la prima di tutte le condizioni della società? La stessa parola suppone la società, suppone la parola, essendo il linguaggio necessario all'invenzione del linguaggio. Istessamente, la società non può essere dedotta dalla volontà dell'uomo: corrisponde essa ai nostri bisogni? Ci resta a sapere se i nostri bisogni hanno creata la società, o se la società ha creati i nostri bisogni; se la società è figlia de' nostri istinti, o se ha falsato i nostri istinti. Il selvaggio la respinge con orrore; per lui la società è una servitù senza limite, i nostri campi sono luoghi di pena, in cui l'uomo è avvinto alla terra come il bue, le nostre città sono prigioni, le nostre scuole sono fabbriche dove si preparano le catene della civiltà; invece per l'uomo incivilito è lo stato selvaggio che ci rende servi, la società emancipa, la libertà nasce sui campi coltivati, nelle città popolose; il ben essere è ben creato e governato da quella dura disciplina della scienza che il selvaggio respinge qual tortura. L'incivilimento è desso un bene o un male? il pensiero è desso il privilegio naturale, o la malattia artificiale dell'umanità? Ecco il dilemma; è il dilemma di Tacito quando opponeva i Germani ai Romani; di Machiavelli quando opponeva la Svizzera all'Italia; di Rousseau quando opponeva la natura primitiva alla civiltà; di tutti gli uomini quando vogliono optare tra la pace e la guerra: di tutti i filosofi che vogliono interrogare il possibile per sapere se la natura doveva essere più avara d'uomini o più prodiga di viveri, onde non costringerci a combattere l'indigenza coll'associazione forzata e sanguinosa dell'incivilimento. La logica non dà risposta; risponde la fatalità soggiogandosi prima d'essere interrogata: essa ci fa nascere nel seno della famiglia, sacrifica di continuo una generazione all'altra, i parenti vivono per immolarsi a posteri ignoti, che loro succederanno nel lavoro senza fine, che disciplina il genere umano nell'atto stesso che lo moltiplica. La fatalità ci vieta la solitudine, ci anima colla presenza de' nostri simili, ci dà la parola per manifestare i nostri pensieri; ci impone i nostri stessi pensieri dominando la nostra intelligenza, quasi fosse un istrumento che non ci appartiene né dovesse mai appartenerci. Da ultimo, la fatalità fa nascere ogni popolo sotto una data rivelazione, lo congrega sotto la verga di una medesima legge, e spinge tutte le famiglie che lo compongono ad attuare nel mondo uno stesso principio. La società forma dunque un sistema unico, indivisibile; non è se non la ragione di un popolo fatta serva di una rivelazione, la logica sottoposta ad alcuni dati, diretta ad uno scopo da tutte le forze della natura e dell'uomo. La società non è dunque una agglomerazione d'uomini; è l'uomo che non tollera la contraddizione, che lotta di continuo per escluderla, e che vuol l'ordine nelle idee, l'ordine nella propria rivelazione. Le cieche ribellioni dell'istinto, le passioni sfrenate, e quanto non coincide col sistema della società, non conta se non come la follìa, come il male che bisogna reprimere.
Spesso ne' dogmi de' popoli hannovi misteri e contraddizioni che ripugnano alla ragione: nondimeno la società rimane sempre un sistema: i misteri e le contraddizioni che figurano nelle religioni sono le stesse antinomie che sovrastano alle origini di tutte le cose, e che la ragione umana materializza e compendia nei suoi simboli. L'assurdo del simbolo non viene ammesso se non per meglio combattere la contraddizione; poichè indicata e accettata d'un tratto una contraddizione, evitansi meglio le innumerevoli incoerenze della natura. Il mistero religioso riducesi ad un fatto come l'alterazione, ad una storia, ad un prodigio; esso è la trinità divina, la passione del Cristo, il miracolo dell'eucaristia; fa solamente l'ufficio di un fatto storico; e una volta stabilito, tocca alla logica a difenderlo, a distinguerlo dagli altri fatti, a dedurre le conseguenze che contiene. Dunque, a malgrado de' misteri, ogni religione è un sistema; sarà erronea senza cessare d'essere logica; travolgerà nelle sue favole la vera rivelazione, senza che il suo errore sorga dalla vuota possibilità di tutto ammettere; falserà materialmente i fatti, senza mai negare la rivelazione naturale nel principio.



Capitolo XVI

LA SOCIETÀ PASSA DA UN SISTEMA A TUTTI
I SISTEMI POSSIBILI

Essendo la società l'uomo che pensa, un sistema vivente, dobbiamo applicarle le leggi giusta le quali i sistemi si succedono nell'individuo. Dunque la società è in balia della rivelazione; parte dalle credenze primitive per giungere a un sistema; coordina i suoi dogmi all'eternità senza sospettare che il mondo possa alterarsi; ogni popolo credesi il popolo eletto, il signore supremo dell'universo; e in questa guisa detta a sé le sue credenze. Mentre la riflessione cerca l'ordine nelle idee, l'eternità in ogni idea, il mondo si muta, si áltera, varia, smente la eternità de' dogmi proclamati; la saggezza delle nazioni vien meno a sé stessa; e col mostrarsi l'errore, costringe la società a correggere di continuo l'opera sua. Non si emenda, non si sopprime un pensiero senza sostituirgli altro pensiero; un sistema erroneo non viene distrutto se non da un altro sistema. La società resta dunque sempre sistematica, nella comunanza sistematica delle sue idee; e il primo sistema che l'ha congregata la conduce fatalmente a tutti i sistemi successivi, senza che trovisi mai interrotta la catena che la trae di dogma in dogma.
La serie dei sistemi sarà progressiva? Sarà regressiva? Il suo svolgersi è illimitato nel bene e nel male, nel progresso e nel regresso; a priori non havvi soluzione: pure, se il mondo rimane qual'è, se la rivelazione attuale perdura, se dobbiamo accettare il convincimento istintivo che ci fa supporre il suo perdurare colle materie, colle vegetazioni, che vediamo, il progresso intellettuale d'ogni popolo può rappresentarsi con una serie indefinita di sistemi, sempre più vasti l'uno dell'altro, ed il cui ultimo termine sarebbe il momento desiderato dalla riflessione, che abbraccerebbe l'universo incatenandolo alle sue inalterabili astrazioni.
L'associazione universale del genere umano trovasi in germe in ogni società: ogni villaggio isolato la contiene in potenza, ogni nostro atto vi ci avvia. Non passa giorno che non s'aggiungano scoperte alle scoperte, invenzioni alle invenzioni; la terra si esplora, la popolazione si moltiplica, tende a conservare i beni acquistati, tende ad aumentarli con nuovi beni: e il moltiplicarsi della specie, congiunto al progresso dell'intelligenza, vuol tutta la terra sottomessa a una sola associazione, dovesse anche un popolo solo, come i Romani, trionfare di tutti, considerando le nazioni straniere che incontra nel suo corso quali strumenti animati dell'opera sua. Nel fatto, la più barbara nazione è stretta nelle sue frontiere dalle armi de' suoi vicini, dalle pesti che diminuiscono le sue genti, dal mare che le rifiuta ogni passaggio, dalla terra che le ricusa i metalli, il ferro, il pane; togliete gli ostacoli, date, come si dice, il tempo al tempo, e la vedrete invadere il globo, dominarlo, costituire l'associazione generale del genere umano. L'unità del genere umano non è un sogno, è l'ipotesi stessa del vostro vivere; noi tutti, sapendolo o ignorandolo, cerchiamo di attuarla; non havvi merce che passando un confine, un trattato che vincolando due popoli, non estenda il dominio dell'umanità; e se vien esteso, a qual termine agogna, se non a quello dell'associazione universale?
Questo affermo, unicamente fondato sulla rivelazione degli esseri, fatta astrazione dalla rivelazione della vita e della giustizia; quasi che gli uomini fossero automi senza cuore e senza sangue. La rivelazione degli esseri basta sola a trascinarci verso l'umanità, ci spinge ad essa coll'impulso materiale delle invenzioni, delle scoperte, delle arti, dell'industria; scioglie positivamente il dilemma del progresso e del regresso colla serie di sistemi fatalmente generati dal pensiero dominato dalla natura.
Abbiamo sottratto alla logica l'origine della società, il sistema sociale, il principio che, dato un sistema, si passa a tutti i sistemi possibili; dato il succedersi de' sistemi in un mondo perdurante, si giunge all'umanità. Abbiamo in questa guisa stabilito il principio della filosofia della storia, ci rimane di difenderlo, perchè la logica ci attende al varco, ci assale di continuo, ad ogni tratto ci oppone una tesi che assorbe il nostro vero, e lo fa stare inutilmente sospeso, e ripristinato nelle alternative de' suoi dilemmi.
Le antitesi della logica contro il sistema sociale possono ridursi a quattro, essendo quattro i problemi principali in cui la logica può intervertire il movimento del sistema sociale. Si oppone al sistema sociale:
1. La prepotenza degli individui che possono signoreggiare, travolgere a loro profitto ogni società.
2. La prepotenza di ogni popolo che può signoreggiare e travolgere a suo profitto il sistema sociale degli altri popoli.
3. La prepotenza della corruzione umana che scioglie d'improvviso ogni società costituita.
4. La prepotenza del fato che c'incalza ad ogni istante, e colle invenzioni o col difetto d'invenzioni, colla pace o colla guerra, genera il disordine che vedesi confermato alla prima lettura di un libro di storia universale.
Nella critica, le quattro antitesi distruggono la nostra tesi: nella metafisica traviano la nostra tesi in una serie di teorie, in cui le difficoltà si complicano senza che si trovi un'uscita. Nella rivelazione naturale, le quattro antitesi sono le occasioni per cui il nostro principio si svolge, s'ingrandisce e s'avvia verso l'associazione universale del genere umano. Esaminiamo le quattro antitesi.



Capitolo XVII

GLI UOMINI E I POPOLI

La prima antitesi della logica contro il sistema sociale è dalla prepotenza dell'individuo. Legislatore, profeta o conquistatore, l'individuo dispone del popolo a cui appartiene. Ogni trovato non è forse individuale? ogni religione non suppone forse un Messia? Quindi la facilità con cui la critica può svolgere l'antinomia del sistema sociale: da un lato, la società è un sistema ordinato, si svolge sistematicamente; ogni individuo è sua fattura, sostiene le parti da essa destinategli; dall'altro lato la società dipende dagli individui, dagli inventori, dai legislatori; cammina a caso, può essere avviata al bene o traviata in tutti i principj dell'industria, dell'arte, della scienza e della religione.
La metafisica si sforzò di sciogliere il dilemma: come? colle astrattezze Platone pone tra gli uomini e l'uomo le idee; sostituisce all'antinomia sociale l'antinomia del genere. Torna inutile il fermarci.. Il dilemma si stabilisce più aperto nella scolastica; ogni dottore era cristiano e filosofo, apparteneva alla tradizione, e doveva lottare contro la tradizione; quindi tutti i termini medii con cui cercavasi di transire dalla trinità ai generi, dall'eucaristia agli universali.. La scolastica fu tutta una lunga e complicala metafisica per conciliare l'individuo colla società: si sa con qual profitto. Descartes si separa dalla tradizione della Chiesa; il dilemma si manifesta ognor più evidente; la filosofia prende la difesa dell'individuo; stando a Descartes, quanto esce dall'individuo è bene, le opere collettive sono pessime, sono simili alla topografia strana e casuale delle vecchie città costrutte nel corso de' secoli. Descartes non perviene ad un sistema sociale; il cartesiano restava solitario, or confinato nella solitudine metafisica dell'io, ora nella solitudine materiale dell'impotenza. I filosofi del secolo decimottavo continuano l'apologia dell'individuo contro il sistema sociale, sempre identificato col sistema della chiesa; la loro transizione al sistema sociale consiste nella persuasione che l'interesse stesso dell'individuo trovasi nell'interesse sociale. Quindi le minaccie contro i tiranni, le invettive mezzo affettuose, mezzo furibonde contro i re che resistevano ai consigli della filosofia; in fondo non eravi transizione; era troppo evidente l'antinomia della società e dell'individuo; complicavasi con quella dell'interesse pubblico e del privato, non si andava al di là della fraternità accademica o della cospirazione occulta dei franchi muratori. Reid cercò la transizione del senso comune, termine medio comodissimo; i filosofi e i paesani, i legislatori e i popoli non devono forse attenersi al senso comune? Sventuratamente il senso comune non è il sistema individuale, nè il sistema sociale; non è la scienza di Descartes, nè la fede della Chiesa, e lascia i partiti divisi più di prima: il dilemma attraversa tutte le reti della scuola scozzese, quasi tele da ragno. I teologi si opposero all'individuo a nome della società: accusandolo di follìa, davansi alla critica; provavano la forza della critica, non la necessità nell'individuo di piegarsi e di obbedire alla chiesa. Alcuni liberi pensatori, ma pedissequi all'autorità teologica, che vogliono trasferita alla loro propria filosofia, predicano l'autorità del genere umano, la quale sarebbe peggiore dell'autorità teologica; perchè, in primo luogo, negherebbe l'individuo, prima sorgente della tradizione; in secondo luogo, l'autorità del genere umano è sì incerta, sì incompetente, sì mal fondata e traviata in ogni modo sui dogmi più essenziali della civiltà, che se fosse imposta, ogni uomo di buon senso dovrebbe rifugiarsi net seno della chiesa, ch'è almeno certa e positiva ne' suoi dettami.
In metafisica non v'ha ripiego; transire dall'individuo al sistema sociale è forza accettare la rivelazione della natura. La società non è società se non nella comunanza delle idee, altrove non esiste, è una mera agglomerazione, non ha valore. Nella comunanza delle idee una è la rivelazione, una la logica; dunque correlativo è il regno dell'individuo e quello del sistema sociale. Il genio e la tradizione si collegano nella loro origine, nel loro sviluppo e nel loro risultato. Nella loro origine, perchè il primo principio della rivelazione sociale e l'istromento della ragione sono gli stessi negli uomini e ne' popoli: nel loro sviluppo, perché il genio è figlio della tradizione, che fornisce i dati, che stabilisce i problemi, mentre alla sua volta la tradizione si compone di scoperte e d'invenzioni individuali, e sarebbe annientata se le si togliesse quanto deve agli inventori. Nelle loro risultanze il genio e la società rimangono ancora indivisibili; il genio inventa ciò che tutti vorrebbero inventare, produce ciò che tutti vorrebbero produrre, prende la società e la tradizione là dove sono, per condurle là dove vogliono giungere. L'inventore trovasi in disaccordo col popolo? Viene dimenticato, l'invenzione rimane sterile: la stampa, la polvere, la bussola erano note alla China più secoli prima che all'Europa; trassero forse la società chinese al di là della sua meta? Ne turbarono la quiete? No; l'accidente non può prevalere sul corso del pensiero. Altronde, accettare un ragionamento è farlo. Non s'intende il pensiero del genio, non diventa proprietà universale se non perché trovasi in comunicazione colle idee di tutti, e pronto a spuntare da sè in ognuno. Dunque se la tradizione accetta l'opera del genio, se il popolo la intende, se Sparta adotta le leggi di Licurgo, se la Francia fa suoi i libri di Rousseau, egli è che i popoli sono logici quanto gli individui, egli è perché gli uni e gli altri camminano verso la medesima meta. Descartes diffidava della società, paragonava l'incivilimento alle vecchie città irregolarmente costrutte nel corso dei secoli dal popolo che le abita. Invece di guardare alle case, doveva guardare alle idee: le prime rimangono sempre dove furono poste, le idee sono mobili, si rifondono ad ogni istante, ed ogni generazione vi mette la mano per rifarle regolari e simmetriche, come una città fondata da un unico architetto- La logica non sa dare la preferenza all'individuo, né alla società; la rivelazione sceglie, e sola sa scegliere; essa dà a Licurgo il governo di Sparta, confida a Napoleone le guerre di Francia: da un altro lato, essa svolge i destini di Roma col senato, dirige la rivoluzione coll'Assemblea Costituente e colla Convenzione. Da ultimo, si osservi il fatto, il sistema che sorge dall'avvicendarsi degli individui e delle assemblee; esso collega la tradizione e il genio in un'unica rivelazione. Le leggi di Roma reggono ancora il mondo: il bramismo e il buddismo escono dalla notte dei secoli, sì portentosi nell'armonia de' miti loro, che si direbbero discesi dal cielo. Quest'accordo meraviglioso de' poeti e de' popoli, de' profeti e delle genti, de' santi e de' concilii si ripete in tutte le tradizioni, in tutte le religioni sempre sistematiche, come se uno stesso Dio avesse dettato le opere de' suoi credenti. Così gli uomini e i popoli si collegano, camminano sulla stessa via, cercano la stessa meta. Qual meta? Dati insieme alla tradizione delle arti e delle scienze, applicati con tutte le forze all'industria, al commercio, ogni giorno apportano nuovi elementi all'associazione di tutti gli uomini; tendono dunque a riunire l'umanità in un sol corpo.
Direte: «Io sono individuo, io sono inventore, la mia patria, l'umanità tutt'intera sta contro di me; io posso morire ignorato, la mia scoperta può andare smarrita: dov'è la correlazione tra l'individuo e la società? tra il primo inventore del vapore e la Francia?» - Dov'è? Non esiste. La tradizione è rimasta co' suoi individui; gli individui che signoreggiavano la tradizione stavano colla tradizione stessa, e se uscite dalla correlazione, cadete nel vuoto. Io parlo di storia, del succedersi dei dogmi; rimango nella rivelazione degli esseri, nel fato. Ha torto la società di non curarvi? siate uomo, difendetevi. Ha ragione? si difenda essa; discutiamo; e la discussione sarà vinta da chi produce ragioni reali, positive, preponderanti, in una parola, rivelate. Fuori di questa sfera, avrete, da un lato, l'individuo inventore e il popolo cieco, l'individuo legislatore e la massa anarchica; dall'altro lato, il popolo infallibile, e l'individuo traviato, felice ogni maggioranza, e sventurato chi riman solo nel suo opinare. È mártire o delirante? Dimandatelo alla logica, alla metafisica, e cadrete nelle antinomie de' criteri, del vero; dimandatelo al primo uomo in cui vi abbattete, e vi risponderà che non si ha ragione nè perchè si sia individuo, nè perchè si sia popolo, ma solo perchè si è nel vero fondato sulla natura, e sul movimento della logica sottomessa alla rivelazione. Così si arriva alla verità; e giungere alla verità sia cogli individui, sia coi popoli, si è giungere all'umanità.



Capitolo XVIII

I POPOLI E L'UMANITÀ

La seconda antitesi opposta dalla logica al sistema sociale, vien tratta dall'umanità. Noi diciamo che uno è il sistema sociale, e la logica ce lo mostra vario nelle cento religioni che captivano i diversi popoli, quasi fossero esseri di diversa natura: per noi il sistema sociale si svolge autonomo, armonico, e la logica ci mostra le influenze d'un popolo sull'altro, tali che in pochi anni il buddismo o il cristianesimo possono a caso distruggere l'incivilimento del popolo più antico: per noi ogni società s'avvia verso l'umanità, e la logica ci oppone la guerra di tutti i popoli, universale; in guisa che, nel fatto, ogni popolo è nemico dell'umanità. Queste antinomie possono tutte tradursi nell'antinomia tra l'idea del vero, una per essenza, e le varietà delle opinioni, molteplici quanto gli individui.
La metafisica, che vuol transire colle astrattezze dai popoli all'umanità, complica i due termini colle antinomie de' criterj, nè trova uscita alcuna. La rivelazione scioglie il dilemma col fatto.
La diversità delle religioni non rappresenta se non la diversità dei momenti istorici del sistema sociale; ogni culto non e se non l'una delle fasi delta serie de' sistemi; ogni culto è in moto verso un culto superiore, per giungere alla religione dell'umanità. Non havvi religione stazionaria, non culto che possa persistere nel suo isolamento; la rivelazione e la ragione vietano ad ogni popolo di sostare nella via che conduce all'umanità. Il più barbaro dogma non deve difendersi? non trovasi assalito dalle religioni che lo circondano? esse coll'esistenza loro lo accusano; il conflitto divien necessario; poi, svolgendosi la rivelazione, smente il dogma, lo condanna a rettificarsi, a mutarsi, a cessare di essere quello che è, a cambiarsi in un nuovo dogma. Il cristianesimo non si ordinava combattendo i sacerdoti del paganesimo e la scuola di Alessandria? non profittava della rivelazione naturale per negare gli oracoli e i miracoli della mitologia?
La guerra tra le religioni non turba il procedimento delle diverse religioni, nessun caso può turbare il corso del sistema sociale; nessun individuo, nessuna invenzione; lo spettacolo stesso della civiltà perfettissima non vale a precipitare d'un punto le nostre deduzioni. Esse possono essere precipitate, ritardate net tempo istorico; ma nel tempo ideale, la serie deve essere regolare, il tre non può precedere il due; Watt non può precedere Augusto, o lo precede inutilmente. Del resto, la guerra si fonda sulla convinzione che uno è il vero, che dobbiamo cedere alla verità; suppone che in ogni pagano havvi un cristiano in potenza, che in ogni cristiano havvi un uomo riserbato al dogma dell'umanità. Il risultato della guerra è il trionfo assoluto di un sistema, o un trionfo limitato che concede ai diversi culti una data regione, un numero di genti proporzionato alle sue forze esperimentate.
Quindi la terra, il clima sono dominati dalle religioni, ch'essi non dominano; sono conquistati dal pensiero, ch'essi non conquistano; sono i confini, le fortezze, la materia naturale dei diversi dogmi ch'essi non creano, e da cui, al contrario, sono creati confini, fortezze, mezzi di attacco o di difesa. Nella barbarie, ogni religione sembra figlia della terra, radicata nel suolo, immedesimata coi luoghi, colle circostanze di un popolo, e tale che non può essere adottata da altre genti, non può emigrare senza svanire. In fondo, la religione barbara e locale, perchè dinanzi ad essa la località e il mondo intero, l'assoluto de' metafisici: quest'assoluto potrà poi ingrandire all'infinito. La religione barbara deve fissare gli uomini alla terra, incivilire il suolo, stabilire la società sulla sua base: una volta compita la sua opera prima, la religione diventa mobile, si stacca dalla terra, non ha più patria, non focolari domestici, si fa cosmopolita: il globo perlustrato, le arti, le invenzioni, i lavori delle diverse regioni, avvicinati, scambiati, son materia di principj che non possono più capire in un confine determinato.
Concludiamo che una è la storia ideale, eterna, nella quale corrono nel tempo le storie particolari di tutte le nazioni; che questa storia conduce all'umanità da tutti i punti della terra, che la diversità dei culti esce dalle sue epoche, non dal clima, non per isolare, ma per associare tutti i viventi. Vico, il primo a pronunziare la parola di storia ideale, s'ingannava nel determinarne le epoche; nè ad altri sarà questa opera agevole: - la storia ideale deve procedere astratta, le è interdetto di pronunziare i nomi degli uomini e delle cose; - si svolge a traverso momenti ideali, con uomini ideali, con vittorie ideali; - non può toccare la terra senza cadere in particolarità, senza mancare al suo carattere di scienza; - non vedo come si potrebbe determinare un Cristo ideale, un Maometto ideale, un Confucio eterno, che siano formola e tipo degli uomini particolari che attuano i diversi momenti de' rispettivi sistemi; - non vedo come questa scienza, involta nelle nubi della nostra ignoranza, possa essere riscontrata nella storia positiva, in cui le similarità de' popoli restano quasi frammenti di scheletri sconosciuti, che la mancanza di un'anatomia comparata non concede di giudicare. - Pure la storia ideale esiste; tutta quanta la storia positiva ne porta le traccie; le similarità si moltiplicano ad ogni tratto, quasi altrettanti echi di una stessa parola, caduta nel tempo; i momenti si schierano succedanei nelle diverse regioni: e benchè oscuri, tutti proclamano falso che le religioni escano dal suolo, falso che le influenze reciproche delle nazioni violino il sistema sociale, falso che ogni popolo sia nemico dell'umanità.
A traverso il variare dei dogmi, la verità progredisce sempre verificata con motivi reali, non mai dai criterj astratti, che trascorrerebbero oltre il dilemma del vero e del falso senza risolverlo, ed anzi complicandolo con altri dilemmi.



Capitolo XIX

LA CORRUZIONE DE' SISTEMI

La terza antitesi che la logica oppone al sistema sociale consiste nella corruzione de' sistemi, per cui ad un tratto la società si ferma, si strazia, si scioglie, benchè la rivelazione persista, benchè nulla sia mutato nella natura, benchè il sole non cessi di splendere sulla terra, e lo stesso genio delle scoperte non cessi di illuminare il popolo. La lotta tra i popoli e l'umanità assale il sistema sociale dal di fuori, la corruzione l'assale interiormente: in qual modo havvi unità, armonia, movimento progressivo, e l'unità del genere umano in ogni società, se d'un tratto vien meno, quasi colpita a morte dal suo proprio procedere?
L'antitesi della corruzione è in pari tempo rozza e sottile. È rozza perchè nasce da un errore di fatto; suppone falsamente che le società si corrompano, attribuisce ad un male interno l'opera degli accidenti esterni, rende ragione dei disastri accidentali considerandoli quali effetti naturali. E gia inteso che la forza del sistema sociale è interiore, umana, intellettuale; tolte le catastrofi fisiche ed esterne, nessun popolo muore, nessun disordine può turbare il suo progresso. Il progresso del sistema, il corso della tradizione verso l'umanità suppone un dato fisico, che concede ad ogni popolo la terra, il numero degli abitanti, la prosperità, la forza reclamate dallo sue idee e da' suoi dogmi. Le condizioni esterne mancano? I popoli si fermano; e se vengono sacrificati dalla fortuna, le loro tradizioni devono scomparire. Quindi hannovi nazioni in ritardo; il suolo veniva meno agli abitanti delle isole, il ferro all'America, i fiumi mancavano ad alcune parti dell'Asia, le pioggie ai deserti dell'Africa. Hannovi popoli compressi dalla vicinanza di nazioni terribili, altri sorpresi dalle guerre, dalle invasioni nel momento delle loro crisi: il chiedere ad essi che procedano verso l'unità universale torna lo stesso che l'esigere un progresso dagli Atlantidi sommersi negli antichi cataclismi della terra. Al contrario, accordasi il dato fisico supposto da ogni popolo in progresso? accordansi le condizioni reclamate, il suolo, la temperature, i metalli, in una parola i mezzi fisici correlativi alla vita intellettuale? Non solo il popolo sarà immortale, ma dovrà esaurire la serie de' sistemi fino a confondersi coll'umanità. Hannovi adunque disastri nella storia, un popolo può essere conquistato, svenato, sommerso nelle acque; può soffermarsi per più secoli in un sistema da altri popoli a capo di pochi secoli respinto; pure l'umanità trovasi sempre in germe presso ogni nazione, nelle stessa guisa che ogni nazione trovasi in potenza presso ogni famiglia. In qual modo un germe potrebbe corrompersi naturalmente? La sua natura lo sollecita a svilupparsi, le cause esterne possono sole paralizzarlo o distruggerlo,
Se l'antitesi della corruzione è rozza e falsa, in seguito si fa sottile, nessuno la sfugge. Ogni cittadino combatte per un principio, al quale vede vincolata la salute della patria: che accade il giorno in cui la sua fede è vinta? Egli deve credere vinta la patria: deve lodare il tempo antico, gemere sui tempi in cui vive, celebrare i primi legislatori, maledire i novatori; quanto più grande e la loro forza, tanto più terribile si presenta l'avvenire della società. In balia di un falso dato, il cittadino che ha pronunziato una sol volta questa parola: la mia patria si corrompe, non rimane coerente con se stesso finchè non è addotto a intervertire tutte le tesi della nuova civiltà, finchè non ha dato il nome di male ad ogni bene, finchè non ha negato la stessa civiltà, celebrando, come Tacito o Rousseau, i benefizi della barbarie. L'antitesi varia di forma col variar degli eventi e delle fasi sociali, pure riman sempre in sostanza la stessa. Cattolici o filosofi, regii o repubblicani, siamo sempre addotti al dubbio momentaneo che esce dalla doppia apparenza del bene e del male: nè si sfuggirebbe al dubbio senza cessare di esser uomini. Perchè ogni evento non corre a nostro grado, ogni fallo non coincide colla nostra previsione, le grandi guerre nelle quali viviamo suppongono dai due lati grandi sconfitte. Si può sperare, si può sfidare la sorte, si può accettare il martirio; però la cieca fede, sempre plaudente ad ogni evento, quasi fosse una certissima vittoria, un segno evidentissimo di progresso, si confonderebbe coll'idiotismo che celebra i fatti compiuti, e ammette ogni vittoria. Se possiamo innalzarci alle regioni di un'altissima fatalità, se per astrazione possiamo contemplare il corso della società quasi fosse inevitabile come il corso d' un fiume, nell'azione dobbiamo imputarci scambievolmente il nostro agire, vederlo figlio della libertà; dobbiamo attribuire ad una causa umana le nostre sconfitte; e qual sarà questa causa, se non cercasi nell'egoismo e nelle misere passioni per le quali ci confessiamo degradati?
Al cospetto della metafisica il dilemma pende tra l'organizzazione e la corruzione della società: se ammettesi che il sistema sociale tende naturalmente a costituirsi, la corruzione diventa impossibile: viceversa, ammessa la corruzione qual tendenza naturale, devesi negare l'organizzazione. Per transire da una tesi all'altra, la metafisica cerca un termine medio: due ne furono proposti, coll'uno imputasi la corruzione alle idee, coll'altro alle passioni.
Machiavelli rappresenta la prima teoria, che spiega la corruzione colle idee. In sentenza di Machiavelli ogni popolo passa a traverso due epoche, l'una di credulità, l'altra d'incredulità. Nella prima, dice egli, le religioni si formano per ordinare la società, per sottrarre l'individuo al suo naturale egoismo. Nel secondo periodo, la scienza infrange le catene delta superstizione, l'errore utile della religione svanisce, e vinta l'impostura benefica del cullo, l'egoismo riappare per dissolvere la società. Hannovi realmente epoche d'incredulità sociale nella storia? Non se ne trovano: la mera incredulità e un fenomeno individuate come l'impostura; la società sta nella comunanza delle idee, fondasi sui dogmi; non havvi fede sociale che possa venir distrutta senza venir supplita da un'altra fede. Qual'è la società che abbia inaugurato il dubbio come principio? Si imaginò che gli ultimi tempi del paganesimo fossero tempi d'impostura e d'egoismo; erano i tempi de' primi cristiani; e d'altra parte, il paganesimo era sì forte, che la potenza devastatrice degli imperatori cristiani fu necessaria per distruggerlo nei villaggi. Si irnaginò che il risorgimento fosse un periodo d'incredulità: certo, i Medici e i Borgia non anelavano at martirio; pure il protestantismo era fervente, il cattolicismo avventurava tutto per difendersi secondo lo stesso Machiavelli anche a Firenze potevasi fondare una nuova religione. L'incredulità dell'uomo senza fede, senza legge, non è se non malvagità, non è sociale, non tocca la società, muore nell'individuo, il quale muore all'umanità. Quanto all'incredulità critica, spesso viene applicata a distruggere la religione; dissolve in pari tempo il dovere, la felicità, il mondo, ogni cosa, ogni pensiero; negasi da sè, resta nella scuola, nel filosofo, nell'individuo. Al contrario, quando appaiono gli uomini meritamente odiati quali increduli dai ministri del culto, essi trovansi sottoposti alla rivelazione naturale, sostituiscono fatti a fatti, principj a principj, calpestando i sofismi della ragione individuale che spira ne' propri dilemmi. Dunque. se è naturale il nascere delle religioni, è impossibile il loro perire; se i fondatori delle religioni erano credenti, ogni capo della società sarà sempre un credente, dato anche che i fondatori delle religioni fossero impostori (ed è l'opinione di Machiavelli); perchè la loro incredulità era un secreto personale, solo per la loro impostura erano in relazione co' popoli, la religione sola costituiva il sistema sociale.
Il secondo espediente col quale la metafisica vuoi conciliare logicamente la generazione e la corruzione del sistema sociale consiste nell'imputare la corruzione alla volontà degli uomini. Questa è la teoria che Vico perfezionava nella Scienza Nuova, dove vedeva i fatti quali offrivansi a Machiavelli; pensava che la fede fonda le società, che l'incredulità le scioglie: era convinto che ogni popolo passa per le due fasi della credulità e della incredulità: ma giudicando le due fasi al rovescio di Machiavelli. Secondo Vico la credulità è santa, l'incredulità empia; la fede fonda la società, l'impostura la distrugge: al primo costituirsi i popoli subiscono il dominio del vero; fidando nell'intelligenza e nel vero, sarebbero immortali; ma le passioni dei popoli inciviliti pervertiscono ls ragione e distruggono i dogmi; la società si perde.Vico dava così la forma di una teoria a tutti i luoghi comuni della retorica, contro il lusso, la mollezza, generati dalle corti, contro le passioni infiammate dal commercio, contro l'egoismo raffinato dalla civiltà. Vedendo crescere l'incivilimento attendevasi ad una dotta barbarie, a una guerra universale, che avrebbe restituita la prima barbarie nel seno delle società moderne. Timori chimerici! Non vi è mai stato un popolo di Messaline e di Tiberii, come mai non vi è stato un popolo che dubitasse della propria esistenza. La volontà generale segue fatalmente l'intelligenza dei popoli, cerca solo il bene, non può vederlo che là dove lo mostrano i dogmi: accusiamo noi un popolo di esser corrotto? Siamo in errore, e l'errore consiste nell'esigere dal popolo il coraggio, la virtù de' principj che non professa; vien franteso; gli si domanda d'esser protestante quando è cattolico, di esser rivoluzionario quando è monarchico: interrogatelo sulla sua vera fede, sarà eroico quanto i Romani. Se hannovi popoli senza coraggio quando il nemico li minaccia, sì è che sono indifferenti sulla persona del signore, si è che spesso desiderano il nemico qual liberatore; in una parola, si è che la vita de' popoli risiede nei principj, e non nella terra, nelle cose materiali, nel fatto personale del governo, o nella configurazione accidentale dello Stato. La storia ideale de' sistemi che si sviluppano ne' popoli è più forte della terra: per progredire invocherà, se occorre, i nemici della patria; emigrerà forse per cercare una nuova patria al culto che deve trionfare. La storia ideale sottrae il buddismo al bramismo che l'opprimeva nelle Indie; essa sottraeva la democrazia protestante dell'America all'aristocrazia che la opprimeva in Inghilterra: in generale, ogni rivoluzione religiosa sposta i governi, i centri, altera la geografia politica, per fondare nuove nazionalità e dalla China agli Stati-Uniti vediamo schierati nei diversi paesi i diversi momenti della storia eterna de' sistemi, che si succedono nella mente di ogni uomo.
Coosì la corruzione dei sistemi non è se non il movimento della storia; non degrada l'intelligenza, nè la volontà de' popoli; non può essere funesta se non in una catastrofe fisica o guerriera dove periscano le condizioni esterne dell'incivilimento. Come l'albero, come la quercia, la società tende a svilupparsi; la ghianda cade essa in terreno sterile? al primo germogliare vien essa sradicata dai venti? Perisce senza che la legge colla quale la quercia si sviluppa si trovi falsata.
I filosofi antichi rendevano ragione dei dei fenomeni della società colla legge della generazione e della corruzione; fermavano l'attenzione sulle circostanze esterne delta patria, e però dovevano trasportare al movimento interno delta società l'idea della nascita e della morte, fornita da tutte le circostanze esterne. Platone subordinava ad un numero misterioso e fatale l'esistenza e la perfezione della repubblica, e doveva prevederne la caduta perchè la repubblica, naturalmente alterandosi, cessava di stare nell'equazione voluta dal fato. Aristotele credeva pure al numero di Platone; e però vedeva in ogni governo giunto all'apice delta perfezione un'opera fragile, presto travolta nel moto generate della vita e della morte, che dispone di tutti gli esseri. Pomponaccio e Vanini affrontavano la storia col mezzo dell'astronomia, subordinavano le rivoluzioni dei popoli a quelle delle sfere, e qui pure il movimento circolare della generazione e della corruzione comunicatasi alla storia, e signoreggiava tutti i popoli per mezzo delle condizioni esterne della loro esistenza. Anche Machiavelli, sedotto a metà dal sistema astronomico di Pomponaccio, trasportava fuori della ragione delle moltitudini l'origine della società che attribuiva ad un miracolo trasmondano e al fatto d'una grande e provvida impostura. Anche in Vico trovasi l'ultima traccia di quest'impulso esterno, che chiede uno scoppio di tuoni, un terribile ardere di fulmini per riscuotere le menti dei primi uomini, e svegliarli al sistema sociale. Tutti poi i filosofi del risorgimento guardavano attoniti alla grande catastrofe dell'impero romano; fermavano l'attenzione sui governi più che sui principj, affrontavano la storia dal lato della politica, della pace, della guerra, delle conquiste; concentravano l'umanità nello Stato, lasciandola così aggirarsi nel circolo fatale della vita e della morte. Pure, se si dimenticano le evoluzioni degli astri, le circostanze materiali, se si pon mente alle idee, il circolo scompare, il progresso appare, e ogni famiglia mostrasi avviata verso lo Stato, ogni Stato verso l'umanità.
Quanto ai dubbi che ci assalgono al momento delle nostre sconfitte, quando crediamo di decadere, restano compenetrati colle antinomie della fallibilità e dell'infallibilità; la soluzione astratta riproduce le antinomie dell'origine della società, dei criteri del vero; la soluzione positiva sta tutta nel già esposto sulla prima costituzione del sistema sociale.



Capitolo XX

DELLA FATALITÀ NELLA STORIA DEL GENERE UMANO

La fatalità è l'ultima antitesi che la logica oppone al sistema sociale. Il sistema sociale conduce ogni popolo verso l'umanità; la fatalità tiene in sua balìa tutte le circostanze che dispongono dell'umanità stessa. La fatalità è nel mare, che separa i continenti; nella terra, che rifiuta di nudrire i popoli; nel clima, che li uccide; nella razza, in cui gli istinti trovansi alterati, ammortiti o esaltati. La fatalità riappare nei diluvj, nelle carestie, nelle pesti, soprattutto nella guerra, che devasta le nazioni incivilite e le rende preda de' barbari. Da ultimo, la fatalità si ritrova dovunque, nella morte immatura di un eroe, in una battaglia perduta, negli accidenti che ritardano una scoperta, e brevemente, nei mille ostacoli che attraversano i destini dell'uomo. Mentre siamo condotti all'umanità dalla potenza provvidenziale delle idee, la fatalità ci contrasta tutti i progressi, separa le società, le condanna a trascinarsi sul solco sanguinoso delle rivoluzioni: essa sacrificava Atene, Roma; isola la China, perpetua la più profonda ostilità tra le diversi parti del globo. Chi trionferà? la provvidenza delle idee o la fatalità esterna? l'associazione o la dissociazione? Invano ci sforzeremmo di sciogliere il dilemma con ragioni astratte. Non possiamo dominare a priori l'origine stessa della rivelazione per dimandarle perchè ha imposto al benessere la condizione del lavoro, al riposo la condizione del moto, alla scienza quella dell'ignoranza, ad ogni invenzione quella del bisogno. Dappertutto il dolore presentasi come condizione del progresso; il genio del male che celebra il trionfo del bene, è la fatalità che si offre come condizione della provvidenza. La divisione e l'associazione si contendono tutti i popoli e tutte le fasi del sistema sociale.
La metafisica tenta di sciogliere il dilemma e di trovare un termine per cui la provvidenza della ragione umana e la totalità delle cose esterne siano identificate. Quindi cercasi l'unità nella storia universale, la si sottopone ad un disegno unico; s'imagina che un popolo modifichi gli altri popoli con un ainfluenza ragionata quanto quella reciproca degli individui che vivono in una stessa società. Questo pensiero fu suggerito alla metafisica dalla religione. Col dare un sol Dio all'universo il monoteismo dava necessariamente un signore unico alla natura, un sol monarca a tutti i popoli, i cui destini venivano imaginati quasi altrettantio episodi della grand'epopea dell'umanità. Secondo tale concetto il dramma ha principio nel cielo, cade sulla terra, nel mezzo di accidenti anticipatamente predisposti, poi si compie di nuovo nel cielo. Qui l'unità della storia universale trovasi non nell'uomo, ma in Dio; Dio solo opera, l'uomo è un istromento: qual è il pensiero, quale l'azione di Dio? Bisogna indurlo da ciò che si vede sulla terra, dalla storia stessa di tutti i popoli: che troviamo nella storia? Mancando i fatti, le religioni devono inventare il disegno dell'universo consultando sé stesse: che potevano insegnare? I loro propri dogmi mescolati di favole e di odii. L'India associava l'universo alla storia delle sue divinità; il cristianesimo vedeva nel mondo antico un sol popolo, gli Ebrei; un sol fatto, la redenzione di Cristo; poi non lasciava ai popoli se non l'unica alternativa di accettare o di combattere la chiesa, di accettare o di falsare la la fede. Così il cristianesimo vedeva la provvidenza solo ne' suoi dogmi; trasformava il momento della storia ideale, che rappresentam nella legge universale; malediceva tutto quanto oltrepassasse il suo momento, disconosceva il passato che avevalo generato; e finiva per disconoscere la forza provvidenziale che risiede nella rivelazione naturale, in cui dato un principio, l'uomo può giungere all'umanità. Lungi dal dominare la fatalità, il cristianesimo la esagerava di mille doppi; ed ora il cristianesimo in decadenza, dovrebbe confondere col fato il suo Dio, impotente contro l'inferno che prevale.
Il primo atto della metafisica fu di accettare l'unità cristiana, sottomettendo i mortali all'unità dei cieli per l'influenza degli astri sulla terra. L'equazione iperbolica non reggeva al primo sguardo della ragione: poi non affermava la correlazione del sistema sociale col corso delle cose; limitavasi ad affermare l'unità di una stessa legge nella ragione dell'uomo e nelle cose della natura: la legge tenevasi mezzo provvidenziale, mezzo fatale: passava circolarmente dalla vita alla morte; la teoria, invece di sciogliere il dilemma, lo asseriva, poi lo traduceva nell'antitesi della generazione o della corruzione. Dopo il risorgimento, si diede ragione al fato contro la provvidenza delle idee, quasi si volesse giungere all'unità affermando l'unità dei disordine. Descartes abbandona la storia al caso; in sua sentenza il filosofo deve sdegnarla; essa si sottrae ad ogni dimostrazione. Bacone vede la storia interrotta da deserti, da ruine; le arti sole sembrangli animate da un soffio di vita; egli scansa il caos delle religioni per cercare nell'avvenire l'associazione universale dell'industria. Nel secolo decimottavo chiedesi giustizia alla natura, rivendicansi i diritti dell'uomo; convien pure mostrare che la natura accorda giustizia; per afferrare l'unità della storia universale, Herder fu ridotto a cercarla nella storia fisica dei globo. Giusta Herder, il globo è in progresso, le creazioni inferiori servono alle creazioni superiori; l'uomo, posto tra l'angelo e l'animale, è l'essere intermediario che collega due mondi; deve lasciare la terra per passare in una regione superiore. Qui l'unità è fallita in cielo e in terra: in cielo, perchè non havvi scienza dei cielo; in terra, perchè la storia della natura e quella delle umane idee rimangono distinte, malgrado tutti gli sforzi di Herder. Fossero pur vere tutte le ipotesi di Herder sul progresso della natura, fosse pur dimostrata l'impossibilità di intervertirle; che importa l'unità mondiale, se io non vedo svolgersi ad essa correlativa la storia degli uomini? E dov'è per Herder la storia dell'uomo, voglio dire delle idee? in nessun luogo: mai non afferra il succedersi meccanico dei dogmi; quindi egli lascia i popoli distinti, quindi per lui ogni civiltà si compenetra colla terra che la produce, quindi non sospetta unità alcuna tra le varie civiltà, non bevvi passaggio dall'una all'altra. quindi la dissociazione trionfa; quindi perder, volendo tentare l'unificazione del mondo colla ragione dell'uomo, non vide che la ragione del mondo da lui affermata, sopprimeva la ragione dell'uomo; e, lungi dall'avviarsi all'associazione universale, dava le redini dell'umanità al fato.
Hegel esaurì le forze della metafisica per raggiungere lo scopo prefisso da Herder di identificare l'unità delle leggi mondiali colla legge che guida ogni uomo nel seno dell'umanità. Respinse il deismo qual termine medio, insipido e vieto, troppo al disotto del problema: il termine medio da lui concetto fu l'identità delle leggi della natura e delle leggi del pensiero, entrambi operanti con uno stesso procedere. Secondo Hegel la natura viene generata dall'idea dell'essere, che, spinta di contrario in contrario dall'urto delle contraddizioni, forma tutti gli esseri del creato, scintillanti d'antitesi sempre vinte: poi appare l'uomo, nell'uomo l'idea generatrice della natura pensa la natura, la riconosce; riconoscendola diventa la storia: la storia progredisce ad imitazione della natura; spinta dalla forza della contraddizione, si sviluppa dall'Oriente all'America, sopra un disegno unico, pieno d'antitesi espugnate; cioè di guerre e di ruine, d'onde emerge il progresso. L'umanità si associa e si perfeziona afferrando l'identità dell'essere e del pensare, dei principio operante della natura e del principio pensante dell'uomo.
Così presso Hegel la ragione mondiale e la ragione umana sono identiche; le due nature sono una stessa .natura; lo spirito che crea i mondi e quello che li conosce sono identici; la differenza tra il fato delle cose e la provvidenza delle idee sembra scomparsa. Non è mio pensiero d'analizzare la filosofia della storia di Hegel, e credo inutile di ripetere qui la critica che esposi altrove[2]. Solo m'importa il notare che la nuova conciliazione del fato colla provvidenza delle idee riposa tutta sul processo della natura, sulla sua legge, supposta la stessa di quella del pensiero, di più supposta con un procedere che emerge sempre dalla conciliazione de'contrari.
Ora la conciliazione di Hegel si fonda precedentemente sulle contraddizioni della natura, le suppone vinte, oltrepassate, e non lo sono mai. Lungi dall'essere una conciliazione, la sostanza complica il dilemma del fato e della ragione con tutti i di lemmi e con tutte le contraddizioni del creato. Il risultato poi dell'hegelianismo dimostra che la conciliazione proposta non è se non la stessa contraddizione, che riappare sotto una forma insolita e nuova. Per Hegel, uno è il procedere della natura, uno il procedere della storia; dunque la storia universale è una, le diverse civiltà dell'Asia, della Grecia, di Roma, dell'Europa trovansi predisposte a priori dal procedere della natura nella costituzione fisica dell'Asia, della Grecia, dell'Italia, dell'Europa: dunque ogni evento istorico trovasi preparato ne' suoi accidenti materiali cd esterni dal fato: dunque tutta la natura pensante dell'uomo svolgesi su di un terreno prestabilito e predisposto dalla natura fisica inconscia del suo essere. Qual'è la conseguenza necessaria di tale premessa? È l'accettazione della storia universale positiva, come il vero, il reale processo della provvidenza delle idee umane. Dunque accettati tutti gli accidenti della natura, tutte le catastrofi puramente esterne come altrettante necessità intellettuali; dunque separati i diversi momenti del pensiero, non idealmente, ma materialmente,e considerati come altrettanti prodotti di una terra, di un clima, di una razza, perchè le civiltà sono distinte dal fato che si vuol provvidenza; dunque ignorate le vere transizioni sistematiche colle quali si passa di sistema in sistema senza uscire da ogni società, ed anzi alla condizione di non uscirne, perché fuori dei confini d'ogni società costituita non havvi se non il fato; la provvidenza scompare. Da ultimo, la storia ideale viene sacrificata al caso della storia positiva; il germe dell'umanità vien calpestato di proposito deliberato, ovunque vedesi una ruina, un disastro; ogni catastrofe viene disprezzata come se meritata dal popolo che la soffre; e la umanità viene negata, perchè la si abbandona al caso, alla preoccupazione insensata che il caso è umano.
Le diverse teorie sulla storia universale non riescono, da ultimo, che a mostrare l'impossibilità di signoreggiare il fato. Esse richiedono che sia nota la causa della configurazione del globo, la ragione d'essere d'ogni continente, la missione organica d'ogni animale, la parte sostenuta da ogni fenomeno fisico: se havvi unità nella storia del mondo, tutti gli incontri saranno stati predestinati, tutte le guerre saranno state necessarie, le invasioni inevitabili; le conquiste, le vittorie, le sconfitte, ogni evento sarà uscito dalla profondità della materia, predisposto da un Dio; e gli elementi, le nubi, il sole, la natura tutta intera sarà complice di ogni opera che si attua nel seno dell'umanità. I fiumi, la terra, avranno dovuto prevedere il corso della rivelazione, la vita, la morte avranno dovuto animare e distruggere nell'ora indicata dai principj tutti gli uomini che si sono mostrati nel dramma della storia. Una sola eccezione basterebbe per rendere dubbia l'unità e per distruggerla: non è lecito di imitare Hegel, che scansa artificiosamente i popoli inutili, le razze senza missione, le regioni non istoriche; volendo rispondere alla logica bisogna o spiegar tutto o lasciar tutto preda del fato; non bevvi via di mezzo Ora, non è forse evidente che, per render ragione della storia, fa d'uopo sostituirsi al dio dell'antica metafisica? non è chiaro che nell'assunto hegeliano è mestieri conoscer tutto per sapere qualche cosa? Da ultimo, non è patente che la prima condizione dell'unità della storia universale sarebbe di dominare e di dimostrare logicamente quella rivelazione naturale che deve, al contrario, dominare la ragione sotto pena di spingerci nel mezzo di un assurdo senza limiti?
Lasciamo la storia universale all'erudizione: essa è varia, fatale, esterna, dipendente da mille dati tisici, da mille eventi politici. La causa e gli effetti, vi si svolgono in modo, che il minimo e il più grande tra gli eventi stanno collegati con vincoli indissolubili. Cesare suppone l'Egitto, la Grecia, le Gallie; suppone Roma; esce da tutti gli accidenti che lo assalgono al suo nascere, perisce con tutti i casi che determinano la sua morte. Se la mano di Bruto trema, se Cesare prima di entrare nel senato ascolta un suo presentimento, se una freccia lo colpisce al varco del Rubicone, tutti gli avvenimenti della storia avrebbero mutato faccia, spostando ogni anello nella catena degli uomini e delle cose da Cesare sino a noi. Secondo il Cristianesimo, l'unità della storia dipende da due fatti arbitrari, la caduta di Adamo e la redenzione di Cristo: secondo la storia positiva, il caso si rinnova in ogni fatto; e la materia fluente, quest'Eva corruttrice della creazione, domina ogni cosa, ogni pensiero: e altronde, lo sforzo redentore, egualmente arbitrario, si oppone ogni istante alla caduta colla inconscia ragione della natura o colla conscia ragione dell'uomo. L'erudizione segua dunque il cieco fato della storia; il sistema sociale è un principio, una provvidenza assolutamente umana, una vera guerra contro il fato.
Se havvi unificazione possibile tra il fato e la provvidenza, l'unificazione sarà nell'avvenire: quanto al passato, l'unità dell'umanità non è se non nella storia ideale comune a tutte le nazioni. Ogni popolo vive solo a condizione di rappresentare l'uno dei momenti della storia ideale: avanzi o retroceda, deve rimanere sulla via eterna di tutti i popoli; lento o veloce, oscuro o glorioso, non può uscirne: I bisogni sono gli stessi presso tutti i popoli, ispirano le stesse azioni, spingono alla ricerca delle stesse arti, e la curiosità trascina verso una stessa scienza. Se fuori di noi le apparenze sono multiple, se il regno del caso non ha limiti, havvi in noi il dato primitivo della nostra organizzazione; la quale determina l'ordinamento primitivo delle apparenze, la prima fase sociale, e per essa tutte le fasi ulteriori. La nostra organizzazione ci mostra prima il moto, poi l'immobilità del sole; ci mostra gli astri prima come faci dei cielo, poi come altrettanti soli; la nostra organizzazione ci sforza prima a nudrirci, poi a incivilirci; prima ad adorare gli Dei, in seguito un solo Dio. Possiamo noi intervertire la storia delle invenzioni? la scoperta di Watt può forse precedere l'arte di fondere il ferro! No; il caso non regna sul pensiero, l'unità della nostra organizzazione signoreggia la varietà delle apparenze; noi penetriamo a passi in mezzo al caos della fatalità fisica, senza che la mobilità dello spettacolo esteriore álteri il corso delle nostre idee. Lo stesso spettacolo dell'incivilimento, l'esempio stesso dell'industria che si sviluppa, dell'agricoltura che feconda la terra, della navigazione che domina i mari, della scienza che donnina tutto, è uno spettacolo perduto per i popoli che non lo invocano col movimento spontaneo delle loro idee. Ogni giorno non vediamo, non sentiamo noi che la più fervente predicazione dei vero riesce inutile, irrita prima dell'ora prestabilita nella storia ideale? La provvidenza istorica trovasi dunque nel pensiero, che progredisce partendo dal dato della nostra organizzazione; trovasi uniforme presso tutti gli uomini, presso tutti i popoli, in tutte le religioni; e ci conduce tutti all'associazione universale, verso il sistema unico, in cui l'ordinamento delle apparenze non potrà più variare, e in cui la rivelazione naturale sarà riconosciuta nella sua pienezza.
L'associazione del genere umano poteva attuarsi collo sviluppo pacifico di una stessa famiglia, che si sarebbe propagata senza dividersi, e sarebbe rimasta sempre una nelle idee, nei sentimenti, nell'associazione: essa sarebbe sempre stata l'umanità. Questo non era nei fati. La propagazione della specie oltrepassò l'opera del pensiero, getta i popoli in balia delle circostanze prima che l'arte potesse dominare la fatalità, che impadronivasi degli uomini e facevali nemici gli uni agli altri. L'unità materiale fu infranta; ma l'unità intellettuale che trovasi nel fondo d'ogni popolo, deve supplirla nell'avvenire, domando la fatale ribellione delle cose per ricostituire l'umanità. A priori quest'opera è possibile e impossibile, secondo che noi la consideriamo sotto l'aspetto dei pensiero o della natura, del diventare o dell'essere, della potenza o del fatto. Il dilemma che resta senza soluzione sotto l'Impero della logica, si scioglie ogni giorno sotto l'impero della rivelazione. Anche prima di toccare l'ultimo termine della serie, ne presagiamo la soluzione provvidenziale in quella fraternità dei popoli che si riconoscono fra di essi, nell'unità dei buddismo, dell'islamismo e del cristianesimo. Benchè separati dai continenti prima di conoscere il dogma dell'umanità, noi lo vediamo attuarsi col mezzo del commercio, che riunisce i popoli dispersi, col mezzo dell'equilibrio politico, che abbraccia tutta la terra.


FINE DEL VOLUME I

SEZIONE SECONDA

LA RIVELAZIONE DELLA VITA



Capitolo I

MANIFESTAZIONE DELLA VITA

La rivelazione delle cose trovasi raddoppiata da una seconda rivelazione, quella della vita. Per sè le cose non hanno valore, la verità non ha senso, la ragione limitasi ad affermare ciò che è od a negare ciò che non è; rimane indifferente al bene e al male. La vita sola dà un pregio alla verità, un valore alle cose, uno scopo all'azione. Se la rivelazione degli esseri sfugge ai dilemmi della natura e del pensiero, la rivelazione della vita sfugge a quelli del bene e del male. Impadronendosi della logica, essa invola il problema della felicità alle contraddizioni della critica. Seguiamola nella sua manifestazione.
La vita si sviluppa progressivamente; la sua prima manifestazione consiste nell'impressione che produce in noi ogni apparenza. I fiumi, gli astri, tutti gli oggetti inanimati ci impressionano, la luce parla il linguaggio misterioso dei colori e delle prospettive, il suono ci strazia o c'intenerisce, il romore ci anima, il silenzio ci sgomenta, l'oscurità ci sconforta. Dunque alla semplice intuizione di un oggetto noi gli diamo un valore: questo valore rimane indeterminato, ma non oltrepassa una certa latitudine; l'uomo che non lo sente è insensato; quello che lo esagera è infermo di mente.
I bisogni determinano con maggior precisione i valori delle cose: la necessità di nudrirci, di difenderci provoca subitamente all'azione, l'azione è un moto; se ne può valutare la forza, questa forza è proporzionata all'attrazione dell'oggetto; da essa dunque si può misurare il valore che ha per noi l'oggetto di cui vogliamo impadronirci; dacchè le cose cadono nella sfera de' nostri bisogni naturali o fittizi, hanno, non solo un valore, ma un prezzo, perchè le forze misurano le forze, il moto misura il moto, quindi havvi equazione, scambio, valutazione. Voi date venti giorni di lavoro, cioè di moto, per una veste, cinque per una misura di grano; son queste proporzioni precise, le quali tramutano il valore nel prezzo. Benchè variino secondo le nostre disposizioni, i nostri capricci, le nostre opinioni; benchè il lavoro sia aggradevole o penoso, il variare ha un limite, ed havvi un prezzo umano per ogni oggetto.
La vita acquista un nuovo grado di forza in presenza della vita. Ogni animale sente nella rivelazione della sua propria vitalità ciò ch'esso è relativamente agli altri animali; li teme, li ama, li fugge, li assale. L'uomo è sottoposto alla legge generale; non havvi animale che non gli inspiri simpatia o ribrezzo, sentimento di sicurezza o di timore: ogni animale ha un prezzo prestabilito nei nostri instinti. Il valore vago del sentimento, poi quello più determinato de' nostri bisogni, ne misurano l'importanza.
La rivelazione della vita giunge al sommo quando l'uomo trovasi in presenza dell'uomo: qui ogni atto, ogni gesto acquista un valore, le mille volte superiore alla sua materiale importanza. L'amor fisico desta in noi la poesia dell'amore, la generazione risveglia nella madre un sentimento che la vincola per sempre all'essere uscito dal suo seno; ogni situazione determina una inquietudine, una compiacenza, un giubilo, una tristezza, e sentimenti che tramutano il nostro io. La società è il mezzo naturale dei fenomeni della vita: la patria determina il patriottismo, l'ingiuria provoca la vendetta, il beneficio ci ispira la gratitudine; la gloria, l'ambizione, l'arte, la scienza ci esaltano, ci alterano; le grandi riunioni di genti adunate fanno sorgere miracoli dalla rivelazione della vita. Quindi l'entusiasmo che si sviluppa nelle grandi assemblee, l'ispirazione dell'oratore che improvvisa, l'estro vittorioso del generale nel forte della mischia, il subito esaltarsi dell'eroismo si spontaneo nella folla. Siano gli uomini isolati, l'oratore perde la sua vena, l'attore perde l'accento della passione, le mosse del generale sono ridotte ad un meccanismo di formole strategiche, e l'eroe non potrebbe trovare un consigliere più egoista della solitudine.
Così la rivelazione degli esseri risveglia in noi la seconda rivelazione assolutamente distinta, della vita; debole dinanzi alle cose inanimate, essa si sviluppa dinanzi la natura animata, e tocca al sommo quando l'uomo giunge al cospetto dell'uomo. Ogni oggetto provoca la manifestazione della vita: pure essa specialmente dipende dai due elementi della luce e del suono; soppressi questi due veicoli, la vita striscia solitaria attraverso gli oggetti, ridotta ai fremiti inarticolati dell'animalità: ed è che, moltiplicando il nostro contatto colle cose, la luce e il suono moltiplicano gli atti della nostra vitalità.



Capitolo II

LEGGI DELLA VITA

La rivelazione della vita trovasi sottoposta alle leggi seguenti:
1.° In primo luogo la rivelazione interiore appare sempre a lato della rivelazione degli esseri, senza mai confondersi con essa. La vita segue il corpo; i nostri sentimenti seguono la costituzione fisica, il sesso, il temperamento, la salute, la malattia, senza che mai sia permesso di afferrare il vincolo che unisce il fisico al morale dell'uomo. Si conoscono i muscoli, i nervi, tutte le condizioni della vita organica; e la vita ci sfugge; le cose la risvegliano in noi senza che si sappia il perchè; reagisce alla volta sua sul corpo; il viso arrossa, impallidisce, le lagrime cadono; i gesti esprimono i sentimenti che ci agitano; la collera addoppia le nostre forze, la paura le scema: pure il mistero più assoluto inviluppa il nesso tra il sentimento e l'azione, tra la volontà ed il moto. Non si passa dal meccanismo alla vita, nè dalla vita al meccanismo.
2.° La rivelazione della vita corrisponde alla rivelazione degli esseri; essa varia dunque di continuo col loro variare delle cose. Il mezzo in cui viviamo e gli oggetti che ci stanno intorno, le città che abitiamo, gli esseri veri o imaginari ai quali diamo l'esistenza, il passato che la memoria dipinge, l'avvenire che si svela alla nostra previsione, in breve, la realtà determina la manifestazione della vita. Quando il mondo cambia, quando i dogmi si trasformano, la vita in balia delle cose si trasforma egualmente; l'uomo nuovo appare in noi, l'uomo antico scompare.
3.° Non imaginiamoci che si possa render ragione della vita coll'enumerare i nostri desiderii, i nostri istinti, le nostre passioni. Questi sono gli elementi della vita, non la vita: stanno ad essa come i suoni alla musica, o i colori alla pittura. Gli elementi sono sempre gli stessi, l'arte cambia e si trasforma; la vita riappare sempre nuova senza che mai sia dato d'analizzarla o di scomporla. L'amore è uno dei nostri istinti. Ma attraverso le idee dell'India, della Grecia, del medio-evo, del mondo moderno, esso diventa la passione di Sacontala, il delirio di Saffo, il sentimento di Beatrice, l'ispirazione della novella Eloisa. Mutato il mezzo, l'amore si trasforma. Ogni società ha la sua ispirazione; ogni popolo riceve la sua rivelazione interiore.
4.° I nostri sentimenti si combinano incessantemente, l'aritmetica, che presiede al loro combinarsi, ci sfugge; la musica misteriosa, che li coordina, ci vien meno. Una passione solitaria dà un effetto; congiunta con altra passione, l'effetto è sproporzionatamente maggiore, cambia forma; ci si aggiungano nuovi elementi, la combinazione varia d'intensità, di natura, di carattere. Gli stessi elementi vitali trovansi in Dante, in Napoleone, in Nerone, in santa Teresa: spiegheremo noi questi personaggi storici col dire che Dante era un poeta, Napoleone un ambizioso, Nerone un tiranno e santa Teresa una santa? Sarebbe un appagarsi di parole, un cadere nel più cieco meccanismo de' frenologi.
5.° La rivelazione della vita non può essere descritta, è ineffabile. Il dizionario dei nostri sentimenti riducesi a poche parole, e queste sono vaghe e quasi tutte metaforiche. La parola amore applicasi egualmente all'amor coniugale, all'amore del figlio, del padre, della madre, della patria, alle più svariate affezioni. Se i sentimenti distinguonsi, se portano un nome, si è perchè creano più serie d'azioni fisicamente distinte: l'atto solo ci permette di parlare della potenza misteriosa che ci anima.
6.° I sentimenti non possono neanche essere direttamente misurati. Quando vien detto che un uomo è cupido, che la sua avidità è insaziabile e spietata, presto la lingua ha esaurito tutti i suoi mezzi per indicare la passione, sono i mezzi della metafora. Per esprimersi con precisione, la parola deve gettarsi nella via indiretta della realtà, e citare fatti: allora descrivonsi gli atti della cupidigia, i tormenti che si impone; mostrasi il lettuccio dell'avaro, le sordide sue abitudini, e l'atto ci svela la potenza schifosa e ineffabile della avarizia. Non si raccontano mai le catastrofi interne delle nostre passioni: l'eloquenza, il romanzo, il poema, l'arte non possono se non tracciare le scene, dipingere le situazioni esterne, disporre i fatti, ordinare i fenomeni. Lungi dall'affrontare direttamente il sentimento, il poeta si toglie con tutta la sua forza dalla via diretta; e se non riesce nello sforzo, cade fatalmente nell'astratto; la poesia inaridisce. In qual modo il poeta ci ha rappresentato l'ira d'Achille? Coi fatti; e svolge dinanzi a noi un dramma, ci rende spettatori dell'ingiurioso ratto di Criseide; l'eroe si ritira sotto la sua tenda, freddo mira la strage dei Greci, non si piega alle istanze di tutti i capitani, e non si arma se non quel giorno in cui Ettore gli ha ucciso l'amico. No; Omero non canta l'ira d'Achille; egli descrive, racconta, ci trasporta sotto le mura di Troja, e tutti i sentimenti del suo eroe si risvegliano in noi. Shakespeare non ci descrive l'amore di Giulietta e di Romeo, ne espone la storia; Giulietta discende viva nella tomba per raggiungere il suo amante e il poeta desta collo spettacolo esteriore della tragedia tutte le forze della nostra interna rivelazione.
7.° La vita segue tutte le evoluzioni circolari della natura. Qualunque ne sia la ragione occulta, i contrari si collegano, si alternano, le forze opposte primeggiano a vicenda in ogni cosa; e l'immensa maggioranza dei fenomeni ritorna in sè stessa con un giro periodico. Di là le evoluzioni dei pianeti, il moto della terra, il corso delle stagioni, il succedersi del giorno e della notte. Noi non sappiamo se il moto molecolare ha i suoi periodi; possiam supporlo se guardiamo ai contrasti del magnetismo e dell'elettricità che alternano le attrazioni dei due poli. La vegetazione è pur visibilmente circolare: la pianta respira, si nutre, si riproduce, segue l'alternarsi del giorno e della notte, sente il moto de' pianeti. La natura si ordina, si anima, s'innalza perfezionando e moltiplicando i suoi circoli.
L'animale è una macchina periodica per 1'ispirazione e la respirazione, per la circolazione del sangue, per il moto peristaltico e antiperistaltico, pel rinnovarsi dei bisogni fisici, pel passaggio dalla azione all'inazione, dal lavoro al riposo, dalla sveglia al sonno. Il nostro giro si complica assai più che non appare alla vista; hannovi circoli impercettibili che si lasciano indurre senza che sia possibile seguirli. Così le febbri, gli accessi che si rinnovano a periodi di più anni, i ritorni epilettici attestano una circolarità invisibile di cui ci sfuggono i periodi, i fluidi, le condizioni. Nuovi circoli si manifestano nel sistema muscolare e nel sistema nerveo: quando non sono fissati, tendono a fissarsi coll'abitudine che mira sempre a ripetere il passato e a girare nel circolo degli atti anteriori. L'educazione fondasi tutta nell'abitudine, e riducesi ad una specie di organizzazione fittizia e circolare, innestata sull'orbita della nostra organizzazione naturale. L'analogia è l'abitudine del pensiero rapida come il lampo, per rinchiuderci nei circoli delle nostre cognizioni. Per istinto noi siamo imitatori; i figli imitano i genitori, i servi imitano i padroni; imitansi i difetti, e perfino le malattie. Per istinto l'uomo è superstizioso, e la superstizione non è se non la cieca aspettativa circolare di una serie di accidenti che si son trovati insieme una o più volte.
I circoli si ripetono nella rivelazione della vita. Noi abbiamo bisogno di contrasti, un solo sentimento non basta alla vita; l'amicizia abisogna di riposo, d'intervalli, al pari dell'amore; i più teneri sentimenti richiedono antitesi energiche. Il moto circolare dei sentimenti mostrasi evidente nelle arti. Si misura il verso, si cerca la rima, siama il ritornello, la melodia circola periodicamente dalla dissonanza all'armonia, l'architettura sviluppa coi contrasti, coi ritorni periodici; essa viola di continuo la simmetria per afferrarla di nuovo. Nei ritornelli, nella rima, nella simmetria, il periodo è rapido come il battito del cuore; nelle nostre azioni si allarga. Darsi al lavoro, agire, lottare, vivere, è un alternare gli stati del nostro essere onde provocare nuovi ritorni: Pirro vuol combattere i Romani per rientrare nella pace de' lari domestici; il vecchio ricomincia la sua vita affezionandosi al destino della nuova generazione.



Capitolo III

L'INTERVERSIONE DEGLI ISTINTI

Ogni sentimento può ricevere due sviluppi, l'uno diretto, l'altro inverso. Sforzandoci di passare da uno stato all'altro, possiamo cercare ora il possesso, ora la privazione, e direi, ora il bene, ora il male, se qui non parlassi della vita, facendo astrazione da ogni idea morale. Esaminiamo soltanto le rivulsioni della vita.
L'interversione dei gaudi è un fatto fisiologico. È nota la tendenza di alcuni infermi a nudrirsi di materie corrotte, immonde, nauseanti: la corea interverte il moto muscolare per farci camminare a ritroso: l'idrofobo abborre l'acqua; non havvi bisogno che non possa svilupparsi a rovescio.
Nelle passioni l'interversione si fa più patente. Prendiamo l'esempio dell'amore. L'uomo e la donna sono due apparecchi generatori riccamente ornati dalla natura, che sparge sul loro organismo intero la diversità dei due sessi. La diversità è nel corpo, nella persona, nel gesto, nella voce, dovunque: per essa si sviluppa l'amore che vive di luce, di suono; che sta nella rete misteriosa tesa dalla mutua irradiazione dei due esseri; toccando alla rete, i due esseri si ravvicinano, e solo nel momento in cui si compie l'atto della vita s'avveggono di essere due apparecchi. Ecco lo sviluppo diretto dell'amore: presenta due caratteri: analizziamoli perchè ogni carattere può intervertirsi colla fatalità di una malattia.
Il primo carattere dell'amore consiste nella seduzione dei due esseri che si trovano quasi inscientemente sacrificati all'opera della generazione. A questo primo carattere opponsi la rozzezza che fa primeggiare l'atto sulla poesia dell'amore, respinta come una leziosaggine, un ridicolo, un che di puerile e d'insensato. La mera lusinga stanca, infastidisce, fa dispetto: si vuole il fatto.
In secondo luogo, l'amore sta nell'irradiazione di due esseri, in un mutuo scambio di luce, di foco, di raggi; questa è la magia, questo il legame, che combina due ritmi mistici, i quali s'identificano: così l'amore è riservato e solingo; non vuole compagni, avventura la vita piuttostochè essere diviso. Il sentimento della gelosia persiste in ogni punto della durata dell'amore. Ma l'inversione travolge il secondo carattere, e fa quanto la passione diretta respinge. Di là l'affascinamento per le cortigiane; la comunanza desiderata, offerta; il disgusto per l'onestà, un'esaltazione febbrile per la promiscuità animale.
Rimane il terzo carattere del raccoglimento; perchè l'atto della vita è magico, esige l'attenzione d'un doppio magnetismo, una specie di fede mutua d'un essere nell'altro. Il pudore s'interverte alla volta sua, ed è il momento del cinismo che si compiace di far mostra di quanto la natura cela; quindi l'ebbrezza dell'impudicizia, le poesie oscene, le incisioni scandalose, e tutta quell'immonda industria, quella letteratura sotterranea che Parigi ignora e che Parigi vende all'aristocrazia dell'Europa. Di là l'orgia poetica o reale o imaginaria dalle mille forme, dagli sfuggevoli capricci, ora vaneggiante in conventi venerei, ora esaltandosi nella profanazione delle sacre cose.
Nell'orgia il sesso sopravvive ancora, l'inversione lascia in presenza l'uomo e la donna. Ma un grado più basso l'uomo e la donna si respingono, la libidine interverte il sesso, cerca in sè l'antitesi, desidera avidamente quanto muove a nausea, quanto fa inorridire; lotta contro la natura e cade in un mero delirio contro l'istinto. Quindi le passioni contro natura, contro il quarto carattere dell'amore, contro la correlazione sempre attraente dei due sessi. Intere nazioni furono travolte in quest'inversione.
Tolto il sesso, rimane ancora all'amore un ultimo carattere, quello di amare. L'ultimo estremo dell'inversione sostituisce alle tenerezze, alle carezze, all'adorazione, la persecuzione, la fierezza, la crudeltà: qui l'amore chiede sangue, non dà più la vita, uccide: questo delirio ebbe il suo poeta, che Napoleone giustamente imprigionava nello spedale dei pazzi.
Tutte le passioni possono svilupparsi a ritroso come l'amore: non havvi forse la passione del furto? quella dell'omicidio? la passione del combattimento, della lotta? la legge non è forse armata contro le inversioni sempre imminenti? Da un tempo all'altro esse scoppiano negli spedali e fanno maraviglia; nelle prigioni trovansi confuse col delitto; ne abbiamo visto una recente a Parigi, ebbra nelle fosse de' cimiteri; tutte le inversioni travestite e mascherate serpeggiano nella società. Esse hanno i loro covili dove sfuggono all'attenzione: ma si osservino ove siano protette dalla legge, e si troveranno mostruose come l'amore intervertito. Guardate alla guerra, vedrete svilupparsi il piacere di distruggere, d'incendiare; guardate alle repressioni politiche, vedrete l'uomo lieto della morte altrui. Il piacere d'esser utile, intervertito nei tempi della tortura, cangiava nei tribunali i giudici in altrettanti demoni: ed oggi? L'inversione si raccoglie sotto di una bandiera, si chiama governo e da tre secoli la vediamo nella chiesa, che combatte apertamente il pensiero, la verità, la giustizia; felice dei tormenti che soffrono le sue vittime, infelice delle vittorie riportate dall'umanità.



Capitolo IV

LA LOGICA SOTTOPOSTA ALLA VITA

La vita scansa tutte le contraddizioni critiche dominando la logica, si vive senza nemmeno sospettare le contraddizioni che genera.
Il nostro primo atto è di scegliere tra il piacere e il dolore, tra il contento e la tristezza; e l'intelligenza non ha motivi per la scelta; hannovi dolori che ci son cari, consolazioni volgari che ci nauseano: la rivelazione della vita decide; e dacchè la decisione è presa, la logica trovasi soggiogata, dominata, deve obbedire, servire al fatto della vita: il fatto sarà assurdo quanto gli oggetti, quanto i pensieri; ma l'assurdo non dispensa la logica signoreggiata di avverarlo.
Quando siamo in traccia della felicità, ci si affaccia una nuova contraddizione: se cerchiamo di moltiplicare i nostri piaceri, moltiplichiamo i bisogni, i patimenti, in maniera che molto godere sarà molto soffrire. Dobbiamo noi diminuire il numero dei piaceri? disprezzare la ricchezza? bastare a noi stessi? Allora cercheremo l'indigenza e l'infelicità nell'interesse della felicità. Ma l'astratto dilemma svanisce sotto l'impero della rivelazione vitale; la vita sceglie per noi; siamo spinti alla felicità. Gli uni s'impadroniscono del più gran numero di beni; gli altri voglion bastare a sè; ed è che, desiderando alcuni beni invisibili, sacrificano quelli da essi meno amati. Unica regola si è la vita, quale si desta in noi, in presenza delle cose, in presenza delle nostre proprie idee.
Sotto l'impero della logica non è possibile lo scegliere tra i beni; tra essi non havvi identità, nè eguaglianza, nè deduzione: in qual modo adunque preferire la tavola al teatro? l'amore alla gloria? Tutti i piaceri, tutti i gaudi escludonsi a vicenda per sollevare una contraddizione universale. La contraddizione viene scansata dalla rivelazione vitale; se non ci viene concesso di scegliere logicamente, la vita sceglie, ha le sue inesplicabili preferenze, ci dà le sue vocazioni; essa deve lottare tra la voluttà e l'ambizione, tra la seduzione del riposo e quella del pericolo; e data la scelta, la logica deve constatarla come un fatto, distinguendola da tutti gli altri.
Da ultimo, sotto l'impero della logica lo scambio è impossibile: se i beni che si scambiano sono della stessa qualità, lo scambio non ha senso; se differiscono, è impossibile di paragonarli, impossibile di scambiarli. Il dilemma rimane vinto dalla vita. Impossibile fin che si considera l'essenza stessa dei beni, il paragone diventa legittimo quando i beni agiscono sopra di noi, quali forze meccaniche. Per una pecora sono disposto a dare venti giorni di lavoro, per una misura di grano voglio darne dicianove: tra la pecora e il grano non havvi identità nè eguaglianza, nè deduzione; essi rappresentano due desideri distinti: tra le due attrazioni, tra le due forze che mi attirano, havvi eguaglianza fino a dicianove, havvi paragone; lo scambio è possibile, anzi è necessario, perchè una forza eccede l'altra di uno. Non si misurano, non si paragonano mai i valori; si misurano, si paragonano solo le forze d'ogni valore. Nel commercio e dovunque hannovi due cose distinte: da un lato un valore incognito determinato dalla vita, una ispirazione, un'attrazione ineffabile che dà un prezzo alle cose, e ci dispone all'azione; dall'altro lato, hannovi forze materiali sottomesse a leggi meccaniche, e tutte paragonabili sotto l'aspetto delle quantità. Si scambiano, si valutano le forze meccaniche; pure in questo lavoro automatico il commercio sempre in balìa dell'ispirazione: se l'ispirazione varia, se si áltera la rivelazione della vita, la forza dei valori varia, lo scambio materiale deve attuarsi su nuove basi.
Così la rivelazione della vita sceglie tra il bene e il male; sceglie tra l'indipendenza personale e la ricchezza esteriore; sceglie tra i diversi beni, e rende possibile lo scambio. Queste sono le quattro operazioni dell'arte di vivere assolutamente impossibili secondo la logica.



Capitolo V

IL RITMO DELLA VITA

La vita si compone di più istinti, governata da un'aritmetica misteriosa che li combina e li trasforma, in forza di una legge incognita. Io chiamo ritmo della vita, la misura primitiva e proporzionale che presiede alla combinazione de' nostri istinti.
L'essenza dell'uomo trovasi nel ritmo, e non nella ragione. La ragione si limita ad affermare, a negare; non può spiegar nulla; non ha scopo, nulla vuole, nulla cerca: se un dramma s'interrompe, non ne dimanda il seguito; se la conversazione si ferma, non ne cerca la conclusione. Per la ragione tutte le proposizioni hanno lo stesso valore, o piuttosto non hanno valore alcuno. La vita sola apprezza, dà un valore alle cose, e pertanto il ritmo della vita dà solo un senso al dramma, alla commedia, al discorso: ne dimanda la fine, la conclusione, respingendo la leggerezza, la frivolezza, la stravaganza come vizi che falsano i valori. L'intelligenza non regna dunque sulla vita; al contrario, la vita si serve dell'intelligenza; essa determina lo scopo, l'interesse che si vuol raggiungere, e l'intelligenza obbedisce, subordina i mezzi allo scopo, attua le nostre intenzioni nel mondo in una maniera meccanica. La ragione dev'essere serva dell'istinto. Se i miei desiderj cessassero, a che la mia ragione?
Siamo adunque mezzo ispirati e mezzo automi. Siamo ispirati per l'istinto, per la vita; siamo automi per la ragione che la vita domina onde attuarsi meccanicamente nel mondo. Il doppio fenomeno della ispirazione e del meccanismo trovasi dappertutto. L'amante è ispirato quando ama, e diventa intelligente e meccanico per raggiungere lo scopo dell'amore; l'ispirazione del coraggio sorge da un mistero vitale, ma nell'attuarsi rende ragione de' suoi atti. La presenza di spirito è istantanea, ma la sua azione è ragionata e positiva; l'improvvisare trasporta l'oratore, ma egli non persuade che col mezzo delle prove, e la sua ispirazione si traduce in dimostrazione per quelli che la seguono. Il carattere degli uomini, eroico od egoista, grande o vile, tenero o feroce, vien costituito a priori dall'armonia occulta degli istinti; pure nell'azione diventa automatico, voglio dire intelligente. Il contegno, il discernimento, la fermezza, tutto l'uomo esteriore viene governato dall'uomo interiore: la ragione è governata dall'istinto; noi non siamo ragionevoli se non perchè le nostre passioni trovansi imprigionate nei nostri organi, e i nostri organi nel mondo. La vita diventa intelligente, perchè deve diventare meccanica.
Non è la ragione, è il ritmo della vita che distingue l'uomo dall'animale. Non considerate voi se non le facoltà della ragione? Le differenze più essenziali tra l'uomo e l'animale scompaiono. La ragione percepisce gli oggetti: rifiuterete voi la percezione agli animali? direte che la rondine non percepisce il suo nido? La ragione si fonda sulla memoria: rifiuterete voi la memoria al cavallo che vi guida traverso i labirinti delle mine quando avete dimenticato tutte le uscite? La ragione contiene la facoltà di giudicare: ardirete voi di negarla alle bestie? Esse percepiscono, dunque giudicano; esse esitano, dunque deliberano: esse decidonsi, dunque ragionano. Per intenderle, per indovinarle noi dobbiamo indurre, dedurre, dimandarci ciò che faremmo noi stessi se posti nella loro condizione: in qual modo rifiutar loro la facoltà di ragionare? Neppure le idee correlative ai generi mancano agli animali: essi le hanno perchè percepiscono, perchè giudicano, si fondano sull'esperienza, e bisogna accordar loro tutte le condizioni dell'esperienza, lo spazio, il tempo, la sostanza, la causa, l'ente, tutte le nozioni che i razionalisti credono riservate all'uomo. Hannovi tra gli animali le gerarchie, le pene, le ricompense; e bisogna cadere nella più profonda ignoranza della natura, nel più crasso idiotismo della scienza per contestar loro la nozione della giustizia, mentre li vediamo intenti alla educazione della prole, e mentre noi stessi li ammaestriamo colle pene e colle ricompense.
L'uomo non è distinto adunque dall'animale se non dal ritmo della vita, dal sistema generale de' suoi istinti, dal valore esclusivamente umano che dà agli oggetti. Se la tigre avesse le passioni, gli istinti, le tendenze dell'uomo, tra essa e noi vi sarebbe solo la differenza della forma, della forza, dell'agilità; le sue cognizioni sarebbero le nostre cognizioni, perchè la ragione, isolatamente presa, nella tigre opera come nell'uomo.
Nel fatto, malgrado l'immensa diversità degli ingegni, tutte le facoltà che si chiamavano razionali sono le stesse in tutti gli uomini. Il giudizio è il medesimo in Ulisse e in Tersite, il ragionamento parimente il medesimo in Aristotele e nell'ultimo dei sofisti; se trattasi di verificare un'addizione, una divisione, una moltiplica, Newton non è superiore ad alcun maestro di scuola. Ciò che differisce tra gli animali si è la forza istintiva dell'ispirazione; quindi la varietà delle diverse attrazioni che le cose esercitano sopra di noi; quindi la diversa intensità dell'attenzione; e per l'impulso di questi dati primitivi differiscono poi le abitudini, l'educazione e l'istruzione, e tutte le facoltà acquisite.
Istessamente la ragione dell'animale è simile a quella dell'uomo, viene posseduta o non posseduta, le sue operazioni non ammettono alcuna gradazione, bisogna accordarle o negarle. Voi percepite o non percepite, non havvi mezzo; se l'animale percepisce, percepisce come voi; se conosce il tempo, lo spazio, i generi, li conosce come voi; se giudica, se ragiona, ha la vostra ragione; s'egli è logico, ha la vostra logica. Quindi è razionale quanto voi; automa quanto voi; egli è vostro eguale, e partecipa all'eguaglianza assoluta di tutti gli esseri ragionevoli.
La differenza tra l'istinto dell'animale e il ritmo dell'uomo consiste in ciò, che il primo è limitato, preciso, infallibile: la precisione dell'istinto fissa in un modo invariabile il valore d'ogni oggetto per ogni animale, per cui la vita presentasi qual problema matematico istantaneamente risolto. Nell'uomo, al contrario, l'istinto rimane indeciso, si muta, si attua lentamente; e ammette una vastissima latitudine nella determinazione dei valori. Il ritmo presentasi quasi una quantità che domina più qualità diverse, vale a dire più sistemi di vizi e di virtù.
Se la ragione è serva del ritmo, se deve obbedire all'istinto, se deve attuarlo senza mai dominarlo, se per la ragione Tersite non differisce da Ulisse, nè l'animale dall'uomo, a che riducesi il vantato regno della ragione? Si riduce ad una chimera della metafisica, che prende le contraddizioni della vita quali problemi solubili. Per iscioglierli deve stabilire un principio, identificarsi con un dato bene, e creare un'arte di vivere astratta, in cui tutto vien dedotto da una unica volontà, quasi che gli uomini fossero tutti eguali nelle tendenze, negli istinti, nelle vocazioni; quasi che si possa transire logicamente da un bene all'altro bene, da una passione alle altre passioni. Il regno dell'astratta ragione è il regno dell'impossibile; nessuno vi può vivere; la pianta uomo non vi può germogliare, perchè la logica insulta alla nostra natura, e vi trascura l'immensa varietà degli istinti onde emerge l'umanità. Come seguire gli stoici o i cinici? Antistene o Platone? La metafisica in azione ha messo i filosofi in conflitto coll'umanità.



Capitolo VI

L'ASPETTATIVA DELL'UOMO

Il ritmo della vita spiega il destino dell'uomo, nella stessa guisa che l'istinto spiega quello dell'animale. I cristiani si domandavano d'onde veniamo? qual'è la nostra missione? qual'è il nostro fine? Rinunciamo al linguaggio dell'antica legge; sono sparite le colonne di fuoco che ci guidarono attraverso al deserto. L'uomo è il solo Dio dell'uomo, e questo Dio risiede nella nostra vita: se non sapessimo qual deve essere la nostra azione, chi potrebbe dirlo? Non abbisogna alcuna voce soprannaturale per insegnarci che i frutti della terra debbono nutrirci, che il braccio è l'istrumento del lavoro, che la donna ci chiama all'opera dell'amore; i valori ci attraggono, s'insignoriscono di noi e il loro sistema è il sistema del nostro destino.
Per un'ipotesi primitiva ed inesplicabile il ritmo della vita suppone che l'universo corrisponda all'aspettativa dell'uomo: la vita suppone che si può vivere; tale è l'ipotesi generale dell'istinto in tutti gli animali. Ogni animale vive; quasi fosse il re della natura, vuole assimilarla a sè, assorbirla; se gli ostacoli non lo fermassero, la più misera specie, il più meschino arbusto basterebbe per popolare la terra; a capo di qualche secolo un olmo produrrebbe un volume uguale al volume del globo. La natura corrisponde essa all'aspettativa dei viventi? No, non corrisponde più all'uomo, che all'animale: tutti i destini sono ostili, contraddittorj, e la contraddizione è sì vasta, che l'essere, il quale giunge a compiere il suo destino, è una vera eccezione. Quasi tutti i viventi periscono nello stato di seme, di feto, al primo nascere: la vita adulta è il premio di un combattimento, una vittoria riportata su miriadi di vittime. L'uomo subisce la legge universale: credesi il re della creazione, e di continuo soccombe; havvi una profonda contraddizione tra l'aspettativa che si rivela nella vita ed il nostro destino quale si rivela tra gli esseri. «Allorchè volgiamo il nostro sguardo», dice Giacomo Boehm, «intorno a noi, al cielo, alla terra, alle stelle e agli elementi, non vediamo alcuna via che possiamo riconoscere, e nella quale possiamo entrare per nostro riposo.» Che fare? Bisogna vivere, tale è la suggestione della vita. La natura protegga pure tutte le razze che ci sono ostili; noi dobbiamo combattere, dobbiamo agire come se l'universo corrispondesse alla nostra aspettativa, come se le stelle che splendono nel firmamento non avessero altra missione che d'inviarci un raggio di luce durante la notte. Siamo sul nostro pianeta, come l'equipaggio sulla nave; giungerà esso in porto? potrà attraversare l'oceano del vuoto? Havvi un porto? I venti possono sommergere la nave, gli scogli possono infrangerla; le malattie, la fame, il freddo possono mietere l'equipaggio; nel fatto, i marinai muoiono, le vele sono squarciate, soventi le braccia mancano al lavoro, qualche volta eccedono; non si conosce la nave, non fu bene esplorata: per lungo tempo operavasi come se il porto fosse a qualche lega di distanza, disprezzavansi gli istrumenti, il sartiame, i viveri ammassati nella stiva. Ma conviene avanzare, il cielo vuole che si passi, uccide chi si ferma; vieta il retrocedere. Bisogna operare come se vi fosse un porto, come se i venti fossero destinati a condurci, come se le rupi, le sabbie, le correnti fossero create a bella posta per tener desta l'attenzione dell'equipaggio. La vita vuol che si viva.
Dimenticando il ritmo e l'imperiosa aspettativa che lo anima, dimenticasi il primo principio del destino, e solo scorgesi la contraddizione tra l'aspettativa dell'uomo e la fatalità della natura. Ignorandosi la critica, la contraddizione diventa un problema. Quindi la filosofia chinese si domanda se la natura è buona o cattiva; la filosofia greca cerca se il mondo è governato dal caso o dalla ragione; la filosofia moderna vuol sapere se la natura è fatta per l'uomo, o l'uomo per la natura. Le grandi soluzioni della metafisica si riducono a tre.
La soluzione più generalmente ammessa, quella di Socrate, suppone che l'universo sia veramente fatto per l'uomo, e che la ragione dell'universo non sia se non la ragione dell'uomo. Qual'è dunque la ragione dell'uomo? La ragione di Socrate non è quella di Trasimaco; il pensiero di Seneca non è quello di Nerone. Per mantenere l'unità della ragione umana, la metafisica deve dichiarare che hannovi false ragioni, falsi uomini. Sia: la ragione del savio corrisponde adunque a quella dell'universo: ma sorge un nuovo ostacolo. Nella natura tutto si oppone al savio, gli elementi non lo rispettano; gli animali tendono ad uno scopo ostile all'umanità; la natura si rivolta contro di noi: qual'è dunque la ragione dell'universo? Dopo aver dichiarato che hannovi falsi uomini, la metafisica deve dichiarare che havvi una falsa natura, di cui trionferemo. Dov'è dunque la vera natura? Sfortunatamente trovasi fuori della natura, in Dio, in cielo, nelle regioni delle favole, ovunque si vuole. Eccoci nel vuoto. La metafisica non si sconforta dinanzi al vuoto; essa prende l'una dopo l'altra le contraddizioni dei beni reali per proteggere il suo bene imaginario. Dimostrasi che nei falsi uomini, nel mezzo di una falsa natura, godere è soffrire; che dobbiamo sacrificare il contento per essere felici; dimostrasi che la ricchezza è una servitù, che l'uomo veramente ricco deve essere povero. Nella ragione staccata dalla vita, non havvi se non il vuoto, e siamo di viva forza ricondotti al vuoto per tutte le vie: per la via di Platone, che ci promette la felicità nell'idea astratta del bene; per la via di Zenone, che ci assicura la felicità suprema separandoci da tutti i beni; per la via di Cristo, che ci promette la felicità nella morte. Dopo di avere dimenticata la vita al punto di partenza, la metafisica la rende impossibile per mezzo di tutte le equazioni chieste alla ragione.
Havvi, in secondo luogo, una metafisica terrestre che vuole compito nel mondo il nostro destino, confidandolo alle nostre sensazioni, al nostro benessere, all'amor proprio. Qui si considera solo un frammento della vita, quella parte che trovasi materializzata fuori di noi, nella meccanica degli interessi positivi, nei fenomeni esterni. La metafisica s'impegna a spiegare coll'equazione dell'amor proprio il rimanente della vita, il nostro interno. Ma la parte non può abbracciare il tutto, e finisce a negarlo. Si può riscontrare in Loke, in Helvetius la dialettica della sensibilità, che riduce tutti i fenomeni della vita all'egoismo meccanico, per essa la pietà diventa l'interesse personale, un ritorno sopra noi stessi; l'amore della famiglia si trasforma nell'amore della nostra persona; il coraggio si riduce ad una forma della viltà; la religione ad una riunione accidentale di nozioni chimeriche: il genio ad una felice compagine di sensazioni. La teoria delle sensazioni è una specie di atomismo, i suoi atomi sono le sensazioni, gli interessi che si combinano, si separano e vanno coordinandosi e disponendosi in noi stessi. Ne consegue in primo luogo, che i vizi dell'atomismo si riproducono nella teoria della sensazione. L'atomismo materiale non crea gli esseri, non rende ragione dell'unità del corpo organizzato, trovasi in contraddizione colle qualità che appaiono, scompaiono e si combinano secondo leggi opposte alla meccanica. L'atomismo psicologico della sensazione non rende ragione del ritmo, della nostra unità, dell'armonia degli istinti; non dà alcun senso al discorso, nè un andamento all'azione; esso trovasi in contraddizione coi valori che si compongono e scompongono, secondo un'aritmetica che viola l'aritmetica materiale. Voglio credere che la pietà sia un interesse mascherato, che la religione sia una serie di nozioni climatiche, che l'inquietudine, il disagio siano i soli nostri impulsi, che l'amor proprio sia l'unico mobile dell'uomo. Rimane sempre che io sono uno nella mia felicità; che sono uno nella simmetria sfuggevole della mia vita: un bene che violi questa simmetria, non è un bene; essa non tollera addizioni grossolane, e se viene alterata, perisce per intiero. Tale è la vita in tutti i momenti della mia esistenza, in tutte le epoche della storia. Dunque l'equazione dell'interesse disconosce il ritmo, lo nega, e finisce a mettersi in contraddizione coll'io. In secondo luogo, i metafisici della sensibilità nell'abbozzare l'arte di vivere sono addotti a riprodurre sotto nuova forma i precetti dei razionalisti; essi parlano come se una ragione meccanica, invariabile governasse l'universo, o come se la natura fosse una divinità; egli è vero che si attengono a questo mondo, per essi non havvi nè una falsa natura, nè un falso universo; non sostituiscono il vuoto all'essere, il cielo alla terra. Pure non riescono nell'intento, e sono smentiti e ripulsi dalla natura. Poichè, in ultima analisi, la natura non risponde all'aspettativa dell'uomo; se vi risponde, spesso s'inganna; che fare? La teoria è positiva, materiale; ed essendo affatto meccanica, termina tutta nel meccanismo: se il meccanismo fallisce, bisogna sostituire all'aspettativa il disinganno, alla speranza la disperazione, al coraggio la viltà, al ritmo della vita una scempia igiene per la conservazione della nostra salute. Il ritmo guerriero, militante, che invoca la solidarietà umana, viene compiutamente disconosciuto. Quindi la filosofia inutile alla vita; quindi gli ardenti apostoli della libertà trasformati da una disfatta in misantropi inetti; quindi il magnanimo entusiasmo surrogato poi da un duro disprezzo per l'umanità, il quale dovrebbe pur essere riservato a coloro che confidano la causa del vero ad un evento, e non al principio stesso della vita. Il dí della sconfitta cadono in terra, non havvi più il fatto meccanico esterno che li sostiene; il generale, il liberatore, l'imperatore in cui confidavamo, è sparito: e dopo d'aver proclamata la natura benefica, finiscono a proclamarla ostile, e si lasciano vincere dal fato del loro proprio egoismo.
La terza soluzione metafisica dell'antinomia tra l'uomo e la natura fu data dai mistici: benchè sia la più assurda, pure cerca la vita là dove si trova I mistici intendono che la logica non può penetrare il secreto della vita nè colla ragione, nè colla sensazione; essi abbandonano il razionalismo ed il materialismo alle contraddizioni eterne della critica; secondo essi, la vita sta nella fede, nei miracoli del cuore, nei trasporti dell'estasi. Al certo è la vita della vita: però i mistici sono metafisici, devono stabilire un principio primo, devono subordinargli in qualche modo tutte le apparenze e bisogna così che un'apparenza regni su tutte le altre. Di là una serie indefinita d'errori. La fede, l'estasi, i rapimenti interiori, dacchè vengono assunti a principj primi, devono mostrarsi esteriormente; i mistici s'arrogano dunque di parlare di quanto è ineffabile. Non potendo adunque render palpabile la fede, il rapimento interiore, in altri termini, non potendo descrivere direttamente il ritmo, ci espongono una data fede, un amore, una vita tutta reale, identificata con un sistema meccanico, con una religione di formule. La loro fede è cattolica o musulmana; la loro estasi è cristiana o buddista. Per una conseguenza naturale presentano il loro proprio sistema mistico qual regola dell'universo; gli angeli e gli arcangeli devono collaborare colle stelle e cogli animali, perchè l'aspettativa del credente non sia delusa. Tutto deve essere subordinato alla fede del credente: dunque se hannovi popoli aderenti ad altri sistemi, saranno falsi popoli; se havvi una parte della natura in contraddizione colla fede, sarà una falsa natura: se la fede richiede miracoli, i cieli devono aprirsi, la natura deve cedere all'istinto del credente; essa è il velo attraverso al quale il credente intravede un universo, che obbedisce alla sua aspettativa. Il misticismo viene avversato? Allora diventa scettico, dimostra che tutto è falso, che tutto è contraddittorio, e s'arma della logica per negare i fatti incontestabili. Gli si dimandano dimostrazioni? Il suo principio è prefisso; è vitale, generatore, implica la possibilità d'ogni prodigio. Ne nasce che il mistico si vale dell'esperienza per oltrepassarla, si giova dell'osservazione per negarla; non vive mai nella natura; vive come se fosse in un altro mondo. Enumera le foglie dei fiori, gli organi degli animali per penetrare il numero misterioso della genesi delle cose; come Giacomo Boehm cadrà in estasi dinanzi ad una pentola di stagno per decifrare nell'incanto della lucidità metallica il principio di una trasformazione cosmica; dunque il fatto non sarà mai fatto, ma indizio di un altro fatto; la realtà non sarà mai realtà, ma un segno del possibile. Il vero sarà dunque nel possibile, sarà fuori della natura, estravagante quanto il vero de' razionalisti: la felicità chiesta ad indizi fugaci e capricciosi sarà assurda quanto il benessere del materialismo. Tale è il procedere di Giacomo Boehm, di Roberto Fludd, di Carlo Fourier; tale è sempre stata la metafisica della vita nella equazione fantastica del misticismo.
Ho indicato i caratteri delle tre grandi teorie metafisiche della vita. Le teorie intermediarie rappresentano la complicazione degli stessi vizi.



Capitolo VII

LA RIVELAZIONE DELLA VITA DETERMINA
E DOMINA LA SOCIETÀ

Non siamo governati dall'ispirazione, non dalla logica; non havvi un'arte astratta di vivere; non havvi una scienza della natura la quale ci dimostri che l'universo corrisponde alla nostra aspettativa. Il nostro destino sorge dagli istinti della vita. In qual modo dovrà esso attuarsi? I nostri istinti si sviluppano in due sensi opposti, l'uno angelico, l'altro satanico: chi sceglierà nell'alternativa? Ancora il ritmo della vita che determina e domina la società.
Nell'individuo le funzioni istintive si armonizzano senza ch'egli se ne accorga per vegliare alla sua conservazione; mangia per soddisfare alla fame, e le sue forze si rinnovano; ama per amare, e la sua specie si propaga; la collera è involontaria, ma ci difende: l'amicizia è disinteressata, ma ci procaccia difensori. Ad ogni momento il problema della nostra esistenza viene sciolto dalla vita, che dirige l'intelletto verso uno scopo da esso ignorato. Lo stesso fenomeno si ripete nella società; la natura l'abbozza nella famiglia, l'estende colla propagazione della specie, e dispensa le diverse funzioni sociali colla varietà delle inclinazioni; si va alla caccia per cacciare, si inventa per la passione d'inventare; ogni lavoro si attua in forza di un vezzo istintivo: il poeta non pensa che alla poesia, il dotto non pensa che alla scienza, e la società trovasi così improvvisata, conservata dall'impulso delle vocazioni. Non ispetta alla intelligenza il fondare la società, nè il formare le diverse funzioni dell'industria, nè il distribuire le vocazioni, nè il creare i caratteri; l'intelligenza si limita ad accettare la rivelazione dell'istinto. Le passioni, i sentimenti traduconsi ad ogni istante in forze meccaniche; le quali variano indefinitamente nella direzione, nell'intensità; bisogna evitare gli urti, bisogna coordinare fisicamente tutte le azioni, bisogna dirigere il moto, assegnargli una formola meccanica, e l'intelletto si limita a cercarla. E qual'è? Deve fondarsi sulla realtà; e pertanto si riduce al sistema sociale che abbraccia tutta la realtà alla quale i nostri istinti diedero un valore.
La stessa ricerca della formola sociale o religiosa, benchè sia meccanica, viene suggerita dalla rivelazione interiore. Mentre tutti gli artisti obbediscono ad impulsi speciali, hannovi uomini la cui ispirazione si applica, non alle cose, ma agli uomini stessi. Signori naturali de' loro simili, sentonsi predestinati al comando; non sono poeti, nè dotti, nè inventori; ma sentono il bisogno di dare a ciascun istinto la sua funzione, a ciascun uomo la sua missione. Vogliono attuare l'ordine occulto che trovasi in potenza nel fondo delle moltitudini; lo divinano per una specie di seconda vista; lo presentono per un privilegio del loro organismo; affascinati dal suono di una musica intima che la folla non intende, dimenticano sè stessi perchè la città si fondi, e perchè ogni pietra vivente prenda il suo posto nell'edifizio della civiltà.
Non havvi adunanza sì piccola, sì due che non trovi il suo Orfeo. Ogni festa, ogni ballo campestre scopre l'uomo che si consacra ad essere il legislatore del momento; da ogni moltitudine in tumulto esce sempre una voce positiva, imperiosa, la quale determina l'azione. Nelle insurrezioni il capo vedesi riconosciuto colla rapidità del lampo; dimanda il suo posto, e l'ottiene immantinente: Masaniello sorgeva a Napoli in pochi istanti. L'apparizione del genio politico è il fenomeno più costante d'ogni popolo che si agita; quanto più la scossa è profonda, tanto più l'ispirazione politica, violentemente interrogata, erompe in prodigi. Wallenstein è generato dalla guerra dei trent'anni: Castruccio Castracane, Braccio Montone, Sforza Attendolo lo sono dall'anarchia italiana; l'Italia del medio-evo non si stanca di produrre uomini sempre nuovi nel mezzo delle sue rivoluzioni. Dalle rivoluzioni inglesi esce Cromwell; Napoleone sorge dai battaglioni della Francia rivoluzionaria con un corteggio d'eroi.
Il politico opera come il poeta; i suoi atti cadono nella sfera del ragionamento; vengon discussi, sono meccanici; ma quanto sfugge al ragionamento, al meccanicismo si è il politico stesso; la rapidità del suo imaginare, la prima vista, il giudizio, la fermezza del carattere: intendesi la sua parola, e non s'intende dove egli prenda la forza che lo ispira; accettasi l'ordine da lui imposto, e non si può scoprire la prima fonte onde sgorga. Istessamente il sacerdote, il profeta, sono i politici dell'universo; cercano l'ordine nell'immensa repubblica degli esseri visibili ed invisibili; sono ispirati dalla rivelazione, ma s'impongono in forza della realtà.
Scoperta la formola dell'ordine, il legislatore ed il profeta non possono attuarla senza lotta, nè comprimere le ribellioni senza combattere, nè conservar l'ordine senza antivedere l'insurrezione, senza cercare di renderla materialmente impossibile. L'ordine, suggerito dall'ispirazione, viene dunque attuato dalla forza. Strana miscela di spontaneità e di violenza, di poesia e di brutalità, esce da una ispirazione che vuole liberi tutti gli istinti, felici tutti gli esseri; e nell'attuarsi diventa un'opera di guerra, si fonda sugli eserciti, sui tribunali, sulle prigioni, e non si conserva se non coordinando i suoi mezzi di offesa e di difesa contro i traviamenti individuali. Così la società è doppia: violenta e spontanea. Esteriormente la società opera coi mezzi meccanici, muovesi materialmente nello andamento, nello scopo, in ogni cosa; pure chi dispone degli eserciti, dei tribunali, delle prigioni? La forza invisibile della vita, che comanda alla logica, quindi distrugge i dilemmi critici, e che spegne nel nascere l'interversione degli istinti.
Se si trasanda la rivelazione della vita, è forza chiedere alla ragione l'origine della società; la ragione deve dedurla da un principio, svolgerla logicamente, e si arriva non alla scienza sociale, ma alla metafisica della società. Così Montesquieu crede spiegata la società dicendo che l'uomo vi nasce: ma tutti gli animali nascono in società; perchè l'uomo rimane associato? Non gli mancano cause d'ostilità co' suoi simili. Un'altra teoria risponde, che i nostri bisogni ci chiamano alla società, e vi ci fanno rimanere: non v'ha dubbio; pure il consorzio è forse l'opera de' nostri bisogni, o i nostri bisogni non son piuttosto il suo risultato? Il dubbio è permesso; ignoti nulla cupido; il selvaggio non ha i bisogni di un cittadino. D'altronde, tra i bisogni e i beni, tra i desiderj e i valori da cui sono soddisfatti, havvi un abisso; il desiderio di camminare senza stancarsi non inventa la carrozza. Donde scaturisce l'invenzione? Dalla ragione, risponde un'altra teoria; ed eccoci dinanzi ad un nuovo ostacolo. La ragione è vuota, e i ragionamenti sono l'opera della società; la ragione è nulla, o, identificata colle nostre cognizioni, essa ignora quanto non le venne insegnato; qual'è dunque il maestro della società? Per ordinare bisogna educare gli uomini, e l'educazione suppone la società già stabilita: d'indi le conclusioni, che la società era necessaria per inventare la società; che le lingue erano necessarie per inventare le lingue: il che torna quanto il dire che Socrate non poteva nascere, che il moto è impossibile, che non si può nulla apprendere; e il più strano si è che i teologi s'impadroniscono di questo ragionamento precisamente per provarci che la società, la lingua, le arti furono insegnate dal loro Dio.
Sembrò naturale che la società si fondasse sull'unico principio della sociabilità. L'uomo, dice la scuola scozzese, somiglia agli animali che vivono in gregge; l'uomo cerca l'uomo, come il cavallo cerca il cavallo. Ma potrebbesi domandare se la socievolezza, invece, di essere la causa della società, non ne sarebbe piuttosto l'effetto. Trascuriamo questa obbiezione. La società non è una greggia, non un semplice adunarsi d'individui; essa è ordinata, i suoi lavori s'intrecciano, le sue funzioni si suppongono, formano un tutto unico e indivisibile: potrebbe l'ordine esser generato da un fortuito incontro? D'altronde, la sociabilità delle gregge è ciecamente benevola: ma l'uomo non è sempre benevolo per l'uomo; nella società cerca onori, vantaggi: nella più innocente brigata non ride se non deride; si sollazza alle spalle degli assenti, non è contento se non domina i suoi eguali. L'uomo è nemico dell'uomo, viaggia armato, chiude la sua casa con ispranghe di ferro; le città sono circondate di bastioni; i popoli assicurano la pace addestrandosi alla guerra. Tra gli animali non hannovi dispute di onori, di precedenze; l'interesse pubblico e l'interesse privato trovansi d'accordo; il pensiero dell'animale non è novatore, non sedizioso; ma la lingua dell'uomo è una tromba di guerra. Il legislatore imagina profonda perversità nei cittadini, si studia prevederne tutti i delitti, contrappone il terrore alla astuzia; la sua legge può essere santa, non può essere innocente. Noi tutti, per renderci tollerabili gli uni agli altri, dobbiamo dissimularci, illuderci a vicenda colle regole della decenza, della creanza, della prudenza; non è lecito di palesar tutto il pensiero; guai alla cieca confidenza; maledictus homo qui fidit in homine. E si vuol spiegare la diffidenza colla confidenza? l'odio colla bontà? la società colla sociabilità?
Hobbes e Mandeville, espositori di questa critica, rendevano ragione della società colla guerra; in loro sentenza si è per combattere che gli uomini si sono riuniti; si è la dissociazione che ha prodotto l'associazione. Il problema rimane intatto; per riunire la società guerriera e conquistatrice, per fondare la prima riunione armata, abbisogna una lingua, un riparto di funzioni, un ritmo; e questo ritmo non s'inventa, non si deduce d'alcun fatto materiale ed esteriore. Hobbes e Mandeville hanno afferrata l'origine esteriore e meccanica della società, hanno avvisata l'azione politica, senza conoscere la politica ispirazione, senza indicarla, senza sospettarla.



Capitolo VIII

I SISTEMI MISTICI

Ogni sistema sociale sorge dalla vita, riceve dalla vita la sua ragione d'essere; è creato e conservato dall'ispirazione vitale; riducesi all'arte di vivere in un tempo determinato. Il sistema si spiega colle cose esteriori; è meccanico; ma la sua creazione è una magia ritmica, un vero incanto. Quindi il meccanismo d'ogni sistema sociale esprime una particolare armonia, che si tempra nel ritmo della vita e che chiamerò sistema mistico.
Giova scrutare il fenomeno del sistema mistico, che fu troppo disconosciuto e confuso con altri fenomeni. Non posso definirlo, perchè non si definisce l'ineffabile; non posso spiegarlo, perchè non si spiegano gli incanti, mi limito a verificarlo.
Il sistema mistico differisce dal ritmo della vita come l'individuo differisce dal genere, come Socrate dall'uomo. Nel sistema mistico la vita non è più indeterminata; è la vita del Cristiano o del Musulmano, del Musulmano o del Buddista; il nostro ritmo non è più l'istinto originale d'ogni uomo che viene in questo mondo; è questa o quella rivelazione interiore. L'amore diventa l'amore di Petrarca o di Rousseau; i valori per sè astratti e quasi commerciali si trasformano in beni inalienabili. La fanciulla ha scelto il suo fidanzato; il padre è avvinto alla sua prole; i beni dell'amore e della famiglia sono fissati, i nostri destini non ammettono più scambio, nè sostituzione. Dunque, il sistema meccanico, che è l'opera del sistema mistico, vero o falso, si presenta a noi come il mezzo naturale della nostra esistenza; non pensiamo più a cambiario; viene idealizzato, abbellito, perfezionato, non mai rinnegato. La nostra vita s'aggira ne' circoli tracciati dall'abitudine, la nostra imaginazione si avvolge nelle spirali dell'analogia; non vogliamo nè possiamo più uscirne. Non è dato di combattere i costumi colle leggi, non si può imporre una religione respinta dal sentimento mistico di un popolo: non si può nemmeno sedurre una tribù di pastori, offrendole i beni dell'incivilimento. I valori che non entrano nella armonia del sistema mistico sono rifiutati; i piaceri, gl'interessi, gli onori che non ci toccano, non sono per noi piaceri, nè interessi, nè onori. Ogni sistema mistico ha i suoi sentimenti, le sue attrazioni, i suoi valori; e perciò stesso che esiste, respinge tutti gli altri sistemi mistici coi sistemi meccanici che ne sono la conseguenza. Possiamo noi accettare l'arte di vivere di una vita che non è la nostra?
Verrà chiesto se i sistemi mistici separano i popoli fino a sopprimere la fraternità umana. Sì, sopprimono la fraternità, accendono la guerra; per essi i popoli si ispirano un mutuo furore; la fraternità non apparirà sulla terra se non col trionfo di un sistema su tutti i sistemi. Il ritmo della vita non basta alla fraternità universale; non basta essere uomini per essere fratelli; conviene che gli istinti si armonizzino. Il ritmo è troppo vago, troppo indeciso; al nostro nascere trovasi indeterminato; non corrisponde nemmeno alla natura, e la fraternità che stabilisce tra gli uomini, si riduce ad un'astrazione derisoria. V'ha di più: in forza del sistema mistico ogni progresso viene aborrito, perchè naturalmente ripugna al nostro sistema, e noi respingiamo anticipatamente il sistema avvenire. Ogni dogma maledice, qual'eresia distruggitrice della società, il sistema che deve succedergli. Il paganesimo aborriva l'eresia giudaica, che abbominava l'eresia cristiana, che alla sua volta anatemizza l'eresia protestante. Noi siamo sotto il peso della maledizione di tutti gli uomini che ci hanno preceduto; e tutti i sistemi attuali, interrogati positivamente sul vero ed ultimo sistema dell'umanità, sarebbero unanimi nell'esecrarlo, come una profanazione atroce. In che modo affermare che sistemi in guerra reciproca, che sistemi unanimi per combattere il sistema dell'umanità non ostino alla fraternità degli uomini?
Sarà chiesto ancora se il ritmo della vita non è distrutto dalla differenza che separa e mette in contraddizione i diversi sistemi mistici. Il ritmo dà un valore vago alle cose; il sistema mistico diminuisce, annienta questo valore; alcuni popoli adorano idoli aborriti da altri popoli; la superstizione dà un prezzo stravagante e folle ad oggetti, a parole che non hanno valore umano. Non diremo che qui il ritmo si spegne? Rispondo, che i popoli differiscono e pel sistema mistico e pel sistema meccanico. Il sistema mistico fa differire le inclinazioni, il sistema meccanico fa differire i valori determinati: ma queste differenze non distruggono il ritmo della vita, più di quello che gli individui distruggano il genere. Sì; i popoli si disprezzano a vicenda; ognuno di essi si crede il popolo eletto, il primo tra le genti; sì, havvi una profonda contraddizione tra l'uniformità del ritmo e la diversità dei sistemi mistici, tra il valore e i valori, tra l'armonia degli istinti e le armonie degli istinti. Sotto la pressione della logica il sistema mistico annulla il ritmo; noi dobbiamo negare il senso comune al frate, al bonzo che s'impongono il tormento del digiuno e del celibato. Pure questa contraddizione è critica. Noi sentiamo il ritmo, sentiamo il sistema mistico; la nostra vita percepisce il ritmo umano, percepisce il sistema mistico dello straniero, del nemico. Osservando i popoli più lontani dai nostri costumi, sentiamo che sono uomini, benchè stranissimi; che sono nel ritmo universale, benchè stravaganti. Tale è l'apparenza, tale la realtà; non si può spiegarla, ma viene sentita; è assurda, ma è.



Capitolo IX

LA MOBILITÀ PROGRESSIVA DELLA VITA

Il movimento che conduce da un sistema meccanico ad altro sistema meccanico rimane sempre meccanico e lo abbiamo spiegato colla teoria dell'errore. Ma la transizione da un sistema mistico ad un altro sistema mistico, correlativa alla transizione meccanica, rimane sempre vitale.
Noi non vogliamo cambiare: ma la natura inganna la nostra volontà. Il nostro scopo non è se non di conservare e di estendere i nostri principj, la nostra religione; ma qual'è il risultato del nostro operare? Si è di modificare gli esseri, di cambiare il mezzo nel quale viviamo: coll'opera nostra noi trasformiamo il mondo, lo facciamo una seconda volta. Quindi se le cose risvegliano in noi l'ispirazione, se l'ispirazione è sempre correlativa alle cose, col mutarsi dele cose l'ispirazione della vita deve mutarsi, i nuovi fenomeni devono destare in noi nuovi sentimenti, una vita nuova. L'uomo incendia le foreste, dissoda la terra, non pensa che a nudrirsi, e la terra coltivata gli dà nuovi bisogni: essa lo toglie alla vita nomade. La specie si moltiplica, vengono costruite le città, e dal seno delle città sorgono nuove passioni. Noi ci diamo al commercio, alla navigazione, all'industria, cercando un benefizio immediato previamente estimato col sistema dei valori determinati: ma dal seno dell'industria e delle arti nuovi sentimenti si destano e ci spingono a nuove imprese. Così i valori si alterano, le idee invecchiano; prima di esser sospettate di falso, pérdono ogni vezzo; la vita le abbandona, la fede vien meno, la nuova vita comincia, e il nuovo sistema meccanico è conseguenza della nuova ispirazione. L'ispirazione precede sempre l'invenzione.
L'avvenire non vien mai previsto dagli uomini retrogradi, e nemmeno da quelli del progresso. I primi non vedono la rivoluzione se non quando trionfa; prima giocano col fuoco, qualche volta sono essi stessi rivoluzionari, s'ingannano ed è giustizia. Se non fossero ingannati avrebbero forse perdonata la vita ad Aristotele, a Platone, a Voltaire, a Rousseau? La rivoluzione sarebbe stata spenta al suo nascere; nessuna considerazione di pietà, di pudore raffrena l'egoismo dell'uomo che si difende. Mirate i signori della società, guardate non le loro azioni, non le leggi che impongono, non le stragi che decretano quando combattono, guardate il loro cuore quando, inconsci dell'avvenire, si credono mecenati e protettori degli uomini nuovi. Essi amano la nuova vita quasi un trastullo frivolo e infecondo che potranno a piacimento interrompere come una commedia, ve ne ha che sostengono una parte nella commedia stessa: scrivono libri di filosofia; il travestimento è ameno, ma non áltera i valori: il re rimane re, il suddito resta plebe; e ben s'intende che la verità rimanga impotente, non pesi sulla bilancia del destino. Poi, sorpresi dalle rivoluzioni, gettano la maschera; maledicono la verità che avevano predicata e non avevano intesa.
Gli stessi novatori, gli uomini del progresso non indovinano la società che sorge dal loro impulso. Si scorrano Aristotele, Platone, Machiavelli, Montesquieu, non un di loro che indovini l'avvenire; i più temerari nell'utopia non sospettano i più splendidi tra i fatti imminenti. I filosofi dell'antichità non prevedono la disparizione della schiavitù, nè l'istituzione della chiesa: i primi cristiani attendevano la distruzione del mondo e la risurrezione dei corpi. I filosofi del decimottavo secolo non aspettano la rivoluzione, scrivono come se la monarchia fosse inconcussa, come se la servitù delle colonie americane dovesse durate in eterno. Una sola frase di Voltaire annuncia che la nuova generazione sarà spettatrice d'un beau tapage; una sola frase di Rousseau annuncia che le monarchie non potranno durare. Il dono della profezia ci fu negato; la Sibilla non deve intendere i propri oracoli; Mosè non deve toccare la terra promessa; gli Ebrei sono condannati a non riconoscere il Messia. Tale è il fatto.
D'onde la nostra imprevidenza? Dall'impossibilità di prevedere le conseguenze meccaniche d'un'ispirazione che noi non abbiamo, d'un sistema mistico ancora nel suo nascere. Se il progresso fosse interamente meccanico, coi dati del momento attuale si potrebbe tracciare il disegno dell'avvenire; c'inganneremmo sui particolari, sui casi, sugli accidenti, sulle catastrofi fortuite; e intanto la scienza potrebbe precorrere al complesso degli eventi futuri. Ma l'avvenire sorge da una vita sconosciuta, da un'ispirazione che non si può antivedere e che ignorasi compiutamente. Io voglio vedere l'America, e argomento la mia vita in America da quella che conduco a Parigi, partendo dalla mia volontà attuale; e necessariamente m'inganno, perchè nel mezzo di una nuova società avrò i bisogni, le passioni, i piaceri, la tristezza, in breve un ritmo mistico che ora mi è interamente sconosciuto. Platone prevede l'avvenire colle idee ispirate da' suoi sentimenti; se gli elementi della vita non avessero cambiato, sarebbe stato profeta; ma gli elementi si trasformavano; egli sapeva come si governavano gli Ateniesi, ignorava la vita del mondo romano, nè poteva squarciare il denso velo che gli celava il futuro.
Spesso gli uomini nuovi combattono i loro propri discepoli, condannano le conseguenze de' loro principi; per avanzare bisogna rovesciarli; perocchè non sanno staccarsi dalla loro propria vita; in essi l'uomo antico non è spento, e si rifiuta a seguire i principi della vita nuova. Chi sa? Forse Platone avrebbe rinnegato i suoi discepoli; sarebbe agevole dimostrare che il Cristo avrebbe maledetto la chiesa. Non è a caso che il sentimento generale di tutti gli uomini impone di rispettare i sepolcri.



Capitolo X

L'IDEALE DELL'UMANITÀ

Noi operiamo come se la natura dovesse soddisfare all'aspettativa dell'uomo: la nostra vita è progressiva: quale sarà l'ultimo termine del progresso? Sarà l'aspettativa soddisfatta, il dominio completo, assoluto dell'uomo sulla natura. Non si concepisce l'ideale della vita se non col dar libero corso a tutti gli istinti. Possibile o impossibile, questa è l'utopia della vita. Perchè si attui, non basta che la natura corrisponda materialmente alla nostra aspettativa, che ci largisca tutti i tesori desiderati; urge altresì che l'uomo non incontri l'ostacolo dell'uomo, che la guerra sia spenta. Essa è il più terribile de' flagelli, si oppone alla libertà, paralizza la società, l'assorbe in un'opera meccanica d'offesa e di difesa, toglie all'uomo tutti i tesori che gli sono prodigati dalla natura. L'umanità non governerà il globo se prima non giunge a governare sè stessa.
Come potremo governare noi stessi? Lo potremo quando l'umanità sarà materialmente associata; e non lo sarà se non quando tutti gli interessi saranno realmente solidari. Così l'utopia della vita suppone l'associazione universale, in cui ogni uomo, cercando il suo proprio interesse, sarebbe utile a tutti gli uomini, nella stessa guisa che ogni banchiere trovasi interessato a sapere ricchi e prosperi i suoi corrispondenti. La società non è vera società che là dove la solidarietà trovasi attuata, non in parole, ma in fatto; l'interesse dell'inventore è quello degli uomini che profittano della sua invenzione; lo scienziato non cerca se non la verità, ed è utile a tutti: tale è il procedere verso la solidarietà, verso l'associazione universale.



Capitolo XI

LA POESIA

Nella poesia il ritmo della vita si manifesta puro e scevro d'ogni altro elemento: il poeta sdegna la realtà, non si sottomette ai fatti, finge, mente; vuol essere assolutamente libero, e giunge a rivelare il ritmo della vita e il sistema mistico che lo anima, perchè non tiene in conto alcuno la verità meccanica delle sue parole.
Tutte le teorie a me note intorno la poesia sono figlie del pregiudizio metafisico, che parte da una data apparenza per dedurne logicamente le altre. Quindi si cercò l'equazione della poesia, quindi invece di spiegarla, fu resa impossibile e fu distrutta.
Stando ad alcuni filosofi, la poesia è la stessa verità, emerge dalla scienza e dalla sapienza, e mille volte fu ripetuto che il bello è l'irradiazione del vero. Qui l'arte vien disconosciuta: la poesia non è dotta, nè veridica, non vuole esser serva di alcuna dottrina; essa prodiga i suoi tesori alla verità quanto all'errore, scorre libera in mezzo alle finzioni, il suo campo naturale è quello della favola. La verità, invece di spiegare la poesia, l'accusa di menzogna e di follìa; l'accusa di ingannare, di traviare, senza che mai possa render ragione delle sue aberrazioni. Qualche volta la poesia è savia, divien didattica, e allora è fredda compassata, riducesi ad un ornamento inutile e frivolo della verità; l'insegnamento si migliora sciogliendosi dall'impaccio del verso e dall'equivoco della metafora. La verità proscrive adunque la poesia. Platone condanna i poeti, li sprezza quai ciurmadori, li esilia dalla sua Repubblica. Posto il principio del vero, anche l'eloquenza deve subire la sorte della poesia: gli stoici la condannano: secondo essi, al sapiente un sol motto deve bastare. Se parla quando ha già esposto il vero, divien frivolo; se parla quando la dimostrazione vien meno, allora si fa giuoco di noi, la frivolezza cede il posto alla perversità. La poesia, l'eloquenza e in generale tutte le arti, sono altrettante forme dell'errore dal momento che si giudicano sotto l'aspetto della verità.
Costretta a separare la poesia dal vero, la metafisica ha tentato di dominarla, considerandola come una imitazione della natura: si crede che senza essere didattica, senza proporsi lo scopo d'istruirci, si proponga quello di darci l'immagine delle cose. Ma qui ancora l'essenza della poesia ci sfugge. Il poeta non è semplice imitatore, è creatore; anche quando imita, sceglie l'oggetto della sua imitazione, lo appura coll'ispirazione del bello, lo scioglie dagli accidenti che lo deturpano; il pittore non è tale se non alla condizione di dare l'impronta della bellezza al ritratto più fedele. La poesia oltrepassa dunque la imitazione, si sviluppa disprezzandola, falsifica la storia sostituendole la leggenda; l'epopea, invece di imitare la natura, la crea una seconda volta, dando mille volte l'esistenza all'impossibile. Se l'imitazione spiegasse la poesia, il più misero ritratto sarebbe superiore alla più splendida tela, il più misero grappolo d'uva dovrebbe preferirsi all'uva di Zeusi. D'altronde, perchè imitare ciò che esiste? Meglio sarebbe, dice Hegel, fabbricare il chiodo e il martello, che perdere il tempo a dare un'utile e vuota ripetizione dei fatti. Da ultimo, come tradurre nel principio dell'imitazione l'architettura, l'eloquenza, la musica, tutte le arti?
Una terza teoria spiega la poesia, supponendo in lei lo scopo di render migliori i costumi, di appurare le passioni, di perfezionare l'uomo. La nuova equazione dell'arte colla morale non regge; la poesia non è un insegnamento morale, come non è un insegnamento positivo. La moralità è cosa precisa, collegata col vero; l'arte, al contrario, vuole uno spazio assolutamente libero. Non havvi cosa più insipida che la poesia quando si propone di dettarci in noi un insegnamento morale, di renderci buoni sposi, ottimi cittadini e uomini onestissimi. Allora tutto il vizio della finzione poetica si palesa; la poesia cessa di animare la favola, si raccoglie negli ornamenti, negli episodi, sparisce dal poema. Se la morale ha una parte nella poesia, il poeta deve ignorarlo. Da ultimo, l'ispirazione e la decenza, la poesia e la morale che si confondono nelle altissime regioni dell'arte, si separano troppo spesso nelle regioni inferiori, e ne scaturiscono mille romanzi, mille novelle di una ammirabile indecenza e di una scandalosa bellezza.
Si tentò render conto della poesia coll'idea della finalità, perchè gradisce il vedere subordinati i mezzi ad un fine: là dove trovasi una combinazione di congegni per raggiungere uno scopo trovasi il bello, e Kant pensa che la finalità sia il secreto della poesia. Ma l'attrazione misteriosa dell'ordine è comune alle arti, quanto alle scienze; ispira egualmente il poeta e lo scienziato, non fa verun conto della linea che divide il cantare dal sapere. Havvi una bellezza vaga e indeterminata, la bellezza dei campi, dei colori, di certi effetti di luce: qui dove è la finalità? L'ispezione anatomica dei corpi organizzati svela una finalità mille volte superiore a quella indicata dalle forme esteriori dei corpi stessi; eppure l'arte si ferma alle forme esteriori, e aborre dall'intero congegno dei muscoli, dei nervi, delle vene. Il museo d'anatomia non fu mai considerato qual museo di belle arti. Se la poesia si serve dei fini e dei mezzi, se svolgesi coll'ordine, se ravvicina, allontana e complica a disegno le cause e gli effetti, si è perchè deve essere intelligente, imitare le opere della natura, e in una parola fingere la realtà. Nel mondo hannovi cause ed effetti, e nel mondo imaginario della poesia devonsi trovare le cause e gli effetti. Ma la finalità non ispiega la poesia, non la costituisce; e perchè l'arte si riveli, bisogna che la finalità sia bella, poetica, cioè che presenti un carattere diverso dalla finalità stessa. - Poi dov'è la finalità nel sublime? Esso si svela ne' dirupi, nell'oceano in tempesta, nell'incommensurabile vastità del firmamento, nelle cose che non hanno fine; il sublime non ha scopo, basta a sè stesso. Dov'è la finalità nella tragedia? Ivi manca, ed è precisamente nella catastrofe, nella finalità violata che la poesia tragica splende in tutta la sua grandezza. Dunque la poesia esprime quasi sempre un'azione, e sotto quest'aspetto subisce la legge dell'azione; accetta la necessità dell'ordine, subordina i mezzi allo scopo; ma tutti gli ordini non sono belli, tutte le azioni, anche più meditate, non sono poetiche; la poesia trovasi solo in alcune azioni, in alcune finalità; e se cercasi l'equazione tra la finalità e la poesia, questa trovasi ridotta alla favola, all'abbozzo, allo scheletro su cui si fonda; l'arte è distrutta.
Lo scopo dell'arte sarebbe forse di commuovere, di eccitare la sensibilità? La metafisica, ridotta a prendere questa formola per render ragione dell'arte, confessa implicitamente la sua impotenza, e non tocca nemmeno all'essenza della poesia. La commozione è un fenomeno latissimo; siam commossi dalle sventure, dalla felicità dei nostri simili, dai medesimi nostri interessi. Se l'arte avesse il solo scopo di commuovere, il bello e il deforme servirebbero ugualmente alla poesia; l'arte non potrebbe distinguersi dall'ebbrezza, dall'amore, dal delirio, dalla follìa: il poeta avrebbe il diritto di errare tra stolte paure, di porre il suo scopo in un errore volgare, di distruggere l'arte cercando l'equazione dell'affetto.
Hegel rinnovò la metafisica dell'arte, dichiarando che l'arte è la conciliazione della natura e della ragione, che sta fra il mondo sensibile ed il pensiero, esprime sensibilmente ciò che non è sensibile, cioè la ragione. Così la bellezza dell'animale mostra sensibilmente l'idea invisibile che organizza l'animale, così l'epopea svela sensibilmente la ragione dell'epoca a cui appartiene. Il fatto nudo non è bello, il pensiero non può esser visto, la poesia tocca al fatto ed al pensiero, ed emerge dalla contraddizione che rende visibile l'invisibile. L'estetica di Hegel ci offre un merito altissimo e un capitale difetto. Il merito si è di mostrarci d'un tratto tutte le contraddizioni della poesia, ragionevole senza essere la ragione, imita la natura senza imitarla, ammaestra senza voler ammaestrare, ci perfeziona senza volerci perfezionare; è folle senza follìa, è savia senza essere savia, è ordinata senza essere veramente ordinata, è capricciosa senza capricci: insomma trovasi in contraddizione con tutte le cose che tocca. Il difetto capitale dell'estetica hegeliana consiste nel prendere la stessa contraddizione, proponendo il fatto quasi fosse una soluzione generata dal contrasto del senso coll'intelligenza. Non contestiamo la contraddizione, contestiamo la sintesi, la generazione che viene artificiosamente assenta. Hannovi mille sentimenti prosaici e scipiti che risultano dal senso e dalla ragione; il tedio che conduce al suicidio emerge da una sazietà sensibile e da un raziocinio invisibile; dicesi dello spleen quanto dicesi della poesia; è sensibile, e non lo è; dipende dalla ragione, e non è ragionevole; lo spleen emerge dalle proprie antinomie? o piuttosto sorge contraddicendo alle circostanze che lo circondano, e quasi a dispetto di quanto sembra condizione dei suo apparire? Non si può rispondere. Così l'essenza della poesia di Hegel, che la ripone in cose comuni allo spleen, all'inquietudine, alla noia, e fors'anco alla pazzia. In ultima analisi, egli sostituisce all'ultimo carattere della poesia, il contraddirsi dell'ispirazione poetica.
È patente l'impossibilità di ottenere l'equazione della poesia; nè si può chiederla se non alla realtà; e stando alla realtà, la poesia è una menzogna, o una imitazione senza scopo, o un insegnamento morale senza ispirazione, o una finalità senza significato, o un mezzo per commuovere, poco importa il come, o una contraddizione enigmatica. Convien cercare la poesia là dove trovasi, osservarla dove appare: essa è l'espressione pura della rivelazione interiore, dell'incanto della vita. L'arte deve rivelarci a noi stessi, farci sentire il ritmo dei nostri sentimenti umani, e il sistema del nostro misticismo. Per sè il sentimento, il mistero interiore sfugge ad ogni descrizione diretta, la parola lo indica senza seguirlo; la vita è ineffabile, è assente dal dizionario, o, se vuolsi afferrarla nella descrizione, si riduce ad una forza meccanica. L'arte descrive il sentimento facendolo nascere in noi stessi, e lo fa nascere sviluppando dinanzi a noi i fenomeni che lo destano. S'impadronisce delle nubi, degli astri, de' fiumi, della storia, delle catastrofi, di quanto appare fuori di noi, per risvegliare in noi la musica, il sistema de' nostri istinti. Lasciata a sè stessa, la realtà fluttua a caso in balìa di mille accidenti del mondo fisico; ci opprime colle particolarità volgari, schifose o prosaiche; il ritmo della vita non è pago se non tratto tratto in una festa, sul campo di battaglia, nell'aula d'un senato: anche ne' momenti più solenni, la vita vincolata alla realtà, trovasi oppressa dall'attrito di tutte le forze che violano il nostro ritmo. La poesia lascia le circostanze insignificanti, le cose volgari, lascia il caso della materia per riunire solo i fenomeni che risvegliano i fenomeni magici del sentimento e colla descrizione fantastica elude la doppia impossibilità di descrivere direttamente il sentimento, e di destarlo colla descrizione fedele degli oggetti che lo sforzano a manifestarsi. Col fantastico la poesia rifà dunque la natura secondo il ritmo della vita; finge, sposta, falsa gli avvenimenti, li ravvicina, li separa, nulla può opporsi al suo capriccio; ed è così che essa rivela la vita alla vita. Nella scienza, nella pratica prendiamo la vita come un fatto, i suoi istinti come altrettanti dati; non pensiamo che a soddisfarli considerandoli nel mondo come altrettante forze. Ivi l'insegnamento è preciso, deve essere vero, accetta gli impulsi primitivi della vita; sarà l'interesse mosso dall'onore o dalla gloria o dall'amore; nella pratica il nostro pensare e il nostro agire non guardano se non alle leggi, all'urto, all'equilibrio delle forze esteriori. All'opposto, nell'arte il mondo non è un fatto, è un'ipotesi fantastica, i fenomeni esteriori sono dati mobili, variabili, di cui possiamo disporre a piacere, dimentichiamo la verità meccanica, e abbiamo solo lo scopo di destare in noi le melodie del mondo interno. Quando l'uomo opera, domina il mondo colle sue passioni; quando è poeta, regna sulle passioni creando un mondo fantastico. Nella scienza siamo liberi di conoscere o d'ignorare, ma il mondo è fatale, inesorabile quanto la verità; nell'arte è il mondo che trovasi libero, che si può modificare a piacere, la fatalità è in noi, nel ritmo della vita che ci anima.
Ritorniamo alle diverse spiegazioni della poesia: il loro difetto sta nel dimenticare il ritmo della vita; ristabilito il ritmo della vita, sarà facile rettificarle e trarne profitto. - Fu detto essere l'arte un'imitazione della natura: il detto sarà vero, se l'imitazione dell'arte si propone, non di copiare le cose, ma di risvegliare il ritmo ad esse corrispondente. Dovunque l'imitazione serve alla cosa imitata, qui l'imitazione serve ad una legge di cui le manifestazioni non hanno nulla di comune colle cose. Ne nasce che l'imitazione artistica travisa le cose, trasforma gli alberi in colonne, le foglie in volute fantastiche, il passo nella danza, il suono nella musica, il racconto nell'epopea; dovunque l'arte diventa infedele al fatto per rimaner fedelissima alla vita che vibra in noi. - Kant rendeva ragione dell'arte mediante il principio della finalità; la faceva consistere nell'ordine. Egli è vero che imitando la natura, essa deve subirne le leggi; parlando alla vita, essa deve richiamarne l'ordine organico, ordinare i mezzi allo scopo, l'effetto all'ultima causa. Ma la finalità poetica è compiutamente arbitraria, limitasi a fingere il meccanismo esterno. Nel meccanismo si obbedisce alla finalità per ricavarne effetti esterni; nella poesia le si obbedisce per ottenere effetti interni sul ritmo misterioso del sentimento. - Fu detto che l'arte ha per fine di commovere la sensibilità; ma questa definizione indeterminata non si compie, non distingue la poesia dall'orgia, da ogni altra commozione, se non col dare all'eccitazione lo scopo di sentire il ritmo della vita. - Secondo alcuni l'arte è un'irradiazione del vero; e ammettiamo che lo sia, alla condizione di riporre il suo vero nella musica degli istinti, non nella verità materiale del racconto, non nella verità di un dogma. - Fu detto che istruisce; sì, l'arte insegna la verità, non la verità esterna, ma quella del ritmo; e qui la verità del poeta è più vera di quella del fisico, dello storico e del cronichista. La storia si ferma agli effetti meccanici delle grandi idee; la poesia ci svela le forze vitali che hanno disposto degli eventi esterni. In questo senso Omero, Dante e Shakespeare sono i più grandi storici dell'umanità. - Da ultimo, si potrà considerare l'arte sotto l'aspetto di un insegnamento morale, darle lo scopo di appurare le passioni, di perfezionare l'uomo; ma non è di proposito deliberato, non è per una intenzione diretta che il poeta divien moralista. Interprete dell'armonia sociale e pittore del ritmo che anima l'umanità, divien fatalmente l'interprete dell'opera de' profeti e de' legislatori, e non potrà raggiungere il sublime senza seguire la plastica misteriosa dell'ordine che spegne progressivamente coi beni il male, coordinando gli interessi della società.
Tutti i misteri dell'arte si spiegano quando si considera l'arte come una rivelazione della vita alla vita stessa.
Il primo de' suoi misteri è la bellezza: non possiamo definirla, ma possiamo indicar come appare. Si manifesta all'istante in cui diventiamo spettatori disinteressati delle cose. Il serpente che ci avvelena, il cavallo che ci scavalca non sono nè belli, nè deformi, sono forze, colle quali lottiamo; non pensiamo che al dolore o al piacere, all'essere o al non-essere. Il pericolo svanisce? non isperiamo alcun vantaggio diretto? Allora il serpente, il cavallo, tutti gli esseri appaiono belli o deformi: nessun oggetto si sottrae a questa qualificazione data dalla vita. La rupe, l'onda, il rivo, tutto ci commove: per gli oggetti minimi, l'emozione è minima, impercettibile; e quando si ingrandiscono, si ingrandisce il sentimento che loro corrisponde. Che cosa è dunque la bellezza? È una apparizione corrispondente ai valori: finchè i valori ci attraggono, la vita opera, viviamo; non si pensa al bello, non si contempla: quando cessiamo di agire, e che la vita è in certo modo sospesa, il ritmo ci mostra la vita sotto la forma del bello. Hannovi due sorta di valori per l'uomo in azione; gli uni generali, gli altri speciali. I primi sono quelli determinati a priori dall'istinto e comuni a tutti gli uomini; gli altri presuppongono un sistema sociale, una sintesi di tendenze, di beni, un intreccio d'istinti. Istessamente, perla vita che osserva la vita, hannovi due specie di bellezze, le une generali, umane: gli occhi bastano a discernerle; le altre sono speciali; sono le bellezze istoriche, quelle che si rivelano alla vita, che osserva la vita delle nazioni, dei popoli, delle religioni. Le une sono preliminari, le altre successive.
Spetta alla vita il contemplare esteticamente la vita: quindi non è possibile insegnare l'arte del bello. Il bello è una specie di tesi senza prova; possiamo indicarlo, dove si mostra più appariscente; questa è la funzione della critica, dell'analisi letteraria, dell'estetica. Si stralcia un poema, si additano le principali sue bellezze; ma la dimostrazione si riduce a un semplice annotamento. Nessuno dirà mai perchè un sonetto di Petrarca è una meraviglia sì perfetta, che il cambiargli una parola sia un profanarlo. Nessuno dirà neppure perchè una composizione è mediocre, difettosa sotto l'aspetto dell'arte; viene disprezzata, ed è giudicata dalla sola espressione del disprezzo.
Non vi hanno regole per l'arte. I precetti dell'arte poetica riduconsi ad alcune generalità estratte da un certo numero di capolavori. Si decompongono i drammi, i poemi; si traducono nei loro elementi più esterni, si cercano le traccie materiali del ritmo che li ha creati; si contano le sillabe del verso, si osserva l'ordine dei canti, l'atteggiamento della finzione, dell'azione, della finalità, e si dettano le regole. Sono regole tutte esterne e fisiche, cadono sulla realtà: esse pretendono d'imporre al poeta le tre unità del dramma, al dramma il sogno e la catastrofe della tragedia antica, alla tragedia un dato numero di personaggi, un dato numero di atti. Il vero poeta segue le regole senza saperle, le crea ignorandole, le viola sorpassandole: dall'altro lato, il cattivo poeta può comporre pessimi poemi, applicando scrupolosamente tutti i precetti dell'arte. La poesia è dunque opera d'imaginazione, non può essere governata, non può essere insegnata, non può essere trasmessa come la scienza.
Da ultimo, i poeti debbono chiedere alle religioni il soggetto de' loro poemi. Nel fatto, devono rimanere in un sistema mistico, devono parlare a un sistema, voglio dire, a una patria, a un popolo cui appartengono: una poesia fantastica che volesse mostrare il solo ritmo, ridurrebbesi ad un'insipida pastorale, ad una effeminata elegia; un poeta senza religione, senza dati storici, sarebbe un poeta senza popolo, non apparterrebbe ad alcun'epoca, ad alcuna gente. Canterebbe il verde de' prati, l'onda de' fiumi, sarebbe in estasi dinanzi ai pesci, alle selve, ai fiori; sarebbe un selvaggio. Questa considerazione scioglie il problema del bello assoluto. Che cosa è il bello assoluto? Quello d'un sistema? Non è assoluto, è relativo ad una fase istorica, appartiene alla Grecia, a Roma, all'Europa. Il bello assoluto deve appartenere all'umanità, sarà dunque o il bello istorico del sistema avvenire dell'umanità, o il bello rude e selvaggio che splende sui valori del ritmo, quando sono contemplati e non desiderati.



Capitolo XII

LA POESIA DELLE RELIGIONI

Prima che vi siano i drammi e i poemi, la stessa religione è un dramma ed un poema. Nel formarsi essa non cerca il bello, ma la verità, non tende che alla felicità, è opera della ragione. Pure, ogni atto della ragione vien suggerito dall'ispirazione della vita; la religione è nel tempo stesso un sistema mistico e un sistema meccanico: il secondo, creato dal primo, lo desta di continuo, ne è il segno, l'effetto, e attende, per così dire, l'istante di rivelarsi a noi come una vera epopea.
La religione svela la sua poesia quando non è più un mezzo di salute, nè una verità, nè un interesse: quando trovasi ridotta ad una favola, ad un errore del passato; quando ha cessato di essere la religione. Finchè la religione sussiste, la poesia è velata, i personaggi della leggenda sono veri personaggi; si adorano, si temono, e loro si dimandano i beni della terra e del cielo. Quando combattiamo una religione siamo ancora preoccupati dalla verità o dall'interesse, ci fondiamo sui fatti; confutando i dogmi, cerchiamo la realtà. La religione è dessa abbattuta? Allora i suoi dogmi sono errori, i suoi Dei più non ispirano amore, nè timore, il suo cielo tramonta, infranto è il suo sistema meccanico, e all'istante medesimo il sistema mistico, che vi era imprigionato, splende rivelando la sua poesia naturale. Così la grandezza del cattolicesimo, la poesia de' suoi dogmi, l'ingenua bellezza delle sue leggende, il fasto delle sue cerimonie, in una parola, il misticismo cristiano, è inteso le mille volte meglio oggidì, che non lo fosse nel medio-evo. Per noi i sistemi della China, dell'India, della Grecia, non sono se non vuote rappresentazioni; furono concetti nello scopo unico della verità, furono costrutti nell'interesse di un popolo; eppure oggi, che riduconsi a meri errori, offrono per noi lo spettacolo della più splendida poesia.
Anche i sistemi filosofici, come quelli di Platone e di Aristotele, fatta astrazione dalla verità e dalla filosofia stessa, ci palesano una bellezza, la quale è la rivelazione del sistema mistico da essi meccanicamente espresso. V'ha in essi un contesto di teorie, un atteggiamento di idee, un sì ammirabile congegno di cose, che contemplandoli proviamo un sentimento analogo a quello che ispira l'architettura di un tempio greco, o di una gotica cattedrale. La poesia de' filosofi si mostra inferiore a quella della religione, solo perchè la vita di una scuola è meno forte della vita di un popolo.
La seduzione che offre la storia e lo studio dell'antichità deriva dal sistema mistico e dal ritmo della vita, in cui scorgiamo la bellezza della poesia naturale quale si è rivelata nelle società antiche. Che c'importano i Greci e i Romani? perchè aggirarsi nel labirinto del medio-evo? I barbari nulla possono apprenderci, i savi della antichità sono superati, l'archeologia limitasi a pascere una curiosità infeconda, la numismatica è una dotta puerilità. Sarebbe agevole il distruggere ad uno ad uno tutti gli studi storici; la scuola cartesiana ha già sfoggiato tutti gli argomenti della critica sdegnosa che disprezza la filologia. A malgrado di tutto, la storia è più forte della critica; ci svela il sistema mistico dei tempi antichi, la poesia naturale delle società greche, romane, orientali e barbare; e noi raccogliamo con una specie di estasi religiosa, tutte le ricordanze e tutti gli oggetti che portano le traccie della vita.
Hannovi epoche nude d'ogni poesia, tempi prosaici, in cui l'uomo è assorto dagli interessi materiali? Hannovi età critiche in cui la riflessione prevale sul sentimento fino a inaridire tutti gli istinti della poesia? Così si afferma e furono divise tutte le civiltà in due periodi, l'uno organico, l'altro critico. Nel primo, fu detto, le religioni si formano, le credenze si fortificano, la società s'organizza più forte degli individui, l'ispirazione uniforme trascina le moltitudini si vive sotto il regno della poesia. Nelle epoche critiche la fede vien meno, i dogmi sono assaliti, atterrati, gli uomini si isolano, la incredulità dissolve la poesia, l'egoismo distrugge la società.
Non havvi epoca alcuna in cui la poesia possa perire. Nel pensiero i sistemi si succedono senza interruzione; sono le idee che distruggono le idee, sono i dogmi che succedono ai dogmi; nel cuore il movimento è analogo, benchè distinto; la fede succede alla fede, un nuovo sistema mistico succede al sistema mistico che svanisce. Non havvi sistema mistico senza sistema meccanico, come non v'ha sistema meccanico senza sistema mistico; l'ispirazione naturale e il pensiero sono sempre contemporanei; ogni epoca è bella se siamo spettatori disinteressati della sua bellezza.
I filosofi che hanno divisa la storia in periodi poetici e in periodi critici, cedevano ad un'illusione assai strana; supponevano che i fondatori delle religioni per noi poetiche fossero veramente poeti; imaginavano che quei riti, per noi spogli di ragione, fossero dettati dalla fantasia. Gli inventori delle religioni erano uomini positivi, per essi l'inventar un Dio era un problema severo quanto i problemi dei nostri astronomi; essi cercavano la verità, e non la poesia, erano soggiogati dallo stesso sistema che sviluppavano; potevasi dire di essi come de' nostri metafisici, fingunt simulque credunt. Il loro secolo dinanzi ad essi era prosaico; la loro religione era una scienza; essi divennero poeti per noi nel giorno in cui l'opera è morta. La nostra epoca subirà la stessa sorte. Noi ci crediamo positivi, prosaici, non possiamo celebrarci col verso, il poeta odia il dare e l'avere, il carbon fossile e la cotoneria; chiediamo ai nostri trovati la verità e la felicità, crediamo che ce le arrechino: è forse ragionevole di chieder loro in pari tempo una poesia? Non aneliamo al momento in cui la nostra società si svelerà poetica; l'apoteosi non giunge se non dopo la morte.
La poesia dei veri poeti, lungi dall'apparire nelle epoche che chiamansi poetiche, appare assai tardi, non dirò nelle epoche critiche, che non esistono, ma quando la religione ha oltrepassato il suo meriggio. Allora il sistema mistico è completo, la musica è scritta; l'arpa che il poeta deve toccare è temprata. La fede si scema, è permesso di dar la parola agli Dei senza profanarli; il sole del bello comincia a spuntare, si può intendere il canto del cigno. Virgilio celebra Roma che declina, il sistema romano lascia indurre la poesia di una grandezza che può perire; il cristianesimo è imminente: è tempo di celebrare gli Dei di Anchise, più tardi non sarebbe più tempo. Istessamente i contemporanei di Carlomagno non scrivono le epopee cavalleresche; le epoche che cominciano quando il feudalismo decade.



Capitolo XIII

I SIMBOLI RELIGIOSI

La bellezza de' dogmi che periscono non è muta, ma significativa, rappresenta una verità; in altri termini è simbolica.
Il simbolo viene fatto dalla natura; l'uomo, creandolo, agisce fatalmente, è l'istrumento cieco di una vita fatidica. Per chi lo inventa, il simbolo è la stessa verità, non rappresenta se non sè stesso: per gli evangelisti, Gesù Cristo è il figlio di Dio, la sua vita è un fatto. Il simbolo nasce nell'istante in cui la fede cessa, quando il Cristo ha cessato di essere il figlio di Dio, quando la sua vita non è altro che una leggenda, allora la tradizione del Cristo si abbellisce, e la sua bellezza ce lo mostra come la figura della religione dell'umanità.
Nel simbolo l'errore indica la verità: in qual modo il falso può indicare un vero? Non lo sappiamo; l'indicazione è affatto poetica e vitale; se la vogliamo meccanicamente precisa, il senso del simbolo scompare. Perchè il Cristo non sarebbe un simbolo astronomico, piuttosto che quello dell'umanità? Non si può rispondere; il simbolo è ambiguo, le sue interpretazioni saranno sempre contraddittorie presso i filologi.
I sistemi filosofici partecipano al privilegio delle religioni; quando hanno cessato di essere veri, divengono simbolici, fatidici, indovinano il sistema che ad essi deve succedere. Platone adombra il cristianesimo, lo predice, egli è fatidico; paragoniamo la repubblica colla chiesa, vedremo la chiesa profetizzata in tutti i punti in cui splende il bello della repubblica. Vogliamo noi cercare la precisione, l'esattezza nel confronto? Il simbolo svanisce, la repubblica riprende il suo senso materiale; essa non è la chiesa, non è il cristianesimo; essa non è se non la repubblica.
I politici divengono involontariamente utopisti, inventori di simboli tosto che si sforzano di oltrepassare il loro secolo. Mai non possono indovinare la vita che deve attuarsi; è forza che nelle loro previsioni si restringano ad attuare materialmente il loro concetto coi dati della loro vita. Platone deve figurarsi il cristianesimo seguendo l'analogia dell'uomo antico, quindi il suo cristianesimo sarà la città impossibile della Repubblica. Rousseau deve figurarsi il trionfo della libertà rimanendo nell'antica Europa, rimanendo cittadino di Ginevra; quindi il pensiero di Rousseau si attua coi dati materiali del cantone svizzero; non prevede, nega la repubblica in ogni grande nazione, e la gran repubblica di Francia trovasi imprigionata nella città simbolica del Contratto sociale. Potrei moltiplicare gli esempi a piacere; mostrerei dappertutto la mobilità progressiva della vita, che sempre si fa giuoco de' mezzi meccanici proposti dagli inventori.
Furono distinti i pensatori dagli uomini d'azione: i primi danno i principj, i secondi li attuano. Orbene, l'attuazione è in contraddizione, non coi principj, ma colla forma materiale data dai pensatori all'utopia del loro principio. Il filosofo vagheggierà l'eguaglianza dei pastori, la felicità campestre, l'età dell'oro: l'uomo d'azione spingerà al patibolo i regi, i preti, i nobili; sarà un uomo di guerra. Il filosofo predirà la democrazia frequentando le corti, il democratico attuerà la democrazia combattendo il despotismo illuminato, l'utopia materiale vagheggiata dal filosofo.



Capitolo XIV

IL RIDICOLO

All'espressione naturale del ritmo opponsi l'antitesi di un'espressione artificiale, fittizia: la prima chiamasi seria, nella seconda appare il ridicolo.
Il ridicolo non si definisce: è un apparenza primitiva, è ineffabile come tutti i fenomeni vitali; si possono determinare le circostanze che lo accompagnano, ci sfugge sempre nella sua essenza anti-meccanica. Stando ad Hobbes esso suppone in una súbita indecenza che non ci sia personale: quæ risum movent, dice egli, tria sunt conjuncta: indecorum, alienum et subitum. Le tre condizioni possono però verificarsi senza che il ridicolo si manifesti. Se col rendere indecente un eroe si rende ridicolo, si può deriderlo senza che l'indecenza si riveli; la satira dei vizi non è la satira dell'indecenza. Giusta Descartes, il ridicolo dipende da un sentimento di superiorità; chi ride domina il deriso: la è cosa certissima: la fatuità è beffarda, il celiatore di spirito non ride mai, i più arguti epigrammi suppongono una mente tranquilla e imperturbabile. Però sarà sempre vero che il sentimento della nostra superiorità e il sentimento comico non possono confondersi, nè tradursi l'uno nell'altro, nè ammettere una medesima definizione. In sentenza di Kant il ridicolo sarebbe un'aspettativa fallita. Dopo aver posto il bello nella finalità Kant deve definire il ridicolo come un difetto subitamente scorto nei mezzi incapaci di raggiungere uno scopo. Qui ancora l'aspettativa può essere ingannata, senza che il ridicolo si manifesti: v'hanno di goffe indecenze che muovono a riso e stanno. nell'ordine, non ingannano alcuna aspettativa, ed anzi raggiungono uno scopo naturale.
Torna vano ogni tentativo per cercare l'equazione del ridicolo: ogni fatto esterno tende a confonderlo o coll'indecenza o col vizio o coll'errore; e una volta identificato coll'indecenza, col vizio o coll'errore, vien negato quando appare sotto la vera sua forma.
Esaminato nel suo mistico apparire, il ridicolo nasce nell'istante in cui la rivelazione vitale e la rivelazione esterna cessano di essere correlative, cioè nell'istante in cui un sentimento vien accoppiato con un'azione che non gli corrisponde. Qual'è il modo più facile e più spedito di far ridere? Si è il travestirsi: il mascherarsi eccita l'allegria, e trae la sua forza comica dal disaccordo tra la maschera e la persona. Che cosa è il deridere, il celiare? Consiste nel mistificare, nel destare timori, spaventi, contenti a controsenso, assolutamente fuori del vero. Il pesce d'aprile, le freddure, i giuochi di parole, gli indovinelli, il rebus si fan giuoco di noi, equivocando su di una doppia realtà; lo stesso dell'epigramma, della satira che maneggiano l'equivoco con maggiore superiorità ed arguzia. Don Chisciotte non è ridicolo se non perchè trasporta il sentimento della poesia cavalleresca nel mondo moderno: il suo elmo è un piatto, il suo paggio un paesano, la sua Dulcinea coltiva la terra, i giganti che combatte sono molini, le vittime che libera sono i galeotti; lo equivoco è continuo, il ridicolo perpetuo. Trasportiamo il sentimento della vita moderna nel mondo cavalleresco, non sarà meno piacevole; ne sia prova le bourgeois gentilhomme.
La parodia è fonte facilissima di ridicolo: ma dove attinge la sua forza comica? Nel contrasto tra il sublime e il volgare, tra i tempi eroici e i nostri tempi; essa conserva l'antico meccanismo urtandolo ad ogni verso: il ridicolo è agevole, il parodiare equivale al mascherare. Il perchè ogni poema eroico ebbe la sua parodia, l'Iliade come l'Eneide, le Notti di Young come il Werther: la Gerusalemme liberata fu tradotta in quasi tutti i dialetti d'Italia: al solo intendere la lingua di Arlecchino e di Pulcinella nelle bocche di Goffredo e di Tancredi l'equivoco d'un doppio vero provoca al sorriso.
La separazione tra il sistema mistico e il sistema meccanico nelle crisi religiose divien forte, ed è precisamente nella lotta delle religioni che il ridicolo sorge fortissimo. Qui il credente paventa esseri che non esistono, si prostra dinanzi a statue indifferentissime alla sua adorazione, è mistificato dalla propria fede, e il sistema de' suoi sentimenti lo rende essenzialmente comico agli occhi degli increduli. Quindi Luciano e Voltaire: quante declamazioni contro il volterianismo: dotti, pedanti, gesuiti, voi vi siete collegati contro la satira: conato inutile. Si ride, siete vinti.
Il mefistofele di Goethe non è volteriano, deride l'uomo, non il credente; la sua ironia sorge amara, quasi dal più cupo fondo della mente. E qui ancora sta nell'equivoco tra i sentimenti dello uomo e le cose della natura, tra la nostra aspettativa e la realtà che ci attende; l'equivoco ci fa parere l'uomo mascherato, ce lo mostra sulla sua corsa a traverso i secoli sempre vinto dalla plumbea fatalità e sempre inteso a celebrare vittorie mani che si smarriscono nel nulla.
L'uomo è un animale che ride perchè s'inganna d'assai, perchè varia di sentimenti; tolto l'errore, il ridicolo non starebbe. Però il ridicolo non si oppone al vero, non fa equazione coll'errore; non si oppone al bello, non fa equazione col deforme; non si oppone se non al serio, bello o deforme, vero o falso; non si oppone se non al serio, preso qual sinonimo di naturale, di spontaneo. Il ridicolo può essere bello, brutto, vero, falso, perchè queste qualificazioni abbracciano ogni manifestarsi della vita e degli esseri. Come adunque il ridicolo diventerà sorgente di bellezze, materia dell'arte? Come ogni altra cosa, purchè siavi la bellezza, e si riveli al poeta. Per sè il ridicolo risiede nella violazione del rapporto tra l'io e le cose, tra la vita e gli oggetti: non risiede altrove, non fuori di noi; non nelle cose, le quali veramente o per traslato (qui poco ci cale) si dicono belle e deformi. Il ridicolo divien poetico quando la mente seria e disdegnosa lo colpisce dall'alto di una regione inviolata e sicura; nè mai il serio fu più profondo che presso Voltaire e Goethe, che deridevano l'uno il cattolicismo, l'altro l'umanità. In questo senso Descartes aveva il diritto di affermare che il ridicolo suppone la superiorità di chi ride.



Capitolo XV

L'ALIENAZIONE MENTALE

Hannovi alcuni uomini profondamente ridicoli, benchè infelici: sono i dementi. Come il ridicolo, la demenza sta nella discordia tra la rivelazione della vita e la rivelazione degli esseri. Se il ritmo della vita si falsa, se il sistema degli istinti si turba, se le cose insignificanti acquistano per noi un valore smisurato, se trascuriamo le cose che più ci interessano, in breve, se il sistema della vita si sviluppa fuori della realtà, la follìa si dichiara, la mente è perduta.
Essendo la follìa la malattia della vita, non può venire giudicata se non dall'intuizione vitale. Tolta l'intuizione vitale, scorgiamo le circostanze esterne, il fatto materiale o meccanico della follìa, non la stessa follìa; in quel modo che, spogliati di ogni istinto poetico, noi vedremo nell'Iliade il numero dei canti, dei versi, il racconto, il vero, il falso, non mai la poesia di Omero. La scienza medica tende a fermare l'attenzione sui fatti: quindi ha osservato l'alienazione mentale nell'organismo infermo, nell'errore della mente alterata, nel vizio della volontà, che sono le tre uscite esterne e meccaniche della follìa. Di là tre teorie, l'uno fisica, l'altra intellettuale, la terza morale. Ci convien esaminarle per sottrarre la rivelazione della follìa a tre equazioni meccaniche che la travisano per poi travolgerla nelle aberrazioni della metafisica.
La teoria fisica considera la demenza come un'infermità del corpo, e trovasi vinta nell'atto stesso in cui vuol stabilirsi. Qual'è il primo suo debito? Deve caratterizzare la follìa, mostrare in che differisce dallo stato regolare della vita, e la teoria fisica non regge nell'assunto. Quando la follìa si manifesta, chi la riconosce? Non il medico, ma la famiglia, gli amici, i conoscenti dell'infermo. Il medico si limita alle funzioni di testimone, interroga l'infermo, lo giudica dai discorsi, dallo sguardo, dal gesto; il suo giudizio è il giudizio di tutti, nè altro deve fare se non verificare il fatto come officiale di salute. Il fenomeno della malattia sfugge completamente all'osservazione fisiologica. La salute può essere perfetta, il polso regolare, l'organizzazione senza vizio, e in pari tempo l'infermo può essere perduto per sempre. I sintomi patologici che in alcuni individui accompagnano o precedono la malattia, sono sintomi secondari, che rinvengonsi negli ammalati la cui intelligenza non trovasi punto alterata. Il senso leso, le visioni, le allucinazioni, le voci interiori, il gusto e l'odorato falsati, il tatto affievolito, la disadattaggine quasi universale degli alienati, la forza spaventosa dei maniaci, l'eccessivo calore che divora i furiosi, sono fenomeni fisici: spetta solo al fisico, voglio dire solo al medico, il giudicarli; ma possiamo noi confonderli colla pazzia? No, certo; le voci interne, le allucinazioni non la costituiscono; le sensazioni possono essere lese, senza che la ragione sia scossa, il fenomeno della visione si manifesta negli uomini i più fermi; qualche volta apparve nei momenti più solenni della vita dei profeti. Lungi dal traviare, fortificava l'intelligenza dei veggenti. Se la mania moltiplica le forze, la collera, l'ispirazione possono alla loro volta moltiplicarle, nè mai alcun dato fisico separerà la pazzia dalla mente sana.
Impotente nel caratterizzare la follìa, la teoria fisica inciampa di nuovo quando deve indicarne le cause. Che la ragione sia turbata dalle perturbazioni del nostro organismo è cosa patente; l'intelligenza stessa perisce quando il corpo perisce. L'eccesso del freddo, un colpo di sole, la crapula, il libertinaggio, l'epilessia, il disordine dei mestrui, le cadute, le ferite nella testa, le febbri, l'abuso del sonno, e in generale tutte le cause che ledono il corpo ledono pure lo spirito. Sono esse le vere cause dell'alienazione mentale? No; la follìa non è nell'organismo, è altrove, negli istinti, nelle passioni, nella vita. Tra il fremere dell'aria e il suono, tra la luce e la visione havvi un abisso; gli organi dell'amore non ispiegano l'amore, nè il parto spiega la tenerezza della madre per il figlio. Tra lo sconcerto organico e la pazzia che ne consegue, l'abisso è ancora più profondo. Se un orologio cade, ritarderà, avanzerà, sarà guasto. Quale ne è la causa? Per il volgo sarà la caduta; per il meccanico la caduta non è se non l'occasione, di cui non tien conto; per lui la causa starà nelle ruote torte, nelle molle falsate, nelle incastrature peste. La teoria fisica della follìa si ferma alle occasioni rozze ed esterne dello sconcerto intellettuale; non afferra le vere cause che alterano la serie de' congegni nervosi e meccanici dei pazzi. D'indi la doppia impossibilità di spiegare fisicamente la pazzia. In primo luogo, il fenomeno si sottrae all'occhio, si manifesta in un campo non meccanico. In secondo luogo, il meccanismo che corrisponde alle forze della nostra vita interiore si sottrae di nuovo alla nostra osservazione. Le molle, i congegni, i fluidi alterati dalle cause esterne che generano la pazzia, rimangono inaccessibili a tutti gli sforzi della fisica.
L'autopsia de' pazzi conferma l'impotenza della teoria fisica. Ecco i risultati dell'anatomia quali trovansi formulati da Esquirol: «1.° I vizi della conformazione del cranio rinvengonsi solo negli imbecilli; 2.° le lesioni organiche dell'encefalo e de' suoi viluppi non si osservano se non negli alienati, la cui follìa complicavasi colla paralisìa, colle convulsioni e coll'epilessia; 3.° tutte le lesioni organiche osservate negli alienati rinvengonsi in altri individui, che non hanno mai delirato; 4.° molti alienati non offrono alterazione alcuna; 5.° la patologia ci mostra ogni parte dell'organo encefalico alterata, suppurata, distrutta, senza lesione dell'intelletto.» Ecco adunque le lesioni senza pazzia, e la pazzia senza lesioni. Supponiamo che la pazzia corrompa realmente le diverse parti del cervello; supponiamo che la malattia si dichiari nelle parti corrotte; ammettiamo che tutti i nostri istinti, tutte le nostre facoltà si possano localizzare nei diversi compartimenti del cervello. Le cause della pazzia sarebbero scoperte coll'autopsia? No; vedendo la lesione organica potremmo scorgere la sede della malattia, le cause meccaniche corrispondenti alla vita falsata; ma il falso stesso della vitalità alienata ci sfuggirebbe ancora. - Del resto, la pazzia si palesa il più delle volte come l'effetto di cause morali: in qual modo la fisica potrebbe oltrepassare l'ispezione dei muscoli e dei nervi per afferrare l'influenza d'un fatto su di una passione? La malattia viene destata dalla collera, dall'amore, dall'imitazione, dal piacere, dal dolore; ed anche dopo avere esplorate tutte le cause fisiche, il fisico dovrebbe rinunciare alla spiegazione della metà dei fenomeni della alienazione mentale, in cui la malattia si trasmette dalla vita alla vita.
Se la teoria fisica non può determinare nè i caratteri, nè le cause della follìa, non è guari più felice nella cura dell'infermo. Qui l'impotenza dei farmaci è confessata dai medici più illustri: ne' manicomj si curano le malattie accessorie, o si conserva la salute dell'alienato co' mezzi suggeriti dall'igiene; ma non si diminuisce con alcuna medicina il disordine della mente. Dunque la realtà fisica non può nè determinare la linea di separazione che divide la pazzia dallo stato regolare della vita, nè scoprire le cause del male, nè rendere la ragione all'infermo. Ciecamente empirica ne suoi tentativi, la teoria fisica rimane sempre esterna al problema della follìa.
La teoria intellettuale aspira a discoprire nell'intelligenza il secreto dell'alienazione mentale: la sua pretensione sembra ragionevole; il pazzo ragiona, s'inganna, si crede principe, re, Dio: chi giudicherà questo disordine intellettuale, se non l'intelligenza? Ma l'intelligenza è muta sulle rivelazioni della vita; non conosce che il sì, il no, il vero, il falso, l'essere, il non-essere; non sa determinare l'istante in cui la ragione cessa di essere ragionevole, e quando la teoria intellettuale vuol determinare i caratteri della follìa, trovasi inferiore alla stessa teoria fisica. Almeno la teoria fisica può mostrare alcuni sintomi; il furore, l'allucinazione, uno sconcerto organico; la teoria intellettuale non trova alcun dato nell'intelligenza, eccetto il vero e il falso, ed è ridotta a confondere la follìa coll'errore. Ma se l'errore è una follìa, chi non è pazzo? Limiteremo noi la pazzia a quegli errori che oppongono una cieca resistenza ad ogni dimostrazione? Non havvi religione che non resista ciecamente colla sola forza del sistema mistico; la follìa non è la fede, nè la fermezza, nè l'ostinazione. Sta forse negli errori condannati dal senso comune? In questo caso non havvi follìa che non sia stata adorata sugli altari; la metà della filosofia si sviluppa con teorie in opposizione alle credenze universali del genere umano. Porremo noi tra le malattie della mente gli errori funesti all'individuo o alla società? In tal caso sottometteremo alle nostre idee le opinioni sulla felicità e sull'infelicità, sulla moralità e sull'immoralità; i nostri dogmi giudicheranno gli errori funesti, imprigioneremo come pazzi i màrtiri, i profeti delle religioni che noi non professiamo; confonderemo i viziosi coi dementi, gli scellerati coi pazzi. Nè si può opporci l'enormità degli errori del pazzo. Nel manicomio l'uno si chiama imperatore, l'altro si crede Dio; un altro è trasportato dal furore dell'omicidio; ma pur l'intelligenza considera queste aberrazioni, benchè mostruose, come meri errori, meri inganni, e non altro. Ora, la follìa è più che un errore, più che un'illusione. Volete caratterizzarla? Dimostrate l'istante in cui l'errore divien malattia, in cui l'illusione diviene l'alienazione mentale; dimostratelo colla sola intelligenza, e l'intelligenza avrà sciolto il problema. Se questa dimostrazione manca, la teoria è annullata.
L'intelligenza sembra distinguere la fillìa dall'alienazione mentale; quando l'alienato opera senza ragione, senza motivo, quando sragiona di continuo trasportato dal moto della sua propria parola: allora parla, ride, i suoi periodi non possono compiersi, la sua attenzione non può fermarsi, i suoi scritti non hanno senso; il fato ha vinto l'intelligenza. Qui, dov'è la follìa? nell'intelligenza? No; l'alienato è caduto in una specie d'idiotismo animato, ciarliero, è un morto che parla, l'intelligenza è interamente svanita. D'altronde, se havvi la mania del disordine, havvi altresì la mania che chiamasi raziocinante. I medici non si stancano di lodarne gli sforzi, l'imaginazione, la destrezza, l'astuzia. Pinel parla di un infermo che costruiva ingegnosissime macchine cercando il moto perpetuo. Vi sono alienati in cui la mente si leva ad un'altezza che reca meraviglia. «L'uno di essi» dice Pinel, «ne' suoi accessi parlava dei fatti della rivoluzione colla forza, la dignità e la purezza della parola che appena potevasi attendere dall'uomo più profondamente istrutto, e dal più sano giudizio. Ne' suoi lucidi intervalli era un uomo ordinario.» Un altro alienato, rendendo conto della malattia da cui era guarito, dichiara che negli accessi la sua mente otteneva il dono di una felicità straordinaria. «Tutto m'era facile», dice egli; «nei momenti d'accesso nessun ostacolo mi fermava, nè in teoria, nè in pratica. La mia memoria acquistava d'un tratto una singolar percezione, ma richiamava lunghe pagine d'autori latini: d'ordinano trovo a fatica le rime; allora scriveva il verso rapido come la prosa.» Nella monomania l'ammalato gode della sua intelligenza, può essere dotato di un raro ingegno; la pazzia cade su di un concetto unico. Qui ancora spiega un mirabile intendimento. Il monomane credesi perseguitato da nemici imaginari, teme che i suoi alimenti siano avvelenati; se si tenta di confutarlo, le sue risposte ci rendono attoniti. Da ultimo in molti individui la malattia è visibilmente nella volontà, la ragione è perfetta, sanno giudicare sè stessi; conoscono le conseguenze delle loro azioni, eppure non possono dominarsi. Gli uni non sanno togliersi ad un'invincibile pigrizia, rifiutano di vestirsi, di passeggiare; gli altri non possono contenere gli accessi di frenesia che, con loro terrore, sentono imminenti. Una madre spinta dalla mania ad uccidere i figli, ebbe appena il tempo di gettare dalla finestra la chiave della loro stanza; molti, nel momento dell'accesso, sollecitano i loro amici alla fuga, li pregano di sottrarsi agli indomabili loro impeti. Vedesi adunque che ora l'intelligenza è straniera alla follìa, ora la serve; e se essa serve egualmente la salute e la malattia, come mai potrebbe caratterizzare l'alienazione mentale?
Non si può nemmeno rinvenire nell'intelligenza alcuna causa della follìa. Gli istinti falsano le idee, la follìa può viziare tutti i pensieri, travisarli, intervertirli, associarli in mille modi: ma la causa dell'alienazione mentale non è mai nell'intelligenza: se non havvi concetto che possa gettarci nel delirio; a più forte ragione non havvi verità che possa spegnere l'intelligenza. Deploriamo i medici che accusano la democrazia di moltiplicare il numero dei dementi. Facciano il numero dei pazzi del cattolicismo; sorpassano le mille volte quelli della rivoluzione, che almeno non dà corpo alle ombre, e non celebra qual miracolo il morbo dell'allucinazione. In sostanza, le idee sono la materia della follìa, la follìa è altrove, nella paura, nello spavento, nell'ambizione, nella collera. Una volta eccitata la follìa aderisce indifferentemente a tutti i principj, alla religione e alla filosofia, all'assolutismo e alla democrazia; può combinarsi colle più volgari idee, colle più sublimi verità.
La cura della pazzia mostra il vuoto della teoria intellettuale. Possiamo noi confutare i pazzi? possiamo convincerli colla forza del sillogismo? No; la cura intellettuale spesso applicata ai dementi consiste nel servirsi de' loro errori per fingere una catastrofe in cui l'alienato trova la salute nella propria mistificazione. Un alienato credevasi morto, rifiutava di nutrirsi; gli fu provato che i morti mangiano, e allora si decise a mangiare. Un monomane credeva di aver due corna sulla fronte, il medico finse di amputargliele; il pazzo guarì immediatamente. Qualche volta si fecero comparire le ombre, si fece parlar Dio, la Vergine, i santi, e colle rappresentazioni teatrali si è ottenuta qualche guarigione. È questa una cura intellettuale? è una prova forse che l'alienazione sia nell'intelligenza? No; le rappresentazioni teatrali possono rendere la libertà allo infermo, ma il sistema delle sue idee rimane sempre leso, relativamente al suo proprio passato; le sue azioni sono ragionate, la sua monomania è momentaneamente staccata dalla vita pratica, ma sussiste intera nella sua mente. Al minimo accidente si riproduce di nuovo nell'azione e la ricaduta diventa incurabile. Spesso le rappresentazioni teatrali dello spedale non fanno che spostare la pazzia. Ciò perchè l'errore non è se non la materia della follìa; la leggerezza, la foga, il fato della follìa, si aprono un'uscita afferrando un'idea; e se ci limitiamo a vincere l'errore, la pazzia non mancherà di cercare un'altra uscita in una nuova serie di concetti. Qualche volta le rappresentazioni teatrali raggiungono lo scopo; allora il medico è il caso; la cura è un colpo di fortuna: il pazzo non è persuaso, è scosso; non è confutato, è commosso, e trova il suo equilibrio nella scossa. Un incendio nell'ospizio, una caduta felice avrebbero prodotto lo stesso effetto. Così la teoria intellettuale non tocca all'essenza, non alla causa della follìa, e se agisce sul male, lo deve alla fortuna.
Ci rimane d'esaminare la teoria morale. Ivi la follìa deve essere un vizio, un delitto e il carattere dell'alienazione deve esser determinato o dalla forza dei nostri istinti, o dal sistema delle nostre idee. Analizziamo i due casi. Se il carattere della pazzia viene determinato dalle forze de' nostri istinti, devonsi enumerare gli istinti, considerando ogni demenza come l'eccesso o il difetto di una forza istintiva. Allora la pazzia sarà la melanconia che resiste a tutte le distrazioni, l'orgoglio che sfida il mondo, la superstizione che uccide l'infermo, la collera che gli rende impossibile di vivere co' suoi simili; isolata in un istinto, la follìa riducesi ad una forza anormale. In qual modo determinare il difetto e l'eccesso dell'istinto? Nessuno può dirlo; il grado della passione esteriormente misurato ammette una latitudine indefinitamente più grande di quella lasciata dal ritmo interno: essa varia colla situazione, colle idee, colla civiltà: molti pazzi per ambizione sono meno ambiziosi di Cesare; molti dementi per amore amano meno di Eloisa. L'ostia consacrata è un tesoro per il cattolico, per l'istinto isolato non ha alcun valore. Isolarsi nell'istinto e misurarlo sono due cose egualmente impossibili: quando noi affermiamo colla maggior sicurezza, che un infermo è pazzo di amore, di collera, di vanità, di superstizione, non è l'istinto isolato che noi consideriamo, non è la forza dell'azione che noi misuriamo; giudichiamo il demente col ritmo de' nostri sentimenti, e lo troviamo sì traviato, talmente fuori della natura, che gli è impossibile di vivere, che convien vegliare sopra di lui, che dobbiamo togliergli la libertà, che, in una parola, lo sentiamo pazzo, non per l'eccesso o per il difetto, ma per il disordine della sua ispirazione. Non potendo caratterizzare la follìa dell'istinto isolato, la teoria morale non può dunque giudicarlo se non prendendo l'istinto quale si sviluppa colle idee, voglio dire colla realtà, col sistema delle nostre credenze, e allora ricadiamo necessariamente nella teoria intellettuale. Qui giudichiamo la follìa colle nostre idee: la follìa si confonde coll'errore e col delitto; noi confondiamo il delinquente col mártire, l'alienato di mente col profeta, la pazzia coll'ispirazione, l'entusiasmo coll'alienazione mentale; e i caratteri che separano la follìa dallo stato regolare della vita ci sfuggono di nuovo.
La indecisione della teoria morale si riproduce quando vuol determinare le cause della follìa. Classificare gli alienati secondo le passioni, imputare alla collera o all'amore il disordine della mente, penetrare nel labirinto degli istinti, nel caos della vita, che varia d'epoca in epoca, che presenta un numero indefinito di fasi correlative alla varietà delle cose, che risvegliano la rivelazione interiore, è un fermarsi ad indicazioni empiriche, assolutamente spoglie d'ogni valore scientifico. In quella guisa che l'arida nomenclatura degli istinti non spiega alcun eroe nella storia, alcun uomo nella società, non ispiega neppure il disordine indefinitamente variato che si manifesta nelle malattie della vita. Possiamo forse dominare Luigi XIV colla teoria frenologica delle passioni? No; convien vederlo sul trono di Francia nel decimosettimo secolo, conviene interrogarne le idee allora s'intende l'uomo. Per una conseguenza naturale gli istinti non rendono ragione della follìa, conviene interrogare le idee del demente, e allora si ricade nella teoria intellettuale.
La cura della follìa nella teoria morale è naturalmente dettata dal principio astratto dell'ordine morale. Che sono, per questa teoria, gli istinti? Sono forze di cui essa misura gli effetti meccanici; essa si preoccupa di coordinarle, di evitar l'urto, di sopprimere il male; essa è morale, e pertanto considera la follìa come un vizio, che devesi reprimere con mezzi meccanici. Gli antichi manicomj erano vere prigioni, ove incatenavansi gli ammalati, battevansi, punivansi della follìa, quasi fosse un peccato. L'idea di reprimere la follìa è forse scomparsa? Regna ancora. Qualunque siano le intenzioni del medico, l'umanità dei costumi, le teorie sull'alienazione mentale, il sentimento è più forte del pensiero; e l'uomo che governa i pazzi è trascinato dalla forza stessa del linguaggio ad ammonirli come orfani. Nei guardiani l'istinto è più forte del dovere; essi malmenano gli alienati, oppongono risolutamente l'ordine al disordine, il bene al male; e il direttore del manicomio può appena mitigare l'inevivitabile brutalità della repressione. Insomma, l'alienato è prigioniero. Questa cura è benefica? È inevitabile, ben diretta, è utile, ma per ragioni affatto estranee alla teoria morale della pazzia. Perchè reprimere il demente? per qual ragione la repressione può ricondurlo alla misura del senso comune? La teoria morale lo ignora.
Abbiamo mostrato l'impossibilità di spiegare la follìa colla fisica, coll'intelligenza e colla morale. Se cercasi l'origine negli organi, non si trova: se cercasi nella mente, la pazzia è un mero errore; se cercasi astrattamente nell'istinto, è il difetto o l'eccesso di una forza che non può essere misurata. Le tre teorie sono egualmente impotenti nel determinare i caratteri, la causa e la cura della follìa; la loro impotenza è tale, che non ci venne fatto di scoprirle nella purezza loro filosofica, in alcun scritto di medicina: i medici sono troppo preoccupati della pratica per lasciarsi traviare dai tre principj astratti, quindi avanzano a caso, confondendo i tre principj; costanti solo nel non veder mai la malattia della vita là dove si trova. Ma se i medici non sono esatti, i filodofi lo sono; e se i filosofi rifuggono quasi tutti dall'affrontare il problema della follìa, la logica lo vuole sciolto dai loro sistemi meccanici colle tre soluzioni indicate, che noi crediamo istoricamente più vere che non la storia stessa della scienza. Ebbene, poichè abbiamo dato alle tre teorie un'espressione rigorosa, spingiamole alla loro ultima conseguenza; esse condurranno a tre metafisiche distinte.
La teoria fisica, se vuol essere completa, dovrà transire dal disordine organico al disordine mistico; se essa vuole la pazzia nel corpo, dovrà mostrarla nel corpo, dovrà dare la mano alla metafisica materialista, che rende eguale il pensiero ad una secrezione cerebrale, al contrarsi dei nervi, ad altri fatti stabiliti come apparenze prime, e quindi dominatrici. A che s'impegna una simile teoria? S'impegna a trovare la ragione per cui il fisico divien morale, per cui il cervello divien pazzia, per cui una sostanza diviene una data qualità. In altri termini, la teoria fisica si trova impegnata a sciogliere la contraddizione eterna del fisico e del morale, che può tradursi nell'altra contraddizione della qualità e della sostanza, e che si traduce nell'ultima contraddizione, nella quale noi troviamo la follìa in pari tempo fisica e non fisica.
Lo stesso si dica della teoria intellettuale; se ne trovano traccie in Malebranche, in Locke e in altri: benchè i congegni e gli espedienti siano variati, tutti fan capo al problema seguente. In qual modo l'errore prende l'apparenza della follìa? In qual modo si transisce dal falso al morboso? Qui l'errore è l'apparenza prima; deve dominare le altre apparenze, deve darci la transizione alla follìa. Ne nasce che la follìa diventa per gli uni un'associazione invincibile di idee, per gli altri una sventurata associazione; poi come l'ultimo che, il quale separa l'errore dalla demenza, non è mai nell'errore, siamo condotti finalmente dinanzi all'eterna contraddizione, per la quale la follìa è un errore senza essere un errore, contraddizione che erasi presa per un problema.
Dobbiamo ripetere lo stesso della teoria morale. Per la teoria morale una volontà è inferma, convien quindi transire dalla volontà alla sua infermità: per esempio, dalla malinconia allo invincibile spleen dell'alienato: la volontà diviene dunque apparenza prima, deve dominare tutte le altre apparenze, generare logicamente quanto oltrepassa la volontà stessa, quanto la fa essere morbosa, traviata, ammalata. Ora, la transizione non è guari possibile. La volontà resta la volontà; ogni istinto resta quello che è; nè può alterarsi per opporre a sè stesso la propria degenerazione. Che ne nasce? la teoria morale s'identifica con un dogma, autorizza il fanatismo; e vediam medici sagaci nella pratica, avventati nella teoria, chiedersi sul serio se i loro avversari in politica e in religione meritano di essere rinchiusi nell'ospedale de' pazzi: se gli errori che combattono non sono l'effetto di una volontà pervertita e morbosa. Poi ci troviamo dinanzi a questa contraddizione eterna, che la follìa è nella volontà senza essere nella volontà; e così troviamo la teoria morale trasformata in uno sforzo per aprire un'uscita alla terza antinomia dell'alienazione mentale.
La follìa sfugge alle sue antinomie e alla metafisica che la travisa, se si domina coll'organo che la percepisce, voglio dire coll'intuizione della vita. Noi non possiamo descriverla, non possiamo trovarle una formola meccanica, per la stessa ragione che non possiamo descrivere nè l'arte, nè il ridicolo. Pure noi sentiamo la pazzia come si sente il ridicolo; e il momento in cui la pazzia si dichiara, è quello in cui la rivelazione interiore cessa di corrispondere alla rivelazione esteriore. L'uomo che ride, che piange, che ama, che odia senza motivo, senza proposito, l'uomo orgoglioso o umile, temerario o tremante, giulivo o mesto, senza che l'ambiente in cui vive giustifichi il ritmo delle sue passioni, senza che nessuno in sua vece possa provare gli stessi sentimenti, si trova fuori del senso comune, è alienato. La pazzia è una specie di travestimento, una maschera, in cui si mette in contraddizione la vita colle cose; essa è ridicola come tutti i travestimenti, in cui trovasi quell'aspettativa fallita, quella subita indecenza, quella mancanza di misura esterna che desta il sentimento comico. Chi giudicherà dunque la follìa? Noi stessi, ogni uomo; basta esser uomo per indicare la linea che separa la vita regolare dalla demenza; basta consultare il nostro intimo senso per intuire il senso leso, fatta astrazione da ogni dogma, da ogni religione, dall'immensa varietà de' sistemi che rendono gli uomini non riconoscibili gli uni agli altri. A prima giunta, quando ci decidiamo ad imprigionare il demente, sembra che facciamo atto d'intelligenza. Il nostro discorso, sempre esterno, spiega il nostro ritmo vitale colle cose esterne. Giudicando il pazzo, ripetiamo le sue parole, le sue azioni, raccontiamo le sue stravaganze, insistiamo sugli errori suoi, sulle sue visioni; crediamo di dominarlo colla verità. È un inganno. Gli errori e le stravaganze del demente possono trovarsi nella vita regolare: si può attendere un Messia, o credersi Dio senza essere infermo di mente: tutto può essere giustificato; la saggezza può sembrar pazzia, la pazzia saggezza. Ma la rivelazione interiore scansa l'astratta possibilità del vero e del falso, del bene e del male, e ci mostra nel discorso del pazzo il disordine del ritmo vitale. Mille volte prodighiamo l'epiteto di pazzo; or bene, le manie che ci rendono attoniti, la pazzia delle passioni, la breve follìa dell'ira (furor brevis), non sono giudicati se non dal ritmo naturale dei nostri istinti. Così, in tutte le sue fasi la follìa non si definisce, sentesi come il bello e il brutto, come il serio e il ridicolo, non si dimostra mai, è tutta nella poesia della vita. L'errore non è nemmeno necessario a costituire la follìa; basta che l'uomo sia soggiogato da un'inerzia, da una tristezza invincibili; basta che il furore lo trasporti suo malgrado, che sia spinto all'assassinio da una frenesia in cui appare un fato irresistibile, e la malattia si palesa evidente per la mancanza di correlazione tra la vita e le cose. Che l'inerzia, il furore, l'omicidio abbiano i loro motivi in relazione colle cose, vedremo il vizio, il delitto; il furore, la follìa svaniranno.
I diversi fenomeni che si osservano nella pazzia, ce la mostrano sempre nella rivelazione della vita. Quasi tutti gli alienati cambiano d'affezioni; il demente aborre le persone che loro erano più care; per guarirlo bisogna toglierlo alla famiglia: ecco l'interversione degli istinti. Può ricevere un'altra spiegazione; fu osservato che gli sforzi della famiglia per contenere l'infermo devono irritarlo, estinguere le sue affezioni. È vero: la resistenza lo cambia; ma il suo cambiarsi segue la legge della vita; tolto lo sviluppo diretto della passione, si ha lo sviluppo inverso, compresso il bene, il bene intervertito diventa il male. D'indi l'odio, il furore, la mania del male, e tutti i germi dell'ordine intervertiti nel pazzo.
Tra i fenomeni della pazzia si osserva la facilità di far meravigliare il pazzo, di distrarlo, d'impressionarlo: ciò debb'essere: egli vive fuori dalla realtà, in un mondo imaginario; ogni scossa lo richiama presso di noi, ed è sorpreso di quanto accade nel mondo reale, nuovo per lui, consueto per noi. E quando divien difficile guarir la pazzia? Quando il demente trovasi confinato nel suo mondo imaginario dalle circostanze stesse che accompagnano la pazzia. Così l'allucinazione è funesta, perchè usurpando il luogo della realtà, mantiene il falso ritmo; e una falsa realtà tien viva di continuo una falsa vita.
Riesce difficile il guarire la mania raziocinante, quella che s'ingolfa nelle materie religiose e filosofiche: ed è che in essa la realtà, l'evidenza del fatto manca; il pazzo non trova ostacoli per trascorrere negli abissi dell'errore, la rivelazione degli esseri non può rettificare il falso sviluppo della rivelazione vitale.
Anche la follìa determinata dalle cause organiche, dai vizi della conformazione del cranio o da un organismo generatore di accessi intermittenti, è malagevole a guarire: nel fatto, in qual modo rettificare un ritmo mistico radicalmente falsato nel suo apparecchio organico?
Qualche volta la pazzia eccita le facoltà, e presta al demente alcune doti che svaniscono quando risana. Nulla di più naturale. Il genio non è nell'intelligenza, dipende dall'ispirazione, dalla poesia, dagli istinti, dall'irradiazione della vita interiore. L'irritazione del sistema mistico potrà dunque produrre i fenomeni che simulano i caratteri del genio. D'indi le astuzie dei maniaci, la sagacia de' monomani, la momentanea elevazione d'alcuni alienati; il ritmo vive, sopravvive nel pazzo: è falsato, corrisponde ad un mondo che non è il nostro, ma corrisponde ad una realtà fantastica in cui si riproducono travisati tutti i fenomeni del mondo reale. L'intelligenza serve dunque alla follìa come serve alla vita regolare: sempre dominata, senza mai dominare, si sviluppa invariabile nel suo procedere, attuando l'istinto, sia desso integro o leso. Del resto, il talento del pazzo è un immagine del vero talento, nè lo spedale de' pazzi ha dato alcuna invenzione, alcun concetto che potesse guidare l'umanità. Prima tra le condizioni del genio si è la correlazione del ritmo mistico colla rivelazione degli esseri, e se questa condizione manca, l'uomo non pensa per questo mondo.
Se la follìa è nella vita, nella vita dovremo trovare tutte le cause della follìa. Le cause fisiche, cioè le disposizioni ereditarie, l'eccesso del caldo o del freddo, gettano nel delirio, disordinando l'apparecchio fisico del nostro sistema ritmico. L'apparecchio si sottrae alla vista, pure esiste, lo si vede nelle funzioni più rozze, nei nervi, nel cervello; e pertanto, disordinata la macchina delle passioni, il ritmo della vita deve essere falsato.
Le cause morali conducono alla pazzia, turbando le proporzioni interne e inesplicabili della vita; un fallimento, una sciagura mutano di repente l'ambiente in cui viviamo, e il mutamento esterno potrà falsare la vita. Una passione irritata, l'eccesso dell'amore, dell'ambizione, alterano già i valori delle cose, ci fanno vivere, non nel mondo, ma in una parte del mondo; e la minima catastrofe ci mette in disaccordo colla realtà esterna, presa nel senso più alto e ci spinge fatalmente sul pendio del delirio.
Vi sono alcune cause da cui la follìa può essere artificialmente generata. Quali sono? Precisamente quelle che falsano la correlazione tra la vita e le cose. Si imiti la pazzia, sia simulata per qualche mese; la mimica, che áltera volontariamente il rapporto della vita colle cose, finirà per traviare la ragione: spesso i prigionieri, volendo sfuggire alla pena, fingonsi pazzi, poi cadono nella pazzia. - Si coabiti coi pazzi; l'espressione esterna della follìa prima offende, poi disordina il ritmo della vita. Il perchè i custodi de' pazzi sono esposti ad eccessi di pazzia. - L'abitudine dell'ubriachezza produce lo stesso effetto; l'ebbrezza è il delirio momentaneo spesso ripetuto; falsa il ritmo e la correlazione della vita colle cose. Lo stesso si dica dell'isolamento de' prigionieri; qui la realtà esteriore è scemata, lo spettacolo della vita è soppresso, l'uomo rimane colla sua propria ispirazione, senza correlazione, senza punto d'appoggio, senza che l'esempio rettifichi le sue abitudini, e la pazzia invade il prigioniero.
I caratteri predisposti alla pazzia sono quelli in cui il ritmo trovasi sul pendio del disordine. L'eccessiva leggerezza, la bizzarria, l'esaltazione puerile, non possono dominare il sistema meccanico della realtà; inconsistenti, si lasciano dominare dalle cose; in essi il valore degli oggetti trovasi già falsato, le attrazioni naturali che fissano gli istinti trovansi già alterate; il ridicolo, questo fatale indizio della follìa, si palesa; e al minimo urto il sistema della vita rimane scosso.
Il genio stesso non si preserva dalla pazzia; è noto il proverbio: nullum magnum ingenium sine dementia. Il genio non è nell'intelligenza, ma nell'ispirazione: privilegiata nel genio, originale nel poeta, essa può passare alla follìa facilmente, come si passa dal sublime al ridicolo. La transizione è facile quando il genio è inventore, e quando l'invenzione lo trasporta in un nuovo mondo per farlo vivere nel mezzo della sua utopia. Le sue idee possono allora fare le veci dell'allucinazione, falsare la correlazione del sentimento colle cose: una sventura, un'ingiustizia subita, una catastrofe, disordinano la ragione; ed è allora che il genio conduce alla follìa.
Le migliori cure della pazzia sono quelle che pervengono a ristabilire il rapporto regolare tra il ritmo della vita e la rivelazione esterna imponendo rigidamente all'infermo il fatto della realtà. L'uomo che applica con maggior successo questa cura, M. Leuret, si fonda su di una falsa teoria; parte da un dato intellettuale; ripone la salute nel complesso ragionato delle nostre idee, confonde la pazzia coll'errore. Quando cerca la linea che separa la mente sana dalla demenza, non la trova; e dimanda se sia demenza l'aspettare il Messia: ripone Ezechiele, Mosè e santa Teresa fra gli allucinati; ne trova alla Salpetrière i tipi corrispondenti: e non avremmo che a dedurre le ultime conseguenze di questa teoria per rilegare alla Salpetrière Hegel, Malebranche e Platone; che dico? l'umanità tutt'intera che ammirava Ezechiele, Mosè e santa Teresa, o profeti più allucinati. M. Leuret non afferra la teoria, pure la sua pratica devesi approvare; la sua cura consiste nell'assalire direttamente la pazzia, opprimendola sotto il peso del senso comune. Egli sforza l'alienato a imitare meccanicamente il senso comune; lo scuote ne' suoi capricci, gli applica le doccie per costringerlo a rinnegare i propri errori; lo ricompensa, lo incoraggia al primo passo verso la verità. M. Leuret non vuole che s'impieghino le rappresentazioni teatrali; in esse il medico, dice egli, si lascia dominare, si lascia sedurre (il se laisse prendre); la pazzia signoreggia la realtà, la malattia si fortifica. Invece egli applica la confutazione diretta colla parola, colla derisione, d'animo freddo, e da ultimo colla doccia. Il suo scopo è di rompere il sonnambulismo dell'ammalato. Appena l'ammalato comincia ad ondeggiare tra il sogno e la realtà, la guarigione è facile, il medico ha solo a compiere la conversione, la realtà riprende il suo ascendente naturale, e l'infermo è liberato nel momento in cui la realtà non ha più bisogno dei mezzi artificiali dell'ospizio per dominarlo. Che fa, in ultima analisi, questa cura? Colla repressione rettifica il ritmo della vita, ne assale esternamente le deviazioni; poi, quando l'ammalato dubita, quando sospetta la realtà, o piuttosto quando vacilla tra le valutazioni fittizie della follìa e le valutazioni ordinarie della vita, quando la vita comincia a diventare accessibile alla vita, allora la derisione, il consiglio, la natura compiono la guarigione. In qual modo si determina l'istante della guarigione? colla realtà? No, coll'intuizione del sistema mistico, perchè quando trattasi della poesia dalla vita non si definisce la salute meglio della malattia.
Ho parlato del pazzo per parlare dell'uomo sano di mente: la scienza dei contrari è sempre la stessa; chi conosce la malattia, conosce la salute. Che cosa è dunque l'uomo non alienato di mente? È l'uomo in cui la vita non è viziata; in altri termini, l'uomo che gode del senso comune. Dunque si determina il senso comune colla vita, e non coll'intelligenza. La stessa denominazione di senso comune, di sentimento universale, ci indica che nella vita devesi cercare la salute intellettuale, La perfezione del senso comune chiamasi buon senso, cioè sentimento retto, vita sicura, e naturalmente bene ispirata. Il senso comune ed il buon senso non sono negli assiomi, dove la scuola di Reid voleva cercarli. L'intelligenza, gli assiomi, la ragione, sono gli istromenti della vita, del senso comune, del buon senso, del sistema mistico. Trovansi egualmente dominati dal pazzo e dal savio: il pazzo ragiona, accetta gli assiomi, è sottile, ingegnoso, può essere sublime; quanto gli manca si è la rettitudine del senso interiore, la regolarità della rivelazione vitale. I suoi istinti sono falsati, egli falsa tutti gli interessi, tutti i valori: la falsificazione lo getta in un mondo imaginario; non può più intenderci; le comunicazioni tra i due mondi sono intercette, non dall'errore, non dall'intenzione perversa, ma da un che d'inevitabile e di fatale nella vita. Istessamente noi abbiamo la nostra ragione; perchè? Non possiam dirlo. Noi saremo Buddisti, Mussulmani, Cristiani; crederemo ai dogmi più opposti, ai principj più contraddittorj; pure ci riconosciamo tutti vicendevolmente il senso comune, ogni qualvolta noi riconosciamo la realtà del ritmo vitale. Talora la regolarità ci sfugge velata dalla nostra ignoranza. Se raccogliamo le stravaganze religiose di tutti i popoli, riprovate dalla nostra maniera di giudicare, negheremo il buon senso al genere umano. Non conoscendo l'insieme di ogni religione, i suoi motivi, le sue necessità, i dogmi smembrati ci sembreranno l'opera di menti inferme. Tale fu considerata nel secolo decimottavo la storia delle religioni. Rendete alla storia tutti i suoi elementi, non mutilate alcun dogma; la follìa svanisce; e noi sentiamo la vita universale che ci anima, e che ci fa appartenere ad una stessa specie, non ostante l'estrema dissonanza dei dogmi.

SEZIONE TERZA

LA RIVELAZIONE MORALE



Capitolo I

IL SACRIFIZIO

La rivelazione della vita segue la rivelazione delle cose; alla volta sua la rivelazione morale segue quella della vita. Nella stessa guisa che gli esseri destano in noi la vita, la vita desta in noi un sentimento che ci spinge a sacrificarci. All'interesse dell'amore corrisponde la devozione dell'amore; all'egoismo della famiglia sono correlative le virtù della famiglia; dacchè noi desideriamo un valore, sorge in noi un sentimento d'abnegazione contrapposto ad esso valore.
Io non parlo qui del giusto, nè dell'ingiusto; voglio verificare il fenomeno dell'ascetismo che segue il fenomeno della vita egoista. Ogni qualvolta due popoli si combattono, il sangue è sempre versato dalla legge del sacrifizio; sul campo di battaglia l'ingiustizia dell'aggressore è disinteressata quanto la giustizia dell'assalito. Istessamente nel seno della società il disinteresse anima ogni lotta interiore; il patriziato più iniquo trova uomini che lo difendono, eroi pronti al martirio per la causa dell'iniquità. Scegliamo un altro esempio; il potere regio costituisce un interesse mostruoso, confida la società ad un sol uomo. Per ciò solo che il potere regio è un interesse, esso impegna il re, fosse pur tiranno, ai maggiori sacrifizi. Signore dello Stato, il re si crederà personalmente insultato da ogni aggressione contro lo Stato; il minimo disordine lo moverà a sdegno come un'ingiuria, e se non è l'ultimo dei vili, sarà pronto a combattere. Capo di una famiglia, esaurirà tutti gli espedienti dell'astuzia e della forza per conservare il trono ai figli; ed ogni sforzo per conservare, per estendere il potere, ogni suo delitto sarà suggerito dall'antitesi dell'abnegazione. Eminentemente egoista, potrà esso diventare l'uomo più eroico del regno.
Lo stesso Ergastolo ha le sue virtù, là hannovi gli interessi del delitto, il suo governo; l'infamia vi trova rispetto, vi assume le parti della gloria e il più gran malfattore vien doverosamente obbedito. Su che fondasi codesto suo ascendente? Sulla potenza del vizio, sull'eroismo dell'iniquità, il quale risplende egualmente nei ladroni, negli sgherri, nei pirati; ispirava un tempo le gesta de' filibustieri, e dappertutto i masnadieri raggiungono qualche volta il sublime del coraggio e della fedeltà nell'atto stesso che violano le leggi della giustizia e dell'onore.
Non è possibile sottrarsi alla legge del sacrifizio. L'uomo è naturalmente guerriero; il pericolo lo attrae, lo trascina nei tornei, nei duelli, nelle spedizioni avventurose, lontane, impossibili. Se mancano le avventure, si cerca la lotta nella politica, nel commercio, nel giuoco. Lo ripeto, egli è impossibile l'essere assolutamente egoista o assolutamente vile. Perchè alcuno supporti l'ingiuria e tenda la guancia allo schiaffo, gli abbisogna il precetto di una religione che promette un premio infinito. La stessa religione non basta per fermare l'impeto della rivelazione morale. Il credente bestemmia, quasi compiacendosi di sfidare il suo Dio. I negromanti del medio-evo arrischiavano l'anima per evocare le potenze dell'inferno; migliaia di fanatici affrontavano i terrori del cattolicesimo per darsi in braccio alla magia, tracannavano misteriose bevande per andare in treGgenda colle fate. In una parola, ogni credente sarebbe assolutamente impeccabile se fosse consigliato dal solo egoismo; ma egli è agitato dalle furie dell'amore, della collera, dell'invidia, della gelosia; queste forze lo chiamano alla lotta, gli impongono la guerra e possono sospingerlo fino a combattere l'Eterno.
Abbiamo trovato la rivelazione morale nel fondo della poesia della vita; l'arte ne offre il riflesso. Lo spettacolo del sacrifizio ci affascina: quindi il popolo cerca avidamente scene di sangue, chiede il combattimento de' gladiatori, accorre ai tornei; se manca la spontaneità del combattere, vuol assistere ai supplizi; se mancano vittime viventi, legge le storie, i viaggi, le leggende, i poemi; ed è coll'evocare la legge del sacrifizio che si sviluppa la poesia. Essa tormenta eroi imaginari, li sospinge tra pericoli fantastici per isvelare di continuo la potenza ascetica, che li applaude dal fondo dell'anima. Ed ecco Patroclo trafitto da Ettore; Ettore trascinato da Achille sotto le mura di Troia; Macbeth che si precipita di delitto in delitto per sostenere l'insanguinata corona. Si tolga il combattimento, si rimova il pericolo, la poesia non può manifestarsi, la bellezza rimane vaga ed incerta, ridotta a mero spettacolo. Si sostituisca al coraggio la viltà, al sacrifizio l'egoismo; l'interesse si divida dal disinteresse che fatalmente lo segue, vedremo apparire innanzi a noi esseri fantastici, falsi, impossibili. Vedremo il Falstaff di Shakespeare, il Bobo del dramma spagnuolo; Pulcinella, Arlecchino; le piacevolezze della commedia o le stravaganze della farsa; in una parola, vedremo la follìa ed il ridicolo. Ora che è la follìa? E una infermità della vita. Che è il ridicolo? E il primo effetto di questo morbo; chi sopprime il sacrifizio, sopprime l'uomo stesso. Havvi adunque una rivelazione morale che segue il vizio come la virtù, l'infamia come la gloria; disinteressata, essa è la materia prima dei diritti e dei doveri.



Capitolo II

PRINCIPIO DELL'OBBLIGAZIONE

Siamo noi tenuti ad accettare la rivelazione morale? dobbiamo noi sacrificarci alla tendenza, forse ingannevole, che si oppone ai nostri interessi? Dobbiamo obbedirle, essa, ci obbliga, ci signoreggia; se le resistiamo, ci opprime, ci grida spregevoli e ridicoli, per sottoporci, quasi essere degeneri, agli uomini che accettano il suo impero. La rivelazione morale dunque ha tutta l'autorità di un fatto primitivo, sui generis. Io non posso dire perchè mi obblighi, come non posso dire perchè esistano gli esseri, le forze, i fenomeni; ma la sento indivisibile dalla legge che regge l'egoismo; e qualunque sia la sua forma, non posso scinderla dal mio interesse senza fremere di dolore, senza essere costretto a fuggire lo sguardo degli uomini; e se voglio sfidarlo, deggio fare uno sforzo che mi pesa più della stessa onestà.
Qualche volta la rivelazione morale scompare, l'abitudine del delitto spegne il rimorso. Si dirà che, identificando il primo principio del dovere colla rivelazione morale, il dovere sarà soppresso quando la rivelazione stessa scompare. Ciò non può negarsi; e nessun ragionamento, nessuna teoria, nessun dogma potrà mai surrogarsi alla coscienza. Non havvi sillogismo per far intendere l'abnegazione a chi non la sente; non havvi metodo per insegnare la virtù; il cristianesimo confessa che non può rivolgersi all'uomo morto alla grazia; per noi l'uomo morto all'umanità vedrà sempre nella virtù un'atto di follìa. Che fare dinanzi a colui che non accetta alcuna legge? È forza difender noi stessi, togliergli le sue vittime e incatenarlo. Dacchè non possiamo sostituirci alla rivelazione morale, ci resta solo di soggiogarla colla forza materiale. Del resto, l'uomo assolutamente morto alla morale è una mera ipotesi.
Fu dimandato se il principio che obbliga è in noi o fuori di noi: fuggiamo questa indagine di una logica cavillosa e ribelle. Fuori di noi il principio che obbliga sarebbe straniero e impotente: in noi sarebbe a livello del nostro egoismo, e potendo obbligarci da noi stessi, potremmo da noi stessi assolverci. La rivelazione morale non è in noi, nè fuori di noi e in pari tempo è dovunque; discende dalle regioni dell'impossibile, pure esiste, ci domina dalla culla, ci segue fino alla morte, e sorge dal fondo di ogni interesse. Vogliamo noi negarla? Lo stesso ragionamento che la distrugge, distrugge la nostra esistenza e l'esistenza dell'universo. Poco importa adunque che nelle regioni dell'intelligenza morale si contraddica; poco importa che i mille dilemmi dello scetticismo signoreggino il vizio e la virtù per sostituire di continuo l'ingiustizia alla giustizia. Questa è una fatalità trascendente o una pratica puerilità: può togliere senza pericolo la distinzione del bene e del male; senza deturparci, può distruggere il vizio e la virtù, perchè annichila gli oggetti del vizio e della virtù. Se legittima l'omicidio, in pari tempo lo rende impossibile, perchè annienta la vittima minacciata.
Il principio del dovere, quale si manifesta nella rivelazione morale, riunisce tutti i caratteri di un principio primo. È essenziale alla morale, è semplice, evidente, universale, superiore a tutto; non dipende da una dottrina; s'impone egualmente all'uomo del popolo ed allo scienziato. Noi sentiamo tutti che la virtù non s'insegna, e la rivelazione morale è l'insegnamento della natura; sentiamo che la scienza non è necessaria alla virtù, che l'eroe può ignorare la formola scientifica del principio obbligante; e nel fatto la rivelazione morale si palesa al momento dell'azione senza bisogno d'interpreti e di logici. L'intelligenza non può spiegare l'obbligo se non con similitudini meccaniche suggerite dall'idea di subordinare i mezzi allo scopo; in queste similitudini l'essenza stessa del dovere svanisce, si identifica con un interesse, e quando lo scopo non può esser raggiunto, dispensaci dal metter mano ai mezzi. Perchè sfidare la morte in un inutile combattimento? Ma la rivelazione ci addita imperiosamente lo scopo; e poco le cale che sia possibile o impossibile di raggiungerlo; bisogna combattere, nè si può retrocedere; è mestieri esser giusto qualunque sia l'evento.



Capitolo III

LA RIVELAZIONE MORALE DETERMINA LE CONDIZIONI
DELLA MORALITÀ


Il dovere suppone tre condizioni: la libertà, il merito e la sanzione: le tre condizioni sono fissate dalla ispirazione giuridica, che rivelandosi ci dichiara liberi, responsabili delle nostre azioni, e degni d'essere puniti o ricompensati.
La libertà si svela nella coscienza; ivi appare inseparata dal dovere, e immanente ad ogni azione morale. Fuori della coscienza, la libertà svanisce. Togliamo noi lo sguardo dalla rivelazione morale per recarlo sullo spettacolo della natura esteriore? Dinanzi alla storia, dinanzi alla politica, la fatalità delle cause e degli effetti trae seco gli uomini e le moltitudini, disponendo dei vizi e delle virtù. In noi l'uomo è figlio delle sue opere, fuori di noi è figlio della natura; finchè noi operiamo immedesimati coi nostri cittadini, dominiamo la fatalità; se ci osserviamo noi stessi quali spettatori, siamo servi delle circostanze. Nella sua coscienza ogni popolo tiranneggiato deve accusare la propria corruzione. Vuole osservare sè stesso qual mero spettacolo di vitalità? Può accusare il clima, la tradizione, il governo, la conquista, tutto, fuorchè la sua volontà, figlia delle circostanze che la fanno nascere. Sarebbe questa una contraddizione? Sì, quando si voglia passare matematicamente dal mondo reale al mondo morale; no, se vien rispettata la misteriosa distinzione che ha sottoposto i due mondi a due leggi contrarie. Ogni atto è moralmente libero e fisicamente fatale: per la logica lo stesso atto, come libero e non libero si palesa assurdo. Ma qual'è quest'assurdo? Quello che vieta agli oggetti di mutare, di subire le leggi contrarie dell'atomismo e della chimica, della chimica e dell'organismo, dell'organismo e del pensiero; se si ascolta la logica che dichiara impossibile l'azione moralmente libera, fisicamente fatale, bisogna negare, in Un colla libertà, tutte le cose della natura e tutti i pensieri dell'uomo. E così, la libertà appare, dunque esiste: non appare se non nel mondo morale, dunque rimane nella sfera della morale.
Il merito segue la sorte della libertà. Posto il sentimento della libertà, sentiamo le nostre azioni libere e spontanee; intuita la libertà ne nostri simili, più non possiamo considerarli come automa. Qualunque siano le nostre teorie, le nostre convinzioni, noi non possiamo rimanere indifferenti all'ingiuria e all'elogio; la rivelazione morale ci sforza a stimare o a disprezzare i nostri simili. Dimandiamo conto del merito alla logica? Essa vorrà transire dal morale al fisico, dal merito alle forze meccaniche; riporrà il merito nell'organizzazione, nel temperamento, nelle circostanze, il merito svanirà. Secondo la logica, Nerone, Socrate, Ulisse, Tersite sono creazioni egualmente fatali, egualmente meritorie, o piuttosto egualmente irresponsabili. Ma hannovi due rivelazioni, due mondi, due serie di fenomeni schiettamente separate ed opposte; la logica, che non può riunirle, deve esserne dominata e vinta dalle due rivelazioni, essa afferma il merito nel mondo interiore, distruggendolo nel mondo fisico. Così nella serie fatale dei fenomeni storici, Socrate doveva apparire, e soccombere; la Grecia doveva produrlo e sacrificarlo; Melito era predestinato a condannarlo, e Platone a celebrare la sua morte. Qui il merito sparisce. Se c'identifichiamo coll'azione di Socrate o di Melito, la fatalità si trova surrogata dalla moralità; stimiamo il sacrifizio, disprezziamo l'egoismo, e la logica stessa ristabilisce quella nozione del merito ch'essa nega nella serie delle cause e degli effetti.
La sanzione è la conseguenza inevitabile del merito. Stando alla logica, la sanzione si ridurrebbe ad un premio, ad una pena; essa pagherebbe la virtù, multerebbe il vizio, trasformerebbe la morale in un traffico mercantile, la dissolverebbe. Ma se si rimane nella coscienza, nel campo della rivelazione morale, al fenomeno del merito succede necessariamente quello della sanzione. L'uomo morale si sacrifica senza sperare alcun premio, rifiuta il prezzo del suo sacrificio, vuole star solo colla sua responsabilità, vuol essere quello che è. Questo è il merito nella sua grandezza tragica. Ma noi, spettatori del sacrifizio altrui, sentendo il merito, sentiamo il dovere di premiarlo; lesi dal misfatto, il diritto di punirlo. Sotto l'aspetto esterno le leggi formano il sistema materiale dei dolori e dei piaceri; sono dettate dall'utile, governano cogli interessi, si spiegano colla forza; la società si fonda sui tribunali e sugli eserciti. Sotto l'aspetto esterno, il codice penale è, come fu detto, il commentario del codice civile; e il codice civile è un'opera di guerra, bellica meditatio. Sotto l'aspetto esterno vediamo i popoli fatalmente sottoposti alle loro leggi, formati dai loro legislatori; cambiano di costumi e d'abitudini, s'innalzano, cadono sotto l'impulso meccanico del piacere e del dolore. Ma sotto l'aspetto interno, dinanzi alla coscienza, il sistema della forza è un sistema di libertà; l'opera materiale dipende dalla potenza invisibile del merito; la guerra suppone il coraggio de' soldati; e la sanzione del trionfo suppone la forza di una abnegazione tragica che non cura mercede.



Capitolo IV

L'UTILE DETERMINA IL DOVERE


La rivelazione morale si manifesta egualmente nella giustizia, e nell'ingiustizia trovasi egualmente nella società e sulle galere: il cinismo si sacrifica quanto il pudore; l'uomo che si vendica, s'immola alla sua opera; il vizio può essere libero, meritorio quanto la virtù. Cesare Borgia ha il suo punto d'onore quanto Washington, Erostrato è più disinteressato di Napoleone, don Giovanni, che non paventa l'inferno, è più eroico di sant'Agostino, che conta sul paradiso. Fin qui l'obbligazione e le tre condizioni della libertà, del merito e della sanzione, riduconsi a una maniera d'orgoglio o di dignità che ci impongono di conservare la nostra volontà, di persistere nel nostro interesse, a dispetto della morte. Dopo verificata la rivelazione morale ci rimane di determinare il dovere: qual'è adunque il principio che vincola l'animo nostro alle formole della giustizia? Il vincolo dell'utile.
Nessuno ci contesterà che, soppresso l'utile, svanisce ogni dovere. Il delitto scompare quando non nuoce ad alcuno, anche la virtù scompare quando non serve a nulla. Quali sono le più grandi scelleraggini? Le più nocive, quelle che recano maggior danno alla società,! Quali sono le più grandi virtù? Le più utili, le più profittevoli all'umanità. Esageriamo il sacrifizio, prodighiamolo negli atti più indifferenti, cadremo nel fanatismo de' devoti, negli scrupoli de' dementi, nella pazzia. Se fossimo tutti fisicamente insensibili e moralmente invulnerabili, saremmo sciolti da ogni dovere, e non avremmo alcun diritto. Così la legge del sacrificio è provocata dall'interesse, si sviluppa coll'interesse, e cessa quando cessa l'interesse: come dunque misurare la giustizia, se non coll'utile? L'utile è l'antitesi della giustizia, e in pari tempo è il solo termine che possa misurare la tesi naturale del giusto; nella stessa guisa, che le tenebre misurano la luce, la malattia misura la salute, gli oggetti immobili misurano il moto.
Si dirà: «L'interesse è capriccioso, non può imporre alcun precetto; libero nella scelta del piacere e del dolore, in qual modo potrebbe vincolarsi ad un dovere? Ora l'interesse perdona, ora si vendica: ora ama, ora odia: determina i doveri? potrà determinare due doveri contradditorii, due morali che si escludono a vicenda?» No; l'interesse non è capriccioso; ma fatalmente prestabilito della natura. Noi non siamo i signori del mondo, non siamo gli inventori della nostra organizzazione: la natura ci forma, ci domina; dispensa il piacere ed il dolore, la letizia e la tristezza: è la natura che spinge l'uomo alla famiglia, la famiglia alla società; che crea l'industria, il commercio, i mille bisogni de' popoli inciviliti. Dunque l'interesse è fatale, più forte della ragione, più potente della volontà: e il fato dell'interesse determina la serie dei doveri, e trasforma la dignità vaga e generale dell'orgoglio nella dignità della giustizia e nell'orgoglio della virtù. I pretesi capricci dell'interesse riduconsi ad un'ipotesi dialettica. Sotto l'aspetto delle astratte possibilità tutte le passioni possono intervertirsi; si può ondeggiare tra l'odio e l'amore; possiamo chiederci se conviene consolidare o sciogliere la società, soccorrere o perdere i nostri simili; dinanzi al possibile il male diventa bene, e il bene male. Dinanzi alla realtà le astratte possibilità scompaiono, le inversioni conducono alla pazzia, e la rivelazione morale segue lo sviluppo diretto degli istinti. Spetta dunque all'interesse naturale, e quindi generale, il misurare la giustizia.
Una nuova obbiezione si presenta. «Se la rivelazione morale segue passo passo il nostro interesse, essa varierà secondo gli interessi stessi: i principj della giustizia saranno mutabili come le circostanze, il clima, l'incivilimento; la virtù potrà diventare il vizio, e il delitto potrà essere rispettato come la virtù». È quanto succede; ma l'accusa non cade sopra di noi, cade sulla natura. Senza dubbio ogni ordine politico impone un ordine morale, ogni situazione determina i suoi doveri; havvi la guerra tra le religioni, tra le civiltà; la morale di Platone non è quella dell'evangelio, la legge di Cristo non è quella di Platone. Che dedurne? Che nessun uomo è tenuto ad essere superiore alla propria rivelazione. Gli uomini e i popoli devono obbedire alla legge che trovano nell'intimo della loro coscienza: sarebbe puerile il giudicare Achille coi dettami dell'evangelica umiltà; tentatelo; cadrete nel ridicolo inevitabile della parodia.
Spetta al secolo decimottavo il vanto di avere indicata la vera misura della giustizia; la teoria dell'utile, annunziata da Locke e perfezionata da Bentham, aveva solo il difetto di dimenticare il principio stesso che supponeva. Supponeva l'ascetismo, lo invocava: non istabiliva forse per principio l'interesse naturale e generale? l'interesse generale non suppone forse l'abnegazione nell'individuo che ne partecipa? questo sacrifizio non giunge forse fino alla santa contraddizione del sacrificio intero dell'interesse? Supposta la legge del sacrifizio, la teoria dell'utile misurava i doveri, riformava le antiche leggi, mutava l'aspetto della società, precisa ed esatta quanto la meccanica, essa fu applicata da uomini che rinnovavano l'entusiasmo degli antichi apostoli di Cristo. I teologi e i metafisici l'hanno confutata fieramente, le hanno rimproverato con amarezza la soppressione del principio obbligatorio volevano sottinteso che incoraggiasse le passioni, la sovversione della società. L'inganno è patente, si assalivano i meriti più che i difetti della teoria dell'utile, troppo odiosa perchè consacrata dalla rivoluzione. Il vero difetto della teoria non poteva essere scorto nè dai teologi, nè dai metafisici, consisteva nel trascorrere verso la metafisica, nel cedere al falso impulso delle equazioni di Locke, di David Hume e di Condillac. Stabiliva l'utile come principio primo, come apparenza prima, col diritto di spiegare tutte le apparenze. Ne nasceva che dovevasi trarre dall'utile l'antitesi stessa del sacrifizio; quindi ogni apparenza nella quale si manifesta il consacrarsi dell'io ad un interesse universale, doveva sorgere dall'amor proprio, essere un interesse mascherato, un sentimento egoista, divenuto antie-goista per illusione, per errore, per non so quali metamorfosi che la dialettica utilitaria svolgeva parallele a tutte le metamorfosi della sensazione diventata memoria, giudizio, sentimento, ragione, natura, e anche Dio, se occorreva. Calunniavasi la natura umana supponendola teoricamente peggiore più che non è; ma la calunnia perdevasi nella metafisica, e toccando terra, la teoria reclamava poi che l'uomo fosse assai migliore che non era. E convenne cederle, e convenne accordarle che il nobile è un uomo; che il prete è un uomo; che una stessa legge deve governare tutti i cittadini; che il re è una finzione; che la legge deve badare solo all'utile della società; che gli utili trasmondani sono vaneggiamenti, falsi valori a sbandirsi dalla legge; che il protrarre l'espiazione al di là della misura dell'utile è infamia; che il sottomettere ogni delitto terrestre all'espiazione voluta dal Dio cristiano è perversità sciagurata e stolta. Questi sono i meriti della teoria dell'utile, che sopprimeva le mani morte, i fidecommessi, i maggioraschi e gli altri baluardi del clero e della nobiltà; combattendo sempre a nome dell'interesse pubblico, e poi immedesimandosi con tutte le scoperte dell'economia politica, perchè ogni utile concetto fosse attuato nel seno dell'Europa, troppo lungamente illusa dalle chimere di un bene, nel cui nome si desolava la terra. Se l'eclettismo francese, se tanti professori, in mezzo alla dottrina loro egoisti e servili, avessero detto tutto il vero sulla teoria dell'utile, noi applaudiremmo senza amarezza; ma dicono il male, taciono il bene, sottilizzano, tolgono un errore metafisico affinchè s'inciampi in un'altra metafisica, la quale spinge diritto all'inciampo massimo della religione e quei che predicano il principio della giustizia sono quelli che guidano all'ingiustizia.



Capitolo V

LA MORALE E UN'OPERA DI POESIA
E DI SCIENZA

Il diritto si fonda sulla coscienza e si misura coll'utile; esso è dunque un'opera di ispirazione e di calcolo.
L'ispirazione giuridica non può essere descritta direttamente; si sente come le altre ispirazioni; la parola non può indicarla se non per mezzo di metafore e di figure. Dunque, il poeta è il testimonio privilegiato, l'interprete naturale dell'ispirazione giuridica; solo egli afferra la poesia della vita, e pertanto solo può afferrarne l'antitesi giuridica: signoreggia le armonie della felicità, quindi svela necessariamente le armonie del sacrifizio. Sciolto da ogni vincolo reale, libero di creare gli eroi, d'inventare un mondo fantastico, dipinge la vita meglio dello storico, e pertanto sviluppa la rivelazione morale più veracemente dello stesso legislatore. In lui questa rivelazione si svela fatalmente e involontariamente a tal punto, ch'egli, testimonio del diritto, può ignorare la legge che descrive. Gli è così che il Ramayana, l'Iliade e la Divina Commedia sono i più grandi monumenti dell'ispirazione giuridica. Siano direttamente interrogati, non vi si troverà alcuna legge, alcun dettato giuridico; i minuti particolari dell'antica legalità vi saranno assolutamente soppressi, se vi si incontrano sarà a caso, e non c'istruiranno. Il frammento di una legge antica sarà più esatto che la più sublime delle epopee. Ma la poesia ci mostra la coscienza dei popoli, l'entusiasmo della giustizia, la forza dei principj, e quel furore di sacrifizio che precipita i popoli alla guerra, alla morte per difendere il diritto.
Grozio cita di continuo i poeti, adorna le sue dimostrazioni colle massime degli antichi; si sforza di mostrare che i poeti confermano il suo dire, che il genere umano ha sempre approvato le sue dottrine. Il concetto era profondo; il metodo falso. Interrogata materialmente la poesia, dà responsi contraddittorj o insignificanti; invece di mostrare l'umanità del genere umano nelle idee del giusto, mostra la guerra universale dei dogmi ed i diversi diritti che ne scaturiscono. Grozio entrava senza guida in un labirinto senza uscita; le sue citazioni poetiche, lungi dall'illustrare la sua dottrina, l'avrebbero oppressa se non fossero state scelte a disegno, vale a dire con mala fede letteraria, giustificata da un errore scientifico. Il libro di Grozio, spinto alle ultime conseguenze nelle autorità e nella teoria, nelle note e nel testo, metterebbe in contraddizione la poesia e la giustizia, l'autorità del genere umano e le dimostrazioni della ragione. Da un lato ci mostrerebbe la poesia variabile, inconsistente, senza fermezza, senza coerenza; dall'altro lato, ci mostrerebbe l'astratta giustizia, ignorata, rinnegata dai legislatori e dai poeti dell'antichità e de' tempi di mezzo; i quali certamente non avevano i concetti, nè la ragione, nè la dottrina del primo fondatore del diritto delle genti. I poeti che Grozio invoca distruggono la sua teoria. La poesia, lo ripetiamo, deve essere interrogata solo dal sentimento, dalla poesia stessa che ci anima ed istruisce solo colla bellezza, fatta astrazione dall'intento, dalla scienza e dalle stesse massime del poeta. Allora il diritto si rivela uno, coerente, ammirando; allora Walmiki, Omero e Dante ci presentano le tre grandi armonie morali dell'India, della Grecia e del medio-evo. L'Iliade ci fa intendere l'ira di Achille e il diritto eroico, nè può spiegare l'una senza svelare l'altro. Questo diritto è barbaro, contrario alla nostra giustizia; eppure la bellezza lo consacra; Omero c'insegna la rivelazione morale dei tempi. antichi. I testi delle leggi vetuste avrebbero potuto porgere notizie più copiose, più fide, avrebbero potuto atteggiar meglio gl'interessi eroici, il sistema dei premj e delle ricompense, l'ordine esterno e meccanico della vita greca. Ma la vita stessa ci sarebbe sfuggita.
Finchè trattasi di verificare la forza morale, il poeta è il solo testimonio dell'ispirazione giuridica. Dobbiamo determinare le nostre azioni? Allora convien misurare gli interessi, che non si estimano se non col calcolo meccanico; conviene comandare alcune azioni, vietarne altre, convien disporre della forza pubblica, minacciar pene, prometter premj. Qui l'ispirazione non basta, è vaga, è incerta. Il legislatore deve farsi politico, economista, deve fondarsi sul mondo visibile se vuol governarlo. Quindi il legislatore obbliga coll'ispirazione, comanda col calcolo; coll'ispirazione vincola la coscienza, colla scienza domina l'intelletto. Quindi nel momento in cui propone la sua legge, è sempre poeta e scienziato. Egli è poeta perchè parla alla coscienza di giustizia, di gloria e di onore, cerca di commuovere; in pari tempo è scienziato, perchè deve dimostrare in un modo positivo e meccanico la necessità della sua legge.
La scienza del legislatore non sarà mai se non la scienza dell'utile. I principj del vero e dell'ordine su cui si fondarono tanti moralisti, intervengono nella morale subordinati all'utile. Perchè la morale invoca il vero? Perchè il vero è utile, e c'interessa. L'interesse non è il piacere d'un istante; è il complesso de' nostri piaceri; deve abbracciare la vita, comprenderne il disegno; quindi deve fondarsi sul vero; quindi il vero non misura la giustizia se non per mezzo dell'interesse. I teologi dicono che la morale dipende dal dogma: perché? Perchè il nostro interesse dipende dal dogma. Se io credo ad un Dio vendicatore, che minaccia eterne pene, questo Dio, queste pene, queste due realtà costituiscono il mio interesse supremo, e mi dettano tutti i miei doveri: io son servo della religione, non posso più trascurare la più frivola delle sue pratiche. Che se il buon senso si desta in me, e m'apprende che il Dio vendicatore e le pene infinite dell'inferno son sogni di secoli barbari, il nuovo dogma costituisce un'altra morale, che sarà quella dei naturali interessi.
Quanto si dice del vero può applicarsi al principio dell'ordine. L'ordine è il calcolo dell'interesse, l'interesse pone lo scopo, la ragione determina a mezzi per raggiungerlo: questo è l'ordine. Per sè, l'ordine non è la morale; è un calcolo; havvi l'ordine nel bene, come nel male; nella libertà, come nella tirannia. Ma l'interesse naturale pone lo scopo, sceglie il suo bene, l'ordine suo; e questo fissa e determina i doveri. In questo senso si può dire che, tolto l'ordine, la moralità scompare. In questo senso dobbiamo ripetere con Socrate: «Esser più morale lo scellerato che scientemente viola la legge, che non l'innocente il quale obbedisce ignorandola».
Opera di scienza e di poesia, la morale resta sempre sempre interessata ed ascetica: in ogni rivoluzione la morale ci si affaccia sotto due aspetti, la sua legge è sempre interpretata da due rivelatori: l'uno valuta l'interesse, l'altro spiega il dovere. L'uomo dell'interesse è preciso, categorico, ama la vita, l'esprime liberamente; è ironico, imperativo, positivo, poi facile alle transazioni poichè vuol vivere. L'uomo del dovere lo segue dappresso; questi è triste come un mártire, iracondo, è poetico; disprezza la scienza, disdegna la precisione; ma è più sicuro, più preciso della stessa scienza, perchè il cuore non gli manca nell'azione. L'uomo dell'interesse ragiona; l'uomo del dovere inveisce. Tale è il rivelarsi d'ogni nuova morale: nell'antichità troviamo prima la dualità di Aristotele e Platone, poi di Epicuro e Zenone; nel medio-evo scorgiamo Abelardo e san Bernardo; all'epoca del risorgimento la morale ispira contrariamente Machiavelli e Campanella, poi nel secolo decimottavo scorgiamo l'antitesi di Voltaire e Rousseau. Ma la riunione dei due tipi è necessaria per formare l'insieme, in guisa che ci convien sempre ripetere il motto: scientia sine charitate inflat, charitas sine scientia aberrat.
L'unione della scienza e della carità si attua negli uomini di azione: senza l'intelletto, senza la vita che li ispira, dove troverebbero la prontezza, la rapidità del concepire, dell'operare e l'opportunità istantanea che li fa essere i capi del popolo, i primi de' loro simili? D'altra parte, senza la carità, senza la fede, apparterrebbero a sè stessi, non agli altri; non sarebbero uomini d'azione. Quindi la dualità dei rivelatori svanisce nell'azione; ogni grand'uomo all'opera è sempre doppio, intelletto e fede; interesse e giustizia. L'unità vedesi nei fondatori delle religioni: Budda fonda da solo il Buddismo, Cristo non ha eguali, Maometto non ha compagni nel potere; lo stesso vale di Teseo, di Romolo, di Teuth, di Cecrope, tutti solitari nella loro grandezza, senza che alcuno divida la loro gloria o dispieghi a canto ad essi la rivalità di un contrapposto necessario a renderli compiuti. Ciò che in essi trovasi necessario è l'unità. La politica e la poesia riconoscono egualmente siffatta necessità. La politica dichiarava già con Machiavelli esser mestieri all'uomo che fonda uno Stato o una religione di esser solo all'impresa: il fato stesso del meccanismo lo vuol solo all'opera; e Machiavelli citava Romolo, che si scioglieva da Remo e da Tazio: regola eterna a cui il Cristo e Budda si conformano egualmente. È probabile che Teseo, Romolo, Budda non abbiano mai vissuto: che importa? Sono figli della leggenda, figli dell'epopea, e la poesia non s'inganna, essa pure vuole l'unità nell'uomo d'azione. Essa non lo segue nella necessità meccanica che lo fa esser uno all'opera; nè quando uccide Tazio o Remo, non lo segue nel lavoro materiale e minuto, per cui stabilisce il suo io solo al cospetto del popolo, la poesia fa di più; contemplando la civiltà nel suo procedimento, la vede una, la scopre una, vede la fede e la vita, l'ascetismo e l'interesse, la carità e la scienza congiunte nella civiltà; e il traslato che la fa essere opera di un artefice, trasporta necessariamente all'artefice l'unità. - V'ha nella storia della filosofia un momento solenne, come l'apparire di. una religione; è il momento di Socrate: qui un uomo deve raccogliere le rivelazioni di tutte le scuole, e sfidare sulla piazza di Atene gli Dei di tutta la Grecia. Ebbene, Socrate è solo, nessuno lo compie; non incontra neppure un avversario che sia la sua antitesi, è un uomo di azione, cioè intelligente e credente, vitale e disposto al sacrifizio della vita. - Scorgesi quindi che il martirio non emana dalla sola fede; è doppio come ogni atto solenne, deve essere un'azione intelligente, giungere a tempo, nè prima nè dopo l'ora prestabilita nel corso de' secoli; deve disegnare un nuovo sistema, e tracciarne il disegno con tal forza, che resti nella mente di tutti, deve forse fuggire come Cristo inseguito dal popolo perchè nulla manchi al previo lavoro, nè sia possibile allo sciagurato trionfatore di allegare la scusa dell'ignoranza; Quando il pensiero è concetto, disegnato, esposto, quando il profeta vivendo della sua vita naturale e imperterrita, soggiace fatalmente alla scure senza che la vanità del morire lo tragga al supplizio, allora il martirio si svela nella sua grandezza. Senza la fede il mártire è un fallito; senza l'intelligenza è un infelice: e ognuno deve esser giudice colla sua intelligenza, colla sua fede. Anche i carnefici? Si; anch'essi devono sapere che toccano una persona sacra, assolutamente assorta nel suo pensiero, assolutamente pura, sì che dinanzi al mártire che spira, altro non rimanga al nemico se non di dire come gli Ebrei dinanzi a Cristo spirante sulla croce: questo infelice voleva salvare il genere umano, e non seppe salvare sè stesso.
L'unione della carità e della scienza sarà sempre una contraddizione; la carità è una follía per la scienza, la scienza un egoismo per la carità. I due termini si accusano a vicenda: ma conviene accettare tanto il loro contraddirsi, quanto il loro apparire. Volendo lottare contro l'antinomia che li strazia, si cade necessariamente nella metafisica col lungo e interminabile dibattimento tra la fede e la ragione. Il cristianesimo aveva inteso la realtà della fede e della ragione, ed esigeva la fede e credevaosi vero. Quando si volle che il cristianesimo divenisse logico e coerente in ogni suo punto, si volle la fede conciliatacolla ragione: si considerò quindi la fede nelle cose credute, la ragione nelle cose ragionate: la fede fu identificata colla leggenda cristiana, la ragione colla scienza propriamente detta. Ma la leggenda e la storia, il Cristo e la natura si contraddicevano, la contraddizione era positiva; abbisognava una soluzione, e la soluzione era evidente; consisteva nel respingere l'errore per seguire la verità, nel negare la leggenda per accettare la storia. Per mala ventura la soluzione doveva esser data dalla metafisica, ch'era la scienza del tempo; ma essa confuse la contraddizione positiva dela leggenda e della storia colla contraddizione eterna della fede e della ragione. Invece di negare gli errori del cristianesimo, cercò ad un tempo l'equazione tra la leggenda e la storia, tra il Cristo e la natura, tra la fede e la ragione. Talora spiegò la natura, la ragione colla fede, talora spiegò la fede, il cristianesimo colla ragione. Questo lavoro stravagante creava la scolastica.
Si seguano tutti i dottori da Abelardo fino ad Occam; si troverà che tutta la scolastica è lo sforzo supremo dello spirito umano per trovare un passaggio dalla fede considerata nelle cose credute, alla ragione considerata nelle cose ragionate. Che fa Abelardo? Scrive il sic et non, espone le tesi e le antitesi del cristianesimo. Che fa Pietro Lombardo? scrive il libro delle sentenze, in altri termini, il libro dei problemi. Qual'è il grande problema della scolastica? Lo abbiam detto, è il problema dell'individuo e del genere, collegato coi problemi dell'eucaristia, del verbo, della trinità, e in generale colle contraddizioni positive del cristianesimo. Qual'è la forma stessa della scolastica? È la disputa: incomincia coll'obbiezione, interroga sempre, l'interrogazione è sempre ostile al dogma; e se riassumonsi tutte le obbiezioni opposte dalla scolastica al cristianesimo, si vede che Bayle e Voltaire vi si trovano previsti, e ch'essi aggiungevano poco al tesoro delle obbiezioni scolastiche, sì che la Chiesa non affatto a torto afferma di non aver appreso nulla dai nostri sull'inconsistenza delle proprie leggende. I teologi erano acerbi nell'oppugnare il Cristo, essendo fermi nella speranza che la soluzione metafisica discenderebbe dal cielo coll'equazione della fede e della ragione.
Dopo il risorgimento, la leggenda si separa dalla scienza; il teologo e il filosofo non sono più una medesima persona, si dividono; e la fede resta al primo, la ragione al secondo. Qui la teoria della fede subisce una nuova fase, ma sempre metafisica. È inteso che la filosofia è la ragione, è inteso che il teologo è l'uomo della fede, è dunque inteso che la fede è fuori della ragione, vale a dire cosa ecclesiastica e antifilosofica. Questa convinzione si trova in tutte le scuole; le une disprezzano la fede come un errore di uomini assurdi per mestiere, le altre la lasciano alla Chiesa come un mistero nel quale dichiaransi incompetenti; altre ancora adorano umilmente la fede dichiarando che sta assolutamente al di fuori della scienza, e suppone un metodo, una logica, un procedere non scientifico: tutti sono unanimi nel mettere la fede al bando della filosofia e della ragione. Era questo un progresso? Sì, qualora noi consideriamo il solo emanciparsi della mente, il discredito dell'errore, l'attrazione del vero che sottrae all'impero della leggenda cristiana i filosofi tutti, siano essi atei come Pomponaccio o credenti come Malebranche. Ma la teoria della fede entrava nella più infelice delle sue fasi; alle equazioni errate degli scolastici succedeva la negazione stessa della fede e la filosofia, collo sbandire la fede condannava sè stessa, rimaneva impotente, rimaneva senza fede, in un mondo di astrattezze; la metafisica si stabiliva come vera metafisica incapace di toccare la terra e di governare gli uomini. Così, quando Leibniz e Locke con due sistemi opposti parlano della fede, si direbbero insensati. Leibnitz prende la fede nella sua attuazione cristiana. «Si può paragonare la fede,» dice egli, «all'esperienza, poichè la fede, quanto ai motivi che la verificano, dipende dall'esperienza di coloro che hanno visto i miracoli, su cui la rivelazione è fondata.» Sempre Leibnitz confonde la fede col sapere: l'equazione tra la fede e la ragione, è compiuta, sostituisce dovunque la ragione alla fede. Leibnitz crede o affetta di credere ai miracoli, ai misteri, come si crede (il paragone è suo) all'esistenza della China attestata dai viaggiatori. Mai non intende l'essenza della fede, che segue il vero senza confondersi con esso: tosto che il vero ripugna alla fede, Leibnitz nega la fede. Che dice dell'entusiasmo? «È il nome che si dà», dice egli, «al difetto di coloro che credono ad una rivelazione soprannaturale (immediata).» Dunque l'entusiasmo è un difetto, la fede e un imperfezione: dunque tutto deve ridursi al sapere meccanico e miscredente tosto che il dubbio ci assale nell'azione. Locke si spinge più oltre. «L'assentimento», sono le sue parole, «che accordiamo alla rivelazione soprannaturale si chiama fede. Essa determina «la nostra mente, esclude il dubbio quanto può farlo la nostra cognizione, perchè possiamo dubitare della nostra esistenza quanto possiamo dubitare che una rivelazione procedente da Dio sia vera. Così la fede è un principio di assentimento e di certezza sicuro e stabilito su basi irrepugnabili, e che non lascia alcun luogo al dubbio ed all'esitazione. La sola cosa di cui dobbiamo assicurarci si è di sapere se questa o quella cosa è una rivelazione divina, e se noi ne intendiamo il vero senso: senza di che saremmo esposti a tutte le stravaganze del fanatismo e a tutti gli errori che possono essere generati da falsi principj, quando si presti fede a quanto non è divinamente rivelato.» Vedesi apertamente che per Locke la fede non è se non la credenza a una verità religiosa rivelata, credenza la cui natura è identica colla credenza alle matematiche ed alle scienze fisiche. La fede di Locke e di Leibniz è tutta contemplativa: è la scienza, non è la fede. Quindi Locke esagera il disprezzo di Leibnitz per l'entusiasmo; consiglia l'indifferenza, perchè l'ignoranza e l'indifferenza, disse egli, sono più vicine al vero, che non l'errore. In sentenza di Locke la fede non è se non un fermo assentimento; egli la vuole avvalorata dalle prove, la riserva alla rivelazione, e la nega all'entusiasmo, ove la trovi sola.
L'errore dei metafisici era profondo e corrispondevagli nella teologia l'errore, non meno profondo, che nega la ragione. Concludiamo: hannovi le antinomie della fede, havvi l'apparire della fede. Sono note le prime, e non hanno soluzione: che cosa è dunque la fede? Quello che appare ad onta delle sue contraddizioni: non è una data religione, non è il cristianesimo, non è la credenza all'incredibile; non è la credenza al fatto provato della scienza. Credete voi alla vostra esistenza, all'esistenza del mondo, alla matematica? Questa non è fede. La fede appare solo nell'azione morale quando il dovere lotta coll'interesse. Allora se chiamato al sacrifizio, voi decidete che la verità non sia vera, se esitate nella speranza di sottrarvi al sacrifizio per mezzo d'un accidente, se sperate che il combattimento possa essere differito, lasciato ad altri, soppresso, mancate di fede. La fede si distingue dalla cognizione, come l'azione dalla contemplazione. La fede è adunque un fatto sui generis; la ragione lo trova ridicolo, assurdo, insensato; ma essa appare nel soldato, nel mártire, nel filosofo, ne' fondatori delle religioni e negli uomini della rivoluzione. Dunque essa è: come ardireste negarla voi, che l'ammirate?



Capitolo VI

IN QUAL MODO L'INTERESSE DETERMINA
LA MORALE

L'interesse misura la morale; ci rimane a vedere in qual modo la misuri e lo mostreremo con due specie di casi; gli uni incontrastabili, gli altri dubbi.
Havvi una morale privata che non può essere contestata. Noi dobbiamo vegliare sulla nostra conservazione, mantener sano il corpo, fortificarlo, assecondare l'istinto, non resistere alla natura, non mutilare il nostro essere. Chi determina il dovere di conservarci? L'interesse: esso riconosce i nostri bisogni, li misura, mostra il modo di appagarli, prefigge lo scopo della conservazione, subordina i mezzi allo scopo, benchè l'ispirazione che traduce lo scopo in dovere sorga dal fondo del nostro cuore parallela allo sviluppo della nostra natura interessata. Noi dobbiamo perfezionarci: perché? L'interesse solo risponde; ci mostra che la nostra sorte dipende dal nostro sapere; che, fuori del vero, non havvi salvezza; che per conservarci dobbiamo perfezionarci. Insomma, l'interesse ci vuole prudenti nel deliberare, temperanti nel godere, forti nell'operare; la prudenza, la temperatura, la forza, sono utili, ci difendono, ci proteggono, ci perfezionano, benchè l'obbligazione provenga dalla nostra dignità, dal sentimento interno, da un ritmo morale, che ci avverte essere una violazione di noi stessi il darci sconsigliatamente alla intemperanza, alla paura, alla codardia. Siamo sempre consigliati dall'interesse, benchè sempre sostenuti dalla legge del sacrifizio; la morale privata è un'arte come la danza, come la pittura, è l'arte dell'egoismo, benchè confidata a un io ancor più interno dell'io interessato, per cui nel fondo della coscienza ogni nostro interesse deve essere difeso a costo della vita.
La morale pubblica che governa le nostre relazioni coi nostri simili si fissa alla volta sua coll'interesse. Quando la legge comanda di non uccidere, di non ferire, di non rubare, di non fare ingiuria, essa esprime l'interesse generale dell'umanità: quando comanda di fare agli altri quanto vorremmo fosse fatto a noi stessi, annunzia ancora un precetto d'interesse generale. Quando consiglia di soccorrere ai nostri fratelli, di istruirli, di propagare la verità, di non mentir mai per alcun vantaggio che ne possa ridondare, che altro cerca la morale se non la nostra felicità? Qui ancora l'interesse parla senza obbligare, ma la voce del cuore obbliga e traduce un calcolo in un comando imperioso. La voce del cuore può intervertirsi e consigliarci di sfidare l'umanità. Non hannovi forse uomini fatalmente proclivi all'omicidio? Il ladro non può forse darsi all'opera sua coll'entusiasmo di un artista? un governo perverso non è forse sollecito di spegnere il pensiero, di rendere inutile il genio, nulla la scienza? La voce del cuore è doppia. Per buona ventura havvi l'interesse naturale e universale: questo non si sviluppa al certo nè col furto, nè coll'omicidio, nè colla compressione del pensiero, nè coll'assopimento della ragione; e l'interesse fissa la virtù, e impone di combattere gli omicidi e i ladri.
Vi sono casi dubbi, abbiamo detto: essi dividonsi in due classi: riponiamo nella prima i casi di conflitto, nella seconda i casi di coscienza.
I casi di conflitto sono quelli della guerra, della lotta, della rivoluzione: quando le idee s'innovano, il diritto si rigenera. Abramo dimanda alla legge civile la libertà di trucidare il figlio; la nostra legge lo condanna per tentato parricidio: chi ha ragione? La soluzione è semplice: seguite la legge nella quale avete fede, seguite la verità, non havvi altro precetto, e se questo autorizza la guerra, si è che la guerra è voluta dalla natura. Però il conflitto non cade mai sul diritto propriamente detto, ma sulle idee, sul sistema sociale; Dio voleva realmente il sacrifizio d'Isacco? Vuole Iddio che il cattolico cresca nell'ignoranza i suoi figli? È necessario condannare al fuoco gli eretici? Queste sono questioni di fatto: il diritto rimane sempre lo stesso presso tutti i popoli: lascia sempre loro il diritto di difendersi, di salvarsi. S'io sono assalito da un fanciullo, ho il diritto di castigarlo; se da un uomo avrò forse il diritto di ucciderlo: la mia difesa è un diritto che senza mutarsi si attua solo nella proporzione dei mezzi necessari per proteggermi. La mia mano basta? o abbisogna la spada? È questione di mero fatto. Così ogni rivoluzione non diviene questione di giustizia se non perchè la verità medesima è messa in dubbio, contrastata da due tesi opposte: l'incertezza del diritto non è nel diritto, ma nella lotta di due sistemi meccanici, i quali, sotto forme opposte, esprimono l'interesse generale.
Nella seconda classe dei casi dubbi abbiamo posti i casi di coscienza: il duello è uno dei punti incerti della casuistica de' filosofi. È lecito il duello? Il dubbio non può essere sciolto se non dal principio dell'utilità naturale e generale. Da una parte il duello sembra utile per proteggere la dignità personale, per costringere ogni uomo a pesare le sue parole, le sue azioni: d'altra parte, sembra che riponga la moralità in un atto esterno, che l'abbandoni al caso, che favorisca l'audace, che tenda a sanzionare l'omicidio. La causa del dubbio risiede nel conflitto di due interessi opposti; l'uno sorge da un ordinamento antiquato della società, dalle tradizioni, dalla educazione; l'altro emerge da più alte considerazioni sui doveri e sui destini dell'uomo. Come toglierci al dubbio? Seguendo il sistema che ci domina: accettate la sfida o rifiutatela; ma non esitate. Se non avete fede nella legge più alta che ripone in voi la moralità, che disprezza le superstizioni del medio-evo, se non credete alla legge che vi impone di essere uomo e non cavaliere, se in voi l'uomo antico non è spento, se vivete coi pregiudizi dell'antica società adottandone gli usi, l'antica legge deve essere sacra per voi; invocando la nuova legge mentireste alla vostra coscienza; parlereste di virtù per mascherare una viltà.
Ho parlato del duello: il dubbio si riproduce sotto mille forme nelle epoche rivoluzionarie, ad ogni istante ci sentiamo tra due leggi opposte; e sempre figlio del conflitto di due opposti sistemi, come il dubbio sulla moralità di Abramo. La regola rimane sempre la stessa, convien seguire l'insieme del sistema adottato; nessuno ha l'obbligo di essere superiore alla rivelazione da lui ricevuta, e nessuno potrà mostrarsi superiore alla coscienza che lo ispira. Così se sorge un regicida, lo mirerò quando s'avvia al patibolo; il suo sguardo, il suo incesso, mi diranno se abbia tentato un colpo temerario o un fatto eroico: alle barricate guarderò gli uomini delle barricate; il loro contegno mi dirà se sono ebbri di chiasso e di polvere, o cittadini che compiono un dovere.
Il dubbio morale sorge adunque dal dubbio sugli interessi accettati; il qual dubbio sorge dal conflitto de' sistemi che si succedono nella storia. Se cessiamo di seguire l'apparenza dell'interesse e quella dell'abnegazione, ogni transizione ci renderà assolutamente perplessi; la morale cercherà un'uscita colla metafisica dei precetti. Sarà stabilito un dato dovere come primo principio; e la logica, volendo subordinargli tutta la serie crescente o decrescente dei fatti transitorj, ci condurrà alla negazione del dovere. Prendiamo un esempio: rispetto alla legge, ecco un assioma: havvi un momento in cui quest'assioma deve cedere ad un principio opposto: rispetto alla vera legge. I due assiomi siano posti a paragone; governino una serie crescente di fatti: la logica non troverà mai un istante in cui il rispetto alla legge debba cedere al rispetto per la vera legge. Voi siete giudice, dovete punire l'omicida; alcune circostanze possono attenuare la pena, altre circostanze possono cambiare la criminalità dell'atto; l'omicidio può divenire l'incidente di una rissa, di un combattimento, poi il combattimento può essere quasi politico o politico; può essere un tumulto, una sommossa, una rivoluzione. Istessamente il furto è delitto, ma l'intenzione può attenuarlo, la fame può assolverlo, la salvezza pubblica può renderlo necessario, può imporlo contro il monopolista: dove incomincia il monopolio? una libbra, due libbre di farina bastano a costituirlo? Perchè un'oncia di più o di meno renderà colpevole o innocente? Qui la logica scopre le contraddizioni eterne dell'alterazione: i giurisconsulti, che pretendono scioglierle con sottigliezze e distinzioni, cadono necessariamente nel movimento metafisico: sola l'apparenza deve decidere dell'interesse; solo il sentimento perviene dall'affermazione alla negazione morale in ogni precetto sempre contrastato da un contrario precetto.



Capitolo VII

LA MORALE ED IL DIRITTO


Il diritto nasce nell'istante in cui la morale deve difendersi colla forza. Io voglio, io debbo conservarmi, perfezionarmi, voglio soccorrere il mio simile, liberarlo, propagare il vero; taluno s'oppone al mio operare? Posso difendermi; ed è questa facoltà di difesa che costituisce il carattere del diritto.
Il diritto suppone sempre la morale; senza la morale esso cessa, non ha più scopo, nè senso.
Il diritto è dunque una difesa, esso è dunque negativo. Io non ho diritto a veruna azione positiva, non posso chiedervi di essere morale, sincero, riconoscente; ho solo la facoltà di difendermi e di vegliare sul mio destino.
Ma, si dirà, non ho io forse un diritto positivo quando reclamo un deposito? Sì, perchè havvi un patto, una obbligazione contratta verso di me; se si viola, sono leso; ho diritto al deposito, perchè ho diritto di difendermi.
Un'altra obbiezione. Il padre non ha forse doveri giuridici, positivi verso il figlio? Sì, per ciò solo che lo ha generato; con un suo atto gli diede i patimenti della vita, deve alleviarli; vegliare sul destino del figlio finchè non possa governarsi da sè.
Ancora un'obbiezione: se il diritto è negativo, se nessuno ci può costringere ad esser virtuosi, ne risulta che abbiamo diritto ad ogni vizio individuale, che possiamo proteggere i nostri vizi colla forza, e che il diritto può essere l'egida dei vizio. Si, hannovi diritti immorali, benchè il diritto difenda solamente la moralità. Perocchè la morale è assolutamente libera, sorge dalla mia volontà, dal mio giudizio, dalle mie idee: se non è libera, non è morale; se la mia azione è forzata, non è santa. Ora, il diritto difende la morale fin nel suo principio, nell'essenza stessa della sua libertà; per proteggere la virtù, protegge il vizio. Essa difende la perversità meramente individuale, solitaria, inoffensiva, per difendere la moralità del genere umano. Ma il diritto immorale non è mai positivo, è sempre negativo; l'uomo ha il diritto di essere malvagio per sè, non ha il diritto di esigere l'omicidio anticipatamente pagato al sicario. Di là tutte le differenze tra la morale e il diritto.
La morale comincia in noi, e finisce in noi: protegge l'intero nostro destino: il diritto comincia e finisce fuori di noi, perchè l'uomo assolutamente isolato non avrebbe diritti, nè doveri giuridici. La morale domina tutti i nostri interessi, dirige tutte le nostre azioni; dinanzi ad essa appena possiamo concepire un atto moralmente indifferente. Il diritto ci impone solo di rispettare le azioni de nostri simili; il suo precetto è negativo; quando non è violato dinanzi ad esso tutte le azioni sono indifferenti. La morale tende alla perfezione, aspira di continuo a un ordine di cose in cui tutte le azioni concorrano al più alto scopo che si possa concepire. Quanto più si conosce, tanto più numerosi sono i nostri doveri morali; il più grande degli uomini è sempre predestinato al martirio: quando Dio discende sulla terra, la leggenda lo fa morire sulla croce; al contrario, il diritto è passivo, inerte; si lascia sempre trascinare dalla morale; per sè non ha scopo. La morale, impadronendosi del nostro essere, penetra nel fondo della coscienza, scandaglia l'intenzione, vuol regnare sul mondo invisibile delle nostre passioni, si interessa più del pensiero, che dell'atto, più dell'intenzione, che dell'opera. Non deve forse dominare l'effetto colle cause? Il diritto si ferma nell'atto, non interroga se non l'effetto, non valuta se non il danno recato, nè si cura del pensiero o dell'intenzione.
La differenza tra la morale ed il diritto sotto la pressione della logica può divenir contraddizione, e condurci a concludere che il diritto è morale e immorale, destinato a proteggere il vizio e la virtù. Pure questa contraddizione non è leale, ma fittizia ed emerge dall'atto, che fa della morale e del diritto due cose, e direi quasi due persone distinte; si contempla da una parte la morale, dall'altra il diritto, e si vede quest'ultimo or congiunto, ora in opposizione colla morale; or favorevole, ora ostile alla virtù. D'onde la contraddizione? Dall'essersi trasformato il diritto in un ente astratto. È una difesa, un' egida; è quindi come la spada che assale e difende, protegge e uccide: direte che la spada è buona e cattiva, fausta e funesta? Sarà detto con ragione, se vogliamo considerare i rapporti accidentali della spada quali caratteri essenziali;. Ma quando abbiamoapplicata la logica all'evidenza, l'abbiamo applicata ai rapporti essenziali delle cose. Un albero è grande relativamente a me, piccolo relativamente a quella torre; dirò io che è grande e piccolo? Sì, alla condizione di fare del grande e del piccolo due qualità dell'albero e d'immedesimarle con tutte le astrattezze. Si applichi questo procedere ad ogni cosa, ad ogni rapporto; il numero delle contraddizioni sorpasserà di mille doppi quello delle cose e delle loro relazioni. Persistete voi a considerare contraddittorio il diritto perchè protegge il vizio e la virtù? Io non potrò resistervi; potrete asseverare che la contraddizione passa nell'astratto, perchè prestabilita nel reale: se la spada non fosse ora in mano mia, ora in mano dell'avversario, non sarebbe protettrice e micidiale; se l'albero non fosse distinto da me e dalla torre, non sarebbe grande e piccolo; se la contraddizione non fosse nelle cose, il diritto non sarebbe morale e immorale. Che dedurne? Nulla, tranne la necessità di attenersi all'apparenza, di seguire il diritto nella sua manifestazione, e soprattutto di non ascoltare una metafisica che promette la conciliazione della morale col diritto.



Capitolo VIII

LA LIBERTÀ E L'EGUAGLIANZA

La libertà è il principio stesso del diritto: difende la vita, il corpo, lo spirito, la morale, l'uomo intero; i diritti non sono altro che le diverse forme della libertà. A chi dobbiamo noi chiederla? alle cose? No, all'uomo. Perchè? Non lo sappiamo; lo sentiamo, e sentiamo che la libertà dell'uomo è illimitata quanto la sua perfettibilità. La morale implica la facoltà di scegliere tra il bene e il male; se la scelta è forzata, la morale scompare. La libertà protegge adunque tanto il male quanto il bene. Abbiamo diritto a tutti i vizi personali, come a tutte le virtù; nessuno può imporci la gratitudine o la temperanza, perchè nessuno può toccare alla responsabilità, al merito, al principio d'onde sorge il nostro destino.
La libertà è il diritto d'ogni uomo: collo stabilire la libertà, la rivelazione morale stabilisce in pari tempo l'eguaglianza; la mia coscienza m'impone di rispettare negli altri il diritto che reclamo per me; l'eguaglianza è moralmente contemporanea della libertà. Ora, la logica mette alle prese i due diritti, e li rende impossibili a vicenda. Credete alla libertà? Essa è illimitata; se la limitate, non è più la libertà; la libertà sopprime adunque l'eguaglianza. Non è egli moralmente e materialmente impossibile che più esseri liberi agiscano rimanendo eguali? che l'ineguaglianza delle attitudini, libere di manifestarsi, non violi l'eguaglianza? Al contrario, se stabilite l'eguaglianza, la conseguenza sarà la stessa inversamente presa, la libertà sarà distrutta. Ogni atto sarà subordinato all'operare di tutti i miei simili, ogni atto dipenderà dalla libertà concessami dal genere umano; nè più mi sarà dato di pensare, di agire senza prima avere in ogni cosa ottenuto il consenso dell'umanità. Direte metafisicando che non deesi dimandare una materiale eguaglianza che il diritto conosce solo l'eguaglianza formale, quella che si attua nei contratti? L'antinomia si ristabilisce. Accettiamo l'eguaglianza formale: se due famiglie approdano a un'isola deserta, se la dividono in due parti eguali: questo è il primo risultato dell'eguaglianza che autorizza la divisione, e dimanda l'eguaglianza delle parti. Una famiglia prospera, l'altra cade nella miseria, l'eguaglianza formale esige che il primo contratto di divisione sia osservato; ecco la distinzione del ricco e del povero creata dallo stesso principio dell'eguaglianza. La famiglia povera contrae debiti, ogni anno vende anticipatamente alla famiglia ricca la sua rendita, e finisce per saldare i suoi debiti, cedendo a porzione a porzione tutto il suo patrimonio. Essa rimane senza terra, è ridotta a vivere di lavoro, cade nella servitù del salario. Ecco l'eguaglianza che dà per ultimo effetto la distinzione del padrone e del servo. La famiglia povera è sempre stata libera, mai non ha subita alcuna violenza; i suoi contratti, dalla divisione dell'isola fino all'ultima transizione della servitù, furono stipulati sulla base della più perfetta eguaglianza, e l'eguaglianza ha distrutto la libertà. Direte voi libero lo schiavo? In tal caso la libertà e l'eguaglianza saranno una derisione: il diritto sarà l'artefice della schiavitù; la logica distrugge l'una coll'altra le due prime nozioni del diritto.
La libertà e l'eguaglianza non devono esser considerate quali astrazioni: reali e viventi, esse sono consacrate dal sentimento giuridico, e misurate dall'interesse. La libertà astratta non è nulla; il diritto comincia nell'istante in cui siamo assaliti; allora ci sentiamo liberi, e l'ispirazione giuridica della libertà protegge le nostre azioni. Fino a qual punto? Fin dove i nostri interessi lo esigono. Qual'è dunque la sfera della libertà? Essa abbraccia tutti i beni possibili; misurarli è sommare tutti i valori del mondo visibile ed invisibile. La libertà dà alla vita il diritto di vivere, alla mano il diritto di lavorare, all'intelligenza il diritto di pensare, alla parola il diritto di istruire, al cuore il diritto di soccorrere i nostri simili, all'egoismo i diritti dell'egoismo. Ad ogni scoperta la sfera della libertà si estende; i cristiani erano più liberi dei pagani; noi siamo più liberi dei cristiani. Il sentimento e l'interesse, ecco adunque i due elementi della libertà; l'ispirazione dell'uomo che si difende costituisce la forza morale del diritto, l'interesse concetto ne dà la misura.
Fin qui non sorge dubbio; la libertà è salva; il problema cade sul punto in cui l'eguaglianza ferma la libertà. Qui la logica sovverte ogni diritto; la metafisica aggiunge nuove antinomie a quelle della logica; convien seguire la rivelazione, benchè impossibile, e la rivelazione decide la controversia col sentimento che costituisce l'eguaglianza, e coll'interesse che la misura. In altri termini, gli uomini hanno diritto all'eguaglianza che sentono e che vogliono avere. Dunque se la libertà di due uomini si attua in gradi diversi; se l'attività dell'uno sorpassa quella dell'altro; se l'uno acquista beni che l'altro disprezza o ignora; se l'uno sentesi libero governando, mentre l'altro sentesi libero lasciando ad altri la cura di governare, l'eguaglianza si ferma là dove entrambi si sentono veramente liberi. Consentienti non fit iniuria. Ma se l'uomo sommesso si rialza? reclama un più vasto campo d'azione? allora la sua libertà si estende, l'ineguaglianza si scema, si procede all'eguaglianza materiale. Gli uomini del medio-evo non erano eguali al modo nostro. Avrebbero potato esserlo, ma non avevano nè il sentimento giuridico della loro parità, nè l'interesse di reclamarla. Nel medio-evo alcun servo non si paragonava al suo signore: che dico? Il servo e il suddito avrebbero insultato chi avesse negata la supremazia del padrone: sentivano appena l'eguaglianza di tutti nel cielo di Cristo. Nella vita reale l'eguaglianza riducevasi all'eguaglianza dei diritti acquisiti, all'eguaglianza della libertà attuata, in guisa che il debito del re obbligava come il debito del suddito: più oltre, il diritto spariva. L'interesse alla sua volta dava questa misura all'eguaglianza: il popolo non poteva chieder beni ignorati, e tutti i beni da lui posseduti trovavansi collegati fatalmente coll'ordine gerarchico del feudalismo e della monarchia. Vedesi quindi che la libertà è il diritto dello stato di natura; essa è primitiva, spontanea; essa ha creato le caste, il predominio dell'uomo sull'uomo: l'eguaglianza devesi conquistare, si attua lentamente. La libertà ha creato i signori, i principi, i re; l'eguaglianza, attuandosi, ha creato i cittadini, e s'avvia verso la costituzione dell'umanità. Ma siam lungi dalla meta.
Al certo, la logica può afferrare la transizione per cui l'eguaglianza si estende, e può giovarsene per sovvertire il diritto. Da che non potete scoprire l'istante in cui il fanciullo diventa uomo e in cui acquista l'uso della ragione, dovete soccombere al sofisma del cumulo e riuscite a negare il movimento dell'eguaglianza. Ma il doppio progresso del sentimento giuridico e dell'interesse è un fatto, e, come ogni fatto, deve soggiogare la logica. L'interesse cambia, si svolge colle idee; col succedersi, i dogmi estendono di continuo il sistema de' nostri piaceri e de' nostri dolori; la democrazia batte alla porta de' grandi, dei senati, della chiesa. La ragione del popolo, un tempo rassegnata alla fatalità della gerarchia. ripudia a poco a poco l'artificiosa combinazione che incatena alla fortuna del ricco. Ecco l'eguaglianza sottoposta ad una misura certa quanto i nuovi dogmi. Il sentimento giuridico rifiuta forse di far constare l'eguaglianza che si attua? Vedete le rivoluzioni, la collera del popolo, che copre di vergogna i giurisperiti della servitù, gli economisti dell'opulenza; vedete i dottori che impallidiscono, che si rinnegano mentre il nuovo diritto è attestato dalla santa audacia dei martiri. Se la voce di un popolo non è prova, dove troveremo la prova della volontà generale? Forse nella metafisica?
Si risponderà: «Ma guardate altresì alla guerra; essa strazia la società, il sangue scorre; hannovi in conflitto due diritti, due dogmi; avrete dunque due pesi per misurare la giustizia.» Sì, la guerra è un fatto, gli interessi e i sentimenti si combattono, l'ispirazione morale può assistere egualmente le due parti che si straziano. Che dedurne? Che vi ha la guerra, che nessun uomo è tenuto ad essere superiore alla sua rivelazione, che noi possiamo avere solo la virtù de' nostri interessi, e gli interessi delle nostre idee, e che la natura sarà l'ultimo giudice del combattimento. E se m'inganno? La vaga possibilità dell'inganno non può smuovere le ragioni determinate e positive del mio pensiero e della mia fede.



Capitolo IX

LA PROPRIETÀ E LA COMUNANZA

La proprietà? Eccoci innanzi al vitello d'oro, all'idolo de' politici, al Dio de' filosofi. Esporrò prima le antinomie della proprietà, poscia il diritto.
La proprietà deriva dalla libertà; è assoluta quanto la libertà. Se sono libero, posso impadronirmi dei valori che mi stanno intorno, della terra che abito, dell'aria che respiro; la mia signoria si estende quanto la mia forza. Libera come la morale, la proprietà reclama il diritto di usare, di abusare della cosa appropriata. Se non posso abusare, non sono libero; la spontaneità della mia azione è violata, la scelta tra il bene ed il male non è scelta; se sono servo di una volontà esterna, di una ragione che non è la mia, sono ridotto a condizione di macchina. La libertà della stampa può coesistere colla censura? la libertà di coscienza può conciliarsi con una religione dominante? No; la libertà limitata non è più libertà, la proprietà limitata non è proprietà: il diritto di abuso è inseparabile da ogni diritto, perchè la morale sola decide dell'uso e dell'abuso. Potrò adunque inondare il mio campo, insterilire la mia terra, abbattere la mia casa, lasciar marcire le mie messi. Nessuno avrà diritto di protestare contro di me; se avrò danneggiato altrui, sarà danno, non ingiuria; potrò concludere col filosofo della corruzione, Vittorio Cousin: «Quell'uomo che soffre, e forse muore, non ha il menomo diritto sulla mia fortuna, fosse pure immensa; e se ricorresse alla violenza per togliermi un obolo, commetterebbe un delitto.» Il proprietario ha il diritto di affamare il genere umano.
Tale è la tesi della proprietà, ed è precisamente la tesi che la distrugge. Se io sono libero, tutti gli uomini sono egualmente liberi; se io ho diritto a tutto, il mio simile ha un egual diritto a tutto; se la mia morale non può attuarsi senza por mano alle cose, anche la morale de' miei simili non può attuarsi senza toccarle. La ricchezza dispone della libertà, della felicità, dell'intelligenza, dell'industria; è árbitra della vita degli uomini; senza il dato di un capitale, io cado schiavo del mio salario, schiavo dello Stato, schiavo dell'esercito. Posso io conservarmi, perfezionarmi quando mi vengono negati tutti i mezzi di lottare colla natura? quando la mia libertà si riduce ad una possibilità illusoria, ad un'entelechia che deve rimanersi nel vuoto? Dunque il povero ha tutti i diritti del ricco; il popolo tutti i diritti del privilegio; l'umanità ha tutti i diritti del patriziato. Dunque se la proprietà è illimitata nell'individuo, lo è in tutti gli individui; dunque la proprietà conduce alla comunanza universale. Quanto più si vanta il diritto del proprietario, tanto più lo si nega, perchè con egual forza si ripete in tutti.
La metafisica ha preso questa contraddizione critica per una contraddizione positiva, ed ha cercato un termine medio, un titolo, per conciliare l'opposizione tra la proprietà e la comunanza. Il primo concetto che le si offerse fu di subordinare il dilemma al principio dell'interesse. Qui la superiorità della comunanza sulla proprietà fu sì evidente, che la metafisica sciolse il dilemma, negando la proprietà a nome dell'interesse pubblico. La repubblica di Platone si fonda sulla comunanza. Non importa forse al bene pubblico, che la repubblica sia una, come se tutti i cittadini avessero gli stessi occhi e intendessero colle stesse orecchie? Platone nega adunque la proprietà: primo l'accusa di sviluppare l'egoismo: il proprietario non vede che sè, non pensa che a sè, vuol dilatare il suo dominio, vuole eternarlo, nè d'altro gli cale. La proprietà si trae dietro il fasto, l'ozio, l'insolenza, genera la miseria, la guerra del ricco e del povero, il governo della repubblica vien conteso, carpito come premio della ricchezza o della violenza; quindi la repubblica impotente, la verità senza forza, la giustizia senza valore: quindi l'insufficienza de' politici, de' legislatori, degli oratori, dei tiranni, delle assemblee popolari: perché? il vizio originale della società sussiste, ela ragione vuole che stiano con sé tutte le sue conseguenze, le liti, i furti, l'ozio, la crapula, la guerra del ricco e del povero, la guerra di tutti, la giustizia venale, le leggi dettate a caso; insomma l'assenza d'ogni vera legge, di ogni volontà veramente pubblica, in altri termini, d'ogni comunanza. Qual'è adunque il titolo nel quale Platone fonda la comunanza? È il ben pubblico; è appunto quel bene che scaturisce dalla morale; la sua repubblica è retta da uomini che disprezzano la ricchezza; le sue leggi sono leggi morali, i suoi magistrati sono sacerdoti, la sua città è una chiesa. Ne addiviene che egli combatte la proprietà a nome del principio che la fonda, a nome di quella stessa virtù morale che la invoca per proteggere il suo libero sviluppo.
La contraddizione non isfugge ad Aristotele, che primo a difendere la causa della proprietà, ritorce contro Platone il titolo stesso della comunanza. L'interesse pubblico, dice Aristotele, deve attivarsi dall'interesse privato; convien provocare l'operosità di ogni cittadino, stimolarla, interessarla coll'incentivo della proprietà. La comunanza non interessa alcuno; essa toglie ogni motivo d'operare, non provoca la cupidigia dell'uomo; sopprime lo stimolo della proprietà, lascia intorpidire la società nell'inerzia di tutti. Se si decretasse la comunanza, i cittadini, non potendo resistere all'impulso della natura, ristabilirebbero la proprietà, i più industri diventerebbero i più ricchi, e i più ricchi troverebbero il modo di proteggere i loro averi, e di sottrarli alla comunanza generale. Secondo Aristotele, l'interesse pubblico è adunque il titolo della proprietà; ma qual'è la forza di questo titolo? Io non sono proprietario sen non perchè sono il miglior amministratore del mio avere. Lo Stato me lo confida; la mia proprietà sorge dalla comunanza. Ciò posto, chi assicura che non mi venga mai a simil titolo ritolta? Chi mi garantisce contro la confisca, contro l'imposta, contro la soppressione dell'eredità, contro una legge che sostituisca l'usufrutto alla proprietà? Aristotele non risponde; la sua proprietà ci lascia sul pendio della comunanza; è un atto di migliore amministrazione, senza essere un diritto; è una decisione precaria della società; decisione che può variare e modificarsi indefinitamente, fino a ricondurci quasi alla comunanza. Nel fatto, tutte le teorie del socialismo sorgono dal principio dell'utilità pubblica; e perchè non rispettare i più grandi abusi della proprietà, se non si vuole l'interesse di tutti? Così il bene pubblico legittima egualmente la proprietà e la comunanza. Il dilemma sfugge alla metafisica del pubblico interesse.
Gli altri titolo non sono più validi: fu considerata l'occupazione come base della proprietà. «Io sono libero,» si disse; «dunque prendo quanto desidero; occupo il campo che mi piace, la terra che abito, quella che vorrei abitare. La mia libertà consacra l'occupazione, quindi mi dà il diritto di spingere il Dio Termine quanto voglio; dunque l'occupazione sottrae la proprietà all'antitesi della comunanza.» Lo concedo; ma tutti gli uomini sono liberi, tutti eguali, tutti hanno lo stesso diritto d'occupazione, e questo diritto conduce alla comunanza universale. La vostra occupazione è un fatto transitorio, momentaneo: come volete che v'infeudi per sempre una terra escludendo da essa tutti i vostri simili? La vostra occupazione non è nemmeno un fatto, è una metafora; voi occupate appena lo spazio di cinque piedi; in qual modo volete che la metafora vi arroghi la proprietà di vasti campi? Essere libero, occupare una terra, escluderne per sempre tutti gli uomini, sono tre fatti distinti. La libertà è in noi, l'occupazione è limitata; l'atto di restar padrone della terra ad esclusione d'ogni uomo, costituisce solo la proprietà: qual'è il principio che lo consacra? La libertà? Essa fonda in pari tempo la comunanza e la proprietà. L'occupazione? Essa fonda in pari tempo la proprietà e la comunanza. Il dilemma non è distrutto.
I giureconsulti hanno inteso che l'occupazione per sè non sottraeva la proprietà alla comunanza: hanno quindi imaginato un nuovo titolo per legittimare la stessa occupazione; hanno supposto che l'occupazione degli attuali proprietari è valida perchè sancita dal consenso generale di tutti gli uomini. Il consenso universale fu veramente chiesto? fu concesso? era possibile? La vana ipotesi non regge; e pertanto Puffendorf v'aggiunse la nuova ipotesi, che siasi accettata, la divisione nata dalle primitive occupazioni, per evitare il disordine di una nuova divisione. Puffendorf riconosce adunque il diritto alla comunanza universale; questo è il suo vero principio; secondo lui la proprietà individuale sorge da questa comunanza, si fonda in un contratto tacito, implicito, ragionato: il contratto è il titolo per il quale si evita l'antinomia della libertà e dell'eguaglianza. Ma codesto contratto implicito fu riconosciuto? l'occupazione dei proprietari fu sancita? Sono questioni di fatto. Ora, se consulto la storia, non trovo altro nell'origine della società che guerre, prede, conquiste; la servitù del debole, la cinica superbia del più forte. I nostri antenati furono spogliati o spogliatori. Se qualche volta la storia sembra obbedire alla ragione, io trovo riparti eguali, leggi agrarie, pubblici banchetti, un sistema d'eguaglianza in contraddizione colla proprietà. Invece di confermare l'ipotesi di Puffendorf, la storia la nega; essa stimola il povero a chiedere al ricco i titoli della sua ricchezza. E poi, che importa il passato? Giusto o ingiusto, è passato; ogni soluzione, ogni teoria deve essere attuale: ogni generazione ha il diritto di disporre di sè, di stabilire il suo contratto sociale, di non vivere nella infelicità prestabilita più secoli prima da uomini forse barbari, e certo infelicissimi. Ogni rivoluzione mette in dubbio la proprietà: come sciogliere il dubbio? Se il diritto del proprietario fu tollerato, questo diritto cessa colla tolleranza; se i proprietari hanno dettate le leggi per difendersi, il popolo vuole difendersi alla volta sua; esso protesta. Il consenso sussiste finchè nessuno reclama: ma finchè nessuno reclama, la giustizia è inutile, consentienti non fit injuria; la giurisprudenza può tacere, non havvi lite. La causa nasce colla contestazione, colla lotta; e Pufendorf, che ammette la comunanza, non può trarne la proprietà.
Il lavoro è il titolo più moderno della metafisica per transire dalla comunanza alla proprietà e vien considerato come l'atto che toglie le cose alla comunanza per darle all'artefice. Nel fatto, esso crea un valore; emana dalla libertà; la libertà attuata col lavoro sembra consacrare la proprietà; la proprietà sembra logicamente distinta dalla comunanza. Ma il titolo del lavoro subisce previamente l'antinomia della libertà e della comunanza. Per lavorare bisogna impadronirsi di una materia, appropriarsela ad esclusione di tutti gli uomini, e diventarne proprietario prima di darle una forma, un valore. Con qual diritto appropriarsi una materia che è il retaggio comune dell'umanità? Ogni uomo ha diritto, non solo alla materia, ma eziandio al lavoro: perchè sottrarre una data materia al lavoro del genere umano? Perchè vi arrogate il privilegio del lavoro? Perchè vi appropriate la materia unita al vostro lavoro, alla forma da voi data, la quale sola è opera vostra? Poi il lavoro è un peso, una pena; la proprietà è un godimento, un bene: il lavoro crea valori; il proprietario ha diritto di lasciare la terra incolta, di respingere l'agricoltore, di distruggere il capitale. Tra il lavoro e la proprietà l'opposizione è perfetta: in qual modo adunque il lavoro potrebbe dare il diritto di non lavorare? in qual modo la creazione dei valori potrebbe dare il diritto di distruggerli? Il lavoro è transitorio come l'occupazione; quando cessa, svanisce ogni rapporto tra l'artefice e l'opera, le cose ricadono nella comunanza universale d'onde non dovevano esser tolte. In somma, ammesso il lavoro come titolo alla proprietà è titolo simile all'occupazione, appartiene ad ogni uomo dotato di braccia, di mente, di forze; e se il lavoro fonda la proprietà, fonda nel tempo stesso la comunanza.
Mancando ogni espediente, la metafisica invocava Dio, per transire dalla comunanza alla proprietà. «Col prender possesso,» dice Burlamacchi, «si accetta la destinazione che Dio ha fatto dei beni della terra a tutti gli uomini.» Questa destinazione è universale? Non si può dubitarne; e pertanto costituisce la comunanza universale, la consacra, aggiunge nuova forza alla tesi che nega il diritto di proprietà. Il creatore di tutti gli uomini non poteva creare dei privilegiati; nè la giustizia eterna imporre l'ineguaglianza mostruosa che risulta dalla proprietà; la proprietà diventa un sacrilegio. Supponiamo pure che Dio voglia fondata, la proprietà ma chi interpreta la sua volontà? L'uomo. E con qual mezzo può egli conoscerla? Altro mezzo non v'ha che intelligenza, e l'intelligenza non può scandagliare l'intenzione di Dio se non coi titoli dell'occupazione, del lavoro, del consenso universale, della necessità politica; e dovunque la libertà e l'eguaglianza si collegano e s'escludono; dovunque consacrano nel tempo stesso la comunanza e la proprietà.
Esposi l'antinomia della proprietà e della comunanza. Proudhon se ne impadronì, la gettò in piazza a spavento dei ricchi. V'hanno molte differenze tra la sua antinomia e la nostra. La sua antinomia non conosce il metodo che la genera; spesso vien confusa col mero contrasto tra il fatto ed il diritto; spesso viene afferrata nelle astrattezze che la travisano; del rimanente, egli la prende sempre per una contraddizione positiva, di cui promette la soluzione. Io non so se debbasi ammirare più la lena di Proudhon o la collera de' suoi avversari. Tutti i fanatici del diritto di proprietà, sonosi trovati nell'impossibilità di rispondere una parola alla sua polemica. Eppure la risposta era facile. Qual'è il ragionamento di Proudhon? Egli dimostra che non si può dedurre logicamente la proprietà da veruno dei titoli di proprietà. La libertà, egli dice, non è la proprietà, dunque non la fonda; - l'occupazione non è la proprietà, dunque non può costituirla; - il lavoro non è la proprietà, dunque non può legittimarla, ecc. - Proudhon mostra che fra la proprietà ed i titoli per cui si difende, non havvi identità, nè equazione, nè deduzione; e la Sorbona e l'Istituto non sono ancora rinvenuti dalla sorpresa! Non si sono accorti che l'identità, l'equazione e la deduzione distruggono del pari la comunanza e la proprietà, la eguaglianza e la libertà; non si sono accorti che il movimento logico che distrugge la proprietà è l'identico movimento che annienta l'alterazione, il rapporto tra le cose, il soggetto, l'oggetto di ogni pensiero. Coll'identico ragionamento si può dire: - l'io non è il non-io, dunque non lo conosce; - il fanciullo non è uomo, dunque non lo diventerà mai; - Socrate è vivo, chi vive non muore; dunque Socrate non morrà. Questo ragionamento disgiunge le une dalle altre tutte le nozioni, e spinge alla contraddizione chi vuol ricongiungerle. La contraddizione è senza uscita, universale, inconcludente; e ogni soluzione promessa sarebbe nuovamente contraddittoria.
Per combinare la proprietà colla comunanza, bisogna volger le spalle alla loro contraddizione, e attenersi ai fatti giuridici quali appaiono. Consideriamo prima il diritto di proprietà: se la proprietà è un diritto, deve essere in pari tempo un interesse ed un'ispirazione. Possiamo noi dirla un interesse? Nessuno ne dubita: nè il povero, nè il ricco; ognuno la desidera, avventura la vita per acquistarla, avventura tutto per difenderla. La proprietà è in potenza in tutti gli atti della volontà; la vita è tratta da una forza invincibile verso i valori, vuol farli suoi,; ogni uomo tende ad appropriarsi gli oggetti che gli stanno intorno. L'io è essenzialmente solitario, esclusivo, egoista si perfeziona divenendo l'artefice del suo perfezionamento; entra nella società a patto di scoprirvi il proprio meglio; ogni suo atto esprime una padronanza che lasciata a sè senza ostacoli, vorrebbe il dominio dell'universo; e si estende alle stesse cose in cui il dominio è impossibile: l'odio, l'amore, cercano di regnare sugli oggetti amati e odiati. L'ambizione, la vendetta, il perdono, tutti gli istinti non possono attuarsi, se non alla condizione di toccare alle persone e alle cose, come se noi fossimo signori, qualunque sia il grado della nostra signoria. Dunque la proprietà è un bene, è un interesse, uno degli istinti della vita, un vero valore. Questo bene può diventare un diritto? Lo diventa, perchè sentiamo in noi la proprietà, non solamente come un bene, ma come un diritto. Essa incute rispetto quanto la libertà; se viene assalita, l'indignazione giuridica la difende, come se fosse una parte del nostro essere. L'orrore del furto, il ribrezzo che c'ispira il possesso di cosa rubata, la naturale dignità che ci allontana dalla casa, dalla tavola che non son nostre, il disprezzo del parassita, ospite procace del bene altrui, sono forme varie della ispirazione giuridica della proprietà. Lo stesso principio solleva ogni popolo contro l'invasore straniero; ogni nazione conquistatrice profana un diritto inviolabile, l'infamia del furto l'involge, e la strage è il più santo dei diritti quando libera la patria. Havvi adunque una rivelazione morale che attesta il diritto di proprietà; essa lo consacra; per essa l'occupazione, il lavoro, questi fatti puramente materiali, divengono autorevoli quanto la nostra libertà, e c'identificano colle cose, che diventano così le accessioni della nostra persona. Il dimandare qual'è il passaggio logico tra l'ispirazione giuridica della proprietà e gli atti materiali dell'occupazione o del lavoro, è proporre un problema insolubile, è un dimandare qual'è il rapporto tra il nervo ottico e la visione, tra una ferita e il diritto di difesa. Qui non havvi alcuna equazione, havvi solo una correlazione in pari tempo rivelata ed assurda, incontestabile e contraddittoria: ma appare, dunque è.
Il vero problema sociale non cade sul principio di proprietà, ma sui limiti della proprietà. Come determinarli? Come si determinano tutti i diritti: colla misura dell'utile sancita dal sentimento. Il proprietario isolato, il proprietario i cui beni non sono contestati, incontra solo i limiti della propria libertà, non incontra limite alcuno. Può divenir re, può dichiararsi proprietario del regno, se il popolo cede, consentienti non fit injuria. La proprietà si limita solo quando vien contestata dalla libertà dei nostri simili; la libertà dei nostri simili limita la proprietà; nella stessa guisa che l'eguaglianza limita la libertà. Non si tratta adunque di una eguaglianza astratta, di una comunanza universale che abolisca immediatamente ogni proprietà; l'eguaglianza astratta non è sostenuta da alcun sentimento giuridico, la comunanza universale si riduce ad un'ipotesi dialettica. Trattasi dell'eguaglianza sentita, di quella libertà che i nostri simili recano in atto, e che la loro moralità reclama. La vostra proprietà mi nuoce? mi condanna alla schiavitù? m'impone la fame? è dessa micidiale per la famiglia del povero? oppressiva per l'intelligenza del popolo? pone il famelico nell'alternativa del furto o della morte? Il furto è assolto; il rispetto morale ispirato dalla proprietà svanisce; gli succede l'indignazione giuridica della moralità conculcata, della libertà infranta; e la comunanza protesta a nome dell'eguaglianza.
Di là il diritto di necessità. Tutti i giureconsulti l'ammettono in un col diritto di proprietà. Grozio, che fonda la proprietà sul contratto di divisione stabilito nel principio della società, fonda il diritto di necessità su di una restrizione tacita fatta al momento della divisione; in sua sentenza vi si sottintendeva l'eccezione della necessità. No: non havvi restrizione, perchè non havvi contratto: è la natura che costituisce la proprietà a nostro profitto, ed è ancora la natura che protegge la nostra miseria coll'ispirazione giuridica dell'eguaglianza. Il bisogno di chi reclama, misura la necessità; la sua indignazione la trasforma in diritto. «Se un'anima gretta e spietata,» dice Pufendorf, «non è accessibile alla generosità, se «l'inumanità del ricco non si lascia toccare da veruna preghiera, bisognerà dunque che il povero muoia di fame? Al contrario, dacchè il ricco non ha voluto esercitare volontariamente i doveri dell'umanità, è giusto che perda in pari tempo il diritto di possedere e quello di pretendere alcuna gratitudine.» Non credo che si possa domandare la carità colle armi alla mano, la moralità non s'impone colla forza; ma è certo, che la libertà lesa può combattere una libertà che diventa ingiuriosa e micidiale.
I popoli hanno proclamato, come i filosofi, il diritto di limitare la proprietà colla comunanza nella misura della necessità. L'abolizione dei debiti nelle società antiche era l'insurrezione della comunanza contro la proprietà era il ritorno momentaneo dell'eguaglianza per salvare la vita dai proletari. Il giubileo degli ebrei, che reintegrava i proprietari nelle loro terre ad ogni mezzo secolo, era anch'esso un intervento periodico della comunanza nella proprietà. Più rigida, la legge di Licurgo aveva anticipatamente stabilita la proporzione della proprietà e dalla comunanza: le divisioni erano eguali, e per mantenerle eguali abolivasi il commercio, l'industria, la ricchezza, lo stesso numerario. Anche il dominio eminente è il dominio della comunanza che sovrasta a tutte le proprietà, dispone di tutti i beni nella misura predeterminata dalla legge; ed il capo dello Stato, giudice di tutte le necessità politiche, limita la libertà del proprietario a profitto della grande comunanza dello Stato. Che era la confisca? In sostanza, era il diritto della necessità: quando il feudo diventava sedizioso e ribelle, quando il figlio del condannato supponevasi tratto dall'onore a vendicare il sangue sparso, lo Stato si riservava il diritto di spogliarlo a profitto della comunanza minacciata. La legge marittima ci presenta il diritto di necessità sotto forma ancor più evidente. la proprietà deve cedere; gettansi in mare le merci, la comunanza le sacrifica alla salvezza dei naviganti. Sotto altra forma lo stesso diritto limita la proprietà in una città assediata e si abbattono le case dei sobborghi, si fa campagna rasa, perchè la città ha diritto di difendersi; e la comunanza regna nella misura della necessità, come a bordo della nave pericolante. La legge di Licurgo, il giubileo degli Ebrei, l'abolizione dei debiti, il dominio eminente, il diritto della città assediata, quello della nave in pericolo, sono le diverse forme di un diritto eterno. Anche l'imposta, e in generale tutte le rendite dello Stato, si traducono, in ultima analisi, nel diritto di necessità, che costringe la proprietà mobile ed immobile a pagare un tributo alla comunanza generale.
L'eguaglianza, lo abbiamo detto, combatte istoricamente la libertà; istessamente la comunanza combatte la proprietà. Nella barbarie de' tempi primitivi la proprietà regnava quasi sola, costituiva le caste, i patriziati, le feudalità; la comunanza trovavisi ristretta nella caste, nel senato, nelle corti. Ogni rivoluzione fu opera della necessità a profitto della comunanza. Quando i Buddisti assalirono le caste braminiche, opposero una più vasta comunanza alla proprietà intollerabile delle caste: quando i plebei impugnarono i patrizi nella società greco romana, scossero di nuovo l'antica proprietà: quando il diritto romano cessò di essere il privilegio di Roma, la comunanza avanzava d'un passo, avvalorata dalle stesse leggi della proprietà. La chiesa spargeva la buona novella del Vangelo, arrogando a sè i templi pagani, le proprietà del gentilesimo; e le otteneva diminuendo il dominio stesso del cesare romano Formavasi quell'immensa comunanza della chiesa, che decimava le proprietà secolari dell'Occidente, traendo a sè un terzo dei beni dell'Europa imbarbarita. Ma alla volta sua la comunanza della chiesa non era la proprietà del pontefice e del clero? non era uno Stato in ogni Stato? Quindi nuova lotta. I re protestano in nome della comunanza dello Stato, invocano il diritto di necessità contro la proprietà, contro i tribunali, contro i privilegi del pontefice e del clero. In pari tempo i re combattono la proprietà feudale, le tolgono i castelli, le masnade, i tribunali, i pedaggi, mille odiosi diritti; e sempre il progresso si attua a nome della comunanza nella misura della necessità. Finalmente, in che consiste la rivoluzione? Sotto l'aspetto materiale, non fu, non è, non sarà mai se non una questione di beni, una lotta della comunanza contro le proprietà. A che atterrare i governi, dar battaglie, prodigare il sangue, se la volontà dell'individuo diseredato non deve toccare i prodotti della terra, nè quelli dell'industria? A che la guerra e la sommossa, se il popolo deve rimanere nella comunanza della miseria, il ricco nella comunanza de' piaceri; se il popolo deve vivere nella fatica, nella nudità, nel dolore, mentre gli eredi de' patrizi e de' feudatari devono stare nell'ozio, nel fasto; nella voluttà?
La proprietà, non sarà mai abolita, la comunanza non sarà mai attuata; la logica non combinerà mai la proprietà colla comunanza; una filosofia della contraddizione che sperasse una sintesi dei due contrari trasporterebbe le nostre speranze nell'impossibile. Ma la proprietà e la comunanza, combinate dalla rivelazione, danno l'invincibile ideale di una legge agraria universale, ci costringono a sperare una costituzione dell'umanità coll'eguaglianza delle proprietà e trasportano nell'avvenire quel contratto del genere umano imaginato da Grozio e da Pufendorf, nelle prime origini della società. Se numerosi sono i nemici del genere umano, se numerosi sono gli ostacoli che incontra il progresso: quando osserviamo la lega dei potenti che negano al povero la sua parte di terra, quando vediamo la lega della forza e l'ignoranza nella quale il ricco di Parigi, l'ateo della Sorbona stanno col pontefice di Roma e colla barbarie russa, allora sentiamo che l'ispirazione giuridica oltrepassa di troppo l'ordinamento attuale della proprietà, perchè non lo atterri con una scossa proporzionata alla perversità che ne profitta e alla crudeltà che lo difende.
L'apologia che Aristotele scrisse della proprietà è veridica, e oltrepassò la sua stessa previsione. In sentenza sello Stagirita, la proprietà fonda la famiglia, e ad essa dobbiamo la costituzione della famiglia cristiana; la proprietà, disse Aristotele, fissa l'uomo al suolo e di fatto ha sbandito il vivere nomade e incerto dei barbari: la proprietà, soggiunge egli, confida il suolo alla cupidigia dell'individuo, e l'uomo ha creata l'agricoltura, ha trasformato la terra. La proprietà, continua lo stagirita, stimola, esalta l'operosità umana, e l'industria, il commercio, la navigazione confidati all'egoismo diedero all'Europa il dominio dei mari e il predominio su tutte le terre. Secondo Aristotele, la proprietà ordina i governi; e di fatto tutti i governi furono fondati sulla proprietà, sì che ne' più inciviliti potesse apparire un'ombra di ragione trasformata in merce, e trafficata nell'interesse de' ricchi. Finalmente, la proprietà, secondo Aristotele, trovasi presso tutte le Nazioni; per cui si può affermare che sia voluta dalla natura: e fu, ed è voluta dalla natura, poichè noi vediamo ancora sulla terra il regno del più forte. Ma tutta l'apologia della comunanza scritta da Platone regge tuttora; da duemila anni assiste ad ogni progresso; coloro stessi che l'ignorano o che la ripudiano, l'adottano involontari se combattono per un progresso: la comunanza di Platone s'inoltra nel mondo romano,, ordina la chiesa del medio-evo, istituisce lo Stato moderno, rifulge in tutti gli scritti della rivoluzione; sciagurato colui che può dimenticare la Repubblica di Platone vivendo nelle nostre repubbliche. Ora, qual'è l'ultima conseguenza, se non la legge agraria dell'umanità?



Capitolo X

IL CONTRATTO E I DIRITTI INALIENABILI

Due fatti costituiscono il contratto; lo scambio di un valore con un valore, e lo scambio di un diritto con un diritto. Innanzi alla critica, sono questi due fenomeni egualmente inesplicabili. Abbiamo visto che il mero scambio dei valori è logicamente impossibile, perchè se sono eguali, lo scambio loro è inutile; se differiscono lo scambio è arbitrario. Alla volta sua lo scambio dei diritti, è impossibile: finchè io conservo i miei diritti essi mi appartengono; quando vi rinuncio, essi cadono nella comunanza universale: la logica non ammette mezzo. In qual modo l'io potrebbe egli opporsi a sè stesso, togliersi un diritto, e trasmetterlo ad altra persona?
La natura scioglie sola l'antinomia del contratto. Da un lato lo scambio è un fatto; noi scegliamo, noi permutiamo i valori; il vivere è uno scambio continuo di valori. Il parlare, il rispondere, il conversare; il discutere chiamasi già da tutti, e con ragione, il commercio della vita. Quando lo scambio dei diritti segue lo scambio dei valori, allora la permutazione dei valoriè protetta dall'ispirazione giuridica. Io sento che concedendo un valore, concedo la mia proprietà, una frazione della mia libertà; io sento che il valore offertomi nello scambio è un compenso, sento che lo scambio è un diritto che posso far valere colla forza. Ecco il contratto; sta tutto nel nostro sentimento. Per parlar con rigore, nel contratto non si scambiano nemmeno i diritti, la mia libertà non si áltera, la mia proprietà rimane la stessa; io ho sostituito una cosa all'altra; reclamando il prezzo di una cosa ceduta, non reclamo se non la mia cosa trasformata in numerario in forza d'una mia operazione.
La libertà è l'eguaglianza sono le due leggi del contratto. La libertà lo governa, perchè il contratto non può cadere se non sulla proprietà, sull'accessione della persona, sul valore reale, identificato colla nostra libertà. Anche l'eguaglianza lo governa, perchè nel contratto facciamo valere la libertà giuridica quale si trova attuata; nel contratto siamo tutti eguali in potenza e in atto, formalmente e materialmente. Quindi il contratto determina i più certi diritti nel contratto la correlazione della proprietà e dell'eguaglianza si trova formalmente avverata. Il fatto solo della promessa accettata suppone la misura della libertà e dell'eguaglianza Però, col rendere inviolabile lo scambio dei valori, il contratto riesce ad una logica contraddizione. Si può far mercato di tutto: i beni, i viveri, i lavori, i servigi personali, la persona stessa, dal pensiero fino all'ultimo dei gesti, tutte le cose possono essere vendute o comprate. L'attore sulle scene è meno libero dello schiavo. Ogni pubblico officiale non è poi un attore? non ha egli l'obbligo di un contegno che deve dominare ogni suo atto? Ora nello scambio noi siamo sempre soggetti all'errore, abbandonati al caso. La nostra libertà rimane sempre inviolabile, ma noi possiamo perdere tutta la nostra proprietà; la nostra persona rimane sempre libera, ma nel commercio della vita possiamo perdere la libertà di ogni nostra azione; la nostra libertà giuridica è sempre sacra, ma alienando il nostro lavoro, possiamo toglierci persino la libertà negativa del riposo. Il contratto può condannarci alla fame, alla miseria, alla più assoluta schiavitù; se ci lasciamo trascinare dalla matematica insidiosa dell'eguaglianza, il contratto può divenire immorale, tirannico, omicida. Indi un dilemma. La promessa accettata è irrevocabile? Il contratto ci uccide. Possiamo noi revocare la promessa accettata quando ci danneggia? Il contratto non è più contratto, è inutile perchè si stipula precisamente per guarentire il nostro contraente contro il nostro pentimento.
Il dilemma del contratto è lo stesso dilemma della libertà e dell'eguaglianza, della proprietà e della comunanza. Che è il contratto? È una promessa accettata, è una doppia alienazione di valori; in ultima analisi, è un atto che trasmette in tutto o in parte la nostra libertà. Che è adunque la rescissione del contratto? È la violazione di una promessa accettata, di una proprietà acquisita; è un'offesa che può distruggere in tutto o in parte la nostra proprietà. Dunque la rescissione del contratto sarà misurata dal diritto di necessità, e pertanto sarà governata dall'utile e dall'ispirazione giuridica, che determinano il diritto di necessità.
Tale è il principio che scioglie il dilemma del contratto. Applicasi egualmente ai contratti reali ed ai personali. Il diritto ingiurioso del contratto, la tirannia del diritto acquisito sarà sempre limitata dal limite della libertà e della proprietà, dal diritto di necessità. Così potremo rifiutare il grano venduto, se divien necessario alla nostra sussistenza: se occorre, non potremmo toglierlo di viva forza? Lo stesso si dica dei diritti personali. Tutto può essere trafficato; lo scrittore può impegnarsi a combattere colla penna, il soldato si obbliga a combattere colla spada. Il contratto è inviolabile, è sacro come la proprietà: può ruinarci, eppure dobbiamo eseguirlo; il pubblicista deve disputare, il soldato deve combattere. Si presenta un nuovo interesse? quest'interesse determina una nuova ispirazione giuridica? Il contratto è perento, l'obbligazione nulla, cessiamo di appartenere al compratore, il nostro onore ci impone di togliergli la proprietà acquisita. Il soldato regio diventa repubblicano? Trovasi sciolto dall'obbligo di combattere; combattendo, sarebbe trasformato in sicario. La sua conversione lo trasporta in un nuovo mondo, la realtà è cambiata, ha gli interessi di una nuova morale, e sono consacrati da una nuova inspirazione giuridica. I tre voti di castità, di povertà e di obbedienza stabiliscono un vero contratto; obbligano il cattolico dinanzi al cattolico; si avvede il contraente ceh ha stipulato un contratto immorale, che si è obbligato a lottare contro la natura, a disprezzare il lavoro, a insultare alla ragione? Il monaco è sciolto; illuminato da una nuova rivelazione vive in un nuovo mondo; la sua morale è misurata da nuovi interessi: e l'ispirazione del diritto protegge la sua libertà. L'interesse solo non basterebbe ad annullare il contratto; lascerebbe il soldato sotto il giogo dell'assolutismo, il monaco nella prigione del convento; anche l'interesse di una virtù non potrebbe restituirci una cosa alienata, mai non possiamo sottrarci ad un'obbligazione giuridica per ottenere un vantaggio morale. Se ciò fosse permesso, sarebbe lecito di rubare, per poi esercitare atti di beneficenza: l'inventore avrebbe diritto di fallire per sostenere le spese delle sue invenzioni; insomma nessun contratto obbligherebbe, perchè la ricchezza potrebbe sempre servire al nostro perfezionamento morale. La promessa accettata non è annullata dall'imperiosa necessità di evitare una immoralità suicida, che viene misurata da un sistema rivelatore dei nuovi interessi. Così, guadagnati alla rivoluzione, sentiamo che ci perderemmo rimanendo sotto l'antica legge cattolica ed assolutista, e la rivelazione ci impone di rescindere tutti i contratti stipulati per la difesa del cattolicismo e della monarchia.
Il progresso dell'eguaglianza e della comunanza interviene adunque nel contratto perchè subisca il moto emancipatore del progresso. Nella barbarie il contratto è assoluto, sta nel diritto, non considera la materia; quando la promessa è accettata non v'ha limite nel modo di rescinderlo; la libertà regna sola, la proprietà è implacabile. Se Agamennone ha promesso il sacrifizio d'Ifigenia, se Jefte ha giurato d'immolare la figlia, il sangue deve essere versato; se Esaù ha venduto la sua primogenitura per un piatto di lenti, non v'ha principio che lo redima dalla frode di Giacobbe. Quindi la schiavitù e la miseria si propagano in pari tempo che si propaga la civiltà; essendo più facile al ricco che al povero il profittare di ogni trovato. Per sè stesse la più tirannica libertà, la più vasta proprietà sarebbero tollerabili; ma intorno all'uomo libero per eccezione e potente per le ricchezze sta la misera turba dei diseredati, la quale cede alla fame, al dolore, e contrae obbligazioni immani, insopportabili, per sostentare la vita. Il contratto raddoppia la tirannia della libertà e della proprietà; l'estende, la complica, offre un salario alla servitù, offre una ricompensa a chi si ruina, divide i deboli, li soggioga, fa brillare la luce del diritto sulle catene, la speranza del guadagno sullo scambio delle umiliazioni. La prepotenza del contratto è irresistibile finchè il progresso delle idee non estende l'eguaglianza e la comunanza; quando il privilegio della libertà e quello della proprietà subiscono il giogo della necessità, allora conviene che anche il contratto ceda alla legge liberatrice. Di là le leggi che vegliano sulla truffa, sul dolo, sulle rescissioni; di là l'equità crescente nell'interpretazione delle promesse accettate; di là il problema odierno della rivoluzione intenta a sottrarre i contratti del proletario all'usura dei fabbricanti, dei banchieri, dei capitalisti, e in generale dei ricchi: problema che non sarà sciolto se prima non vien rinnovato il riparto dei beni. Possiamo distruggere la conseguenza quando il principio sussiste? quando la libertà e la proprietà sono ancora due privilegi? La legge agraria nel contratto presuppone la legge agraria nei beni.



Capitolo XI

DELLA SCHIAVITÙ

Lo scambio dei valori, lo scambio dei beni, questa doppia condizione del contratto, si applica al dominio dell'uomo sull'uomo. Questo è il fatto che combattiamo; pure non si saprebbe determinare quando debba cessare se non si sa quando cominci.
Messa in disparte ogni idea di diritto e di dovere, l'influenza dell'uomo sull'uomo è un fatto continuo e universale. Gli uomini si lasciano dominare dall'intelligenza, dalla parola, dal sentimento, dalla forza; agli uni manca il coraggio di resistere, agli altri manca la volontà; vi sono dominazioni accettate col tripudio della frenesia. La forza dell'animo, quella della mente, la ricchezza, l'astuzia, si traducono nel mondo esterno in vere forze fisiche, e la manifestazione della forza fisica determina fatalmente un sentimento di deferenza nella rivelazione della vita. Il più forte è naturalmente superbo; il più debole è involontariamente servile; il contegno, il verbo, il gesto di un personaggio importante non moverebbero a riso in un uomo senza autorità? La bellezza della donna è una forza, s'impone coll'amore: e che è l'amore? È adorare, servire. Perchè il governo monarchico è forte, rapido nell'azione, difficile a vincersi? Dovrebbe essere il più debole, il più lento; ma il prestigio del potere spinge alla bassezza, fa inorgoglire la viltà, esalta la servilità, e tutto cede al più forte che regnerà sempre, qualunque sia la natura della sua forza: se l'uomo non fosse timido, sarebbe indomabile, insociabile. L'ascendente della forza può forse giungere fino alla dominazione assoluta dell'uomo sull'uomo? Sì; lo schiavo, dice Aristotele, perde nei ferri persino il desiderio d'infrangerli, ama la sua servitù. Il più forte non è mai abbastanza forte per esser sempre padrone, se non trasforma la forza in diritto, e l'obbedienza in dovere; e per mala sorte la stessa natura s'incarica di operare questa trasformazione. «Non è l'uomo che domina sugli altri uomini,» dice Epitteto, «ma la morte, ma la vita, ma il piacere, ma il dolore: tolte queste considerazioni, mi si conduca innanzi all'imperatore, e si vedrà come starò ritto.» Il triste scambio della schiavitù può dunque trasformarsi in contratto; la sventura può avvilire, togliere ogni coraggio, annullare il sentimento giuridico della dignità perduta. Lo schiavo si abitua all'irresponsabilità, all'imprevidenza, all'indigenza, all'annientamento della sua persona. Si forma una nuova morale, quella della schiavitù. Riceve qualche benefizio? Allora rinasce alla vita, ama il padrone, s'identifica col suo onore; nelle colonie la sua devozione sorpassa l'abnegazione dell'amicizia, diventa eroica, e la schiavitù può essere accettata, può creare 'eroismo della schiavitù. Dall'altro lato, il padrone inbaldanzisce col signoreggiare, l'assenza d'ogni ostacolo gli dà un ardire che le sole forze dell'animo suo non potrebbero ispirargli; l'abitudine del comando trasforma il comando in diritto, fa nascere quella dignità, quell'istinto politico, quella previdenza, quella forza d'animo che ammiriamo negli antichi. Nelle società antiche gli uomini liberi erano, per così dire, principi e generali, ogni senato era una vera assemblea di re, e l'orgoglio della signoria col crearsi la sua morale, creava il suo eroismo, che opponevasi all'eroismo della schiavitù. Quindi lo schiavo perde la metà della sua ragione, ed è il padrone che se ne insignorisce; lo schiavo perde la metà della sua coscienza d'uomo, il padrone, profittandone, s'innalza al disopra dell'umanità. Se nelle nostre leggi la schiavitù è un delitto, se nella rivelazione che ci illumina il padrone è infame, la schiavitù nondimeno può essere istoricarnente intesa come uno scambio possibile, come un contratto implicito ed anche esplicito. Concesso poi istoricamente, esso diviene valido come gli altri contratti; finchè dura la rivelazione sotto la quale fu stipulata, l'obbligazione dello schiavo rimane consacrata.
Il problema della schiavitù fu da noi posto per determinare il momento della rescissione del contratto. Il patto della schiavitù è perento nell'istante in cui si manifesta in noi un'obbligazione superiore, vale a dire, un nuovo interesse sostenuto da un nuovo sentimento. Quando l'uomo nasce, lo schiavo scompare, nella misura determinata dalla necessità materiale di obbedire ad una legge morale. Se il padrone è in pari tempo sacerdote e signore come in Russia, lo schiavo dovrà osservare il contratto; se Abramo crede che Dio gli imponga di svenare Isacco, egli deve svenarlo. Sia lo schiavo istruito, sia distrutta la religione che lo inganna, la realtà si muta, una nuova necessità si manifesta; lo schiavo non può obbedire senza mentire a sè stesso; la sua collera prorompe, lo emancipa. Dov'è il principio liberatore? Nelle idee, nel sistema dei valori, degli interessi che risvegliano una nuova morale. Non v'ha mezzo per liberare chi è schiavo di mente; se infrange i suoi ceppi, cade preda di altro padrone, e non muta stato. E la schiavitù è infinita nelle mille forme che assume; qui è un giuramento che obbliga ad uccidere il fratello, là è uno scrupolo che strazia sul letto di morte, altrove prende le sembianze dell'amore che vincola alla famiglia: resiste all'aguzzino, ma teme il sacerdote; odia il sacerdote, il pontefice, l'imperatore, poi legge avidamente la Bibbia, interroga l'oracolo dell'evangelio, non crede alla giustizia, rimane schiavo di Dio, e tosto incontra chi sa fare le sue veci in terra.



Capitolo XII

LA RENDITA

Tra i diversi modi di godere dei beni vi ha quello di cederli a tempo, mediante retribuzione: di là l'affitto delle case, quello delle terre, l'interesse dei capitali, e in generale la rendita. La rendita esprime la vera essenza della dominazione sulla cosa posseduta: prestando la cosa, mutuandola, affittandola, il proprietario non se ne serve, si dispensa da ogni lavoro, resta nell'inazione, ed esige che altri gli paghi il premio dell'inerzia. Chi vive di rendita, vive di ozio, gode il lavoro altrui, è il vero parassito della società: gode di un mero diritto di dominazione regia ed imperiale.
È lecito il vivere di rendita? E lecito anche quando altri muore di fame? Pare di no perchè il diritto in tutta la sua estensione non può essere se non l'egida della morale: qual è la morale dell'ozioso? Il diritto non può proteggere se non la virtù: qual è la virtù dell'ozioso? Se il diritto permette il vizio, affinchè la virtù rimanga spontanea, suppone sempre il vizio individuale; innocuo: è individuale il vizio del ricco? No; chi vive di rendita domina sul lavoro, regna sulla miseria, si fa padrone del governo, detta la legge, opprime la società. Posta l'immoralità della rendita o piuttosto del vivere sulla rendita, incontriamo l'obbiezione che sorge dalla proprietà: chi è proprietario ha diritto d'uso; il diritto d'uso è inseparabile dal diritto d'abuso; tolto anche l'abuso, rimane il diritto semplicissimo di godere delle cose in ogni modo possibile: come escludere il mutuo e l'atto? O combattete la proprietà, o rispettate la rendita. Tale è l'antinomia della rendita; contraddizione critica senza soluzione, essendo, da una parte, incontestabile il diritto di proprietà ne' suoi limiti, dall'altra, incontestabile l'iniquità dell'ozio che affama l'industria.
La rivelazione del diritto e dell'interesse si sottrae al dilemma: in faccia al ricco la questione deve essere sciolta con ragioni reali e positive. Abbiamo riconosciuta la proprietà nei limiti della necessità, dominata dalla comunanza che la rende morale; e sottoposta all'ideale della legge agraria: riconosciamo quindi il mutuo e l'affitto egualmente sottoposti al diritto di necessità e al progresso della legge agraria.
Il male non sta nell'interesse del denaro; e nell'affitto delle terre e delle case; ma nel vivere di rendita, nel vivere d'ozio e di frivolezza. L'interesse, l'affitto sono scambii di servigi, di cose, di valori; sono premii vicendevoli che non suppongono una ineguaglianza, anzi ci presuppongono giuridicamente eguali; chi prende una casa in affitto può esser ricco, e avere altre case che affitta alla volta sua; chi coltiva il campo altrui mediante annuo tributo, può esser proprietario di altri campi; chi mutua l'altrui denaro, può dare in mutuo il proprio. Nel commercio, la catena dei servigi e degli sconti è indefinita; reciproca, continua, nè si potrebbe rompere senza annientare il commercio stesso. Ogni uomo che mi chiede un prestito rimunerandomi, mi priva di un vantaggio, e si ripromette un vantaggio; mi toglie un bene, e si ripromette un bene: vi deve essere compenso. La tirannia della rendita sorge, non dall'interesse, non dall'affitto, ma dalla ineguaglianza delle proprietà. L'interesse, l'affitto sono cause indirette dell'abuso, non sono cause se non subordinate alla proprietà: se vivete di rendita dovete attribuirlo alla vostra fortuna, ai vostri capitali, alle vostre case, ai vostri campi: se le fortune fossero eguali, potreste voi rimanere nell'ozio, darvi ai piaceri, non curarvi del lavoro? potreste rendere tributari dei vostri capricci gli operai, le fabbriche, il commercio? È ancora l'ineguaglianza de' capitali che genera la tirannia dei banchieri: se la banca fosse sociale, se non fosse un monopolio dei più ricchi, se questo monopolio non aumentasse di mille doppi procurandosi i privilegi accordati dal governo, diventando unico, legale nelle banche dello Stato; insomma, se l'ineguaglianza non fosse nel principio, non sarebbe nei profitti, non diventerebbe un vizio, nè una tirannia nelle conseguenze. Sia stabilita l'eguaglianza delle fortune; il mutuo, l'affitto diventano scambievoli, facili; quanto si guadagna, altrettanto si perde; le differenze rimangono minime; non rappresentano se non il fato della materia, l'intervento del caso, inevitabile in ogni atto della vita.
La missione della rivoluzione non è di combattere direttamente l'interesse del denaro o l'affitto dei campi e delle case, ma bensì di combattere direttamente l'ineguaglianza primitiva dei beni, il riparto attuale delle fortune sociali, la distribuzione vigente delle ricchezze. Supponiamo che si voglia muover guerra alla rendita, che si chieda senz'altro la gratuità del credito estesa ad ogni cosa mutuata. Supponiamo soppressa la rendita, teniamoci nell'ipotesi rigorosa di questa soppressione; non consideriamola qual preludio di nuova rivoluzione, che debba poi sopprimere l'ineguaglianza delle ricchezze. La nostra ipotesi sarebbe allora riassunta dall'editto seguente: 1.° la rendita è abolita; 2.° i fittaiuoli sono dispensati dal pagare i padroni: 3.° i locatori sono dispensati dal pagare l'affitto; 4.° i mutuatari sono sciolti dall'obbligo di pagare gli interessi de' capitali mutuati. Qual sarebbe la conseguenza dell'editto? I proprietari della terra rientrerebbero ne' loro campi, lascerebbero la terra incolta, le messi abbandonate: i fittaiuoli sarebbero espulsi: se nessun operaio si offrisse di lavorare la terra, a dispetto della legge, la terra rimarrebbe desolata. I proprietari delle case imiterebbero quelli dei campi: darebbero congedo ai locatari, abiterebbero gli appartamenti vuoti, preferirebbero di conservare le case, al vederle invase da cittadini, i quali, occupandole, negherebbero in principio il diritto di proprietà. Da ultimo, i capitalisti ritirando i capitali, li spenderebbero a caso, li seppellirebbero, preferendo ogni partito a quello di lasciarli avventurati in mano di debitori incerti e probabilmente nemici. I proprietari e i capitalisti sarebbero danneggiati, non v'ha dubbio: ma il popolo? rimarrebbe senza case, senza campi, senza danari. Le case, i campi, il denaro, le fabbriche, gli istromenti del lavoro resterebbero nelle mani de' proprietari; quindi l'agricoltura, l'industria ed il commercio sarebbero immediatamente esercitati dai proprietari; mentre il proletario sarebbe sbandito, non solo dalla proprietà, ma dall'agricoltura, dall'industria e dal commercio. In una parola, la lotta contro la rendita oppone un popolo di nudi a un popolo di ricchi, una falange inerme ad una falange armata: di chi sarà la vittoria?
Si dirà: «Se i proprietari e i capitalisti si collegano contro il popolo, sono perduti; al certo, una mano di oziosi non potrà ridurre alla disperazione l'immensa maggioranza della nazione. Si torranno al ricco le terre, le case, il denaro: dove troverà chi lo difenda?» L'obbiezione è forte, ma che prova? Prova che la rivoluzione deve oltrepassare la discussione sulla rendita per combattere il riparto attuale della proprietà: prova che torna vana ogni lotta contro la rendita, se non si risale alle proprietà; prova, da ultimo, che, vinta la lotta sul riparto delle proprietà, torna inutile ogni lotta sulla rendita. Tanto vale il lasciarla libera. Il ricco è solo contro tutti: lo sappiamo, non lo dimentichiamo; voi dimandate chi lo difenderà: chi? Voi, se riducete il problema della rivoluzione a un problema di. sconto: posto il vostro programma: imprigionata la rivoluzione nel vostro programma; impegnati voi a difenderla nella misura della gratuità del credito; dovrete difendere il proprietario nella sua libertà di proprietario; tolta la rendita, dovrete accusare di spogliazione chi oltrepassa il limite da voi posto, dovrete combattere a profitto della proprietà. La vostra rivoluzione si ridurrà ad un assalto di scherma, poi sarà reazione mascherata di parole temerariamente incendiarie.
Il problema della rivoluzione è più vasto e le mille volte più profondo del problema del credito. Questo si restringe nella circolazione della ricchezza, vede nella rendita un diritto di pedaggio prelevato dal ricco sull'industria; vede nel frutto del capitale, nell'affitto delle terre e delle case una tassa prelevata sull'operaio, sul trafficante, sul merciaiuolo: vede ogni industria dipendente da un capitale, tributaria della proprietà. Vuole adunque abolito il pedaggio, soppresso il tributo e sostituito il credito reciproco, il credito gratuito alla spinosa circolazione, che deve traversare le rôcche e le cittadelle della ricchezza prima di animare l'industria e di compensare l'operaio. Ma non iscorgesi evidente l'impossibilità di ogni equa reciprocità nei crediti, nei prestiti, nelle anticipazioni, nei salari, finchè la ricchezza trovasi radicalmente viziata nell'origine e nello scopo, voglio dire al punto di partenza e al punto d'arrivo? In primo luogo, la ricchezza è viziata nel punto di partenza. L'ineguaglianza non è forse presupposta da ogni atto economico? ogni atto economico non emana forse dal riparto attuale delle fortune? Il riparto attuale non è forse un riparto di forze e di potenze stabilito a priori in favore del ricco? Il ricco possiede le terre, i capitali, le case; senza il suo consenso non si può disporne; nè l'industria può lottare contro l'inerte egoismo del ricco. In secondo luogo, la ricchezza è viziata nel suo scopo finale: chi ordina all'operaio di porsi al lavoro? chi comanda alle fabbriche di tessere i drappi, le stoffe, gli addobbi? In una parola, chi consuma i valori prodotti? È ancora il ricco, il suo lusso stipendia l'industria, egli condanna l'operaio a renderlo felice o a morir di fame. Le cose sono ordinate in modo, che nel circolo della economia politica, dominato quasi tutto dal ricco, il povero non occupa se non un segmento, quasi fosse un caso della ricchezza, un'accessione del capitale. Così il popolo si compone di uomini da nulla, la casta dei ricchi si compone di personaggi; costituisce il bel mondo, gli uomini della società il gran mondo, opposto al popolo minuto. Ma come riformare la società e far sorgere un raggio di giustIzia se tutto ci circoscrive alla riforma della circolazione? come riformare la circolazione quando trovasi viziata alla fonte e alla foce? come dirigere l'acqua quando non si áltera l'inclinazione del piano? come ridurre la rivoluzione all'inane sforzo di lottare contro un torrente che trabocca da ogni lato, mentre il diritto delle necessità ci mostra la rivoluzione più facile e più vasta ad un tempo nell'opera dell'eguaglianza e della comunanza? Se siamo eguali, se ogni uomo lavora sulla base di una stessa fortuna, allora la circolazione sarà giuridica, l'eguaglianza delle rendite sarà l'effetto dell'eguaglianza delle fortune; quindi il mutuo, lo sconto, lo scambio, il credito, tutti gli atti della circolazione, interessati o gratuiti, scorreranno naturali. Il sistema che assale la rendita è legittimo, se assale in pari tempo l'ineguaglianza sociale; È legittimo nell'impressione che produce sulla massa, la quale passa rapida col pensiero dalla rendita al fonte stesso della rendita, il quale sta nelle ricchezze accumulate in mano di alcuni privilegiati: qui si mette in dubbio il riparto delle ricchezze, si chiede ai proprietari di render ragione della loro proprietà innanzi alla comunanza dello Stato, nella misura del diritto di necessità. Ma la polemica contro la rendita si fa giuoco della rivoluzione, e divien retrograda nell'istante in cui si ferma all'interesse, agli affitti, per colpire il riparto attuale delle fortune in modo obliquo.
La teoria del credito gratuito è una vera metafisica sociale: venne formulata da Proudhon col proposito di vincere con essa e di oltrepassare la contraddizione eterna della proprietà e della comunanza. Proudhon diceva: tra la proprietà e la comunanza costruirò un mondo. Non è mestieri costruirlo, è già costrutto da lungo tempo. Ogni riparto della ricchezza fu sempre un mezzo tra la proprietà e la comunanza; e la proprietà assoluta non ha mai esistito; essa non sarebbe possibile se non nella solitudine, e nella solitudine svanisce ogni diritto. Istessamente la comunanza assoluta non ha mai esistito, non è possibile; la comunanza del convento è vera proprietà in faccia allo Stato. Le caste, il patriziato, le feudalità esprimevano un riparto di beni, nel quale la proprietà, moderata dalla necessità, conciliavasi colla comunanza. La nostra proprietà determinata dal che dice è anch'essa limitata dall'imposta, dall'utilità pubblica, da mille servitù prediali, che rappresentano il diritto della comunanza. Il credito gratuito non dà una conciliazione metafisicamente più valida di quella data dal codice francese o dalle leggi di Manou. È un nuovo trovato, vero o falso, ma senza nesso colla contraddizione eterna della proprietà e della comunanza. La contraddizione critica non si vince, non si scioglie, non si concilia; la sua sintesi riesce sempre allo statu quo, perchè mette sempre capo nel fatto. Così la sintesi della contraddizione del moto, è il moto; la conciliazione della antinomia dell'alterazione, è l'alterazione; e in generale ogni fatto è la sintesi delle sue proprie contraddizioni. Promettete voi la sintesi delle contraddizioni critiche della società? È fatta, trovasi nel fatto, nelle instituzioni sociali, e convien riconoscere che viviamo nel migliore de' mondi possibili.
Per trovare un'uscita, Proudhon è forzato di tramutare l'antinomia della proprietà e della comunanza nelle antinomie della rendita, emergenti da una serie di antinomie economiche. Quali sono le nuove contraddizioni sostituite alle prime? Sono antinomie astratte. Eccone alcuni esempi: la divisione del lavoro fu utile, perfezionò l'industria; ora opprime l'operaio, lo condanna all'idiotismo di una funzione unica: dunque la divisione del lavoro è utile e dannosa. L'invenzione delle macchine fu un soccorso portentoso dato al braccio dell'uomo, ora rende inutile l'operaio, lo caccia dalle fabbriche, lo getta sulla via: dunque l'invenzione delle macchine è utile e malefica. La banca fu il felice trovato che semplificava e facilitava la circolazione, ora è privilegio di pochi, è monopolio di alcuni banchieri, ferma la circolazione: dunque la banca è utile e tirannica. Così di ogni trovato. Che ne deriva? Che Proudhon scambia le vere antinomie della proprietà e della comunanza con antinomie astratte, artificiali, non afferrate nella realtà, non emergenti dal fondo delle cose. Proudhon fa dell'uso della macchina un'essere imaginario; quest'uso è utile al proprietario della macchina, nocivo all'operaio; benefico per voi, malefico per me: quindi Proudhon chiama l'uso utile e dannoso, benefico e malefico, contraddittorio: istessamente conclude che le banche, che la divisione del lavoro sono buone e cattive: ciò accade altresì dell'uso della spada, del cannone, del vino, del pane, d'ogni cosa, sempre utile a chi ne usa, dannosa a chi ne abusa. Queste sono contraddizioni puerili; sono le contraddizioni che Platone deride nell'Eutidemo. A è più grande di B e più piccolo di C; dunque diremo noi che A è grande e piccolo ad un tempo? Perchè no? Ma a che serve? E se si cerca una soluzione? e se la soluzione si chiama sintesi?...
Tale è il procedere di Proudhon; vuol la sintesi della proprietà e della comunanza; e la sintesi rimane nel fatto, non conduce a nulla. Proudhon cerca un'uscita; trasporta l'antinomia sul piano di una contraddizione artificiale; e qui la metafisica svanisce nel nulla; ma si può almeno affermare utile la rendita nel passato e dannosa nel presente, donde la conseguenza che deve essere abolita. Si accordi la conseguenza; non è sintesi, è soppressione di un male, non concilia alcuna antinomia, fa cessare la rendita; il che può esser discusso senza discutere nè le antinomie reali, nè le antinomie astratte. La nostra conclusione è nota; combattere la rendita è combattere un episodio della rivoluzione.



Capitolo XIII

LA FAMIGLIA

La logica discioglie la famiglia: parlate della fedeltà coniugale? Non si danno leggi all'amore. Parlate del dovere del padre e della madre verso i figli? I figli sono figli della natura, e non della volontà dell'uomo. Parlate dei doveri dei figli verso i genitori? I figli non devono nulla ai parenti, che li generavano non pensando che a sè. L'amore può intervertirsi, e la logica non sa scegliere tra la salute e l'infermità, tra la costituzione e la dissoluzione della famiglia.
È la natura che fonda la famiglia, e las fonda colle due rivelazioni della vita e del dovere.
La rivelazione della vita conduce alla famiglia; il ritmo della vita suppone i due sessi, li avvicina, oltrepassa l'atto dell'amore, protegge la gravidanza della sposa, protegge la madre lattante, l'affeziona al figlio per eternare l'opera sua. Nulla sfugge a questo sentimento; l'arte non sarebbe possibile se facesse comparire sulla scena esseri neutri, senza padre, senza madre, senza figli; havvi dunque la vita della famiglia, la poesia della famiglia. Essa comanda all'intelligenza, e l'intelligenza ne attua le aspirazioni nel mezzo del meccanismo esteriore. Qui l'intelligenza prevede la prole che nascerà, la vecchiaja dei genitori: essa determina gli interessi della famiglia, ordina la famiglia. Tale è l'opinione di tutti i popoli. L'antichità considerava il matrimonio come una invenzione, l'attribuiva a Fou-ki, a Teuth, a Cecrope; lo riponeva tra le prime scoperte in un coll'aratro, colla scrittura, coll'arte di fondere i metalli. L'opera vitale del matrimonio interpretata dai legislatori si trova poi sorretta dalla rivelazione morale, che sorge parallela agli interessi della famiglia. Chi insegna all'amore la religione dell'amore? Nessuno; la natura. Chi insegna all'uomo essere il parricidio il più nefando dei delitti? È la natura. Il ritmo morale segue il ritmo poetico; ad ogni interesse della famiglia corrisponde un dovere; l'intelligenza determina l'interesse, il cuore dètta il dovere.
Se ci scostiamo dalla rivelazione, manca la vita, manca il sentimento, ci troviamo in presenza dei dilemmi eterni dell'amore; chi tenta di scioglierli, crea il matrimonio che chiamerò metafisico, la famiglia metafisica; ed ogni diritto, ogni dovere sfugge all'arida impotenza del falso, per ricadere Delle contraddizioni critiche dell'amore comandato. - Vogliamo noi determinare metafisicando se il matrimonio ammette la poligamia o prescrive la monogamia? Non v'ha dato per rispondere a priori; la poligamia e la monogamia formano un dilemma. L'idea che il matrimonio è un contratto non vale a respingere la poligamia: il contratto, non obbliga se non nei limiti del contratto, può essere stipulato sotto le condizioni della poligamia e della monogamia, e il contratto lascia sussistere il dilemma. Nessuna considerazione fisica può scioglierlo; se Gesù Cristo disse: eritis duo in carne una, se l'atto dell'amore è essenzialmente monogamo, pure la maternità lascia libero l'uomo di cercare altra compagna; l'atto dell'amore è monogamo anche nel toro e nel gallo, destinati dalla natura alla poligamia. Le considerazioni morali prese nella loro astrattezza non tolgono il dilemma. L'amore, dicesi, è esclusivo, identifica due vite, due destini: ebbene? Si tratta di sapere se il matrimonio deve obbedire all'ideale dell'amore, se la legalità deve seguire Platone, comandare l'imitazione di Eloisa o di Beatrice; si tratta di sapere se la legge deve imporre ad ogni onest'uomo di perpetuare in casa sua l'istante del delirio poetico, che congiunge due esseri involati dall'amore al consorzio dei viventi. E se guardansi dappresso gli ideali dell'amore, l'ordine superiore di adorare una donna in eterno, non si trova consigliato da Petrarca, nè da Dante nè da Platone, nè da alcuna leggenda cavalleresca, nè, in generale, dalla poesia, che distingue benissimo la diade dell'amore da quella del matrimonio. Platone consiglia la comunanza; Petrarca vive poligamo, i cavalieri amavano l'altrui donna; se l'avessero sposata, la poesia li avrebbe obbligati a scegliere un'altra signora. Concesso poi che la poesia tenda alla monogamia, la poligamia ha i suoi poeti, le sue leggende, le sue dolcezze; Sacontala si oppone alle nostre eroine monogame; le donne orientali intendono meravigliate ed ironiche il meschino matrimonio a cui si condanna l'Europeo. Quindi i costumi, gli usi non valgono alla volta loro a sottrarci al dilemma: se l'Europa accetta la monogamia, l'Oriente rimane nella poligamia; se il Nuovo Testamento vuole il matrimonio europeo, l'Antico Testamento celebra il matrimonio de' patriarchi. Ascoltiamo un Padre della Chiesa: «Qual delitto possiamo noi imputare,» egli dice, «al santo uomo Giacobbe di aver avuto più donne? Se consultate la natura, egli si è servito di queste donne per aver figli; se consultate i costumi, i costumi autorizzavano la poligamia; se consultate la legge, nessuna legge vietava la pluralità delle donne».
Chi governerà la famiglia? La metafisica non può trovarle un capo. Perchè l'uomo avrebbe il diritto di comandare? La sua forza è solo un fatto materiale, costringerà la donna senza obbligarla; la sua intelligenza può non essere superiore a quella della donna; il suo sesso per sè non dà diritto al comando; chi sarà dunque il capo? Senza un capo, il matrimonio istituisce la guerra perpetua nella famiglia; dato un capo, si giunge alla tirannia. Poi, quali saranno gli obblighi vicendevoli dei coniugi? L'obbligo stesso della fedeltà si sottrae alla metafisica, che lo lascia cadere nelle antinomie del senso, o in quelle del sentimento, o in quelle dell'interesse, o in quelle della ragione. Nel senso, l'amore vuol essere libero, non vuol subire l'impotenza o il tedio di un coniuge aborrito. Nel sentimento si verifica lo stesso fenomeno; quanto più la metafisica esagera l'ideale dell'amore per imporlo al matrimonio, tanto più lotta contro la fedeltà nell'istante in cui l'amore respinge la coppia riunita dalla legge. L'interesse consiglia egualmente la fedeltà e l'infedeltà; se vuole il marito assicurato contro l'intrusione di un figlio nel seno della famiglia, può consigliare allo Spartano di offrire la moglie ad un illustre straniero: uso generale in vastissime regioni. Anche la ragione esita tra la fedeltà e l'infedeltà: e come non dubiterebbe? Vuota, astratta per sè, non può se non dare una forma astratta ai diversi motivi del senso, del sentimento, dell'interesse, e metafisicando sulla loro forma astratta, li lascia ricadere nelle precedenti antinomie. Se si avesse a ragionare sul contratto ammesso, stipulato, la soluzione sarebbe facile; ma non si dimentichi che qui si tratta di dar leggi al contratto, di limitarne la libertà, d'interdire ai contraenti di pattuire le condizioni che più loro aggradano. La contraddizione poi si fa maggiore quando consideriamo l'autorità del padre sui figli: e qui nessuna equazione vale a dedurla nè dall'atto della generazione, nè dal fatto dell'amore: alcuna misura astratta non può determinarla, sì che restiamo dubbi tra lo Spartano, che può esporre, uccidere il neonato, tra il prisco Romano, che può condannare il figlio alla morte, e l'Europeo, che non può sottrarlo alla religione dominante dello Stato.
La madre può rimaritarsi col figlio? il padre può congiungersi colla figlia? La metafisica non sa nemmeno combattere l'incesto. Aristippo, Cleante, Crisippo lo credevano legittimo: sulla più gran violazione della legge della natura, la giurisprudenza naturale trovasi compiutamente disarmata. Perchè vieta essa il matrimonio della figlia col padre, della madre col figlio? Si pretende che l'incesto stabilisca diritti contraddittorj, che metta in opposizione l'autorità dei parenti sui figli coll'eguaglianza giuridica stabilita dal matrimonio tra gli sposi Ma v'ha inganno: il matrimonio incestuoso si limiterebbe a far succedere l'eguaglianza all'ineguaglianza; il che accade nella stessa famiglia nell'istante in cui il padre emancipa il figlio. D'altronde l'autorità antica che il marito esercitava sulla sposa non permetteva forse il matrimonio che avrebbe potuto contrarre colla propria figlia? - Secondo un'altra teoria, l'amore è soddisfatto, compiuto, esaurito colla generazione del figlio, e la nuova generazione trovasi così separata da quella che la precede. Questo è un fatto, ma il tentativo dell'incesto gli oppone un fatto contrario; voi asserite che l'amore è compiuto, che non desidera più alcuna soddisfazione: ma l'incesto desidera una nuova soddisfazione, ma chiede il rinnovamento dell'opera dell'amore. Perchè l'amore non potrebbe divenire incestuoso poichè lo diventa? - Fu imaginato che il padre potrebbe abusare della sua autorità per sedurre la figlia, che bisogna togliergli la speranza del matrimonio: e qui s'incontrano nuovi ostacoli. A chi confideremo la figlia se non si confida al padre? Rifiutandola in matrimonio al padre, si imagina un espediente per sottrarla a un'infame libidine, senza dimostrare l'infamia stessa dell'incesto. - Si dice ancora che l'incesto offre in sè qualche cosa di odioso e di contrario alla natura: chi ne dubita? Eppure la ripugnanza scompare nel fatto stesso dell'incesto, e la metafisica, che vorrebbe trovare un titolo per separare l'incesto dall'amore naturale, non raggiunge lo scopo.
Insomma, il matrimonio è un'invenzione come l'arte di coltivare la terra di fondere i metalli. I nostri metafisici, dandogli leggi astratte, si limitano a copiare, a tradurre il matrimonio cristiano in formole scolastiche, che adornano poi con isquisitezze e sentimenti raccozzati a caso. Stiamo alla rivelazione, vedremo quale dovrà essere l'arte della famiglia; stiamo all'arte, la vedremo consacrata dal cuore. In astratto non v'ha legge; l'uomo astratto, la donna astratta, non esistono; ditemi dove vivete, qual'è la vostra patria, quale il sistema sociale a cui appartenete; ditemi qual'è l'idea che avete dell'uomo, e allora vi dirò quale dovrà essere la famiglia e come l'uomo dovrà essere rispettato nella triplice forma di padre, di madre e di figlio.
Noi rispettiamo l'umanità, dovunque appare la forma dell'uomo; questo è il nostro principio, ed esso ci ritrae dalle aberrazioni della metafisica, ci rivela l'ideale della famiglia.
Il matrimonio deve essere, perchè invocato dall'amore, e perchè l'umanità è in potenza nell'atto del nostro moltiplicarsi. La legge deve governare il matrimonio, perchè non può lasciare al caso il riprodursi della specie, l'iniziarsi dello Stato e dell'umanità. Impotente a raccogliere dalla culla ogni vivente, incapace di sorgere colle forze sole della comunanza, lo Stato deve imporre all'amore tutti i pesi della comunanza, e subordina tutti i contratti dell'amore ad una formola unica e comune a tutti i cittadini. Quale sarà questa formola?
In primo luogo, proscrive la poligamia e la poliandria, perchè l'umanità è in ogni uomo, in ogni donna e l'umanità respinge la poliandria che suppone l'uomo dominato dalla donna, la poligamia che suppone la donna dominata dall'uomo. Nella nostra rivelazione il contratto della schiavitù è perento ex jure. L'obbligo della fedeltà reciproca nasce dall'eguaglianza dei coniugi, è voluto dalla vita che s'esprime colla forza della gelosia, dell'orgoglio, è consacrato dalla coscienza, dal pudore, dalla morale. Non parlo d'altri interessi per cui l'adulterio diventa un furto. L'obbligo della fedeltà non soffre eccezioni: nessun popolo è supposto nemico, nessuno straniero deve diventare amico coi vincoli del sangue: l'infedeltà spartana non è prevista, è proscritta; se nasce consentita è mercato infame, in cui sono stipulati vantaggi eslegi, fuori dell'ordine generale e naturale dell'umanità quale a noi si rivela. La libertà, l'eguaglianza, la moralità dei coniugi suppongono la libertà reciproca del divorzio; la legge non deve aggiungere ai sacrifizi imposti all'amore quello del matrimonio indissolubile nell'interesse della prole. Se la prole non esiste, la perpetuità del matrimonio è tirannia gratuita; se v'hanno figli e se i figli non valgono a tenere imiti i coniugi, la legge deve riconoscere la propria impotenza, e rinunziare ad una lotta disperata e scandalosa contro la spontaneità dell'amore.
In secondo luogo, chi sarà il capo della famiglia? Il capo rivelasi nell'uomo, l'uomo si sente più operoso, più forte, più giusto, la donna si sente sommessa, riservata, pudica. La legge deve accettare questa dualità per fare dell'uomo l'amministratore della famiglia. La società deve preferirlo, non per costituirlo padrone, ma per avere un delegato risponsabile della famiglia dinanzi alla comunanza che non può assorbirla. Quanto era barbara ed impotente l'antica comunanza, altrettanto era barbara ed assoluta la potenza del marito. Svanì l'autorità maritale degli antichi, potrà diminuire la nostra; non v'ha mezzo per lottare contro la debolezza del sesso, contro il predominio fatale degli affetti femminili, contro la necessità di dare un rappresentante alla famiglia. Respingiamo quindi la metafisica di Platone, di Campanella e di Saint-Simon, che eguagliavano il marito alla moglie, e predicavano l'emancipazione della donna. Il termine medio della pretesa eguaglianza era la ragione; termine vuoto; che passava dall'uomo alla donna, dimenticando l'uomo e la donna, trascurando il sesso che nella nostra specie comprende tutta la persona; penetra nel pensiero, determina nella rivelazione morale una dualità ineffabile e incontestabile. E la dualità fu sempre riconosciuta, accettata dalla donna, che tende piuttosto ad esagerarla che a dissimularla; come lo attestano i costumi e lo stesso vestire che raddoppia la differenza del sesso. Parlate di emancipare la donna? volete emanciparla dalla sua missione, dal suo pudore, dalla sua dignità? Rimane sempre che il sesso femminile sotto l'aspetto della giustizia è inferiore. La figlia d'Eva è divota, affezionata, vi ama; e vi ama a tal punto, che odia chi vi nuoce, fosse pure nel suo diritto, foste pure nel vostro torto: questa è la miseria della donna; è tocca dall'individuo, più che dall'umanità e convien che altri rappresenti la famiglia dinanzi a tutti.
Anche l'autorità del padre vien determinata dalla rivelazione dell'umanità: lo Stato gli ha imposto il contratto dell'amore nella previsione della prole; al nascere della prole lo Stato deve raddoppiare di previsione e reclamare alla comunanza l'uomo nascente nel figlio. Quindi il padre trasformato in tutore momentaneo, vigilato, esaminato, reso responsabile del destino del figlio emancipato, appena può bastare a sè stesso. Ne' tempi barbari l'autorità paterna era immane perchè lo Stato era impotente, non curante dalla natura umana quando era disgiunta dall'idea del cittadino armato che difende la patria. Coloro che in oggi resistono all'autorità dello Stato, lottando per la libertà della famiglia, disconoscono e la religione dell'umanità e la propria religione. Sono cattolici, e sono in contraddizione con sè stessi. Da Giustiniano ai nostri tempi non hanno cessato di imporre alla famiglia l'educazione cristiana, costringevano i padri a trasmettere ai figli la fede della Bibbia. Se la famiglia cristiana è più elevata, più pura della famiglia pagana, non deve la sua elevazione se non al giogo della comunanza, che aveva più forte, rinunciando al diritto di esporre il figlio, di punirlo colla morte, di sottrarlo ai principJ della grande comunanza cristiana. Il cristianesimo regna più tirannico sulla famiglia, che non lo Stato di Sparta, limitato a volerla nudrita ne' pubblici banchetti, e pubblica negli esercizi militari, che saranno sempre comuni in ogni civiltà. Il cristianesimo introdusse nella famiglia il sacerdote, un giudice a cui nessun secreto può esser sottratto, e da cui dipendono il marito, la moglie, i figli: egli può dividere, denunziare, accusare, coi mille mezzi del consiglio, della minaccia, colla legge cristiana e anche colla legge politica. Il cristianesimo impose all'amore il tributo, il peso più duro che sia stato concetto dal principio del mondo; ed ora grida libertà, vuole i figli lasciati all'impero de' conjugi, vuol l'educazione libera. Tanto vale chiedere la dissoluzione della comunanza, dello Stato, della società. Da che la bandiera dell'umanità cadde dalle mani dei cristiani, spetta alla religione nostra, che si vanta irreligione, di raccoglierla, d'innalzarla più alta, di sottomettere il matrimonio all'idea stessa dell'umanità, poichè concetto nell'interesse dell'umanità. Quindi i diritti dell'educazione nazionale sorgono dal principio stesso del matrimonio, autorizzati dagli antecedenti del cristianesimo.



Capitolo XIV

L'EREDITÀ

Il diritto di ereditare, vestigio dell'antica barbarie, è in conflitto coll'ideale della legge agraria.
È nota la parabola di Saint-Simon: traduciamola all'uso dell'Italia. Sia supposto che cinquanta tra i membri più cospicui delle famiglie regnanti in Italia muoiano subitamente, sia supposto che cinquanta tra i nobili di più antica stirpe muoiano egualmente, sia supposto che vengano raggiunti nel sepolcro da cinquanta tra i più ricchi signori; e che successivamente cinquanta proprietari di case, cinquanta proprietari di fondi, cinquanta padroni di fabbriche, cinquanta banchieri, cinquanta individui, sempre presi tra i primi in ogni classe della ricchezza, scompaiono colpiti dalla morte. Egli è certo che gli Italiani sarebbero afflitti, a cagione dell'ingenita bontà dell'animo loro; pure ai defunti si sostituirebbero immediatamente i loro eredi, che saprebbero essere, principi, conti, marchesi, ricchi proprietari, banchieri, senza che l'Italia soffrisse alcun danno per la subita catastrofe. Supponiamo, al contrario, che cinquanta tra primi poeti, cinquanta tra' primi pittori, cinquanta tra i più illustri scultori, cinquanta tra i più abili artefici in ogni genere d'industria, cinquanta tra i più sagaci ingegneri, cinquanta tra i più dotti medici, cinquanta tra i più probi amministratori sparissero improvvisamente involati dalla morte: non v'ha dubbio che l'Italia non potrebbe riparare tanta sventura se non a capo a molti anni. La tradizione della scienza, dell'arte, dell'industria sarebbe scossa e affievolita. E chi governa? chi regna? Gli uomini nati nella ricchezza, gli uomini che vivono inutili, che possono morire senza danno della società; in una parola, gli uomini privilegiati dalla fortuna ereditaria.
L'eredità è la vera fonte dell'ineguaglianza. Quanto ogni uomo può guadagnare coll'industria, coll'astuzia, anche colla frode, non pesa sulla società. I guadagni individuali hanno un limite, assorbano la metà della vita di chi li raccoglie, non restano in mano dell'arricchito se non pochi anni, si può presumerli il frutto, la ricompensa dell'ingegno, della probità, della fatica. Gli arricchiti non valgono a costituire una classe sociale; nati negli affari, vi rimangono, e rimarrebbero popolo se non vi fosse una classe che li perverte. Qualìè questa classe? Quella de' ricchi dalla nascita. In essa non si lavora, si vive di rendita, primo vanto è di non guadagnarsi il vitto; chi lo guadagna è disprezzato, espulso; il lavoro è considerato umiliante, servile. Quindi l'insolenza trasformata in diritto; l'ozio rispettato, la frivolezza sostituita all'operosità naturale, il darsi spasso trasformato in dovere. Se non è frivolo, il ricco dalla nascita è condannato ad essere malefico. L'eredità gli dà un capitale primitivo, il capitale gli concede un'educazione privilegiata; lo rende abile d'un tratto ai primi uffici della società, ai più alti magistrati; gli dà in mano il governo, gli eserciti, la diplomazia, e il disprezzo pel diseredato si trasforma in signoria. Le virtù stesse e l'industria subiscono il predominio dell'eredità, nel commercio il ricco ottiene un credito immediato, si procura le materie, gli istrumenti, le macchine desiderate. Il più ingegnoso inventore trovasi nella dipendenza del più rozzo benestante: nè può proteggere la scintilla del suo genio sfuggita all'avida previdenza del capitale, senza divenir servo per indi divenire alla sua volta ricco e malefico. Finchè sussiste il diritto di ereditare, la libertà, l'eguaglianza, la fratellanza, saranno divisioni: da senno il povero può credersi l'eguale del ricco? dov'è l'eguaglianza? Nella astrattezza metafisica, che dimentica il vivere sociale per non considerare se non il nascere, il morire, il funzionare del corpo umano. L'eguaglianza cristiana era più schietta, svolgevasi in cielo: la metafisica, sostituendosi al cristianesimo, restò con un'eguaglianza che non tocca nè al cielo, nè alla terra. L'astrattezza del suo concetto riesce ad un equivoco, e l'antica società passa a traverso l'equivoco colla chiesa e coi signori.
La metafisica s'ingegnò di cercare un termine medio, un titolo per passare dalla proprietà all'eredità. D'indi più teorie. - L'una di esse invoca ingenuamente la morale. «Ogni cittadino,» si dice, «ha il diritto di immolarsi ai posteri, non può esser morale senza sacrificarsi all'avvenire; dunque il diritto protegge il cittadino nel momento in cui trasmette la sua fortuna ai posteri, perchè serva d'istrumento al perfezionarsi della società. Chi riconosce la libertà riconosce la proprietà, chi ammette la proprietà ammette l'eredità.» D'accordo; avete il diritto di offrire la vostra fortuna: ma havvi un abisso tra il diritto d'immolarvi alla posterità e il diritto di legare ai vostri figli il vantaggio della vostra fortuna. Nel primo caso vi sacrificate agli altri, nel secondo sacrificate gli altri all'interesse del vostro nome; nel primo caso dimenticate la vostra persona, nel secondo dimenticate la società, vi innalzate un mausoleo, ingombrate la via pubblica colla vanità del vostro sepolcro, perpetuate i vostri funerali a dispetto dei vivi. Vi preme il bene dei posteri? Proponetelo, i posteri decideranno; ma non avete il diritto di violentare la natura con finzioni giuridiche, di oltrepassare la tomba con un contratto fittizio, di ipotecare l'avvenire regnando in eterno sul tetto della vostra casa, sulla gleba del vostro campo per espellerne i viventi. E che? la generazione nascente ha il diritto di rivedere il patto sociale, che dispone in sostanza dei beni e delle persone dello Stato; e voi pretendete imporre alla società futura la volontà di un privato? e la chiesa potrà reclamare un terzo de' beni dell'Europa a nome de' testatori morti da cinquecento, da mille e più anni? La teoria che fonda l'eredità sul diritto alla moralità, produce un titolo immediatamente lacerato dal diritto inalienabile d'ogni Stato di riconstituirsi ad ogni generazione. - Un'altra teoria considera l'eredità come il complemento naturale del diritto di proprietà: dice: «Se accordate la proprietà, se la riconoscete necessaria per attuare l'interesse d'ogni cittadino, se tolto lo stimolo della proprietà l'industria si ferma, conviene accordare l'eredità. L'operaio, l'artefice sarebbero disanimati se non potessero trasmettere la loro fortuna ai figli; lavorano pensando alla famiglia; l'interesse che li sostiene sarebbe affievolito se la proprietà fosse vitalizia.» È vero che la proprietà sola non basta all'uomo? è vero che l'usufrutto dei campi, delle case, dei capitali, manchi d'attrattiva? Direte che aggiunto all'usufrutto il diritto di sprecare la stessa proprietà, nessuno vorrebbe metter mano all'opera per acquistarlo? Ma la proprietà dell'operaio è meno che vitalizia, non trascende il giorno stesso del lavoro; la proprietà dei nove decimi della popolazione si riduce all'uso ed al consumo; è ben lontana dalla rendita. Eppure l'operaio e i nove decimi della popolazione si struggono di stento e di lavoro, troppo felici di guadagnare il vitto. A chi dunque non basta la proprietà? Alle grandi famiglie, all'arricchito che vuole emularle; nel regno dell'ozio la proprietà senza l'eredità sarebbe una calamità, perchè condannerebbe tutti i ricchi al lavoro. No; la proprietà non si completa coll'eredità, si spreca; l'eredità non aggiunge stimoli al lavoro, ne toglie; sopprime il lavoro del ricco, sopprime quello dell'operaio, che manca di capitale, per far valere l'industria. In una parola, l'eredità è il feudo moderno, e tutte le ragioni che vogliono abolito il feudo sopprimono l'eredità. - Una terza categoria considera l'eredità qual sacro diritto dei figli. «Essi nascono», si dice, «nella famiglia, vivono in una comunità; i beni loro appartengono prima della morte del padre, vi hanno un diritto positivo: sopprimendo l'eredità si ledono i diritti dei figli.» Ottima teoria attinta alle fonti del più ortodosso feudalismo. Dato il feudo, il figlio è l'erede necessario, il consocio del padre: e tolto il feudo? Il padre non è amministratore, è proprietario; il figlio non è consocio, è un estraneo; la eredità svanisce. La teoria si sforza di sopravvivere al feudo coll'espediente delle aspettative; si asserisce che, vivendo col padre, il figlio si abitua a considerare i beni paterni come suoi, si pretende che la società non deve affliggere l'onesta aspettativa del figlio, che s'attende ad arricchire colla morte del padre. Vergognose sottigliezze! turpitudini filosofiche! Ed è triste il vedere che uomini di scienza mettano sulla bilancia, da una parte, la cupidigia dell'erede trasformata in diritto, dall'altra, l'ignoranza forzata dei diseredati, la fame del popolo: e metafisicando, diano ragione alla cupidigia. - Una quarta teoria porta il nome di Leibniz, e vuol lasciare al proprietario il diritto di disporre de' suoi beni, per non turbare l'egoismo dell'anima sua, che suppone attristata se vedesse il suo avere utilizzato dalla patria. Che dire? Preso per ogni lato, la metafisica dell'eredità è la quintessenza dell'egoismo feudale; rappresenta ora la comunità d'una famiglia divisa dalla società, ora l'aspettativa d'un egoista ora il pensiero di un'anima eternamente avara del suo. - L'ultima teoria che meriti di essere richiamata, giustifica l'eredità colla considerazione che devonsi accordare al padre i mezzi di assicurare l'educazione dei figli: e qui il principio invocato basta a distruggere la conseguenza dell'eredità. Che chiedete alla patria? il diritto di educare i figli? Educateli; la natura accorda al padre il tempo di sorvegliare l'educazione del figlio. Muore immaturamente? La patria è padre, nè può soffrire che il morto si eterni per costituire un privilegio all'educazione generale de' cittadini. D'altronde, quando si parla dell'educazione de' figli, si mente, si dà un pretesto, si cerca ben altro: il diritto di educare può trasmettere solo la spesa dell'educazione; quarantacinque franchi al mese, somma vile, derisa dalle famiglie che sorgono dal diritto di ereditare. Così il principio dell'educazione non può protrarre la proprietà al di là della vita del padre, non può sottrarla alla patria, all'educazione nazionale; non può sottrarla al diritto della comunanza, al diritto della necessità, non può costituire il diritto di vivere di rendita.
La metafisica, sempre confinata nelle sue astrattezze, non poteva nemmeno abolire il diritto di eredità: se lo tentava, cadeva nella nuova astrattezza del comunismo; dopo di aver data la generalità del feudo, dava la generalità della comunanza. Ma quando i beni cadono confusamente nel seno della patria, i diritti si confondono, l'eguaglianza diventa indeterminata, non è più positiva, non è più voluta, nè sanzionata dalla rivelazione delle cose, della vita, del sentimento; e l'utopia astratta potrà scuotere le menti, non potrà riordinare la società. Quindi la metafisica lasciò la società alle sue impulsioni naturali e positive; impotente per sè, lasciò potentissimi i principj dell'antica società. Quindi l'eredità attuale trovasi per metà feudale, e per metà rivoluzionaria e profondamente anarchica, quale quale fu affranta e rassicurata ad un tempo dal codice di Napoleone.
Il feudo sussiste nel diritto del figlio ad una parte della successione del padre, nella presunzione legale che regola le successioni legittime, lasciando ad ogni famiglia tutti i beni da lei accumulati dal principio del mondo. La legge veglia con tenera sollecitudine perchè ogni suo membro non subisca alcun detrimento, veglia sul prodigo; accorda al padre, alla madre, anche ai fratelli, il diritto di impedire che riducasi allo stato infelice di dover vivere col lavoro delle sue mani. Tutti i membri della famiglia sono eguali; ma il padre ha un diritto di disponibilità, per falsare l'eguaglianza a profitto del primogenito, può preferire al primogenito, ciecamente scelto dalla legge feudale, un altro figlio più atto a rappresentare lo splendore della famiglia; in ogni modo può lottare con successo contro l'eguaglianza del diritto di succedere. La primogenitura, il maggiorasco, il feudo sono aboliti; ma la legge trasforma la famiglia del ricco in una comunità di egoisti, in un convento di delizie. I beni non sono più giuridicamente vincolati in eterno al lustro di poche famiglie; ma la legge, governata da equivoche astrattezze, non operò positivamente. Disse a tutti gli uomini detentori di feudi: pensiamo a noi, non all'avvenire; Edamus et bibamus. Quindi accordato al padre il diritto di dissipare la sua fortuna, accordato ad ognuno il diritto di alienare i suoi beni; quindi raddoppiati, estesi i diritti dell'ozio; diminuiti nei nobili, ma partecipati ai borghesi. L'egoismo operò solo nell'abolizione dei feudi; la rivoluzione dell'89 divenne una rivoluzione di egoisti e di cadetti. Quando lo Stato fu padrone de' beni del clero e de' nobili, praticò anch'esso l'abolizione della feudalità a nome dell'egoismo. I beni nazionali furono messi all'incanto, venduti ai ricchi, ai trafficanti, a chi voleva godere e sprecare; la classe che disponeva dello Stato imbandì tavola sfacciata alla cupidigia, alla gozzoviglia, si divise all'asta i beni che il popolo aveva tolto alle instituzioni del medio-evo: lottò bensì contro il clero e l'antica nobiltà, ma spogliando nello stesso tempo il paese. Nè si dica la vendita resa urgente dai bisogni della guerra, o resa utile dalle imminenti reazioni che dal 1814 avrebbero ritolti allo Stato i beni da lui conquistati. Io parlo del diritto, e non del fatto, della rivoluzione, e non delle traversie: i beni spettavano al popolo, erano dello Stato; la necessità dell'educazione nazionale li reclamava, il dovere di assicurare una base al lavoro d'ogni operaio, d'ogni artefice, li voleva ordinati all'emancipazione della plebe, i cui diritti erano proclamati dalla Convenzione. Ma l'eguaglianza astratta regnava; un'avida disinvoltura e un governo faccendiere rapirono al popolo la sua conquista. I termidoriani sospendevano la rivoluzione, e da qual punto i suoi beni furono prodigati nelle urgenze del momento; da quel punto la guerra assorbì tutti i tesori dell'avvenire, cessò di essere fatta sulla terra del nemico; in Italia Napoleone rapiva le statue, i quadri, e rispettava i beneficj ecclesiastici, i beni de' nobili; lasciava sussistere privilegi innumerevoli, in Francia soppressi. La rivoluzione rimase d'un tratto spogliata e fermata; il popolo si ritrasse dall'arena; intese che era frodato, lo intese confusamente, non fu metafisico, nè scienziato; ma nel 1814 desertò i venturieri della rivoluzione, lasciò cadere nel fango la commedia napoleonica; il regno d'Italia e quello di Murat, parodia dell'antica eredità feudale svanirono qual sogno.
Nel medio-evo l'eredità aveva un titolo che la giustificava: vitalizio nella sua origine, il feudo accordava una rendita, alla condizione di difendere la società; subordinava il diritto al dovere, l'individuo alla comunanza; il feudo era sociale, non poteva essere distratto dalla sua destinazione sociale. In oggi le grandi fortune ereditarie sono abusi senza titolo, vere usurpazioni. Invano l'economia politica si studia di difenderle: la difesa è un vergognoso cavillo. Si asserisce che proteggono l'industria e le arti; si afferma che se il ricco ritoglie i suoi capitali dal commercio e le sue commissioni date al fabbricante, il povero manca di pane. È vero. Il povero deve vivere raffinando i piaceri del ricco, rendere felici i più felici, esser dotato d'ingegno, d'imaginazione inesausta per inventare trastulli sempre nuovi, sollazzi sempre variati. Guai se non rinnova le foggie, gli ornamenti, le frivolezze; guai se il ricco disdegna la moda, guai se non vive circondato di staffieri o di cortigiane; il povero muore di fame. Se un giorno tutti i ricchi d'Europa si decidessero a vivere come Socrate o Diogene, se volessero seguire l'evangelio, se per ipotesi il Dio che i ricchi adorano o che piuttosto fanno adorare, toccasse i cuori di tutti gli epuloni, di tutti gli oziosi, di tutte le prostitute; se di un tratto i già elettori eleggibili di Francia, i lord d'Inghilterra, i conti, i marchesi, i baroni d'Italia, di Germania, di Spagna divenissero morali e onesti, la metà delle fabbriche di Europa sarebbe immediatamente chiusa, l'industria sarebbe scompigliata; a capo di quindici giorni, il tempo necessario per morir di fame, più milioni di uomini pagherebbero colla vita loro la virtù de' signori. Qual'è dunque il principio morale della grande proprietà? Non è più la casta, non è più il patriziato, non è più la feudalità; questi principj rendevano alla virtù l'omaggio dell'ipocrisia, in oggi tocca al vizio di consacrare la proprietà. Non si può fare l'apologia del ricco senza fare quella del vizio.
L'eredità è dunque il tesoro in cui la rivoluzione deve metter mano per alleviare la pubblica miseria. Il credito gratuito, l'abolizione della rendita, il comunismo negativo, il falanstero sono mezzi o falsi o metafisici essi spingono la società verso l'impossibile. L'eredità limitata nella misura della necessità, ecco la via semplice e naturale del progresso. Qui la morale protesta, la legge è armata, l'amministrazione possiede tutti i mezzi per impadronirsi dell'eredità; mentre il capitale e la rendita si rendono invisibili, e possono rivoltarsi con satanica energia. Nell'eredità si colpiscono uomini che non esistono ancora, individui a cui si toglie quanto non hanno mai posseduto. Colpite la rendita, il capitale? Voi colpite la possessione, voi provocate resistenze disperate; combattendo la proprietà, sarebbe forza uccidere i proprietari: gli uomini dimenticano più facilmente la perdita de' parenti, che la perdita de' beni. Coll'abolizione dell'eredità si compie l'abolizione del feudo e del convento, si cammina sulla gran via dell'umanità.
Non ignoro le obbiezioni che possono essere fatte da voci amiche: si dice facile al padre d'eludere la legge dell'eguaglianza. Rispondo, che la legge deve armarsi contro il dolo, ma ignorare la frode. Co, proibire il furto, non si rende impossibile; volendo punirlo, non si punisce ogni ladro. Quale è la legge la cui applicazione sia esatta come la matematica? Si proclama da taluni l'impossibilità d'attuare una legge agraria, che si rinnovi ad ogni nascita, ad ogni morte, per mantenere l'eguaglianza tra i cittadini: non si scambi la questione: non si proclami una giustizia impossibile per turbare quella che deve attuarsi sulla terra: qui non si tratta di rendere assolutamente eguali tutti i viventi, trattasi di abolire la mostruosa ineguaglianza che perpetua una illimitata ricchezza in poche famiglie. Si dice che i ricchi sono pochi; e quindi minime le ricchezze aperte al popolo coll'abolizione dell'eredità: non obliate che qui il poco è molto, anzi è tutto; noi non abbiamo appunto altro scopo se non di abolire il regno dei pochi. Da ultimo, se volete trascinarci sul campo spinoso dell'opportunità e delle difficoltà. opposte dal volere dello stesso diseredato, riconoscerò un fatto durissimo. Il paesano che possiede una pertica di terra è avaro e cupido all'infinito quanto il milionario; anch'esso combatte per eternare il suo bene nella sua famiglia. Questo mi duole: chi imita il ricco, perpetua la propria schiavitù, fa fa re, è destinato a soffrire l'insolenza del ricco e la tirannia del re; dell'intero sistema fondato sull'eredità. Ma devesi chiedere l'abolizione pura, semplice, immediata dell'eredità? Noi parliamo d'un principio; parliamo del vero, del giusto: gli operatori della giustizia sapranno arrivare a tempo, sapranno raggiungere la misura della necessità.



Capitolo XV

LA SOVRANITÀ

La logica reclama la sovranità, e la rende impossibile. La reclama perchè non si fonda la società senza creare un potere infallibile, inappellabile, superiore alla legge, e giudice di tutte le leggi. Se il cittadino conserva il diritto di resistere al legislatore, di protestare contro i tribunali, la società è discussa, assalita, disciolta. Dall'altro lato, se il cittadino obbedisce, i suoi beni, la sua famiglia, la sua vita sono in balia del sovrano, cessa di esser libero, è schiavo della società. La sovranità distrugge la libertà, la libertà distrugge la sovranità: non v'ha mezzo. Questo è, sotto nuova forma, il dilemma della libertà e dell'eguaglianza, della proprietà e della comunanza, del contratto e dei diritti inalienabili.
Fu considerata come problema l'antinomia: quindi ne nacque la metafisica della sovranità. Cominciava dal giorno in cui la riforma abbatteva l'autorità infallibile, inappellabile della chiesa, primo principio della teocrazia e della sovranità de' tempi di mezzo. Era necessario supplire alla chiesa: in qual modo adunque si costituisce l'onnipotenza del sovrano? Il giurisconsulto non può dedurla se non da un contratto, e Grozio domanda ingenuamente al contratto di schiavitù l'equazione metafisica della sovranità. È lecito, dice egli, di vendersi, di farsi schiavo; hannovi popoli naturalmente schiavi, essi obbediscono ciecamente ai re, ai nobili, ai conquistatori; la storia ci offre esempi del regno servile liberamente accettato; dunque è lecito di costituire la sovranità, e una volta costituita, il suo potere non ha limiti. Il contratto della schiavitù non basta ancora a Grozio non dà ancora l'equazione della sovranità: e se lo schiavo è servo del proprio contratto; in ogni contratto sonovi casi che invocano la decisione dei tribunali o quella della guerra; sonovi casi che suppongono l'eguaglianza delle parti, il diritto d'interpretare il patto, di mantenerlo, di annullarlo. Grozio deve caercare altri termini all'equazione della sovranità, altre equazioni alla servitù del cittadino. La donna, dice egli, dopo scelto il marito, gli deve obbedienza per sempre; la tutela, benchè stabilita a profitto del minore, non dà al minore il diritto di ribellarsi contro l'autorità del tutore. Lo schiavo, la donna, il minore, ecco il popolo; il padrone, il marito, il tutore, ecco il governo: ed è così che Grozio giunge in pari tempo alla sovranità e al despotismo. Tutta la sua giurisprudenza di Grozio ci domina quasi fossimo schiavi, donne o fanciulli. Grozio non ha inteso l'uomo, lo paventa; se l'uomo apparisse, distruggerebbe la sovranità, lo stato, la società. Ma l'uomo appare ad ogni istante; un giorno scopre verità che il sovrano ignora; l'altro giorno proclama una religione che il sovrano perseguita, o svela l'impostura d'un dogma che il sovrano impone colla forza. Che fa Grozio? Combatte per il sovrano contro la verità, per la legge contro la giustizia, per l'autorità contro la ragione: se il sovrano ci fa investire dai sicari, Grozio vuole che imitiamo la legione tebana, e se Grozio ci permette di difendere la nostra vita, c'impone di non ferire gli assassini. Non accusiamo il cuore di Grozio; il gran giurisconsulto ci voleva liberi, voleva costituire un diritto senza l'intervento di Dio: questa era la sua grandezza; ma le sue astrazioni si rivoltavano contro le sue intenzioni; la sua sovranità, sorgendo dalla tesi della servitù, proteggeva il despotismo; il suo diritto difendeva l'antico diritto, il suo progresso vietava ogni progresso. La sovranità metafisica che costituiva, rendeva impossibile ogni società d'uomini liberi e sopprimeva quella verità e quella giustizia che Grozio proclamava, fatta astrazione da Dio.
Hobbes si aprì una nuova via. Nel contratto havvi uno scambio di valori, uno scambio di diritti: Hobbes spiegò il contratto sociale col solo scambio de' valori. In sua sentenza, nello stato di natura l'uomo è nemico dell'uomo, havvi la guerra di tutti contro tutti. La società è necessaria per toglierci all'infelicità della guerra; la sovranità è necessaria per fissare la società; il diritto assoluto della sovranità è necessario per comprimere le ribellioni istintive che minacciano di continuo il ritorno dello stato di natura nel seno della società. Dunque la necessità fonda la sovranità. Tale è il principio di Hobbes. Ma due parole di giustizia e di ingiustizia non hanno senso presso Hobbes: egli analizza solamente gli interessi, fa astrazione dal diritto; per lui il contratto sociale riducesi ad uno scambio puro e semplice; nello scambio l'uomo concede la sua persona, i suoi beni, la sua famiglia; d'altra parte, il sovrano toglie l'uomo al caos dello stato di natura, lo crea una seconda volta, lo fa cittadino, assicurandogli la sua persona, i suoi beni, la sua famiglia. Lo scambio è utile, è necessario; nel fatto, la storia lo mostra consentito; il consenso è necessario per attuarlo? No: secondo lo stesso Hobbes alcun patto non ci può vincolare finchè dura lo stato di natura, è uno stato di guerra: se vi sono uomini che rifiutano di accettare il patto sociale, la società ha il diritto di trattarli da nemici, di costringerli colla forza, essendo essi ancora nello stato di natura. Il governo poi è assoluto, nulla può limitarne il potere: nè l'interesse, nè la morale, nè la religione del cittadino: chi gli resiste ricade nello stato di natura, deve esser vittima del più forte, si trova in balìa del governo. Dov'è adunque il diritto? Non è nello stato di natura, non nella società, non nel governo. Se Hobbes evita la contraddizione tra la libertà e la sovranità, si è che lascia il vero campo del contratto, quello del consenso, del diritto, della promessa accettata. Per Hobbes il diritto si confonde dappertutto colla forza: è la forza che lo costituisce nello stato di natura, è la forza che lo fa essere creando la società, è ancora la forza che diventa diritto in ogni governo: dunque dappertutto il vero diritto, la libertà dell'uomo, la libertà del contratto, la libertà di chi lo interpreta insorgono contro la sovranità hobbesiana.
Del resto, l'antinomia della libertà e della sovranità riappare nel sistema di Hobbes, anche fatta astrazione dal diritto. I fatti si oppongono ai fatti, le forze alle forze: dunque l'individuo, le sètte, le fazioni possono armarsi contro la società, e la ribellione felice sarà legittima quanto la tirannia che trionfa. Hobbes suppone la giustizia nel governo, l'ingiustizia ne' ribelli: chi autorizza l'ipotesi? la debolezza dei ribelli? l'impotenza dell'individuo? Ma Socrate è più forte di Atene, Cristo è più potente di Tiberio. Quando il popolo e il governo sono in guerra, l'uno e l'altro possono egualmente trionfare: Hobbes passa nel campo del governo; noi siamo liberi d'intervertire l'ipotesi; e allora il governo sarà ingiusto, e sacra la ribellione. Una nota d'infamia fu impressa sugli scritti del filosofo di Malmesbury non fu peggiore di Grozio, e v'era nel suo sistema un pensiero liberatore. Combatteva la chiesa, gli abbisognava un'arme per vincerla: fu grande indicando lo scambio dei valori sociali; primo forzava il contratto sociale a discendere dalle aride astrazioni di Grozio, per renderlo veramente irreligioso e terrestre. Il suo torto fu di confidare alla metafisica la fondazione della società: la metafisica respinse colla rozza astrattezza della forza materiale l'anarchia della chiesa cattolica, ma in pari tempo reclamò la schiavitù per ispegnere chi, libero di mente, osasse giudicare la sovranità dell'Inghilterra protestante.
Rousseau ha messo direttamente alle prese la libertà e la sovranità. Noi lo ripetiamo, se siamo liberi siamo sovrani: se eleggiamo un sovrano, v'ha un uomo o un senato o un popolo che dispone della pace, della guerra, quindi de' nostri beni, della nostra vita; non siamo più liberi, non siamo più uomini. Di là le conseguenze tiranniche de' metafisici, che cadono nella teoria della servitù. Rousseau vuole evitare l'ultima conseguenza della servitù, vuol combattere per la libertà, tenta di fare della sovranità stessa un'arme contro i tiranni. Per raggiungere l'intento, scinde il patto sociale in due parti. La prima riunisce gli individui, li trasforma in cittadini consociati, costituisce il popolo, e accorda al popolo la vera sovranità, cioè un potere assoluto, inalienabile, inappellabile, giudice supremo della società. Trovandosi costituito, il popolo sovrano elegge il governo e tutti i poteri che, sotto nomi diversi, esercitano la sovranità; questo è il secondo atto del contratto sociale, e ogni governo si riduce ad un mandato variabile, ad una scelta di persone che non áltera, nè modifica mai la sovranità del popolo. Rousseau combatte a meraviglia i governi, li mostra quali delegazioni effimere, quali depositari momentanei; in essi tutto è dovere, non hanno diritti, la sovranità rimane assoluta, inalienabile nel popolo. Chi la viola è tiranno, santa è l'insurrezione che lo atterra; santa è l'insurrezione del popolo, fosse pure ingrata, ingiusta, infame. Egli solo è giudice di sè; non v'ha re, non pontefice che possa credersi in diritto di resistergli. Per mala sorte Rousseau, fortificando il popolo contro il governo, lo fortifica in pari tempo contro ogni uomo. Perchè il popolo può abrogare, punire ogni governo? Perchè il popolo è sovrano, perchè il popolo è assoluto, onnipotente quanto il Dio della religione. Dunque è signore, dunque il popolo possiede tutti i diritti che Hobbes e Grozio concedevano al governo; dunque il popolo ha il diritto di bandire l'empio come insociale; ha il diritto di bandire chi non professa la sua religione; ha il diritto di vita e di morte su ogni cittadino. Secondo Rousseau, l'uomo si è dato al popolo, per la vita e per la morte (corps et biens); si è dato al popolo, che può cambiare le leggi, che ha il diritto di proclamar leggi malvagie, che toglie al cittadino il diritto d'interpretare le leggi. Rousseau trasferisce al popolo il despotismo hobbesiamo, nega il diritto di disobbedire al popolo, il diritto di distinguere il bene dal male, il diritto di giudicare il sovrano, il diritto di professare una religione, un'opinione che non sia da lui riconosciuta. Eccomi adunque schiavo di un'autorità dalla quale non posso appellarmi, di un'autorità che può impormi la guerra, la prigionia, la morte; di un'autorità che può prescrivere i miei pensieri, e ciò ch'io credo la verità, la salute della patria, la felicità del genere umano. Se l'uomo non può darsi ad una famiglia, ad un senato, ad un padrone, perchè potrà darsi ad un popolo? Rousseau dice che la volontà generale è buona, che il popolo erra meno del principe: sia pure: ma il popolo erra: ma il popolo volle morti i filosofi, gli eretici che precorsero alla civiltà; ma il popolo fu pagano, cristiano; è dappertutto buddista, braminico, teocratico, imperiale, ignorante ed infelice. Insorge? Si combatterà a nome della patria e dell'umanità. Vuol comandare perchè popolo? Ogni uomo ha il diritto di difendersi in nome dell'umanità; nessun popolo, fosse pur quello di Sparta, ha diritto d'imporre altrui l'ilotismo della sua fede e di gettarlo sul rogo. Che è questa sovranità sì forte, sì terribile, contrapposta da Rousseau a tutti i governi? È l'eterno diritto d'insurrezione accordato nel principio, negato di fatto, accordato alla città, rifiutato al cittadino. Ma questo diritto dev'essere accordato ad ogni uomo per le stesse ragioni che impongono di concederlo alla città. Perchè la città è sempre sovrana, sempre libera, sempre inappellabile? Perchè la sua libertà è inalienabile; essa non è una cosa, è una persona morale, non può perdere alcun diritto; contro di essa non havvi prescrizione, non errore che possa prevalere. Dunque l'individuo allo stesso titolo avrà il diritto d'insurrezione contro la città, che vuol disporre della sua vita, della sua coscienza, della sua religione, dei suoi diritti inalienabili. Il contratto sociale di Rousseau sacrifica il cittadino alla patria, dunque sanziona la schiavitù; Rousseau è primo a confessare che l'uomo non può essere libero se non ha schiavi, e quindi dichiara che la servitù è inevitabile fuori dello stato di natura.
L'antinomia della sovranità non si scioglie; conviene accettare la soluzione che si rivela. Il contratto sociale scambia valori e diritti. Lo scambio de' valori è rivelato, e determina poi quello dei diritti. A priori ogni scambio di valori è impossibile: la rivelazione fonda la società, la costituisce, l'ordina; ne nasce il sistema sociale, e quale è il sistema, tal è il diritto: nè più, nè meno. Tolta la rivelazione de' valori, tolto il sistema, tolta la religione, come mai potrebbesi ottenere il consenso necessario per costituire la sovranità? Chi vorrebbe darsi in corpo ed anima ad altri uomini, accettando anticipatamente le leggi, i giudici, i dogmi e tutte le servitù del contratto sociale? In qual modo il consenso a questa terribile alienazione potrebbe essere unanime in un popolo? L'alienazione del contratto sociale suppone che si conoscano previamente tutte le sociali eventualità, che si conosca previamente il valore di tutti i beni, che siasi già adottata la misura del merito degli uomini, che siasi prevista in certi limiti la carriera che si apre dinanzi a noi sulla terra. Questa stima, questa previdenza, che abbraccia tutto, chi può darla se non il sistema religioso? La religione lega gli uomini, e li dà già uniti al sovrano;. La religione è una stima di tutti i beni visibili e invisibili. di tutti i valori personali e reali; essa determina coi valori, voglio dire coi dogmi, la morale. Colla morale contiene in potenza il primo principio del diritto, quindi conduce al contratto sociale. Si guardi alla storia, si vedrà sempre il contratto sociale in balia delle religioni, costituito dalle religioni. Esse creano il governo, distribuiscono le corone, divinizzano i re, motivo per cui i popoli li chiamano sovrani.
Il contratto della sovranità finisce, come tutti gli altri contratti, nell'istante in cui ci accorgiamo che ci rende schiavi. Se la religione che ci riuniva cessa improvvisamente di essere creduta, se le azioni da lei imposte divengono immorali, inique, se la sovranità identificata colla religione impone l'errore, l'immoralità, forse l'assassinio: se ci avvediamo che promettendo obbedienza abbiamo soscritto il patto della schiavitù, allora il patto è perento, allora, se fosse mantenuto, noi cadremmo schiavi, non delle nostre idee, non della rivelazione, schiavitù inevitabile, ma di un senato, di un uomo, di un popolo. Qui si deve nuovamente ripetere: quando l'uomo nasce, s'emancipa lo schiavo; e ne consegue che ogni insurrezione legittima è fatta a nome dell'umanità, che si svela interiormente in noi stessi, ogni progresso subordina lo Stato alla fratellanza crescente del genere umano.
Lo Stato decade di continuo. Già dopo Cristo divenne inferiore all'uomo, e fu trasformato in un organismo il cui principio sta fuori della legge, fuori del cittadino, nel cristiano. La rivelazione sacra aveva ragione; l'uomo è superiore al cittadino, è l'uomo che crea lo Stato, e chi lo crea può distruggerlo. La stessa parola Stato è moderna, ed esprime una decadenza; prima di Cristo si chiamava solo la patria; e per ogni cittadino essa era l'universo; chi non era cittadino, era all'interno schiavo, all'estero nemico Dopo Cristo la patria muta nome, perchè ogni terra divenne uno Stato della cristianità, Quando la metafisica vuol succedere al cristianesimo cercando l'avvenire nelle antinomie, lasciò sfuggire il vero problema dell'umanità: non oppose i veri valori ai falsi, i veri diritti all'ingiustizia, non fu positiva; e scorrendo sul pendio delle antitesi, giunse alla patria astratta d'una sovranità impossibile. L'anima di Rousseau vi subì il martirio della libertà: sfidò la contraddizione col sentimento e imprigionata nell'astrazione, vedeva vuota d'ogni intorno la terra del diritto. Opponeva il popolo sovrano a' suoi sovrani nominati; ma questi pure son popolo, i loro sgherri son popolo, s'avanzano ardimentosi; sostenuti dalla turba dei paesani, oppongono le campagne alle città, le masse alle masse. Rousseau vuol chiamare tutto il popolo ai comizi, lo vuol padrone de' propri interessi, lo vuol diffidente d'ogni suo commesso; e il vero popolo gli sfugge occupato dall'industria, dalle arti; sparso su vaste regioni, il popolo deve delegare i poteri, darsi un governo, forse un tiranno, certo un tiranno giuridico, e poi sempre a soggiacere alla tirannia giuridica della maggioranza. Rousseau vuol combattere la chiesa, che sovverte lo Stato, che santifica i re: e qui ancora l'antinomia lo afferra, perchè la religione maledetta dal metafisico è la religione del popolo; Rousseau esita, vorrebbe una religione tirannica per dominarla, non vuol l'empietà, è vinto dall'astrazione; e diventa hobbesiano. Poi l'infelice vien meno nell'alta regione della sua patria astratta; di là vede che i cittadini degli Stati d'Europa non possono stare permanenti ne' comizi, che il popolo combatte pei tiranni, che la religione combatte i cittadini, e quindi infrange il suo proprio lavoro, la sovranità metafisica proclama lo stato di natura. Hobbes aveva detto: o il mio despotismo o lo stato di natura: Rousseau spaventò i tiranni, scegliendo lo stato di natura, che reputavasi impossibile. Lo stato di natura? Sì, il cuore del metafisico lo presentiva, la rivoluzione era imminente, lo stato di natura era quello in cui l'umanità doveva dominare ogni Stato; ma doveva uscire dalla rivelazione, non dalle contraddizioni del contratto: doveva nascere come nacque il cristianesimo, e non sorgere a soluzione delle contraddizioni eterne.



Capitolo XVI

IL GOVERNO

La sovranità fissata da un doppio scambio di valori e di diritti ci offre un doppio fenomeno. Da un lato, si suppone, si vuole che i poteri dello Stato siano confidati agli uomini più interessati al buon governo: lo scambio dei valori si misura colla legge dell'interesse; e cade così sotto il calcolo della politica e delle scienze economiche. Qui la società è un'opera materiale, una creazione dell'egoismo, un equilibrio di forze meccaniche. Dall'altro lato, si vuole che la sovranità sia confidata ai migliori, scelti dalla rivelazione morale del popolo, che soscrive il contratto. L'antinomia politica e la giustizia si contraddicono in tutti i punti; l'una dichiara le funzioni pubbliche altrettanti benefizi; la giustizia li considera doveri; la politica confida nell'egoismo, la giustizia domanda ascetismo; la prima vuole capacità, l'altra probità; l'una si fonda sull'autorità di Machiavelli e di Adamo Smith, l'altra invoca la repubblica di Platone e la Città del Sole.
La metafisica scorre a traverso le contraddizioni della politica e del diritto, e s'aggira in un labirinto di ingegnosissime aberrazioni. D'indi que' mille problemi, sempre agitati e non mai sciolti, sulla natura del governo, degli uomini politici, del progresso. Si dimanda se sia da preferirsi un governo forte a un governo giusto; se i capi dello Stato devono essere uomini di affari o uomini di scienza; poi si chiede se il governo deve essere severo o clemente, veridico o versatile, fermo e intero nella sua volontà, o pieghevole alle circostanze; se le cose dello Stato devono essere discusse pubblicamente, o se la secretezza sia l'anima degli affari; se deve prevalere la morale o la ragione di Stato, la probità o la corruzione, l'ordine o la libertà, la conservazione o il progresso. Vuote antitesi, che si combinano in mille modi diversi, senza che vi sia un limite al loro complicarsi o un'uscita ai loro problemi. Preso l'utile come termine primo, può congiungersi colla monarchia, colla democrazia, colla probità; colla corruzione; ed a nome dell'utile si giunge al despotismo di un individuo, giungeall'eguaglianza democratica, si sanziona l'equilibrio degli interessi nella monarchia costituzionale, e in pari tempo si fonda la banca di Saint-Simon sospesa tra la democrazia e la teocrazia. Il governo può esser forte colla monarchia e colla repubblica, col tiranno e col filosofo; il tiranno stesso può essere utile, e possiamo scinderlo nell'antitesi della tirannia, utile e malefica secondo che propugna o combatte il progresso. Le astrazioni scorrono sì' vuote nel discorso, che i termini di progresso, d'ordine, di libertà lasciansi intervenire, lasciansi deridere, e vedonsi usurpati da ogni oratore, da ogni ministro, da ogni governo. Preso poi nel suo significato rigoroso, ogni termine incontra la sua antitesi che lo paralizza. Volete esser sincero, intero nel governo? Operate; giunge il momento in cui convien sottrarre un fatto alla pubblicità, in cui dovete celare un secreto al nemico, in cui dovete nascondere i preparativi della guerra, le diffidenze premature; giunge il momento della dissimulazione: e qual'è la linea che separa la dissimulazione dalla simulazione? Vi sfido di trovarla logicamente: e qui la logica s'impadronisce di voi, vi impone il secreto, vi parla della salvezza dello Stato, vi forza a lasciar sussistere l'errore, e se l'errore sussiste, inganna; e chi vuol ingannare governa colla ragione di Stato, governa coll'impostura. Volete esser conservatore? sia; conservate lo Stato, resistete all'innovazione, difendete l'ordine; l'ordine è bene per ciò solo che è; ma col difenderlo combattete il progresso, la morale, l'umanità nascente; giunge il momento in cui siete nemico del genere umano, e in pari tempo se vi rimanete nell'astrattezza dell'ordine, se persistete nel combattere, se state fermo, impavidum ferient ruinae; la logica trarrà il sublime dall'infamia, che combatte la morale. Volete esser clemente? La logica vi mostrerà che non sarete rispettato, che la giustizia non è vostra proprietà, che non ne siete padrone, che è cosa dello Stato, che la legge deve essere osservata, che chi lascia la legge impotente distrugge la giustizia, la quale non ammette gradi: quindi la clemenza negata, l'equità negata, il giudaismo del summum ius che trionfa, e il summus ius che guida alla somma ingiuria.
In somma, fuori del rivelato non v'ha guida, nè posa; tutto ondeggia tra i contrari, tutto scorre tra le antitesi: accettiamo la rivelazione: fuori di essa non v'ha, non vi sarà mai il nesso che congiunge nei governi l'utile col giusto. Da una parte l'utile ha sempre creato ogni governo: la forza ha sempre disposto delle cose e degli uomini: chi vorrebbe, chi potrebbe governare uno Stato se non avesse la forza, le armi, le ricchezze necessarie per mantenersi? La forza è all'origine di tutto; le conquiste, le guerre hanno predisposto ogni Stato. Ogni individuo trova nel suo organismo la forza primitiva, il dato che lo fa essere quello che è; ingegnoso o debole di mente, fermo o pieghevole, facile all'ira o paziente per natura. Istessamente ogni Stato eredita dai suoi primordi la forza, che lo fa essere e stare qual'è. Questo appare, nè può essere negato. In pari tempo l'idea di affidare il governo ai migliori è contemporanea del regno della forza, è l'idea di tutti i popoli; non havvi tribù in cui non siasi manifestata. Tra i selvaggi il capo è il primo de' guerrieri, il più ardito nella battaglia, il più savio nella pace. Alla China l'imperatore è figlio del cielo; i libri sacri gli attribuiscono tutte le virtù, egli è padre de' popoli, tutte le sue azioni predeterminate dalla legge; esse devono sempre rappresentare l'autorità paterna nella esaltazione più religiosa. Nel Perù il capo degli Incas prometteva di regolare il corso delle stagioni, e, ministro del cielo, sosteneva sulla terra la parte di un Dio. Presso i Musulmani, in Egitto, nell'India, nel Tibet, spetta alla teocrazia il consacrare il sovrano: tutte le caste dell'antichità discendevano dal cielo; quelle del medio-evo erano santificate dalla chiesa. Separandosi dalla chiesa cattolica, i re protestanti si sono dichiarati pontefici; lo czar è in pari tempo papa e imperatore. Non è da credersi che il censo o l'eredità, scegliendo il sovrano, neghino il principio di scegliere il più degno; il censo e l'eredità sono mezzi rozzi di cui già si serviva la società per eleggere i migliori: non si abbandonava al caso della nascita se non per evitare l'anarchia di una scelta migliore, riputata impossibile. La giustizia appare adunque quanto l'utile e indivisa dall'utile. Sola la giustizia non fu mai nella storia: e di che sarebbe stata la giustizia? I migliori nel senso astratto non hanno mai regnato: e in che sarebbero stati migliori? in virtù astratte, in tesi scolastiche; queste condannate a regnare nel recinto della scuola, dovevano rimanere sottomesse alla virtù del sistema sociale, della religione, dei pontefici, della guerra. Quanto si dice de' governi si applichi ad ogni partito, ad ogni setta, ad ogni consorzio d'uomini che abbisogni di governo o aspiri a governare: qui il governo in potenza è l'uomo d'azione, il quale dev'essere interessato e ascetico, intelligente e morale, e riunire il maggiore interesse al trionfo del suo principio, alla più grande abnegazione sugli altri interessi. Per ciò fu sempre facile la calunnia. L'interesse non è il denaro, non la fortuna; è la gloria, è l'ambizione, può concentrarsi sul nome solo che si volesse noto a' posteri; quindi l'accusa passa dall'atto all'interesse, disconosce il sacrifizio per afferrare l'interesse del sacrifizio, e ad ogni uomo d'azione si potrà sempre rimproverare di volersi sostituire al governo; ad ogni profeta si potrà sempre imputare di mettersi in luogo di Cristo. La chiesa non si stancava di maledire l'orgoglio degli eretici che inviava al rogo. La facilità della calunnia mostra l'indivisa natura dell'interesse e del dovere nell'operare, nel combattere, quindi nel governare: scorgesi quindi che il lavoro della scienza non consiste nel cercare gli uomini più interessati o i migliori; consiste nel cercare l'interesse e il principio che devono regnare, trascurando gli uomini, le persone, gli accidenti dell'egoismo e della simpatia. La scelta degli uomini, la congiunzione dell'interesse e dell'ascetismo sono fatali, non possiamo signoreggiarle; ogni tentativo per dominarle è irrito o torna a profitto della fatalità stessa, poichè, volendo signoreggiare, siamo signoreggiati. Tentate di comporre un governo, le persone da voi preferite nel mistero di una società secreta o nel secreto di un gabinetto sono uomini, saranno la materia animata d'un principio che ve li torrà, li rivolterà contro di voi, li subordinerà ad altri uomini, e combattendo o propugnando il progresso, troverete sempre che il supremo elettore di ogni capo è il popolo e che la natura opera colla voce del popolo.
Quali saranno adunque per noi l'interesse e il principio del governo? L'interesse generale combatte per la legge agraria; il punto su cui cade nella sua attuazione si è l'eredità, l'abolizione delle grandi fortune; quindi il governo deve rappresentare l'interesse e la giustizia della legge agraria; le persone sortite a governare devono essere assorte per egoismo e per ascetismo nell'opera che eguaglia le fortune. Ci è difficile esentare il ricco da una nota di sospetto: lo vediamo qualche volta devoto al popolo; è devoto nella certezza di non rimanere spogliato dalla stessa legge che proclama, spera di salvar sè stesso nel trionfo della casta che combatte, è devoto nella fede di non riuscire. Lo abbiam visto da sessant'anni pronto ad accogliere tutti i sofismi della metafisica onde sfugga per la tangente di astratte considerazioni all'imperiosa legge della giustizia, che lo voleva intento all'opera unica dell'eguaglianza e dedito alla giustizia qualunque fosse l'evento. Abbiam visto ricchi istupiditi ne' piaceri acquistar d'un tratto l'operosità, la perfidia di uomini rotti nelle male arti della corruzione, e improvvisati tribuni, mentire, tradire, malversare, felicissimi d'aver ruinato sè stessi perchè in un con essi avevano perduto un popolo e acquistato una rinomanza che ondeggiava confusa, accusandoli d'incapacità o d'infamia. L'avvenimento del proletario deve esser confidato ad uomini che si separino dall'antica tradizione, che non possano trovarvi addentellato o ritirate, ricordanze o seduzione. Quindi il regno del popolo, il vero governo del popolo. In questo senso possiamo dire che il governo decade come lo Stato. Non è più il dominio sacerdotale o feudale: non deve esser più il dominio del ricco che difende il ricco contro il popolo, e che si fonda sulla impostura del prete e sulla forza del soldato; dev'essere un'amministrazione, non dev'essere governo d'altri su di noi, ma governo di noi per mezzo di noi; dev'essere, come si dice in Inghilterra, un self-gouvernement, un popolo sè-reggente.
Un problema si presenta: se il governo del popolo deve non esser dominio, dove troverà la forza di dominare la reazione de' ricchi? Se è debole, sarà vinto; se vuol esser forte e atterrire i suoi nemici, sarà un nuovo dominio, sarà un'imitazione dell'antico governo. Sembra che l'avvenire dipenda dalla soluzione di questo problema: traduciamolo in altri termini: ci si dimanda: come volete abbattere il governo dei ricchi se non imitate il loro governare? come volete giungere al governo del popolo con un governo che imiti i ricchi? Il che torna lo stesso che il dire: volete la pace e vi servite della guerra? volete la libertà e tiranneggiate? volete l'eguaglianza e punite? Rispondo: noi siamo qui in presenza di un dilemma critico eterno. Guai se si vuole sciogliere colla metafisica. Bisognerà transire alla libertà di tutti colla libertà di tutti, compresi i ricchi, compresa la loro clientela, compreso il governo che si vuol abbattere. Quindi interdetto al governo del popolo d'imitare la Convenzione all'interno, vietato alla Francia di imitare la propaganda armata di Napoleone, vietato allo Stato d'imporre l'educazione pubblica, un'istruzione determinata, un livello alle fortune, una repressione alle leghe de' ricchi, de' preti, de' retrogradi; quindi l'antica società ricostrutta a nome della libertà di tutti; e nel fatto non esprimeva essa la libertà di tutti nel sistema feudale e teocratico? No, non si transisce mai logicamente dal passato all'avvenire, dal male al bene; il progresso è moto, è alterazione, è diventare, è essere e non essere ad un tempo; il progresso condurrà alla pace colla guerra, all'eguaglianza colla dominazione: contraddittorio come ogni cosa dovrà essere il transito dal governo dei ricchi non è di tutti. Se non dovesse esser contraddittorio, non dovrebbe apparire, dovremmo disperare dell'umanità. E la contraddizione sarà vinta e prodotta ad un tempo dal fatto; il progresso sarà positivo; la necessità di resistere agli uni, di favorire gli altri, di far regnare un'idea, di morire se non regna, formeranno a poco a poco quel governo de' migliori che sarebbe un sogno metafisico se noi volessimo tracciarne le regole a priori, dovendo esso uscire dai sentimenti e dalla vita che si rivela, ma che non è rivelata.



Capitolo XVII

IL DELITTO

Col delitto si viola il patto sociale, colla pena si difende: il delitto e la pena sono egualmente determinati dalla doppia rivelazione dell'interesse e del dovere.
Che è il delitto? In primo luogo è un assalto, una guerra, un danno; sconcerta la società, se non viene represso, interverte l'ordine sociale, annienta tutti i valori della legge. In seguito il delitto è una violazione dell'inspirazione morale; non si limita a danneggiare, provoca una vera indignazione giuridica, fa scandalo, tollerarlo sarebbe un tollerare l'ingiuria e venire a patti col male. Ogni delitto è dunque in pari tempo un danno e un insulto. La pena alla volta sua offre il doppio elemento dell'interesse e del dovere. Ogni pena è una difesa, un'opera politica; colla pena si dà un esempio, si minaccia un male maggiore de' vantaggi che il colpevole può sperare dal delitto. Ma il legislatore, misurando la pena, proporzionandola alla necessità della difesa, non considera l'assassino come suo eguale, non considera il delitto come uno sforzo individuale per sè stesso indifferente. Egli è ministro della indignazione universale, domina il colpevole dall'alto della sua virtù, e s'impadronisce del malfattore a cui fa espiare la violazione della legge morale. Il perchè Caino fugge lo sguardo degli uomini: nelle società antiche la famiglia della vittima poteva perseguitare il colpevole, il sangue sparso dimandava la riparazione del sangue: volevasi l'occhio per l'occhio, la mano per la mano; il figlio non aveva riposo finchè viveva l'assassino del padre. Questo era un sentimento giuridico; e in pari tempo la vendetta atterriva il malfattore, lo disanimava dall'assalto; e non si osava ferire la famiglia che le furie d'Oreste avrebbero resa implacabile.
Fu spiegata la pena coll'unico elemento dell'interesse: la vendetta e l'espiazione furono biasimate quali inutili elementi della penalità. La vendetta, dicesi, non è forse inutile? non è forse un delitto aggiunto al delitto che punisce? No; la vendetta espia, appaga, è reclamata dalla poesia del diritto; se non misurata dall'interesse, è male inutile; misurata dall'interesse, sola giustifica il male della pena. Si tolga al legislatore la dignità sacerdotale dell'uomo che impone un'espiazione, si tolga al giudice la dignità dell'uomo che amministra la giustizia; il legislatore, il giudice non saranno altro che aiutanti del carnefice, la penalità sarà trasformata in un giuoco di sangue; non vi sarà più delitto, nè pena, rimarrà la sola guerra degli interessi. Si sopprima nel cuore umano quell'istinto d'ira che lo sprona al momento dell'offesa; si tolga la tendenza irresistibile a far giustizia; in altri termini, si sopprima la vendetta che vuole espiato il delitto; si distruggerà nella sua origine la dignità del giudice, quella del legislatore: Caino sfiderà il genere umano.
L'errore che proscrive la vendetta e l'espiazione nel loro principio nacque da un pregiudizio metafisico, assecondato da un'ignoranza di fatto. La metafisica consigliava di dedurre logicamente la penalità da un principio unico; l'interesse presentavasi obbediente, facile nella pratica, pronto nelle deduzioni; l'interesse era dunque assunto quale apparenza prima, destinata a spiegare, a dominare tutte le apparenze; a nome dell'interesse si avversavano tutte le leggi di vendetta e d'espiazione lasciate dall'antica barbarie alla moderna Europa; si combattevano le leggi sulla tortura, sui supplizi, sull'inquisizione; si combatteva l'espiazione imposta al sacrilegio, alla profanazione, alla bestemmia, agli attentati contro le vuote divinità dell'Olimpo cristiano. Si trionfava, il popolo applaudiva redento e liberato dalla tirannia antica. Ma l'interesse valeva solo perchè sostenuto da un nuovo sentimento, solo perchè concetto in un sistema nuovo; e procedevasi vittoriosamente in teoria per la sola ragione che s'ignoravano gli interessi del medio-evo. A buon diritto i filosofi del secolo decimottavo opponevano gli interessi della civiltà a quelli del papato, i valori della terra a quelli del cielo, i diritti del popolo a quelli dei signori. Pure l'interesse in altri tempi aveva giustificato la tortura, la ruota, i più atroci supplizi. La giurisprudenza della tortura era dedotta dal principio della necessità per cui si torturava l'innocente nell'intento di togliere l'impunità al colpevole: ed era necessario torturare lo stesso colpevole confesso, perchè il suo silenzio non sottraesse i complici alla giustizia; il silenzio era una ribellione. Si freme, ma il ragionamento della difesa era spietato. Se il giudice condanna il colpevole ai lavori forzati, se lo condanna al supplizio della solitudine nelle celle del sistema penitenziario, perchè non potrebbe condannarlo al dolore della tortura per estorcergli un secreto? Lo stesso si dica di tutti i supplizi; se la prigione non bastava ad atterrire il colpevole, perchè il legislatore non l'avrebbe punito colla morte? se la morte non bastava, perchè non aveva il diritto di spargere un terrore più spaventevole? L'uomo sulla ruota, il malfattore squartato dai cavalli, i teschi umani esposti alle porte della città, nelle gabbie, ecco gli spettacoli del medio-evo, giustificati dalla logica dell'interesse. Nelle università dell'Austria ho inteso professori che insistevano sull'utilità delle bastonate; le loro dimostrazioni erano perentorie; secondo essi, l'interesse dell'esercizio consigliava un castigo breve e terribile, esemplare e non micidiale. Che rispondere? Nulla, a chi non intende se non quell'utile che s'impone colla forza del bastone a profitto de' signori. Da ultimo, se la legge proteggeva Dio, i santi e la chiesa, si è che la chiesa difendeva i signori: la bestemmia scuoteva la società feudale, ne scuoteva la base. Opponete voi all'interesse dei signori l'interesse del popolo? Allora la tortura, i supplizi, il bastone, le leggi d'espiazione sono infamie che proteggono infami privilegi, l'impostura di una proprietà infeudata in poche famiglie e protetta col terrore. Ma perchè l'interesse del popolo deve prevalere a quello de' signori? perchè l'interesse universale deve trionfare su quello di privilegiati? perchè Voltaire, Beccaria, Filangeri e gli uomini del decimottavo secolo sono i nostri apostoli, i nostri profeti, mentre aborriamo i difensori della tortura, della ruota e del bastone, difensori sì odiati che lo spirito del tempo disdegna di raccoglierne i nomi? Perchè siete cittadino, e non suddito? perchè volete essere uomo, e non servo? perchè proclamate l'interesse dell'umanità? Egli è perchè siete uomo nel vostro cuore, nella vostra vita, nel vostro sentimento; perchè quella vendetta che un tempo spingeva i Buondelmonti e gli Uberti, i Panciatichi e i Cancellieri a scannarsi a tradimento, quell'espiazione un tempo riservata a vendicare delitti che non erano delitti, colpe che oggidì sono meriti, sempre aderente, indivisa dal vostro cuore, indomita nella vostra coscienza, vi vuol vindici dei delitti di lesa umanità. Misurate pure questi delitti coll'utile; se non avete cuore, la misura stessa dell'utile si troverà falsata nelle vostre mani; per difetto di cuore, non avrete intelligenza.
In oggi la penalità deve essere misurata dall'interesse e dal sentimento dell'umanità; questa parola d'umanità, che qui scriviamo, dettata dalla scienza ci è imposta prima che concetta dal sentimento pubblico, dal linguaggio di tutti. Si vuol umanità nella legge, umanità nel giudice, umanità nella prigione. Perchè? Perchè ci sentiamo solidari del delinquente, ci sembra di esser complici del suo delitto; il delinquente nacque col diritto al lavoro, all'istruzione: gli abbiamo assicurato il lavoro, l'istruzione? sa scrivere? sa leggere? chi lo ha lasciato sui trivi? chi lo ha lasciato nell'ozio imprevidente della miseria? chi lo ha esposto al delitto? chi gli ha dato l'esempio di piaceri, di delizie insolenti che potevano godersi senza lavoro, senza titolo, senza giustizia? Si, siamo complici d'ogni delitto che si commette: quindi la pena reclamando espiazione, si ferma tremante; parla di prigioni penitenziarie, di case di lavoro; vuole istruire, emendare i giovani detenuti. Tentativi inutili, scempi palliativi a un male profondo, radicato nel riparto attuale della proprietà, ma pure testimonianze irrecusabili della giustizia de' sentimenti i quali reclamano la revisione del patto sociale che distribuì le fortune.



Capitolo XVIII

LA GUERRA

La guerra è giusta od ingiusta: se è giusta riducesi al caso della legittima difesa; lo Stato che si difende non perde alcuno de' suoi diritti sul campo di battaglia; sconfitto, non deve alcuna obbedienza; gli si deve riparazione; vincitore, può impadronirsi delle armi, dei beni, della persona del nemico, può spingere la vittoria fin dove lo esige la necessità di rendere nullo ogni ulteriore assalto. Quanto alla guerra ingiusta, essa è un delitto; le sue vittorie, lungi dal concederle diritti, meritano punizione.
Il diritto della guerra è adunque semplicissimo; pure la logica, signoreggiando queste nozioni sì semplici, le ritorce contro il diritto stesso. Quando la guerra scoppia, le due parti possono egualmente credersi fondate sul diritto; questo è il caso più ordinario. I cattolici e i protestanti, i regii e i repubblicani credono di combattere egualmente per la causa della verità e della giustizia. Chi giudicherà adunque i problemi della guerra e della pace? La guerra? Sarebbe un sottoporre la giustizia alla forza. La ragione? Ci condurrebbe alla contraddizione dei diritti, essendo contraddittorie le opinioni delle due parti. Questo dilemma si traduce nel dilemma dei criteri: se io sono solo giudice del mio diritto, alla sua volta il mio nemico ha il diritto di giudicare sè stesso; la contraddizione è manifesta; se non sono giudice di me stesso, la vittoria sarà giudice; e sarà forse l'ingiustizia che condannerà la giustizia. Irreconciliabile per sè, l'antinomia si scioglie, come tutte le antinomie, sotto l'impero della doppia rivelazione. Gli elementi della giustizia sono l'interesse e il sentimento giuridico. L'interesse dipende dalle nostre idee, non è mai arbitrario; noi cerchiamo il bene là dove ci vien mostrato dai dogmi che professiamo. Se i dogmi possono essere falsi, se a termini della logica, tutto è possibile, tutto impossibile, l'antitesi del possibile e dell'impossibile scompare dinanzi ai dati positivi e reali che determinano il nostro pensiero. Il fatto delle idee trascina tutti gli uomini; nessuno può essere superiore alle condizioni prestabilite dalla sua intelligenza. Anche il sentimento giuridico svegliato dall'interesse è sacro, positivo, reale; e qui ancora devesi obbedire alla legge che troviamo nel fondo del nostro cuore. Si dirà: la contraddizione non è evitata; voi autorizzate la guerra, animate i due combattenti, eternate la battaglia tra i Musulmani ed i Cristiani, tra i protestanti ed i cattolici, tra i regii ed i repubblicani. Rispondo, che verifico un fatto; se la contraddizione esiste, non è mia, è della natura, che ha infuso ne' miei nemici un sentimento e una fede che mi resistono. Rispondo inoltre, che voi stesso, nel rimproverarmi di autorizzare la guerra, la riconoscete, e non confondete il nemico col delinquente, il soldato col sicario; riconoscete adunque che v'ha una fede che non è la vostra, che voi dovete spegnerla, benchè cessata la necessità della guerra, possiate onorarla. Si dirà ancora: che coll'ammettere diritti contraddittorj per opera della natura, ci esponiamo ad assistere indifferenti alla guerra dei dogmi, senza essere d'alcuna religione, d'alcuna patria, quasi che la guerra fosse spettacolo offerto al filosofo dall'impassibile destino. Ma se combatto io pure, non sono egoista, ho una fede, una religione, quella dell'umanità. Se accordo che ognuno può ingannarsi, che un popolo può sottomettere la sua morale a un falso dogma, se ammetto la possibilità del fallare, e convien che l'ammetta poichè l'errore esiste, non mi tolgo alla guerra dei dogmi, la provoco; son uomo, credo, vivo: come accusarmi di essere senza fede, senza legge, freddo testimonio del sacrifizio di tutti i popoli?
I dilemmi della logica si riproducono nei trattati di pace, e pongono ogni trattato nell'alternativa di una doppia assurdità. I trattati obbligano? dobbiamo noi osservare la promessa accettata dal nemico? evidentemente i trattati sono sottoscritti quasi tutti sotto l'impero del terrore, al seguito di una sconfitta; sono concessioni strappate dalla prepotenza fortunata; se obbligano, è la forza che obbliga. I trattati sottoscritti sotto l'impero del terrore sono nulli? Allora la guerra sarà eterna. Eccoci nell'alternativa del regno della forza o della guerra eterna. Il dilemma abbraccia tutte le conquiste; se sono illegittime bisogna annullare la storia, se sono legittime, convien riconoscere il diritto del più forte. Spetta ancora alla doppia rivelazione dell'interesse e del dovere a toglierci al contrasto della fatalità storica colla libertà dell'uomo. La libertà, noi l'abbiam visto in astratto, è indeterminata; in atto, è la nostra vita; in astratto siamo tutti liberi, sovrani, eguali; in atto, ci lasciam vincere dal dolore, dal piacere, dal carattere, dal pensiero, dagli uomini che ci stanno intorno. Ora il vinto si de moralizza, s'umilia, diviene schiavo, perde la metà della sua ragione, può amare la propria servitù: quest'interesse può determinare il patto della conquista. Per sè la conquista non istabilisce alcun diritto: pure se dopo la conquista il vincitore regna in pace, se nessuno protesta contro l'invasione, se la nazione vuol vendersi, alienarsi, trafficar la propria dignità, se preferisce subire la conquista all'idea di animare la plebe colla partecipazione dei beni, se preferisce il tiranno domestico a una vittoria di popolo ribelle, o all'alleanza di un popolo liberatore, d'un popolo che coll'indipendenza apporti anche la libertà; se il vinto cerca di regnare rassegnandosi alla conquista, la conquista si stabilisce tacitamente, divien giuridica, diviene un patto sociale, e si trova naturalizzata. Così le Sabine, rapite dalla forza, diventavano spose per amore; così i Romani, padroni del mondo per la forza delle armi, lo diventarono di diritto quando vennero preferiti all'antica barbarie: così l'invasione germanica divenne l'aristocrazia del medio-evo. Verun conquistatore non pretese mai di regnare col solo diritto del più forte; tutti si sono fatti legittimare, tutti hanno reclamato i titoli di conti, di marchesi, di vicari della Chiesa, dell'Impero, di alleati dei popoli vinti; insomma tutti hanno voluto fondare la loro autorità sulle tradizioni di una sovranità anteriore. D'onde questa pretensione? Dalla convinzione profonda, immortale presso tutti i popoli, che abbisogna un patto per regnare, e l'ingiustizia stessa deve presentare l'apparenza del contratto. Io vi sono necessario, dovete accettarmi; ecco le due parole che riassumono gli, atti di ogni conquistatore. La prima esprime l'interesse del patto, la seconda esprime il diritto; la prima dipende dallo scambio dei valori, la seconda dallo scambio giuridico.
Sarà agevole il distinguere la nostra soluzione dalla metafisica della guerra, che subì molte fasi complicandosi con problemi della storia e della civiltà. Noi non citeremo se non due sistemi, l'uno che giustifica tutti i conquistatori, l'altro che giustifica tutti i popoli sconfitti. Il primo parte dal principio che la guerra deve decidere ogni lotta internazionale, che essa sarebbe inutile se non mettesse fine ai conflitti e se il diritto non fosse vincitore. Quindi tutte le vittorie amnistiate, quindi stabilita a priori la moralità del conquistatore, quindi sdegnato ogni sforzo del vinto qual fatto anormale ed ingiusto, quindi una lunga serie di ragionamenti in cui la dialettica s'infiltra ne' fatti per mostrare nella fatalità il trionfo della ragione. Che dice? Si fece del vincere e dell'esser vinto un'astrattezza; e una volta congiunta la vittoria col diritto, si volle mantenere il diritto eterno nella vittoria, e si finì col negare l'essenza stessa del diritto, che consiste nel disprezzare la forza. Qui, come dovunque, la metafisica, animata da un'idea liberatrice, affidandola alla logica, rimaneva impotente. Essa proponevasi di succedere alla religione, voleva trovare nella ragione il principio che santificava la vittoria, voleva sostituirlo al giudizio di Dio, per cui nel medio-evo la vittoria scioglieva santamente i problemi della civiltà e riuscì a proclamare il diritto della vittoria senza un Dio che lo confermasse, senza il vero diritto rivelato che lo sanzionasse: in fondo, non proclamò se non il diritto della vittoria, poi il diritto del più forte, in ultima analisi il diritto del papa, dell'imperatore e dei re. D'altra parte un sistema più generoso afferrava l'essenza stessa del diritto, non teneva conto del fatto, disprezzava la barbara decisione della forza, e prendeva le difese dei vinti. Quindi una nuova dialettica che dissotterrava i titoli di tutti i popoli sconfitti e disfatti; quindi negata ogni vittoria e avviluppata nei cavilli eterni di una protesta metafisica; quindi messa in dubbio la storia, e la filosofia trasportata fuori del campo dei fatti, dove noi vediamo i vinti domati, diventar servi di diritto, amare le lor catene, portarle quasi ornamenti, e combattere chi volesse infrangerle. Qui ancora la metafisica trovavasi impotente, combatteva con armi che non sono di questo mondo; s'impegnava involontaria a difendere tutti i popoli meritamente conquistati dai Romani, dalla chiesa, dalle nazioni progressive; s'impegnava in cause perdute, con dogmi destituiti di forza e perenti dinanzi al progresso. Quale sconvolgimento! Combatterò per la dichiarazione dei diritti dell'uomo; ma se debbo difendere il regno dello Spirito Santo contro la chiesa, o l'eresia de' gnostici contro i cristiani, o i sacrifizi umani dell'antico mondo contro i Romani che li abolivano, in una parola se debbo confondere la mia causa contro i potenti con cause già vinte dal progresso, allora sostituisco il torto alla ragione, e lascio la ragione ai potenti.
Quanto dico della metafisica della guerra relativamente al passato, applicasi alla guerra relativamente all'avvenire. Anche qui le antitesi filosofiche si fan giuoco della ragione; si esce metafisicando a fondare la desiderata umanità, sia colla pace proclamata dappertutto e per sempre, sia colla guerra a dispetto di tutti. Vediamo riprodursi nella guerra della propaganda rivoluzionaria l'antitesi della guerra interna contro governi retrogradi. Si dice: «Volete voi liberare i popoli? Non si dà libertà con la forza, la forza è tirannica;» ecco l'ipotesi della pace sempiterna, ipotesi che vilipende le guerre della Convenzione e di Napoleone. Si può mostrare che la guerra decade come lo Stato, come la pena: si può mostrare che l'industria de' conservatori la paventa qual disastro economico, che l'industria resa al popolo la paventerebbe qual catastrofe sociale. Ma se rinunziate alla guerra, se volete che l'umanità sorga dalla pace, che sorgerà dalla pace se non l'opera della santa alleanza, collo statu quo desiderato dai ricchi e dai patrizi? Chi muterà la geografia politica della cristianità, l'equilibrio dei tranelli, delle insidie e dell'oppressione se nessuno vi pon mano? D'altra parte. si dice: la guerra!... tesi troppo necessaria: i tre quarti della terra sono nelle mani dei barbari, i tre quarti dall'Europa sono nelle mani dei signori, che comandano dappertutto. Siamo ancora condannati alla guerra, precisamente perchè proponiamo la pace. Ma se la guerra non è preparata, se la libertà: non è assicurata all'interno, se il popolo liberatore non è libero, se i combattenti sono schiavi di mente, se hanno il nemico interno minaccioso alle spalle, se chi precipita la guerra desidera la sconfitta, se spingonsi i popoli sul campo di battaglia perdè dimentichino la rivoluzione, come accadeva in Francia nel 92, in Italia nel 48, allora accetterete voi il tradimento della guerra? La tesi metafisica che lo invoca dà ragione all'antica società, perchè cerca la nuova società non nei principj, non nelle idee, non nel rinnovamento dell'uomo vitale e morale, ma negli espedienti, nelle finzioni, nei miseri cavllli del martirio, del caso, dell'esempio; e la vittoria resta al nemico. Atteniamoci alla rivelazione, al fatto, ai motivi reali o positivi; la guerra è come la spada ottima e pessima, d'impaccio e di difesa, e nella sua astrattezza rimane sospesa tra il sì e il no, variamente concetta nei diversi sistemi tutti impotenti.
Mi fermo: credo inutile il fare applicazioni ulteriori: il mio intento era di evitare i dilemmi critici sottomettendo la ragione alla triplice rivelazione degli esseri, della vita e del dovere; la critica travolge l'universo intero, partendo da un primo ragionamento che distrugge l'alterazione: la verità si ristabilisce nell'universo intero, partendo dall'unica idea di sottomettere la logica alla rivelazione. La logica ci poneva ad ogni passo l'inciampo d'un dilemma, la rivelazione ci toglie di continuo al dubbio col fatto. Ci basta aver tracciato i primi principj di una filosofia della rivelazione naturale; ora possiamo indicare il sistema della nostra rivelazione, il dogma che deve succedere ai dogmi dei rivelatori sacri e dei sistemi metafisici.

PARTE TERZA

IL SISTEMA DELL'UMANITA'





La rivelazione naturale si sviluppa attraverso alla serie de' sisterni che si succedono nella storia; ed il progresso riducesi al progresso della rivelazione stessa.
Hannovi tre momenti distinti nel suo progresso e sono i momenti della religione, della metafisica e della scienza.
Nel momento religioso l'uomo è ciecamente sottoposto ai fenomeni, non pensa a dominarli, non cerca identità, nè equazione, nè deduzione tra i fenomeni. Essendo soggiogato dalla natura, per lui l'essere e il parere sono una sola e medesima cosa, non concepisce nemmeno che possano differire. La rivelazione è accettata senza diffidenza, senza sospetto, senza sforzo, solo che trovasi compiutamente travisata dagli errori materiali. Gli Dei adorati sono imaginari, ma la religione è solamente un errore di fatto.
Nel momento metafisico l'uomo si accorge che la religione lo inganna, e sentesi oppresso dalla contraddizione. Egli confonde i problemi che può sciogliere con quelli che rimarranno in eterno; convinto della inanità degli Dei cerca di scoprire i primi principj della natura, spera di trovare l'equazione dell'universo. Per questo tentativo la metafisica si sostituisce alla religione; essa non raggiunge mai lo scopo che si propone; ne raggiunge un altro sconosciuto, imprevisto, cioè conquista ad uno ad uno tutti i fenomeni della rivelazione, ne scandaglia la profondità, diviene rivelatrice.
Il momento della scienza giunge quando l'equivoco che confonde le contraddizioni eterne colle contraddizioni positive scompare: allora la rivelazione è intera. Non che la rivelazione sia compiutamente esplorata, non che si possa esaurire il suo insegnamento, non che l'errore diventi impossibile; ma di ogni fatto si conosce in primo luogo l'apparire, in secondo luogo il contraddirsi: quindi nota è la doppia imperfezione della religione e della metafisica; sappiamo perchè la religione s'inganna, perchè la metafisica si smarrisce; sappiamo che l'apparenza deve regnar sola, e che la contraddizione eterna ci relega nell'apparenza senza che si possa uscirne. In questo senso la rivelazione naturale è compiuta.
I tre momenti sono determinati dalla critica: la religione ignora la critica; la metafisica la conosce senza riconoscerne la forza; la scienza l'ammette in tutta la sua estensione. Noi esamineremo successivamente i tre stadi della religione, della metafisica e della scienza.


SEZIONE PRIMA

LE RELIGIONI



Capitolo I

CHE COSA È UNA RELIGIONE

Noi siamo tutti in religione, sappiam tutti che cos'è una religione. È un sistema che suppone l'esistenza di un Dio o di più Dei, dai quali tutto dipende: la natura esprime la loro volontà, i suoi fenomeni manifestano i loro disegni, le sue convulsioni sono soprannaturali, l'universo intero è subordinato al loro governo. Come scienza, la religione è la scienza della natura e della volontà degli Dei; come arte, è arte di vivere secondo il volere di Dio e col suo favore. Essa c'insegna a sottrarre la nostra felicità alla sua grazia, alla potenza od all'impotenza dei signori del mondo. Che l'anima sia mortale o immortale, che Dio sia debole o irresistibile, che si possa vincerlo, ingannarlo, o che sia onnisciente, onnipotente, se crediamo alla sua esistenza e alla sua azione siamo religiosi.
La fede in Dio è l'errore più primitivo, più naturale del genere umano. Si suppongono cause ai fenomeni; si vuol sapere d'onde vengano i fiumi, i venti; chi diriga il sole, perchè la luna rischiari la notte e credesi che le cause dei fenomeni siano esseri viventi. Dunque la vita deve render ragione di tutto, deve essere la prima spiegazione dell'universo. La si trasporta all'origine dei fiumi, nel moto degli astri, nelle nubi, nelle viscere de' vulcani, in tutti gli elementi; uno sfrenato positivismo circonda l'uomo di genii; la prima fisica è la religione.
Fu detto che la religione è figlia dell'ignoranza; il detto è falso, se non si soggiunge qual'è l'ignoranza che crea gli Dei. Se parlasi dell'ignoranza in generale, tutti gli uomini saranno sempre religiosi, perchè siamo tutti ignoranti; le nostre cognizioni si ristringono a un frammento della rivelazione naturale. Se dicensi che per difetto di solide cognizioni l'uomo s'inganna, e attribuisce l'origine dei fenomeni a cause vive ed imaginarie, confondesi la religione con tutti gli errori possibili. L'ignoranza che crea la religione è quella dell'uomo che conosce la parte positiva dei fenomeni senza sospettarne la parte critica. In forza di quest'ignoranza egli pensa che giungerà a conoscere ogni cosa in un modo istorico, e che tutte le sue cognizioni dovranno concatenarsi come le avventure di un poema. L'analogia lo guida; coll'analogia il pensiero oltrepassa il noto e lo trasporta nell'ignoto; coll'analogia egli divien regola dell'universo; e prolunga indefinitamente il regno della vita al di là di tutti i limiti, supponendo che la vita basti sempre alla vita, che il fatto spieghi sempre il fatto, senza che mai l'apparenza stessa possa diventare un problema.
Finchè s'ignora la critica, il diritto della religione è assoluto; tutte le scienze de' nostri fisici non possono distruggerlo. Queste scienze sono isolate invenzioni, sparsi frammenti di scienza; esse non chiariscono la parte critica dei fenomeni; per sè non distruggono la persuasione, che rimanendo nei fatti positivi, si giunga alla scoperta d'un mondo il quale si pieghi col dato della vita. Gli inventori delle religioni credevano che il sole girasse intorno alla terra e che il fulmine fosse l'arme di Giove; noi crediamo che la terra giri intorno al sole, che il fulmine sia un effetto dell'elettricità: queste rettificazioni lasciano sussistere intero il principio della religione, che cerca una spiegazione compiuta rimanendo nel fenomeno. Il credente non pensa punto a negare il fatto; è positivo, studia il corso degli astri, le proprietà dei vegetabili, degli animali, le subordina a un principio, le presenta quali effetti di un'intenzione divina. Rettificate voi le sue osservazioni? aumentate voi il numero delle sue cognizioni? La volontà divina renderà ragione dei nuovi fatti, dei nuovi fenomeni. Il credente spiegava perchè il sole girasse intorno alla terra; corretto, spiegherà perchè la terra giri intorno al sole: diceva il perchè Giove avesse scagliata la folgore; corretto, dirà perchè siam fulminati dall'elettricità. La scoperta non è altro che un fatto, non sottrae il fenomeno alla mano invisibile della divinità. Dite voi che la terra fu slanciata intorno al sole? Non avete detto chi ha slanciata la terra intorno al sole: dite voi che l'elettricità crea il fulmine? Non avete detto chi crea l'elettricità. Lo stesso di tutte le scoperte. Perchè Giove ha quattro satelliti? perchè Saturno ha due anelli? perchè siamo noi sì lontani da Sirio? Non lo sappiamo; il credente deve saperlo, deve compiere le sue cognizioni. Se s'inganna sui fatti, correggetelo; il suo Dio retrocederà senza svanire, s'ingrandirà per dominare un mondo che s'ingrandisce.
Secondo Bacone, poca scienza conduce all'incredulità, molta scienza conduce alla religione. È possibile che la sentenza fosse scritta a caso per mascherare l'irreligione di Bacone: è certo che essa esprime una profonda verità. Alcune scoperte possono compromettere questo o quel miracolo, questo o quel passo della Bibbia; produrranno una rivoluzione religiosa; ma alla fine la religione le conquista, le utilizza, e riescono alla maggior gloria di Dio. La sentenza di Bacone è sì vera, che Newton commentava l'Apocalisse; altri fisici rimanevano sotto l'impero della religione; gli uomini dati alle scienze esatte sono facili alla superstizione. Chi ignora i pregiudizi degli scienziati? Se l'incredulità s'insinua tra i fisici, s'insinua a caso; essi volgon le spalle alla religione senza essere irreligiosi; separano la fisica dalla religione, stanno assorti nelle loro specialità, nè si curano d'altro. Ma una specialità non è mai un sistema, e la teologia continua a regnare. L'osservazione senza la critica è impotente; esita in presenza dei grandi problemi dell'universo, s'arretra senza negare, nega senza rendersi conto della sua negazione. Essa non si fortifica se non quando la critica fa valere i suoi diritti, relega lo spirito umano nel fatto, gli chiude tutte le uscite per cui volesse sottrarsi all'impero del fenomeno, nè gli permette di cercare fuori del mondo il mezzo per compiere il sistema della società, e di dominare d'un tratto tutti i fenomeni.



Capitolo II

LA RIVELAZIONE SOPRANNATURALE


Ogni vizio della religione deriva da un primo vizio: la fede in Dio che governa il mondo. La religione vuol essere un sistema unico, vuol tutto spiegare storicamente. Sa perchè il mondo fu creato, perchè il sole c'illumina, conosce il genio che lo muove, sa tutto in un modo certo e positivo, e la sua scienza è sottoposta agli Dei. Ne consegue che le forze non sono più forze, sono effetti di una volontà o di un pensiero superiore alla natura. Gli alberi, gli animali, tutte le creature si presentano all'uomo quali segni del linguaggio personale degli Dei: si dimanda al cielo il senso occulto delle cose, si suppone uno scopo, un'intenzione divina in ogni essere. La disposizione degli astri, la configurazione dei fiori, degli animali, il corso delle stagioni, tutto è interpretato sotto l'aspetto degli istinti, dei capricci, dei piaceri attribuiti ai genii che reggono il mondo: a poco a poco l'idolatra, col moltiplicare le ipotesi e le congetture, tramuta l'intera natura in una natura imaginaria: la natura non vive più della sua vita. Dio toglie l'anima ad ogni essere.
Lo stesso fatto deve cedere al miracolo. Gli idoli son prodigi, la loro vita è un continuo prodigio; essi dispongono degli astri, degli elementi, di tutto; essi ci signoreggiano. Soggiogato dalla propria finzione, l'uomo deve invocarli, adorarli. Rispondono all'invocazione, alla preghiera, all'adorazione? Ecco il miracolo. Il miracolo li mette in relazione con noi, li rivela; la rivelazione sacra comincia a formarsi. In pari tempo ogni nostra azione vien travisata; l'uomo crede di poter modificare il corso delle stagioni, la serie degli eventi colla preghiera, coll'astinenza o colle invocazioni. D'indi gli esorcismi, gli amuleti, i circoli magici, le abluzioni, le innumerevoli cerimonie religiose, il cui scopo è sempre di operare sulla natura influendo sulle forze occulte elementari e viventi che la governano. I circoli naturali delle cose sono travolti in circoli fantastici.
La fede nel miracolo crea la tradizione sacra. Credete voi ai miracoli? Se scrivete la vostra storia sarà una storia miracolosa, un racconto mescolato di favole. Da che gli Dei intervengono nella storia degli uomini bisogna attribuir loro il bene, il male, le vittorie, le sconfitte, le carestie, le pesti, le inondazioni, il coraggio che addoppia le nostre forze, la paura che le sopprime, l'ispirazione che illumina il genio, le invenzioni che elevano l'umanità. Se Ulisse è astuto, è Minerva che lo consiglia; se Ettore trema dinanzi ad Achille, è Marte che lo atterrisce: sono gli Dei che costruiscono le città, che dettano le leggi; la Musa detta ad Omero l'Iliade; un Dio ispira Walmiki, che scrive il Ramayana; Euclide depone i suoi libri di geometria nel tempio di Delfo. Si fa Dio autore delle nostre opere. La tradizione, questo racconto favoloso di opere umane, collo scorrere del tempo attribuisce agli Dei l'origine della nostra società, delle nostre leggi; divinizza il nostro sistema sociale, trasporta tutta la nostra mente fuori di noi, in Dio e Dio ci toglie la ragione. Egli è allora che la rivelazione naturale trovasi compiutamente travisata nelle cose e nei pensieri; e allora la tradizione che l'insulta e l'uccide chiamasi officialmente la rivelazione soprannaturale, la legge divina, la buona novella, la via della salvezza.
L'autorità è il risultato della rivelazione soprannaturale. La tradizione, il libro sacro, la favola esprimono la volontà irresistibile degli Dei; bisogna obbedire, bisogna vegliare perchè la legge sia osservata. Ecco il sacerdote. Avete trasportato la vostra ragione fuori di voi, in cielo; bisogna che altri vi rappresenti; vi siete perduto, bisogna che altri vi salvi; siete divenuto schiavo della vostra finzione, riconoscete la necessità di un padrone. Il sacerdote traccia la pianta delle città, prescrive le preghiere, i digiuni, le macerazioni; dice se devesi combattere o chiedere la pace, se devesi togliere od aggiungere una corda alla lira; il sacerdote sarà ministro d'ogni vostro trovato, sarà la ragione della vostra ragione. Nulla è lasciato al caso: gli Dei occupano l'intera natura, l'uomo non può vivere se non interpretando di continuo la legge occulta che governa gli elementi, non può credere a sè stesso prima d'aver consultato la sua finzione. Qui la ragione sola è follìa, l'autorità vieta di appellarsi al buon senso, all'esperienza, ai lumi naturali: essa sacrifica ogni libertà come una ribellione, la ragione naturale come un attentato contro il regno degli Dei, contro l'umanità, che non è più in noi, ma in cielo.
La dominazione dell'uomo sull'uomo è l'ultima conseguenza d'ogni rivelazione soprannaturale. Gli idoli, gli Dei limitati, vivi, appassionati, vogliono essere rispettati, venerati, obbediti; conviene indovinare la loro volontà, conviene adorarla. Ina ltri termini gli idoli sono i re del cielo e della terra, consacrano il principio della dominazione, voglio dire, di un governo fondato a profitto di chi governa. Colla loro influenza gli idoli sviluppano questa dominazione: non proteggono forse i loro adoratori? non accordano forse i loro favori ai servi più devoti? non si lasciano forse toccare dalle offerte, dalle orazioni? Da che havvi un idolo, havvi un uomo favorito dall'idolo; i favoriti dei padroni del cielo saranno necessariamente i padroni della terra; gli eletti dell'Uomo-Dio, gli eletti dell'umanità alienata e trasportata fuori dell'uomo saranno i signori dell'uomo, che si è spogliato della sua ragione e ridotto allo stato di cosa. Alla loro volta i miracoli fortificano la dominazione dell'uomo sull'uomo: nel fatto il miracolo è un favore, un privilegio, sospende le leggi dell'universo per proteggere un re, un sacerdote, una casta, un popolo eletto: esso è essenzialmente eccezionale e direi quasi aristocratico. Quelli a cui è rifiutato, quelli che lo ignorano, quelli che lo negano non sono forse legalmente degradati e rejetti fuori della ragione universale? Dalla degradazione alla servitù in teoria non v'ha differenza: e in pratica? La religione è la pratica della servitù.
E perchè accettavasi la religione? Perchè coincide colla fatalità che ci opprimeva. Siam nati in un mondo ostile, il problema della nostra attività non si svolge spontaneo come negli animali: non v'hanno valori che ci attraggano a lavori determinati e continui; il lavoro ripugna al selvaggio, che la natura vuol vinto da un'inerzia mortale. Non siamo tratti all'azione se non dalla disperata necessità della guerra: egli deve cacciare per vivere e la caccia è già una guerra; il selvaggio deve difendere la foresta che racchiude il suo vitto, e l'inerzia è ancor vinta dalla guerra tra le orde; la guerra gli dà il genio dell'offesa, della difesa, gli dà l'instancabile energia di Nemrod, gli dà lo schiavo a cui imporrà il lavoro che odia, gli dà così il primo germe dell'industria, i primi secreti del governo. La guerra scuote di continuo l'indolenza, le abitudini, l'imprevidenza; la guerra spinge al progresso sotto pena di morte: la guerra fa del selvaggio un eroe, un patrizio; la guerra fa della città guerriera una falange predestinata al dominio della terra. La natura nemica dell'uomo porta la guerra tra gli uomini, e l'umanità sfugge alla propria distruzione, sviluppandosi col genio delle conquiste: quindi le grandi invasioni barbare, i Pelasgi, i Galli, i Tartari, i Germani e i Romani che furono l'espressione ideale del patriziato conquistatore[3]. Se l'ignoranza nativa vincolava l'uomo alla religione, se la mente umana non poteva sorpassare le necessità imposte al conoscere e al pensare, se la religione era l'errore teorico che non potevasi evitare, la conquista, sotto mille forme e nei suoi innumerevoli accidenti, è l'interesse che la religione santificò e servì. Il suo Dio fu il Dio dell'ingiuria, il Dio del vincitore; il suo miracolo fu la vittoria, la sua autorità fu l'autorità del padrone; dappertutto la rivelazione soprannaturale guidò l'avventuriere alla conquista della terra promessa; dappertutto predicò agli schiavi, ai servi, ai vinti l'obbedienza come un dovere.



Capitolo III

I FENOMENI RELIGIOSI

La religione è un sistema, è ragionata come ogni sistema; il canto de' primi poeti, non fu più libero della Somma di San Tomaso; i profeti che trasportavano a Dio la ragione dell'uomo furono prudenti quanto lo richiede il metodo di Bacone. Ma la saggezza dei barbari è follia; e nella rivelazione sacra l'osservazione e l'induzione si sviluppano inversamente, spinte verso il falso dall'errore di Dio. Il sacerdote deve provare l'esistenza degli Dei invisibili, indovinare le loro avventure nelle regioni inaccessibili ai mortali; la sua religione vuole spiegata istoricamente la potenza divina, che si fa gioco degli ostacoli della materia. Gli Dei sollevano i flutti del mare, governano le tempeste, penetrano attraverso le mura dei palazzi, scendono nelle spelonche attraverso le rupi; gli Dei disperdono gli eserciti, rovesciano le città. Come? Il sacerdote deve rispondere, e risponde sempre dimostrando la possibilità storica del prodigio, trasportando di continuo la natura umana fuori dell'uomo. Osserva la potenza dell'inspirazione, del coraggio, dello sguardo; la concede alla luce, al suono, all'aria, al fuoco; concede agli elementi più sottili la forza intelligente della vita e dell'istinto; concede agli Dei la forza di tutti gli elementi, compenetrati gli uni negli altri, ed esagerata all'infinito. Gli ostacoli scompaiono, il meccanismo cede, un soldato può combattere un esercito, il palladio può difendere la città, un incanto può proteggere la patria, Dio può fare il cielo e la terra. È così che il sacerdote si serve dell'osservazione e dell'induzione. Egli osserva l'eccezione per negare la legge, osserva la vita per sopprimere il meccanismo, osserva il fatto per indurre il miracolo. Siano interrogate tutte le mistagogie dell'Oriente; siano interrogati i mistici del medio-evo e quelli del risorgimento, Boehm e Postel; siano esaminati attentamente Roberto Fludd, Swedemborg ed anche Carlo Fourier, si vedrà sempre lo stesso procedere. I mistagoghi si fondano sull'osservazione e sull'induzione; ma mettono la logica al servizio di un'ipotesi vitale, la vogliono istromento di prodigi, e sempre partono dall'eccezione, dall'anomalia, da un privilegio vitale per trarne un mondo magico, esagerato dalla forza iperbolica degli Dei. Opponete voi l'inesorabile fatalità del mondo, l'inflessibile necessità delle leggi meccaniche, in una parola, tutte le leggi note della natura? Per essi la rivelazione soprannaturale, la vita universale sono fatti e combattono le leggi della natura coll'eccezione, il reale col possibile, il meccanico col vitale. Voi potete affascinare, dicono essi, collo sguardo, potete raggiungere l'età di cento, di duecento anni; colla forza del presentimento potete indovinare quanto accade lungi da voi; un pastore può uccidere un gigante, un piccol numero di combattenti può disperdere un grande esercito; dunque la debolezza può trionfare della forza, dunque il piccolo può essere più grande del grande, dunque i fenomeni soprannaturali che noi annunciamo signoreggiano il mondo. Voi li dichiarate impossibili, perchè siete schiavi della materia; ciecamente sottoposti al fato della fisica, avete gli occhi e non vedete, avete le orecchie e non intendete. Guardate alla vita, noi tocchiamo l'albero della vita, il perchè noi promettiamo una panacea universale, la vita eterna, una potenza sovrumana agli eletti, a tutte le nazioni, la musica degli istinti nell'associazione universale: promettiamo che l'eccezione del bene trionferà della regola del male, promettiamo la natura trasfigurata. Così la rivelazione soprannaturale si sviluppa capovolgendo il procedere della scienza, per farci vivere in mezzo alla favola a dispetto dei nostri sensi.
Il nostro intelletto resisterebbe alla rivelazione soprannaturale, se la natura non si rendesse complice degli Dei per ingannarci. Ciò accade nella visione. Qui entriamo veramente nella regione dei miti, il miracolo divien fatto; la natura si capovolge. Giungiamo alla visione attraverso più fenomeni, in cui l'interversione delle leggi fisiche si attua a poco a poco, quasi per iniziarci ai misteri della vita degli Dei.
Il primo grado della visione si è il sogno. Esso non riducesi ad una ricordanza confusa della memoria che vaneggia; non è neppure un'opera dell'imaginazione: coll'imaginazione ci figuriamo gli oggetti, ma non li vediamo; malgrado i nostri sforzi, essa ci lascia sempre soli colle nostre ricordanze. Nel sogno, al contrario, la realtà esteriore appare dinanzi a noi penetrante, imprevista, fatale; sonovi voci che intendiamo, forme che vediamo, esseri che a oppongono una resistenza. Il sogno oltrepassa la nostra imaginazione; benchè folle, caratterizza i suoi personaggi fantastici con gesti e parole che, svegliati, non sapremmo imaginare ne' personaggi sognati. Le leggi fisiche si trovano dunque sospese nei sogni: ivi la luce splende con tutte le gradazioni del colore, e non havvi luce, nè colore; l'occhio non è più necessario per vedere, nè l'orecchio per intendere. Dicesi che il nostro organismo, scosso da una digestione faticosa o da un'agitazione convulsa, riproduce interiormente gli stessi movimenti che potrebbero essere eccitati dalle cose esterne. Ma non appaghiamoci di parole; le leggi fisiche non sono meno violate nel sonno convulso che separa la visione dalla luce, l'orecchio dal suono, le cose apparenti dalle stesse apparenze. L'anomalia delle apparizioni notturne nella camera ottica del dormiente è sì forte, che presso gli antichi il sogno era un dono degli Dei, come una specie di intuizione sacra che dava all'uomo la vista sull'avvenire.
L'ebbrezza è il secondo passo verso la visione. L'oppio, l'haschisch, evocano mille fantasmi, ed anche qui vedesi ciò che non è, l'uomo sogna benchè desto; la luce, i colori, i suoni si manifestano senza le loro cause. Nessun rapporto tra l'ebbrezza e il liquore che la produce. Nel sogno il doppio ostacolo che il tempo e lo spazio oppongono allo sviluppo dell'azione svanisce; nell'ebbrezza istessamente il tempo e lo spazio si dileguano, e l'ubbriaco trovasi alleviato dal fatto della vita materiale; lieto o mesto, tocca quasi per incanto agli eccessi della gioia e della tristezza. Nel sogno le imagini son vive ed egualmente nell'ebbrezza talora si manifesta una vivacità organica, che confonde l'imaginazione. Potente quanto il demone di Socrate, l'oppio dispone delle apparenze, dei sentimenti, trasfigura la natura, ci trasporta in un mondo fantastico che trabocca di piaceri. L'Orientale ne cerca, a costo della vita, le delizie.
Il sonnambulismo riunisce i due fenomeni del sogno e dell'ebbrezza, e ci trascina ancor più lungi, perchè il sonnambulo dorme e nel tempo stesso intende; opera, come l'ebbro, sotto l'impero dell'estasi; ma la sua azione è sicura come se fosse svegliato. Egli si leva, legge; interrogato, risponde, a condizione di continuare il suo sogno. La sua stranezza atterrisce: quando appare sulla scena, impone silenzio; desta un'attenzione superstiziosa, Lady Macbeth, che lava le mani insanguinate, incute spavento. Fin dove giunge la forza del sonnambulismo? Lo ignoro; il solo fatto innegabile è la dominazione magnetica che immerge nel sonno, e dà in balia la mente del magnetizzato al potere affascinatore di chi magnetizza.
Il quarto grado che ci avvicina alla visione consiste nell'allucinazione. Questo è, direi quasi, il momento in cui il sonnambulo si sveglia e lotta col sogno che lo assedia,: l'allucinato non è demente, sogna, benchè desto, e a suo malgrado. La sfera dell'allucinazione non ha limiti. Possiamo intendere voci interiori, discorsi; essere circondati da oggetti imaginari, oppressi da innumerevoli spettri: tutti i sensi possono essere falsati dall'allucinazione. Lo sforzo della volontà, l'inedia, le pratiche folli, l'estenuazione fisica congiunta coll'esaltazione febbrile delle passioni, altri mezzi che si possono vedere ne' trattati di medicina, formano quell'intreccio d'esaltazione, di ebbrezza e di vaneggiamento che apre il varco all'allucinazione. Anche qui non havvi rapporto naturale fra la causa e l'effetto, e l'effetto interverte le leggi della natura.
La visione non è il sogno, nè l'ebbrezza, nè il sonnambulismo, nè la semplice allucinazione: qui havvi un nuovo carattere. Il fenomeno cessa di essere strano, parla colla voce della ragione, compie il nostro pensiero, ed è il traslato magico della nostra intelligenza portata fuori di noi. Così la visione ci dà la prova del nostro pensiero, l'attua, fa camminar di fronte la ragione e l'apparenza desiderata dalla rivelazione soprannaturale. Nell'esaltamento della visione la misura del tempo, l'inerzia della materia svaniscono, l'intelligenza divien rapida, il ragionamento esatto, il trasporto irresistibile; e l'intelletto opera colla leggerezza del sogno, coll'estasi dell'ebbrezza, colla precisione del sonnambulismo.
La visione non si spiega meccanicamente; ma dipende dal ritmo della vita e dal sistema mistico, ed è un momento plastico, nel quale la poesia interiore prende, non si sa come, una forma materiale. Poco importa che sia provocata da mezzi meccanici e bizzarri; poco ci cale che sorga dall'inedia o dal celibato. Un poeta deve essere ebbro per trovare la sua vena, altri deve scrivere digiuno, altri non può comporre se non in mezzo al fracasso. Sono condizioni senza rapporto colla ispirazione poetica esse non lo spiegano punto. Perchè dunque i digiuni e la continenza forzata toglierebbero il suo carattere alla visione? La voce che parlava ai profeti dell'Oriente era legislatrice; quella che consigliava la Pulcella d'Orleans salvava la Francia; Maometto fondava una nuova religione; Catterina da Siena sapeva parlare ad un condottiero e ad un papa; Ildegard dava i suoi responsi ai prelati e ai primi principi della cristianità: convien dunque asserire che il Verbo si fa carne nel delirio, e quindi la visione conferma gli idoli, i miracoli e le favole del culto, e diventa la prova di ogni rivelazione soprannaturale. D'indi presso i sacerdoti di tutte le religioni alcune pratiche destinate a dare al credente la prova decisiva della rivelazione soprannaturale per trasportarlo così nella sfera delle favole. Possiam leggere presso i teologi dell'India o presso gli Arabi, le preparazioni che conducono all'estasi. Essi consigliano i digiuni protratti, che fanno vaneggiare; lo sforzo dell'imaginazione, che si fissa sopra un oggetto mistico; la continenza, che esalta le nature febbrili ed estenuate: poi s'aggiunge la raccomandazione di scegliere un luogo oscuro, remoto, di fissare gli occhi sopra la punta del naso, di non respirare se non a lunghi ed eguali intervalli; e non v'ha medico che coi mezzi indicati dalla teologia, non possa promettere meravigliose allucinazioni. I gesuiti hanno dato ottimi consigli per procurare artificialmente il delirio della religione. Nel medio-evo la magia, sorgendo dalle tradizioni pagane ed imitando il cristianesimo nel suo sviluppo, dava anch'essa la prova del delirio alle sue dottrine. Andavasi al convegno delle fate; e chi non potrebbe andarvi? Le porte della tregenda sono ancora spalancate, non havvi alcuno che non possa prender parte alla festa, basta prendere l'oppio, l'haschisch o la belladonna. Pietro de Lancre ci ha trasmessa la ricetta del diavolo, dove si trovano la cicuta, il giusquiamo, lo stramonio, la mandragora, il solastro furioso, il corniolo sanguigno, cioè le sostanze in oggi riconosciute le più atte a riprodurre la visione. L'iniziato si ubbriacava, credeva di andare in tregenda; la sua fede nelle fate si confermava con una prova assolutamente materiale: come poteva dubitare della tregenda, poichè vi si portava? I deliri delle pitonesse, i sogni nelle sacre caverne non avevano altra origine che il desiderio di entrare nel regno dei miti, e il mistero inesplicabile di una natura antimeccanica che si rivela in noi quando sono sollecitate le forze della vita. E noto che presso i barbari, si rispettano i pazzi come innocenti che Dio protegge; essi sono visitati dalla visione, sono supposti in rapporto col mondo dei misteri. In somma la prova del soprannaturale si compie nel sogno, nell'ebbrezza, nel sonnambulismo, nell'allucinazione e nella visione, e l'uomo, trasportando fuori di sè la propria ragione, la rende ebbra, vaneggiante, visionaria.
La menzogna avvalora tutte le rivelazioni soprannaturali. Nel secolo decimottavo accusavansi troppo i sacerdoti d'impostura; non s'intendeva a dovere la fatalità dell'errore religioso; in oggi, per un eccesso opposto, si giustificano le religioni, e i filosofi son troppo riconciliati coll'errore. La menzogna ha regnato lungo tempo sul genere umano, regna ancora, ha sostenuto una parte in tutte le religioni; presso gli antichi gli oracoli attestano l'impostura permanente dei sacerdoti: quando nascondevansi dietro gli idoli, quando li facevano parlare, quando ingrossavano la voce coi tubi, potevasi dire che essi medesimi fossero illusi da un errore involontario? Se a Dodona, se altrove l'ebbrezza poteva ingannare gli stessi sacerdoti, l'impostura è patente nel mondo antico, gli auguri non potevano incontrarsi senza sorridere, dappertutto la menzogna compiva l'opera dell'analogia e dell'allucinazione.
Il buddismo, il cristianesimo e il maomettismo sono tre religioni senza oracoli, senza auguri; gli artifizi dell'impostura non vi si ritrovano. Escludono esse la menzogna? No: la finzione segue i miti, nè può dividersi dal miracolo; non si trasporta a Loreto la casa della Vergine, se l'errore non è sussidiato dalla finzione; non si fa liquefare il sangue di san Gennaro, se la fede non ha complice l'inganno; non si scrive la biografia di santa Filomena, se lo scrittore non perfeziona la leggenda coll'impostura. Ministro dell'errore, il sacerdote è condannato ad illudere suo malgrado. Ogni religione ha i suoi avversari, ogni santuario ha i suoi nemici, ogni chiesa è necessariamente militante; i miracoli sorgono spontanei nell'imaginazione del credente e se il teologo non li accetta, se disinganna il popolo, dà ragione al nemico, la religione pericola. Convien mentire per l'onore di Dio. Di là tutte le leggende dei santi. Poi, per un movimento regressivo dell'imaginazione, si falsano i libri sacri di proposito deliberato, il falso ingrandisce il passato; Mosè, Cristo, Budda, toccano alla grandezza impossibile degli Dei nel mentre che si attribuisce agli antichi nemici la malvagità soprannaturale dell'inferno.
Così la rivelazione sacra dà una triplice mentita alla rivelazione naturale; essa mente osservando i fatti generali come se fossero eccezioni, mente trasportando la legge nel regno dell'allucinazione, mente ancora compiendo l'allucinazione colla finzione.



Capitolo IV

LA RIVELAZIONE CRISTIANA

Il cristianesimo presenta tutti i vizi della rivelazione soprannaturale. L'elevazione del dogma, la grandezza della dottrina non sopprimono in esso l'idolatria, il miracolo, la favola, l'autorità, la dominazione, chè anzi quanto più esso è perfetto, tanto più raggiunge la perfezione del vizio.
Il Dio cristiano non trasporta più la vita all'origine delle cose, ma vi trasporta la ragione; non divinizza più il vivere, divinizza il pensare. Nel cristianesimo non sono più il maschio e la femmina che generano il cielo e la terra; la generazione fisica è surrogata dalla forza dell'intelligenza, che divien creatrice; l'ordine dei sessi e degli istinti è surrogato dall'ordine delle idee. Il cristianesimo ha depurato i dogmi orientali, il suo verbo ha rigenerato la Trimurti vitale dell'India, la sua trinità ha riassunto il lavoro filosofico della Grecia, ha iniziato il mondo ai misteri della scienza. Pure il suo Dio si rivela; e nel momento della rivelazione è un idolo; egli parla ad Adamo colle passioni di un uomo, lo punisce coll'odio di un demonio; egli dirige da despota il popolo eletto, governa la chiesa da re. Il Dio cristiano è una persona infinita, degrada la natura all'infinito: il paradiso e l'inferno riducono la terra a un accidente, la vita ad un sogno: la vita s'interverte, e il cristiano trasporta nella morte l'intero suo destino. Un Dio, pura intelligenza, rivelandosi, combatte tutti gli istinti.
La Bibbia è avara di miracoli; il cristianesimo non imita le religioni dell'Oriente, non isconvolge la natura coi prodigi; si direbbe che prevede, che teme lo sguardo delle scienze positive. Cristo non discende sulla terra per combattere contro le catastrofi cosmiche; il gran prodigio della redenzione, si compie nel mondo degli spiriti; le sue conseguenze rimangono circoscritte nella sfera della moralità e dell'ispirazione. Quando si dimandano prodigj a Cristo, egli si sdegna, vuoi fede, dispensa la grazia, non il miracolo. Pure il Dio rivelato è una persona, deve lasciarsi piegare dall'orazione; interessarsi all'uomo, lottare contro la natura, deve accordare i miracoli che reclama il principio stesso di una rivelazione soprannaturale. Di là tutti i miracoli della Bibbia, i mille miracoli del vangelo, le leggende dei santi, in cui si accordano le prove disprezzate dalla fede, i piaceri vilipesi dall'ascetismo. Benchè ristretto a dispensare i prodigi della grazia, Cristo li unisce all'incanto dei sacramenti; la sua redenzione si ferma là dove più non s'intende la vibrazione meccanica della sua parola. Le regioni non visitate dagli apostoli non sono redente, quelle in cui gli apostoli si stabiliscono seguendo i casi del commercio e della guerra, trovansi rigenerate dall'accidente della loro presenza, ed il miracolo alternativamente rifiutato ed accordato, temuto e ammesso dal cristianesimo, finisce coll'essere il più assurdo tra gli incanti. Non è visto, e bisogna accettarlo; non è verificato, e bisogna riconoscerlo: il battesimo non ci muta, eppure dobbiam crederci rigenerati dalle sue acque; l'eucaristia lascia il pane e il vino quali sono, ma il credente deve ammirare il prodigio invisibile della carne e del sangue, deve vederlo. La chiesa non si cura delle cose del mondo, più non ferma il corso del sole; eppure le nostre azioni dipendono dalle sue operazioni invisibili e dobbiamo attribuirle le nostre vittorie, le nostre sconfitte; ogni evento esprime la volontà divina. Il mondo finisce per divenir magico, benchè Cristo abbia rinunciato alla magia.
Il miracolo genera la favola. Malgrado il rispetto del cristianesimo per i fatti, la generazione sacra si sviluppa coi miracoli visibili o invisibili, dunque il cristianesimo deve coordinare i suoi miracoli, collocarli nella storia, e quanto più la storia è rispettata, tanto più il miracolo infinito di Cristo la falsa in ogni punto. La chiesa condanna l'antichità ad inchinarsi dinanzi i fasti ignorati di un'orda di barbari; la chiesa disprezza il corso dell'incivilimento, e segue, a dispetto della storia, il corso della grazia attraverso alcune tribù di pastori. La chiesa sottopone tutto il mondo moderno alla propria storia. Il carattere degli uomini, gli accidenti della natura, le invenzioni, le scoperte, tutto deve cedere al regno della chiesa. Secondo la Bibbia, il sole non si leva se non per illuminare la tentazione di Eva e la nascita del Redentore; l'universo rientrerà nel nulla il giorno in cui il dramma sarà compiuto coll'ultima scena del giudizio universale. Quindi la favola cristiana mente più audace della favola indiana: vede le virtù della Grecia e di Roma, e le dichiara splendidi vizi! vede le scienze, le arti, e le fa calpestare da dodici pescatori; vede, studia le relazioni che ha piagiate, e le accusa di plagio. Dappertutto il fatto è riconosciuto e negato; lo spirito distrugge la materia, il pensiero uccide la vita.
La favola fonda l'autorità, e noi troviamo nell'autorità cristiana tutti i caratteri del miracolo cristiano. Il sacerdote cristiano non promette prodigi, non è signore della creazione come i pontefici del paganesimo, non dispone degli elementi come i capi degli Incas; la Bibbia non è un amuleto, nè una panacea, nè un palladio. Pure la Bibbia è un'autorità; non s'inganna: qui la parola è infallibile, il dubbio n on è lecito. Che fa l'autorità cristiana? Distingue il bene dal male, regola i rapporti dell'uomo colla persona di Dio, amministra, dispensa la giustizia coi sacramenti. Essa esorcizza di continuo la natura, dispone dell'anima dell'uomo: non solo tiene in mano le chiavi del cielo e dell'inferno, ma fa pesare sulla menoma tra le nostre azioni un'eternità di pene e di ricompense. Che importa la libertà del corpo, se voi mi tenete cattivo lo spirito? che importano, dice il Vangelo, tutti i beni del Mondo, se l'anima è perduta? Anche nella politica non è forse col cercare il regno de' cieli che tutti i beni ci sono largiti per soprappiù? La chiesa non è indifferente in nessuna cosa, in nessun atto, in nessuna guerra; essa interviene sempre a nome della sua fede, e la sua fede la fa autrice di miracoli continui, le dà una pretensione infinita, un'autorità senza limite. In presenza degli infedeli, degli eretici, dell'immensa maggioranza del genere umano, dell'intero avvenire, la chiesa non può ammetter dubbio nella sua vittoria; attenuate quanto volete il miracolo cristiano, esso signoreggia l'eternità avvenire, e rende invincibile il potere de' suoi rappresentanti. Qui il battesimo è più che l'acqua dello Stige, che rendeva Achille invulnerabile; l'immortalità spirituale e materiale si estende all'intera cristianità, ed essa dipende dal sacerdote, dalla Bibbia, dall'autorità. Così l'autorità cristiana è come il miracolo cristiano; e tenue, senza alcun potere sulle cose, senza alcun diritto positivo sugli uomini, ma ingente, assoluta, universale. Collo spirito pretende signoreggiare ogni evento, benchè spiegato dalla scienza, benchè assolutamente terrestre e mondano.
Ci rimane a dimostrare che l'autorità cristiana conduce alla dominazione dell'uomo sull'uomo. Chi può dubitarne? L'autorità cristiana discende dal cielo imposta dal più iperbolico miracolo, promette ai credenti il più gran prodigio: una redenzione infinita. Il movimento della chiesa parte dall'alto, è Cristo che dà la missione agli apostoli di predicare, sono gli apostoli che consacrano i loro successori; il sacerdote è ordinato dal sacerdote. Chi è egli adunque? Un'eccezione nel mondo, un miracolo vivo, un uomo divino predestinato a riscattare gli abitanti della terra. Egli deve essere intollerante; questo è il più sacro de' suoi doveri, questo è il principio della sua dominazione. Per sè, egli non regna, non può regnare, non promette miracoli, non è mago, non è di questo mondo, aborre dalla signoria, aborre dal sangue; non governa la vita, è il re della morte. Ma è ministro di un Dio infinito, ministro del Dio di morte, veglia sui fedeli che un pensiero può perdere; per lui il fedele è Adamo, che vuol usurpare il regno di Dio, è la vita che resiste alla morte, è la terra che si ribella contro il cielo: quindi il sacerdote cristiano è soldato di una guerra disperata contro l'azione, il pensiero, l'intenzione, la natura d'ogni uomo. Inerme, egli è pago di consigliare, ma il suo consiglio accende i roghi; inerme, si limita ad additare lo scandalo; la sua delazione è una sentenza di morte; egli non porta la spada, e il braccio secolare scanna le vittime; egli rifugge dal sangue, e spinge i re corrono alla crociata: il sacerdote cristiano non combatte, ma il cristianesimo è una guerra continua contro gli Ariani, contro gli ebrei, contro gli eretici: il mondo pagano è vinto dal ferro e dal fuoco; il mondo idolatra dell'America è trucidato in nome di Cristo. La chiesa non è di questo mondo; ma consiglia la fede, e ogni guerra è una guerra della chiesa: la chiesa lascia a Cesare ciò che è di Cesare, ma Cesare deve essere cristiano: Cesare è ogni condottiere, ogni barbaro che serve gli interessi della fede, e spetta al papato il distribuire le corone dei re.
Così il Dio cristiano è il più ragionevole e il più malefico tra gli Dei: il miracolo cristiano è il più umile e il più temerario tra i miracoli: la favola cristiana è la più moderata e la più audace tra la favole: l'autorità che fonda è la più mite e la più spietata: la dominazione che consacra è la più dolce e la più terribile, perchè si estende al pensiero.



Capitolo V

LA DECADENZA DEL CRISTIANESIMO

La rivelazione naturale ha definitivamente condannata la rivelazione cristiana e da tre secoli si manifesta nel mondo una nuova verità, una nuova vita, una nuova morale; triplice manifestazione che distrugge l'antica rivelazione.
La natura esplorata dalla fisica più non può essere il teatro della redenzione cristiana. Quell'Eden, quegli alberi della scienza e della vita, quegli angeli dalle spade di fuoco, tutto quel dramma che incomincia nel paradiso terrestre e si svolge attraverso il mondo antidiluviano, la famiglia di Abramo, il popolo ebreo e la nascita di Cristo scompaiono quali vaneggiamenti dell'infanzia umana. La storia dei popoli si ribella contro la tradizione degli Ebrei, ne distrugge gli eroi, le leggende, i miracoli; essa mostra che Cristo è nato più volte prima di sorgere in Gerusalemme, che i dodici apostoli hanno circondato Budda prima di seguire il Redentore, che la Vergine ha visitati i templi dell'India prima di giungere a Betlemme. La rivelazione cristiana si è sviluppata coll'analogia, colla visione, colla finzione. Invano Cristo fu prudente, la scienza gli toglie la favola del testamento antico, l'allucinazione de' patriarchi, gli ossessi del vangelo, l'estasi di Giovanni di Patmos. Il delirio della Bibbia più non inganna.
La rivelazione cristiana è talmente sconfitta, che la confutazione ha cessato e oramai noi ammiriamo il cristianesimo: per noi non è più un errore, non è più un inganno; più non ci muove a riso; siamo a tale distanza dal vangelo e dalla chiesa, che vi troviamo la figura della nostra rivoluzione, in quella guisa che scoprivasi nel giudaismo la figura del cristianesimo.
Dio padre è il simbolo della fatalità; egli è inesorabile; egli è l'essere che sta nel fondo di tutti gli esseri; egli è la guerra universale con cui la natura ci preme e ci flagella al progresso.
Dio figlio è l'umanità; egli deve nascere, deve crescere, deve placare il padre, domare la guerra, consociare gli uomini senza divario di nazione, di origine e di lingua. Egli vive in noi; il suo spirito discende dovunque due o tre persone si uniscono in suo nome, si svela quando l'uomo rivendica la sua ragione, che egli aveva trasportato fuori di sé. E Dio, divenuto la ragione di ogni individuo liberato dalla rivelazione naturale, promette il riscatto, promette la salvezza individuale e universale: l'uomo non è più fuori di sè, l'autorità svanisce, la dominazione scompare, ogni uomo è pontefice e re.
Il cielo cristiano è la terra; i beni vaghi e indefiniti promessi da Cristo sono i beni dell'avvenire, che nessuno può nominare. La risurrezione si compirà nella vita, il premio non sarà nella morte: la riconciliazione del sacrifizio sarà un fatto di continuo offerto e inutile; che la solidarietà universale degli interessi provoca la fratellanza, e ne elide il sacrifizio.
La fede cristiana è stata il simbolo della nostra fede nell'umanità; essa ci deve sostenere nell'azione, essa ci inspira, essa non aspetta mercede, nè dimanda se il bene sia possibile. La Bibbia è il simbolo della nostra Bibbia, della storia ideale dell'umanità, che trovasi in potenza dovunque havvi una famiglia, che svolgesi identica dovunque scorre il moto dell'umanità, e che conduce all'apocalisse dell'associazione universale.
La chiesa rappresentava Cristo, ne perpetuava la vita, la predicazione, la propaganda; amministrava i sacramenti e dispensava la grazia. Noi siamo la nuova chiesa, la rivoluzione è il nuovo Cristo, la nuova umanità: dovunque appare, la sua propaganda si attua colle opere, che si sostituiscono alla figura de' sacramenti.
Il nostro battesimo è il battesimo del fuoco; nessuno s'inganna sul giorno e sull'ora in cui lo riceve. La nostra confermazione si attua nell'istante in cui il battesimo è messo alla prova, e in cui dobbiamo richiamarci la fede promessa.
La nostra confessione si fa dinanzi al sommo pontefice della nostra coscienza, all'esempio di Rousseau e di Franklin.
L'eucaristia è per noi l'agape, il banchetto; là si comunica materialmente e spiritualmente, là ogni uomo dimentica la sua persona, e vive della vita di tutti e per presentarsi al banchetto convien essere battezzati, confessati, preparati; senza di ciò non si celebra che un'orgia dell'antica società.
Il nostro ordine ci vien dato dalla vocazione naturale, dalla nostra ispirazione congiunta colla scienza. Quelli a cui fu accordata la sola ispirazione, la sola carità, non insegneranno; quelli che hanno solo il sapere senza vocazione, non predicheranno; quelli che sono spinti a vociferare dall'ambizione o dalla vanità, non illumineranno alcun uomo.
Il nostro matrimonio è reso alla natura; dispone della morale e della vita; debb'essere subordinato alla legge dell'umanità. Cristo lo toglieva al contratto della patria, alla legge della conquista; Cristo, eguagliava i due coniugi dinanzi alla chiesa, predestinandoli prima d'ogni cosa ad un'opera cristiana; noi, rivendicando la nostra ragione che ci era stata involata, sottraendo il matrimonio alla benedizione, vediamo nell'antico sacramento il simbolo della nostra famiglia, che eguaglia i due coniugi dinanzi all'umanità, facendo astrazione, non solo dalla patria, ma da ogni religione.
Nessuno ci accusi di eccedere nell'interpretazione e di abusare della metafora; la più grande tra le metafore fu la chiesa. Se non possiamo dare una dimostrazione esatta del senso, delle sue figure, la colpa non è nostra, è nel simbolismo, il quale non parla se non alla vita. Così la rivelazione degli esseri ha condannato per sempre la rivelazione cristiana, che non è più di questo mondo.
Interroghiamo la rivelazione della vita; anche qui la rivelazione cristiana riceve una nuova mentita. L'uomo antico è morto cogli antichi dogmi; i patriarchi, i profeti, gli apostoli, nel mezzo della nostra civiltà, non sarebbero se non barbari. Ammiriamo noi Abramo più che Socrate? Davide più che Lutero? Ci crediamo noi gli schiavi degli idoli, qualunque sia la loro natura? Ci sentiamo noi degradati nascendo? Noi ci sentiamo liberi, ragionevoli, signori naturali del mondo; noi abbiam fede nella natura, e questo è il sentimento della nuova vita. Il mondo moderno sorge da questo principio. Paragoniamo Epicuro e Bacone: entrambi sembrano discepoli di una stessa scuola; l'uno rappresenta l'esperienza presso gli antichi, l'altro loro rappresentante presso i moderni; entrambi hanno lo sguardo vòlto verso la natura; entrambi non isperano se non quanto può essere dato dalla natura. Sono essi animati dalla stessa fede? Epicuro diffida, non si crede sicuro in un mondo creato dalla cieca divinità del caso; paventa la fortuna: egli fugge la folla, cerca la solitudine, limita i suoi piaceri; si direbbe ch'egli vuole annichilarsi per cercare la felicità: la sua fisica non tende ad altro, che a liberarlo dal timore degli Dei; e quando siffatto scopo è raggiunto, egli si addormenta nella pace del nulla. Nella vita Epicuro cerca la solitudine per togliersi al caso degli atomi, nella morte la cerca ancora per togliersi al caso degli Dei. Veggasi Bacone: egli si ferma nella materia, ma la scorge animata e ragionevole, la studia per chiederle i prodigi dell'arte; il suo metodo naturale promette i doni dello spirito santo a tutti gli uomini; la sua scienza, restringendosi alla terra, vi crea un nuovo mondo, il paradiso dell'umanità. Quindi l'utopia di Bacone che si propaga ed ingrandisce, la nuova vita scintillante nell'occhio de' suoi discepoli, quindi le invenzioni e le scoperte traboccano per tramutare la terra La distanza che separa Epicuro da Bacone, separa il mondo antico dal mondo moderno, e si ripete ogniqualvolta paragoniamo i filosofi della nostra era cogli uomini dell'antichità.
Il commercio e l'industria sono l'opera dei nostri istinti; vivono direttamente sotto il regno della natura, s'avanzano sempre verso l'ignoto; non si sa mai quale sarà la scoperta, quali prodigi contiene l'industria del momento; solo è noto ch'essa modificherà il mezzo in cui viviamo, che ci trasporterà in un mondo rinnovato, che ivi sorgeranno altre passioni, altre volontà, e che ivi un nuovo lavoro ricomincerà per sospingerci anch'esso verso una nuova rivoluzione. L'antichità applaudiva forse all'azione dell'industria e del commercio? No, la combatteva con un odio sistematico. Atene e Roma la disprezzavano; Sparta la sopprimeva; Platone, il gran discepolo di Socrate, voleva fondare la sua repubblica lungi da ogni consorzio, lungi dal mare, perchè il commercio e la navigazione fossero impossibili. Lo stesso pregiudizio governa il medio-evo; il commercio, l'industria sono sospetti e disprezzati, il pregiudizio riappare nel risorgimento; e non si cessa di ripetere che la ricchezza genera il lusso, e che il lusso corrompe la società. Tutta la saggezza antica lottava contro l'industria e il commercio; essa aborriva la libertà dell'artigiano invocata dai moderni; i proletari dell'antichità dimandavano il diritto all'ozio, panem et circenses; l'operaio moderno vuol vivere lavorando, o morire combattendo.
Gli antichi non credevano neppure all'intelligenza dell'uomo. In loro sentenza l'umanità era decaduta, e pendeva al male, predestinata alla guerra ed alla infelicità. La riabilitazione era opera eccezionale, non si attuava se non per mezzo della casta o dell'individuo. La casta e l'individuo supponevano la moltitudine eternamente incapace di governarsi, eternamente confidava alla tutela dei legislatori. D'indi le funzioni distribuite, fissate; ogni industria confidata ad una tribù; le magistrature confinate nella casta privilegiata, dove la famiglia, l'eredità, l'educazione continuavano e perpetuavano il secreto della redenzione eccezionale. Quando la casta si scioglie, la riabilitazione rimane un privilegio individuale: essa s'inviluppa nelle tenebre dei sacri misteri; Pitagora esige dall'iniziato un silenzio di cinque anni; dappertutto la verità prende il velo dell'allegoria; essa è un secreto che non devesi comunicare al profano, al popolo. Nessuno crede alla forza dei principj. Platone traccia il disegno di una repubblica, e dichiara anticipatamente che il volgo non lo intenderà; non ispera che il suo concetto possa attuarsi; il disegno stesso della repubblica suppone che il popolo non sappia mai governarsi. Se Platone spera, spera in favore della casta cui affida la sua repubblica; se attende l'attuazione del suo disegno non l'attende se non da un tiranno, che il caso renderà filosofo. Stabilita la repubblica, Platone non spera di vederla durare, malgrado l'esperimento della felicità. Egli ci dice in qual modo la sua repubblica si corromperà, prima di dirci come nascerà. Platone, Aristotele, gli stoici, tutti gli uomini dell'antichità disprezzavano talmente il volgo, disperavano della verità a tal punto, che accordavano al savio il diritto di mentire, di imaginar religioni, d'inventar favole, d'imporle colla forza: diritto, d'altronde, supposto dalla distinzione che separa l'insegnamento esoterico dall'insegnamento exoterico, per cui gli antichi disprezzavano in privato quella religione che rispettavano in pubblico, non credendo possibile di vincerla.
Da ultimo, per gli antichi innovare era sinonimo di corrompere. La censura antica si sgomenta quando vede rimutarsi la musica e la danza. Licurgo si fa promettere che nessuno toccherà le sue leggi prima del suo ritorno, e muore in esilio per legare l'immortalità alla patria. Caronda comanda al cittadino che propone una nuova legge di presentarsi in senato colla corda al collo, e vuole strozzato il novatore se la legge non è ammessa. Una tetra pedagogia incatena tutti gli atti del cittadino perchè la città, opera di una sapienza eccezionale, possa durare. Per noi, al contrario, l'innovare è sinonimo del migliorare, l'immobilità è sinonimo di corruzione e la storia moderna comincia coll'innovazione: innova la geografia raddoppiandola; scopre l'artiglieria. la stampa, e i primi tra gli uomini nuovi chiedono alla filosofia l'arte di fare nuove invenzioni. Credono che si potrà apprendere la facoltà inventiva come si apprende a leggere ed a scrivere. Raimondo Lullo vuole colla sua grand'arte dare il genio ad ogni uomo: Bacone rinnova la stessa promessa. «Il nostro metodo, l'invenzione», dice egli, «lascia poco alla penetrazione ed al vigore delle menti: anzi si può affermare che eguaglia le capacità; che abolisce la superiorità in quella guisa che se si tratta di tracciare un circolo, il compasso rende eguali i più inabili ai più esercitati». Anche Campanella pretendeva che la sua filosofia, sostituendo le parole alle cose, la realtà alle astrazioni, dovesse moltiplicare le scoperte. Descartes attribuiva al suo metodo tutte le sue scoperte nelle matematiche. Quando l'esagerazione dei metodi scompare presso i filosofi del secolo decimottavo, più non si parla se non di mutar l'uomo, di rifarlo, d'innovare la educazione, le leggi, i governi, la società; e la stampa si affatica nel celebrare gli inventori, nè si stanca di esaltare i novatori. Così la sapienza antica trovasi intervertita, la nostra saggezza non vuol censori, non inquisitori; la nostra vita si affida al principio della libera concorrenza degli istinti, riposa sull'ipotesi che, lasciato l'uomo al suo pendio, lasciata l'industria alla sua libertà, abbandonata la discussione a sè stessa, si giunga naturalmente al vero, al bene, al giusto: ogni nostro lavoro, ogni nostra invenzione, ogni nostra instituzione non tende se non a raddoppiare il moto già celere che ci avvia nella libera carriera tracciata dagli istinti, dalle idee, dalle vocazioni. Ora la vita moderna, qual si rivela nella nostra società, respinge con disdegno la religione di Cristo. Se guardiamo gli astri, la via lattea, Sirio, i gruppi delle nebulose svolgono dinanzi a noi l'universo in una sì sterminata vastità, che la redenzione di Cristo vi rimane perduta sovra un atomo di sabbia. Se guardiamo alle nostre istituzioni, il sacerdote cristiano ci ricorda la censura degli antichi; in ogni modo la rivelazione della vita si congiunge colla rivelazione degli esseri per pronunziare la decadenza del cristianesimo.
Fin qui abbiam consultato il vero, abbiamo ascoltata la voce della vita: havvi di più; dobbiamo intendere la voce della giustizia. Primo dogma del cristianesimo è la caduta dell'uomo; il cristianesimo ci vuole tutti perversi e delinquenti nell'atto stesso del nascere; ci nega il diritto e la possibilità di esser liberi, di governarci da noi; ci vuol servi e maledetti. I cristiani adorano un Dio nemico del genere umano. Jehovah punisce tutti gli uomini per la colpa di un uomo; Jehovah fa la natura nemica dell'uomo; Jehovah impone il lavoro qual pena servile; Jehovah separa gli Ebrei da tutte le genti, comanda la guerra, promette la conquista di Canaan. Jehovah è la natura ostile, a cui l'umanità sfugge per la tangente delle grandi conquiste; Jehovah ordinava la schiavitù del mondo antico, la voleva atroce, si pasceva di stragi, chiedeva vittime umane sugli altari di Jefte e di Samuele. Ogni nostro progresso è vera lotta contro di lui. Il secondo dogma del cristianesimo, la redenzione, è un privilegio odioso quanto la caduta; noi rifiutiamo il patto di Abramo, noi ripudiamo il sangue di Cristo; appaghi esso l'immane Jehovah; noi non offriamo, non invochiamo il prezzo di alcuna vita umana; comunque s'interpreti, Cristo conferma, compie l'antica legge; si rimane nell'antica servitù. Egli crede alla caduta, non combatte il Dio della maledizione, resta sommesso, è figlio, e imagina di placarlo e di soddisfarlo facendosi schiavo, facendosi uccidere dal popolo eletto. Il padre aggradisce l'offerta, lo uccide, lo fa crocifiggere dal popolo eletto, poi punisce il suo stesso popolo per aver compito il voluto parricidio; ed è questo il pegno dell'èra nuova: la maledizione antica deve cessare perchè Jehovah ha oltrepassato la propria ingiustizia punendo il figlio innocente, quasi fosse l'uno de' figli innocenti di Adamo. La maledizione cessa, ma negli eletti; cessa, ma la giustizia è grazia, favore; cessa, ma la libertà degli eletti è ordinata nel vuoto de' cieli; cessa, ma l'eletto vive di martirio sulla terra, vive nemico di sè, imitatore del supplizio di Cristo, carnefice d'ogni suo istinto; e se per un istante si ricorda d'esser uomo, è perduto per sempre, è vittima di Jehovah e di Cristo, unanimi nel furore e nella vendetta. Cristo deserta la causa degli oppressi nell'atto stesso che la difende: lascia la terra a Cesare, ai conquistatori, ai barbari; non offre altro al povero che la derisione del pane eucaristico; lo santifica, ma lo abbandona affamato alle porte de' palazzi; gli dà a bevere il proprio sangue versato dal padre, perchè lasci versare il suo sangue da ogni tiranno. Se Cristo è luce, la sua luce sorge per illuminare l'ingiustizia della terra, senza toglierla, senza alterarla. Quindi i primi cristiani vivono nell'aspettativa del millennio, s'attendono alla fine del mondo, alla risurrezione dei corpi; non pensano ad altro. Quindi i Padri della chiesa son intesi a combattere il lusso, la ricchezza, la potenza, la scienza; muovono guerra indistintamente, confusamente a tutte le cose della terra; vogliono che si viva imitando il suicidio di Cristo. Quindi le virtù monacali de' primi tempi; perpetuate poscia nei conventi, nel celibato; virtù da insensati, che abbandonano la causa degli oppressi per lasciare più liberi gli oppressori. La chiesa non apporta nel mondo alcun principio liberatore, abbandona tutto al caso, non sa ordinare sè stessa senza copiare il mondo antico. Il clero imita le caste, fonda la chiesa opponendola all'istinto delle moltitudini; il sacerdote imita il legislatore antico il sacerdote regna di continuo diffidando de' profani; risuscitando la censura romana, e diffida di ogni innovazione. Poi la chiesa copia il mondo romano: essa nomina i suoi proconsoli, i vescovi; riunisce i suoi senati, i sinodi; elegge il suo imperatore, il papa; invia i suoi diplomatici, i legati; riproduce il diritto romano nel diritto canonico; poi copia la società feudale, poi copia tutto, eccetto la libertà. Cristiani! non vi combattiamo perchè siate nell'errore, non vi combattiamo perchè siate illusi ma vi combattiamo perchè adorate Dio padre parricida, Dio figlio che consacra il parricidio voluto: raccontando i delitti de' vostri Dei, voi scandalizzate ogni uomo che nasce. Ci pretendete ebbri e furenti se cessiamo di credere al miracolo di un'autorità soprannaturale; e quest'errore vi fa parlare il linguaggio dei bonzi, dei lami, degli allucinati dell'Oriente; ci credete predestinati all'obbedienza, e il vostro errore protegge i conquistatori, i re, i princiopi, i figli dei crociati, gli eredi dei signori e dei banchieri: ogni vostro errore si traduce in ingiuria, voi siete i difensori di ogni pontefice, che nega il diritto della scienza, voi difendete ogni condottiere, che nega il diritto alla vera comunione del pane, e non del sangue, della terra, e non del cielo. Dall'89 in poi avete sentito che ogni religione era reazione, che ogni dominatore, turco o russo; difendeva il miracolo, e avete ordinato la santa alleanza di tutte le religioni a difesa di tutte le dominazioni. Or bene, giunta è l'ora; voi commettete in terra il delitto che avete supposto in cielo, ogni vizio invoca la religione, ogni religione mette capo in Cristo. Nel temop degli schiavi il vostro Cristo era liberatore, nella leggenda divenne: mito: nella verità è capo di una religione, e perciò stesso ci carpisce la nostra ragione, la nostra coscienza; ci rende alienati di mente. alienati di cuore; non ci lascia aperto se non il regno della morte, lo scampo che l'antico vincitore lasciava alla disperazione del vinto. Ma noi non disperiamo, e il sorriso della derisione che vi sbigottì, trionferà della ragion di Stato che vi riunisce: il cristiano è morto, l'uomo deve nascere, è nato, ha già respinto dallo Stato gli apostoli e la Chiesa.

SEZIONE SECONDA

LA METAFISICA



Capitolo I

STERILITÀ DELLA METAFISICA


È nota la sterilità della metafisica. La metafisica nacque combattendo la religione, e non ha mai riportato alcuna vittoria, la religione non ha mai sofferto alcun interregno, i metafisici non hanno mai guidato, nè governata la società. Come avrebbero potuto guidarla? Essi sono egualmente nemici della religione e della scienza, del miracolo e del fenomeno, mentre assalgono la religione, rendono impossibile il trionfo della rivoluzione naturale. Per essi il fenomeno non vale, lo vogliono dimostrato, vogliono l'equazione del fenomeno, trasportano i loro problemi nelle contraddizioni eterne, ripongono nell'impossibile ogni nostra speranza. La religione trionfa.
Il metafisico trovasi condannato alla solitudine dalle proprie idee. Nel fatto, la religione è positiva quanto la scienza, è una falsa fisica, pure è una fisica; è una falsa storia, pure è una storia; scioglie quindi un problema fisico, un problema storico; in altri termini, un problema sociale, determinando ad un tempo l'essere, la vita, la morale. La metafisica che assale la religione, l'assale dal di fuori, trascendendo il problema stesso della religione. Negherà Dio perchè dubita del tempo, dello spazio, del mondo; negherà il libro sacro perchè nega l'esistenza delle cose esteriori; introdurrà un'eresia nel culto perchè sfugge con una astrattezza alle contraddizioni dell'individuo e del genere. La fisica, la storia non raccolgono alcun profitto immediato dall'assalto, e il metafisico rimane senza influenza, la sua eresia, la sua incredulità restano trascendenti. Se la metafisica giova, si è che cessa di essere metafisica, diviene scienza, oppone fatti a fatti; il filosofo è cittadino, il metafisico è uomo, il sofista è scienziato; vive della vita generale, obbliga quindi le sue astrazioni a proclamare la verità della scienza. Sia la metafisica vera metafisica la più ardita tra le sue rivoluzioni non toccherà all'impero della religione, Empedocle potrà restare pontefice, Malebranche potrà credere alla Bibbia. Rimanendo in presenza delle contraddizioni eterne, non si sfiora il fatto, non si dan soluzioni che tocchino il fatto; il falso metafisico, spostando ogni cosa, non sposta la fisica, nè la storia, agendo nihil agit.
Il metafisico trovasi isolato anche dal proprio procedere. La religione è sociale; il sacerdote impara osservando, istruisce perchè è stato istrutto, scopre perchè gli hanno trasmesso altre scoperte. Egli si trova nella condizione del fisico, la rivelazione soprannaturale si stabilisce come la rivelazione naturale. Il metafisico non dipende che da sè stesso, pone da sè il problema da lui creduto solubile, la soluzione non può emanare che dalla sua mente. Chi potrebbe apprendergli se il tempo è finito od infinito, se lo spazio differisce dal corpo o si confonde colla materia, se il non-io esiste realmente, se la nostra ragione c'inganna? Il metafisico non può riconoscere alcuna tradizione, alcuna autorità: pensa, fatta astrazione da tutte le invenzioni, da tutte le scoperte; l'astronomia, la chimica, la fisica non hanno nulla da insegnargli. I suoi libri non hanno data; come metafisici, Platone, Aristotele, Leibniz, sono contemporanei o piuttosto non sono di alcun'epoca, d'alcuna patria, d'alcuna civiltà. Se i sistemi metafisici si seguono, si concatenano, i loro inventori si seguono solo perchè si combattono. Possono ignorare le condizioni storiche che presiedono all'origine de' loro sistemi, anzi devono ignorarle, perchè credono alla sola dimostrazione, si fondano su dati che sono di tutti i tempi, hanno in sè tutti gli elementi della loro scienza. Se riconoscono la tradizione filosofica, se proclamano la loro dottrina quale risultato fatale, la cui prima origine risale a Socrate o a Talete, non sono più metafisici, sono istorici, sospettano il giuoco eterno delle contraddizioni, la metafisica tocca alla sua rovina.
La morale de' metafisici esce dal sillogismo, non è determinata dalla vita, nè dalla coscienza; sarà sublime, ma non è vivente, non è possibile; quindi in presenza dei credenti il metafisico deve fallire. La scienza gli manca. non può agire, non è padrone di produrre effetti sensibili, di dar segni della sua missione, non può esser giudicata dall'opera. Vede il culto onnipotente difeso dal governo, dagli interessi dei potenti, dall'ignoranza dei popoli; non ha la scienza che si sostituisce al culto, che oppone i fatti ai fatti, la storia alla leggenda, gli interessi positivi agli interessi imaginari; non sente un dovere imperioso, sente uno scoraggiamento profondo. Il perchè l'antica metafisica proclamava tutti i doveri, eccetto quello che impone di dire la verità, accada quel che sa nascere: essa predicava una morale di cui non proclamava la verità. La verità era troppo terribile, il martirio troppo inutile; a chi profittava? Quindi negavansi gli Dei e rispettavansi i sacerdoti, negavasi la religione e non si pensava ad abbatterla, spegnevasi la luce perchè troppe erano le tenebre.
La metafisica non sapeva neppure rendersi ragione della propria sterilità, perchè si sapeva solitaria, non si sapeva nemica della scienza e condannata a starsi inutile tra la scienza e la religione. Quando i metafisici parlano della loro propria impotenza, vaneggiano: accusano la bassa plebe dei mortali, a loro dire, incapaci di reggere all'altezza dei loro concetti; si dicono esseri privilegiati, sfoggiano i lunghi studi, il linguaggio tecnico, la sottigliezza perseverante del riflettere, e van superbi della loro solitudine. Miseri pretesti! La metafisica aspira al dominio del mondo, tale è la sua pretensione; se non vince la religione, è vinta: perchè dunque la vediamo eternamente sconfitta? Perchè il popolo non l'intende? Spetta ad essa di giungere fino al popolo, il quale reca in atto le teorie dei fisici più sagaci, dei matematici più astrusi. Accordasi che la metafisica deve essere coltivata dai metafisici, come la chimica dai chimici; si lascia ad ogni dotto il monopolio inevitabile della sua specialità: ma si obbedisce, si accettano le invenzioni, si applicano le più difficili scoperte. Perchè non si applica la metafisica? Essa non è nè più difficile, nè più complicata della religione, reclama minore studio, ma non è positiva come la religione, ed essa deve rimanere nel vuoto. Questo le dissero a buon diritto in due lingue diverse i teologi ed i fisici. I Padri l'accusarono per tempo d'esser varia, inconsistente, contraddittoria ne' suoi sistemi; dicevansi unanimi essi per la fede, infallibili, mentre le scuole filosofiche predicavano or l'acqua, or l'aria, ora il fuoco, or l'idea, or l'essenza, senza tregua nè posa, alle loro mutazioni. Che poteva rispondere la metafisica, condannata ad un continuo errare da' suoi capi, sempre solitari, senza tradizioni, confinati nelle antinomie, le quali spingevanli a cercare un vero ch'era impossibile a scoprirsi? i Padri, i dottori, i teologi muovono a nausea quando vogliono trarre dalle variabilità delle opinioni filosofiche la necessità di accettare la loro favola; sono strani, quando si pretendono infallibili per ciò stesso che altri erra, quando si vantano esenti da ogni contesa, da ogni incertezza, essi condannati a contese eterne, e rappresentanti di seguaci che si maledicono, si combattono e si abbruciano a vicenda: il punto incontestabile si è, che la favola religiosa riunisce un popolo, il suo variare fa variare i popoli, il suo lottare fa spargere il sangue, le sue modificazioni modificano la civiltà; in una parola, rimane incontestabile, che la religione è sociale, la metafisica solitaria. L'accusa de' teologi si ripete dai fisici in altri termini: Bacone accusa i metafisici di cercare l'eleganza, non la verità, di costruire il mondo colle categorie, d'appagarsi di parole, di trascorrere in vane ipotesi, d'essere venduti, corrotti, prostituiti alla potenza, alla ricchezza, all'autorità; e poteva dire più schiettamente, d'essere schiavi volontari della religione, nemici ostinati della scienza, superbi disprezzatori del popolo. Solo bisognava riconoscere la causa prima di questo continuo errore attraverso le categorie, le ipotesi, il servilismo, le querele interminabili e inutili alla società; la qual causa sfugge ai fisici quanto ai teologi. Ciò perchè i fisici conquistano il fatto materiale senza poterlo difendere, senza conservarlo; conquistano la natura, e dimenticano il pensiero; non sanno estendere la rivelazione ai congegni della mente umana; non l'estendono alle origini delle religioni, dei governi, delle leggi; non abbracciano la società; sono operai, non architetti; materia, non principio del sistema sociale. Quindi respingono fieramente la metafisica, che disprezza la brutalità dei loro fatti, non sanno sostituirsi alla metafisica per combattere le religioni, rimangono uomini di scienza, non divengono uomini della scienza.
Posto che la metafisica sia l'intermediario eternamente inutile tra la religione e la scienza, convien riconoscere qual sia stata la sua missione nel mondo. Tratta dalla fatalità delle astrazioni, ebbe per missione di scoprire le antinomie delle cose e del pensiero, e nel tempo stesso di svelare a poco a poco le diverse regioni della rivelazione naturale. Per sè il metafisico cerca la soluzione di una contraddizione eterna, per discoprirla cerca un mezzo qualunque sfuggito alla penetrazione degli altri, ed offre questo mezzo come un'invenzione che ferma l'antinomia. S'inganna, l'intento prefisso è fallito; ma il mezzo proposto è una rivelazione. Egli è così che ogni gran metafisico è rivelatore. Talete non discopre l'equazione dell'universo, scopre i fenomeni dell'acqua; Anassimene osserva quelli dell'aria, Eraclito quelli del fuoco. La scuola di Elea rivelava l'essere, Democrito l'atomo, Platone il genere, Aristotele l'individuo. Zenone approfondiva i fenomeni della volontà, Epicuro quelli della voluttà, Plotino quelli dell'estasi. Si segua passo passo la filosofia, si seguiranno i progressi della rivelazione che si estende: presso Descartes troviamo la rivelazione del pensiero; Locke è il rivelatore della sensazione, Kant delle antinomie intellettuali. Gli astrologi apprendevano l'astronomia cercando l'impossibile, la metafisica apprendeva la scienza cercando ciò che sfugge ad ogni ricerca. L'errore era nella preoccupazione che fissava nell'aria o nel fuoco o nel genere o nell'individuo o in un qualsiasi fenomeno l'apparenza prima dominatrice di ogni spiegazione. La sterilità era nello sforzo, che dimandava al principio ammesso l'equazione dell'universo; sterilità che, d'altronde, ingrossava colle contese il tesoro delle contraddizioni, preparando il giorno in cui, vinte dal proprio numero, sarebbero generalizzate e riassunte per precludere ogni adito al divagare dei solitari. Ma la verità era nel fenomeno scoperto, proposto quel principio primo, che serviva così di criterio a sè stesso, e che doveva poi rimanere quello che era, ed essere quello che appariva.
Hannovi adunque due cose distinte in ogni metafisico, in ogni filosofia, e in generale nella storia della filosofia. Havvi l'errore sterile: havvi la rivelazione crescente: havvi la metafisica, che non ha mai regnato e mai non regnerà, e che sarà sempre ostile alla scienza: havvi la scienza stessa, che si svolge, che si rivolta contro la metafisica, che reclama il suo essere, il suo apparire, e che combatte la religione per propagare l'umanità.



Capitolo II

LA METAFISICA PRESSO I GRECI


Tutta la filosofia greca rimase sterile, nè mai cessò di essere tiranneggiata dalle implacabili necessità della metafisica. La storia della filosofia greca dividesi in tre periodi; il primo comincia con Talete, e finisce coll'apparire di Socrate; il secondo si estende da Socrate all'origine della scuola d'Alessandria; nel terzo periodo regna sola la filosofia alessandrina. Nelle tre epoche i più grandi tra i rivelatori furono tutti egualmente vinti e sopraffatti dall'assurdo metafisico.
Nel primo periodo la filosofia pensa a sottrarre la cosmogonia alle divinità dell'Olimpo, i filosofi prendono possesso della terra e del cielo e diventano rivelatori. Gli atomi, i germi, l'aria, il fuoco, i numeri, l'essere sono altrettante scoperte che espellono gli Dei dai penetrali della natura: l'uomo è quasi liberato dal terrore dei miracoli: qual sarà la sua fortuna? quale la sua potenza? I filosofi possono dedurre logicamente l'uomo nuovo dall'uomo antico; la famiglia, la patria, la casta dell'antico mondo si riproducono nella prima metafisica; un fato feroce: armato d'astrazioni, si sostituisce al regno degli. Il filosofo vuole imitare i conquistatori, l'uomo redento vuo, essere signore. In qual modo? La metafisica consiglia un inganno. Si opera ordinando un doppio insegnamento, l'uno pubblico, l'altro secreto; l'uno interiore, l'altro esteriore. In pubblico la filosofia è pagana, in secreto è libera; in pubblico venera gli Dei, in secreto li disprezza; in pubblico si collega coi conquistatori, coi regnanti; nelle congreghe occulte cospira, ordisce la comunanza degli uomini, tradisce i propri alleati. Chi profitta della finzione metafisica? I pontefici, i conquistatori. Pitagora, il più libero degli antichi filosofi, fonda il più sacerdotale tra gli istituti; Pitagora rispetta gli Dei, il collegio dei pitagorici è un'aristocrazia di impostori, l'antica società sussiste di diritto e di fatto. Che accadrà dei redenti? I pitagorici sono isolati dalla fatalità della metafisica; come filosofi, combattono la religione; come signori, opprimono il popolo; sono sospetti, sono al bando della proprietà e della religione, del popolo e de' signori: e un giorno i signori della metafisica soccombono a un'insurrezione universale. Nessuno de' pitagorici scampa alla strage.
La natura aveva traditi i filosofi, avevali tratti colla forza dell'affetto alla famiglia, avevali tratti colla forza della famiglia a costituire una casta, ad essere signori. Nella patria antica non eravi luogo per essi. La metafisica cerca lo scampo di una nuova patria. Dove la troverà? Avanzando logicamente aveva ricostituita la casta, lottando logicamente doveva negare la casta, e colla casta la patria, la famiglia, l'affetto. Ecco la teoria di Democrito che dichiara l'uomo ingannato dalla natura, che lo affeziona alla donna, ai figli, alla famiglia, alla patria; vuole che l'uomo disprezzi le sue affezioni per diventare cittadino della vera sua patria, il mondo. Erano le stesse idee della scuola d'Elea, anch'essa intesa a sottrarsi alla tirannia della patria, della famiglia e dell'affetto. Così, nell'atto in cui la rivelazione dei filosofi liberava l'uomo dal regno degli Dei, la metafisica gli imponeva di esser Dio tiranneggiando sè stesso; nell'atto in cui la rivelazione naturale accusava la religione e la conquista ordinata nella patria, la metafisica consigliava al filosofo di disertare la causa del vero, di non darsi cura de' suoi simili; nell'atto in cui la rivelazione naturale spingeva il redento alla ricerca di una nuova patria, la metafisica toglievalo alla stessa famiglia, e lo spingeva errante tra i barbari quale avventuriero. L'avventuriero capita in presenza de' sofisti che gli dicono: «Tu sei la misura delle cose, tu sei il re dell'universo, tu sei signore, quanto affermi è vero; fuori della tua affermazione non havvi nè il vero, nè il falso. Cittadino del mondo, signoreggia adunque gli uomini colla potenza della parola.» Era in traccia d'una parola, e il redento divien mercante di parole, vende il ragionamento del giusto e dell'ingiusto, inganna oratoriamente, fa professione di persuadere ciò che vuole, sostiene ogni tesi, ogni antitesi, alla condizione d'esser pagato: si trasforma in condottiero al servizio della guerra universale. Così la metafisica, volendo dedurre logicamente la patria dal mondo qual era, dall'uomo qual era, giungeva a tradurre in una guerra metafisica tra i sofisti la guerra universale di tutte le patrie. E a chi profittava la guerra? Chi non è con noi è contro di noi: il sofista pagato dai ricchi, serviva ai ricchi, dava di sè spettacolo al sacerdozio, alla conquista; era fatto buffone del mondo antico, che doveva applaudire, poichè i filosofi, rinunziando alla giustizia, rinunziavano alla causa dei vinti, che era la loro propria causa.
La metafisica sottopone i filosofi della seconda epoca a un nuovo genere di tormenti, quando Socrate annunzia per il primo che il vero è più potente dell'inganno, più certo delle armi; ed era questa una rivelazione assolutamente vitale ed istorica. Il vero demone di Socrate parlava ai cittadini d'Atene: - Fondate il vostro interesse sul vero, e non sul falso; se volete che lo Stato sia ben retto, confidatelo ai migliori; che importa l'abilità di chi è corrotto? Se volete magistrati sicuri, sceglieteli probi e intelligenti, non eleggeteli a sorte, perchè il caso è cieco; se volete difendere la repubblica, parlate meno di spade e di corazze; e siate più uniti; che importano gli eserciti quando l'anarchia strazia lo stato? Se volete capitani che valgano a proteggervi, prendete quelli che sanno conoscere il soldato; che importa la strategia del capo che non sa dominare l'esercito? Se volete che l'educazione frutti, vegliate sulle vocazioni, seguitele, assecondatele; è ad esse che la natura confida ogni arte, ogni invenzione. Imitate Sparta nel riabilitare la donna; essa è ragionevole, e se avete la sua amicizia sarete del doppio più forte. - Ma la metafisica s'impadronisce di Socrate, lo obbliga a dimostrare la potenza del vero; il rivelatore deve, metafisicando, guadagnare al vero quell'avventuriere, quell'uomo a cui i sofisti insegnavano che ogni errore è patria; Socrate lo applaude di cercare il proprio interesse, gli dice d'assicurarlo sul vero: chi è interessato ad ingannarsi? Gli dice di darsi al lavoro, perchè il lavoro è utile; gli consiglia di esser temperante, perchè la temperanza, regolando i piaceri, favorisce il nostro interesse; gli consiglia di acquistarsi degli amici, perchè ogni amico è un difensore; poi la forza vitale di Socrate sfugge all'insidia dei sofisti; Socrate non sa la verità, la cerca; non istruisce, interroga; non insegna, fa partorire le menti. Vedetelo, è in piazza; il suo occhio splende, il suo gesto s'anima, i curiosi si fermano; egli accosta il devoto che porta la sua offerta al tempio, l'armaiuolo che ripulisce le armi, Alcibiade che s'abbandona ai piaceri; il dialogo comincia dagli interessi più volgari e scompiglia le idee antiche, si scorge che l'antica morale è immorale, che l'antica religione è impostura. L'amicizia di Socrate trasforma i costumi, minaccia l'antica patria colla superiorità dell'ironia, colla dialettica dell'interesse, che svela dappertutto, nei templi e nelle case la felicità fondata sul falso. Ma la metafisica chiede a Socrate se il vero è potente, se la natura non favorisce l'inganno; e Socrate, condannato a rispondere metafisicando, deve dedurre dalla propria mente, dalla propria vita l'equazione dell'universo; deve dichiarare che la sua ragione, è la ragione del mondo, che la natura obbedisce all'aspettativa dell'uomo, se i suoi nemici prevalgono, la provvidenza lo farà salvo nella vita o nella morte. Qui ancora la fede di Socrate irrompe contro la religione del ricco; ma ad ogni passo Socrate s'avvolge nei lacci della metafisica, deve dimostrare l'esistenza di Dio colla prova dell'ordine, poi l'immortalità dell'anima, poi trovasi aviluppato da una religione metafisica che l'obbliga ad essere religioso. Il demone di Socrate prende sembianza di genio sovrumano, il tempio di Delfo è pure il suo tempio, gli Dei della Grecia splendono nel fondo dell'astrazione metafisica; gli Dei della Grecia proteggono ancora nella mente stessa del filosofo l'antica patria; la metafisica legava l'uomo nuovo al cadavere dell'antico cittadino. La rivelazione storica che si manifesta con Socrate scuote l'antica patria, la religione e la famiglia, l'inganno e la forza accusavano il rivelatore; vien condannato a morte per avere vilipesi gli Dei e corrotta la gioventù: ma chi versa il veleno? chi lo porge a Socrate? La metafisica, che gli fa rifiutare lo scampo della fuga, che lo vuole obbediente alla patria, alla religione, alla famiglia, perchè l'equazione della ragione gli aveva fatto cercare nel cielo lo scampo dell'uomo redento, e conveniva rispettare i tiranni della terra. Socrate fu grande, fu giusto: riunì la doppia ispirazione dell'interesse e della giustizia, fu storicamente ironico, storicamente tragico; ma spirava nelle reti della metafisica, trasportando il vero e la giustizia nell'impossibile.
I successori di Socrate cercano tutti qual deve essere la patria del savio, tutti esplorano il regno del vero, e la metafisica li trae tutti incatenati nel sistema della ragione, fuori della storia, nella solitudine delle scuole. Sono più impotenti di Socrate perchè Socrate era più ignorante di essi. Egli è indeciso, incerto nel regno dell'impossibile: Socrate vuol essere ignorante, vuol fuggire la dottrina degli antichi filosofi raccoglie quanto gli bastava a vivere libero di mente nel mondo della natura. I suoi successori devono trasportare nel campo delle contraddizioni la signoria dell'uomo redento dalla religione e dalla conquista, devono sistemare nell'impossibile il regno della ragione. Socrate limitavasi a fondare gli interessi sul vero: dopo Socrate convien spiegarsi: In che consiste l'interesse? nel piacere? nella virtù? Perchè la verità deve rispondere all'aspettativa dell'uomo? Perchè la ragione è la misura dell'universo? Che cos'è la verità? Dov'è? Come può essere assicurata? La critica interroga, la metafisica risponde, e continua il martirio di Socrate.
Platone, che entra il primo nel regno della ragione astratta, l'ordina coi generi,nche trasforma in tipi, immedesima il bene, col vero e colla forza: ed a che servono l'equazione? Platone afferma che la natura corrisponde all'aspettativa dell'uomo, ma è una natura ideale che vi corrisponde, una natura trasmondana. Platone combatte la patria, che gli avvelenava il suo maestro, ma non parla più ai cittadini per rigenerarli; non vive in piazza, ma frequenta le corti, cercando la patria del maestro nel cielo. Combatte le divinità della Grecia, ma la metafisica gli impone di cercare un segno della patria celeste, e se respinge il miracolo, crede al delirio, se disdegna i Greci, Platone crede ai barbari, cita la tradizione di Er l'armeno, trasportato, dicesi, nel mondo invisibile, dove vide il giusto ricompensato e l'iniquo punito. Inteso alla ricerca del cielo, Platone accetta la sconfitta di Socrate sulla terra e scrive la filosofia della morte. Egli continua il dialogo del maestro cogli amici, continua le interrogazioni, vuol far partorire le menti, ma il dialogo perde ogni senso terrestre, pratico, tramutasi in una dialettica a doppia direzione, la quale getta nell'antinomia tutti i beni della terra a profitto del cielo. Socrate censurava la patria, ne proponeva le riforme, la voleva rigenerata: Platone continua la censura, compie il disegno delle riforme, e nelle della metafisica, la politica di Socrate diventa l'ordinamento di una chiesa ideale. La repubblica di Platone espelle dal suo seno i sacerdoti, i poeti, gli idoli della Grecia, è la città del vero, la patria del savio, il luogo della terra, dove la forza, la verità e il bene trovansi identici: ma la repubblica è diretta da un Dio trasmondano, è intenta ad un bene trasmondano, sottoposta alla favola di Er l'armeno; vi si insegnano altre favole, i filosofi fanno da pontefici, ingannano i cittadini onde meglio governarli. La metafisica, accettando la necessità dell'inganno, accettava, senza volerlo, la mitologia, lasciava il mondo agli antichi pontefici: chi poteva ingannare meglio di Omero? Socrate combatteva la cupidigia, la metafisica sopprime la proprietà; Socrate voleva la donna , riabilitata, la metafisica tramuta la riabilitazione nella comunanza delle donne; Socrate reclamava che l'educazione assecondasse le vocazioni, che il governo fosse confidato ai migliori, che gli offici fossero dispensati ai più degni; la metafisica scorre coll'idea del bene all'educazione comune, all'abolizione della legge, al regno dell'unica morale che veglia sui pensieri, sulle intenzioni, sovra ogni cosa senza il vincolo di alcuna legge politica. Non basta: conviene coltivare la terra, si concede la terra ad una casta degradata, alla casta degradata si concedono le proprietà, la famiglia, tutto, eccettuate le armi, riservate ai savi: chè se la chiesa di Platone tollera il mondo, non si fida del vero, e vuole i filosofi armati in un colle loro metà metafisiche, perchè gli uomini su cui regnano non li riducano in ischiavitù; Platone pensa che la sua città del vero e del bene sia la fortissima tra le città? Pensa che possa resistere alle seduzioni di Atene o di Tiro? No, la vuoi lungi, ben lungi dalla ricchezza, dal mare, dalla Grecia; ancora è dessa limitata ad un piccol numero di cittadini filosofi o di filosofi solitari; una volta fondata, Platone è certo che non resiste a sè stessa; la vede trascinata prima dalla virtù all'ipocrisia di Sparta, poi alla follìa democratica d'Atene, poi all'anarchia, da ultimo alla tirannia. Qual'è adunque la forza del vero? Platone rifugge dal volgo, non si mescola agli affari, disdegna la Grecia, arma i suoi filosofi; anche armati, li vuole illusi dalle favole, lontani dagli uomini; e nel seno stesso della repubblica ideale, il vero rimane impotente. Così l'uomo cadeva vittima della metafisica, che lo faceva retrocedere all'egoismo solitario di Democrito, all'impostura regnante di Pitagora; l'egoismo e l'impostura non ricevevano altro perfezionamento che quello della morte, sola eredità de' successori di Socrate.
Quanto dicesi di Platone, si applica a tutti i filosofi. Così Aristotele è rivelatore, ma la scienza rifugge dal rinnovare il combattimento di Socrate contro le divinità della Grecia, rifugge dalla piazza d'Atene, è al servizio di un conquistatore. Zenone fonda la virtù sull'impossibile, e non la trova nel mondo; Epicuro fonda la voluttà sull'impossibile, e anch'esso fugge l'antico mondo senza trovare un asilo: i nuovi scettici predicavano il bene supremo dell'apatia; dappertutto la metafisica disertava la causa dell'oppresso, o l'opprimeva imitando il fato della conquista colle sue teorie. La religione soccombeva al progresso dei popoli; tutte le patrie dell'antichità erano affrante; la conquista romana ravvicinava, affratellava brutalmente tutte le genti; lo scompiglio del mondo antico, la crescente rivelazione, l'unità di Roma mostravano urgente di cercare una nuova patria all'uomo che sfuggiva al dominio degli antichi Dei e degli antichi signori. Ad ogni passo, ad ogni progresso la filosofia irrigidisce nelle contraddizioni dell'ordine, del bene, della ragione, radicata nel campo dell'impossibile, ognor più affievolita, ognor più lontana dal genio di Socrate, ognor più convinta che non le è concesso abitare la terra.
Nell'ultimo periodo della filosofia greca i filosofi vedono scosso il mondo da una religione imminente; pensano di imitare i profeti, e questa volta affrontano alla fine il problema della loro propria impotenza dinanzi al genere umano. In qual modo il filosofo potrà agire sugli uomini insensibili al vero? che devesi pensare de' miti sì strani e sì ciecamente adorati dai popoli? Ecco le questioni. I neopitagorici danno risposte confuse; Filone è men vago, i neoplatonici, sono precisi, ed esprimono l'ultimo pensiero della metafisica sui destini del genere umano.
È concesso al filosofo si influire sul genere umano? Riconosciuta l'impotenza dei discepoli di Socrate, che il regno della ragione sfugge al Dio di Platone, al Dio di Aristotele, alla voluttà di Epicuro, alla volontà di Zenone, all'apatia degli scettici, le contraddizioni sorgono molteplici: veruna scuola non vale a vincerle. Che fare? Si cerca un nuovo trovato, una nuova soluzione che abbracci d'un tratto tutte le antinomie, un'arte che sciolga d'un tratto il duplice problema della metafisica e della sua influenza. Non si accusa la metafisica, si accusano ancora i metafisici. Il nuovo trovato consiste nell'estasi, e l'estasi deve dare la doppia equazione dell'universo e dell'umanità. D'indi in primo luogo la filosofia alessandrina, in secondo luogo della scuola alessandrina.
Il Dio di Platone è vuoto, l'estasi lo rende positivo; la volontà di Zenone è arida, l'estasi le porge un oggetto; la voluttà di Epicuro è immonda, incerta, l'estasi le dà un oggetto purissimo, assoluto; l'apatia degli scettici erra nella contraddizione, nell'estasi divien beatitudine e trascende la contraddizione. Disperate del vero, perchè la mente è sempre distinta dall'oggetto che conosce? Disperate del bene, perchè chi gode è distinto dall'oggetto goduto? L'estasi trascende la mente, trascende l'anima, s'immedesima col proprio oggetto, ci accorda una rivelazione superiore, un bene infinito, ineffabile, inconcepibile, Dunque con l'estasi il filosofo giunge ad una potenza inaudita: oltrepassa il ragionamento, penetra l'ordine nascosto della natura, tocca all'albero della vita, può divenir profeta, può operare miracoli. Proclo provoca il vento, la pioggia, libera l'Attica da un calore eccessivo, arresta un terremoto: altri filosofi operano prodigi, tutti affascinano i discepoli collo slancio dell'estasi, col delirio dell'entusiasmo. Ecco la teoria; e può tradursi in queste parole: Il regno della ragione, annunziato da Socrate, sarà onnipotente, subordinato all'estasi.
Qual sarà adunque l'azione della scuola alessandrina? Le religioni, risponde la scuola d'Alessandria, furono fondate dai savi, che l'estasi rendeva onnipotenti sulla terra: i miti nascondono e raccontano ad un tempo i prodigi dell'antica saggezza deturpata nel delirio esterno della favola. La missione de' filosofi sarà di rettificare la tradizione dei savi, di scoprire il senso perduto de' miti, di fondere tutte le religioni in una sola religione, che sarà il regno della ragione subordinato all'estasi. I neopitagorici volevano resuscitare la tradizione sacra di Pitagora, la saggezza antica e i suoi prodigi cosmici. Filone pensava a ristaurare la saggezza di Mosè, che in sua sentenza la filosofia greca aveva or interpretata, or travisata. Porfirio è il critico di tutti i miti; Giuliano riabilita gli idoli; ed è così che gli ultimi filosofi abbracciano l'umanità. Perciò Filone prometteva un avvenire cui gli uomini santi si riunirebbero condotti da un fenomeno divino, sensibile ai buoni, insensibile agli altri; Plotino, dirigendosi a Porfirio, gli dice: tu ti sei mostrato poeta, filosofo e sacerdote, tu sarai la luce dell'umanità; Proclo si chiama sommo pontefice dell'universo, tutti si riuniscono per togliere la distinzione delle razze e de' culti, e per chiamare i barbari come i Greci alla partecipazione del bene supremo.
Questa era l'azione promessa; ma qual poteva essere la vera azione della metafisica alessandrina? Dimandiamolo alle idee. Promettevasi a tutti il regno della ragione sotto la condizione dell'estasi. Che cos'è l'estasi? È un'allucinazione che lusinga il sistema mistico, imita la poesia per rivelare la vita alla vita, travisa l'universo perchè noi possiamo meglio sentire i nostri sentimenti. Quindi l'estasi doveva condurre dalla vita antica alla vita antica, falsava il mondo per meglio offrire all'uomo antico la sua propria immagine. Dunque falsava ciò che è, per negare ciò che diventa, ciò che nasce: e che nasce? il nuovo mondo positivo, non vuoto, reale, non fantastico, per cui la metafisica antica deve combattere con l'estasi contro la vita nuova. Nel fatto, l'estasi è un privilegio: secondo Plotino, è individuale; secondo Porfirio, non è conosciuta se non dall'estasi, come il sonno dal sonno, il senso dal senso. Egli è difficile, dice Plotino, di conoscere il padre del mondo; e quand'è scoperto, è impossibile di farlo conoscere agli altri. Ammonio Sacca non pubblica i suoi scritti, non vuol profanato il suo entusiasmo dalla curiosità della moltitudine. L'estasi è adunque un privilegio, doveva costituire una casta inaccessibile, tre volte santa, inviolabile, e intesa a fondare il regno della ragione. Abbiamo già detto in che consistesse il regno della ragione. Promettevasi a tutti la morte di Socrate, la salvezza individuale nelle regioni della morte; lasciavasi la terra ai signon della terra, rispettavasi l'antica patria rispettata da Socrate. La salvezza trasmondana era subordinata all'estasi, e qui l'impossibile metafisico diveniva eguale al miracolo, la filosofia diveniva religione, poteva obbligare i redenti a lasciare la terra a chi regna. Rivoluzionaria nell'intento, la filosofia alessandrina rappresentò di fatto la più grande tra le reazioni. Essa ristaurò gli idoli sprezzati, i templi deserti, un culto antiquato, credenze impossibili. Pretendevasi togliere la contraddizione tra la scuola ed il popolo, la si voleva togliere col simbolo, e il simbolo, equivoco di sua natura, a doppio senso, era la stessa contraddizione di due dottrine opposte, l'una secreta, l'altra profana. Nel momento in cui il sommo pontefice dell'universo voleva riunire l'umanità, nel momento in cui Porfirio voleva esercitare il sacerdozio universale, nel momento in cui Giuliano prendeva la difesa della filosofia, questo sacerdozio, questa filosofia non fondavano in realtà se non il regno dell'impostura; la nuova propaganda era la propaganda dell'antica conquista. Così nell'estasi il demone di Socrate si divinizza abbracciando l'universo, il felice inganno a cui Platone voleva subordinata la sua repubblica si estendeva al genere umano, la speranza o piuttosto la disperazione, che riduceva Platone a non attendere la sua repubblica fondata se non da un tiranno, conduceva i sacerdoti dell'universo nella reggia di Cesare: e se fosse stato concesso alla metafisica di recare in atto l'estasi inane della scuola, i sacerdoti diventavano esseri soprannaturali, taumaturgi, più che vicari di Dio.



Capitolo III

LA SCONFITTA DEI METAFISICI


Riassumiamo le accuse de' Padri della chiesa contro i filosofi della Grecia, traduciamole nel nostro linguaggio ci spiegheremo la vittoria dell'idolatria cristiana. «Voi volevate,» direbbero i Padri ai filosofi, «sottoporci alla rivelazione ineffabile della vostra estasi, noi abbiamo preferite le allucinazioni della Bibbia, che potevano raccontarsi: voi volevate ingannare coll'equivoco del simbolo, noi abbiamo preferito l'errore involontario di un popolo. Voi volevate rimescolare tutti i simboli con un procedere mezzo erudito, mezzo critico, e lontano da ogni regola, noi abbiamo accettata una tradizione, una, coerente, semplice, che risaliva arditamente a Dio senza smarrirsi nella notte de' tempi primitivi: il vostro verbo si faceva carne in un delirio scolastico, il nostro verbo si faceva carne nel delirio di una gente che attendeva il Messia. - Il cristianesimo ha fatto quanto volevate tentare, ed ha evitato ogni vostro errore. Esso ha dato l'estasi, meno l'ineffabilità, che la distrugge, ha dato i simboli naturali, senza ricorrere alle finzioni, che distruggono il simbolo. Ha dato il bene di Platone, personificato nel Cristo, l'uomo-Dio vivente nel Messia, il mondo invisibile che corrisponde all'aspettativa di Socrate, la repubblica della Chiesa che reca in atto la repubblica di Platone: e dappertutto si è sottratto alle antinomie della critica con un fatto positivo. Esso ha opposto alla legge, ai magistrati, alle legioni, ai prefetti dell'imperatore, a tutti i fantasmi della giustizia antica, la vera legge, i veri magistrati, le vere legioni, la vera politica, in una parola, il sacerdozio, che dispone di tutto perchè pensa solo al vero, e non è dominato se non dall'interesse del vero. Tutto era astratto nella filosofia, tutto divenne positivo colla favola biblica. - Vi abbiamo ridotti in servitù, ma il simbolo era sì potente, la filosofia sì impotente, sì compiutamente assorta dal simbolo, che nella vostra servitù, voi che eravate un popolo d'individui perduti nella moltitudine, incapaci di interessare una città alle vostre dispute, incapaci di convertire un tiranno, quando la chiesa vi ha associato all'opera sua, avete partecipato alla signoria del mondo. Dominati dalla rivelazione soprannaturale, le vostre discussioni intorno a Dio, intorno alla libertà hanno sollevato una metà del mondo contro l'altra metà. Schiavi della religione, non foste mai più potenti che dal momento in cui avete perduta la vostra libertà; alcuni de' vostri furono da noi santamente esterminati, ma le vostre rivelazioni hanno trionfato».
E se i Padri fossero nel cielo di Platone potrebbero soggiungere scusandosi: «Che cosa fu il nostro Cristo? Fu la continuazione di Socrate, copiò Socrate, e ne fece un'iperbole. Socrate sdegnava le speculazioni intorno la natura, e non raccoglieva dagli antichi se non quanto bastavagli a viver libero nella natura redenta; Cristo disprezzava la filosofia e la scienza, non raccoglieva dalle rivelazioni del genere, dell'essenza, delle idee, della estasi se non quanto bastavagli a vivere sicuro nella natura. Cristo visse nella via pubblica, come Socrate; credette, come Socrate, alla verità; come Socrate disputò coi dottori; come Socrate mostrò che cercavano l'interesse nel falso. Imitando Socrate, Cristo fidò nell'ordine generale, lo vide compito in cielo, trascurò la terra, trascurò la famiglia, fu nemico di sè. Imitatore di Socrate, Cristo si circondò d'amici, fu accusato per aver voluto rovesciare l'antica patria; moriva rispettando l'antica patria, rifiutando lo scampo che tutte le potenze dell'universo combinate non avrebbero potuto impedirgli. Se il vero non fu potente, se l'antica patria rispettata si perpetuò, se la chiesa non ordinò l'eguaglianza degli uomini, se non fu di questo mondo, accusatene voi stessi; voi non avete rivelata l'eguaglianza, voi non l'avete ordinata, voi avete cercata la redenzione in cielo; la vostra metafisica giungeva per tutte le vie al suicidio, alla morte del redento; in tutti i modi fuggiva il vincitore, il conquistatore antico; lasciavagli la patria, e Cristo non potè essere superiore alla sua rivelazione naturale e alla potenza de' suoi amici; Cristo lasciò il mondo agli antichi signori e i suoi successori raccomandarono a un tiranno, a Costantino, la comunione della chiesa, in cui continuavasi il sacrifizio di Socrate.»
Nè credasi che il cristianesimo ordinasse il regno della metafisica, errore proclamato da taluno pur nemico della metafisica. No; la metafisica non ha mai regnato, non regna, non regnerà mai; la sua essenza sta nell'impossibile, la sua rivelazione non è rivelazione, è soluzione di una contraddizione eterna. La metafisica non si vede, non si tocca, non fa vivere, non ispira la giustizia. Il cristianesimo non tolse agli antichi filosofi se non le vere rivelazioni prese in sé, non considerate quali soluzioni. La soluzione il cristianesimo l'aveva in sè, non la toglieva da veruna scuola e trovavasi nella Bibbia, nella aspettativa del Redentore, nella vita di Cristo, che travisavasi, combinavasi, e poi diveniva la storia d'un Dio. La potenza e impotenza del cristianesimo non si spiegano che colla soluzione, colla tradizione cristiana. Se il nuovo Socrate cede alla patria antica, si è che rispetta il Dio degli antichi antropofagi; è redento, ma gli crede ancora; vuol redimere, ma alla condizione di soddisfare l'antico mostro, alla condizione di accettare il patto di Abramo, la storia degli Ebrei, i profeti, i miracoli. Se il cristianesimo crede al cielo, il suo cielo non è metafisico, non sorge dalla logica necessità del suicidio e della morte, non si dimostra cogli argomenti del Fedone: si dimostra positivamente colla storia di Adamo scacciato dal paradiso terrestre, colla vocazione di Abramo cui Dio promette il riscatto, coi taumaturghi e coi profeti che non cessano di rinnovare la promessa, in una parola con una narrazione che vera o falsa scende dal cielo per risalirvi. Se predica la fraternità degli uomini senza distinzione di razza o di nazione, la fonda ancora su di una serie di promesse e di minaccie e si ferma dinanzi all'antica patria che non assale colla forza nè colla cospirazione e non deve la sua moderazione ad una equazione o ad un sillogismo ma a' suoi stessi antecedenti istorici per cui l'espulsione dal cielo, il sacrifizio di Abramo e tutta la storia degli Ebrei impongono di lasciare a Cesare ciò che è di Cesare e vien pure da Dio. Il cristianesimo non impegnavasi d'altronde in alcuna tesi, in alcuna antitesi. Ne sia testimonio la somma ignoranza, l'estrema inferiorità de' Padri, ove si paragonino come metafisici agli antichi maestri: i Padri erano ottimi fondatori di religioni precisamente perchè poco iniziati nelle teorie filosofiche. Non affidavano la salvezza nè al verbo, nè ad alcun sistema in particolare, ma prendevano all'ingrosso il rivelato, e non mai il pensato, il supposto, il dedotto, quanto apparteneva all'impossibile. Il cristianesimo non crede al verbo nè come Platone, nè come Plotino, non crede alla libertà come questa o quella scuola, non accetta la virtù come Zenone o come Diogene: il cristianesimo scorre sulla rivelazione naturale, vitale e morale del genere umano; la travolge ove faceva d'uopo, nel soprannaturale, e il soprannaturale continua a scorrere sulla base della rivelazione naturale. Se le diverse sette del cristianesimo vengono alle prese, senza dubbio il metafisico sarà servo del teologo, l'amico dell'impossibile gioverà all'amico del miracolo: in fondo la discussione religiosa resta religiosa, oppone fatti a fatti, rivelazione a rivelazione; il perchè ogni lotta religiosa è la guerra civile della cristianità. Da ultimo, il cristianesimo e lo stesso cattolicismo tollerano nel loro seno la metafisica: e come potrebbero proscriverla? Essi sono la rivelazione, sono il prodigio, sono il miracolo e il fatto; e purchè l'apparente sia rispettato, riverito, comentato alla maggior gloria di Dio, non si teme la discussione metafisica e il miracolo si rassicura finchè non vede fuori di sè se non l'impossibile.



Capitolo IV

LA METAFISICA DEL RISORGIMENTO


Il mondo moderno si sviluppa in odio al cristianesimo. Basti interrogarne la vita; si vedrà che la poesia del risorgimento rifiuta di celebrare Cristo vuol esser profana, ,vuol la terra, e non il cielo; il sistema mistico dell'umanità, e non quello della cristianità. Petrarca è il vero precursore vitale de' tempi moderni. Egli è credente, ma adora gli antichi; è cattolico, ma preferisce i filosofi ai Padri; vuol scrivere in latino, ma il suo genio ama la lingua vivente, egli la sprezza, ma giunge a noi solo col Canzoniere. Unicamente guidato dalla vita; canta l'amore, e l'amore gli benda gli occhi; Petrarca non distingue più il papa da Bruto, l'imperatore da Cesare; il medio-evo è svanito; l'uomo nuovo è fratello degli antichi, i pagani sono fratelli dell'Italia nascente Lo stile di Petrarca segue solo la celebrità, la gloria, la forza; la sua bellezza fugge i particolari, il diritto, non inciampa nel giudizio, rimane poetica e insensata per evitare la vita cristiana. D'indi il classicismo che dà nuova forma all'arte dei risorgimento. Figlio di Petrarca, il classicismo fugge a disegno i minuti particolari, si esprime in un modo antico per essere astratto; il poeta classico non vuol essere del suo secolo, non vuol parlarci della patria sua; sostituisce gli Dei della Grecia ai santi del cristianesimo, arrossisce della propria religione, e finisce per professare una religione astratta. I suoi eroi non sono credenti, sono tipi; egli mette in iscena il tiranno, l'amante, l'amico, il traditore, il padre, la figlia; la sua azione esprime il movimento generale della tirannia, dell'amore, dell'amicizia, del tradimento, della famiglia, in un dato caso; il suo dramma è un caso di coscienza in azione. Si sviluppa senza prodigi, senza magia, riduce l'intervento divino a una semplice apparizione, a un sogno: schiva i castelli, le cattedrali, le croci, i cimiteri, gli spettri e quanto richiama il feudo e la chiesa. Là dove regna la fede, il classicismo non può penetrare; è sconosciuto nell'antichità che cantava le proprie credenze, estraneo nel medio-evo riservato a Dante, si propaga difficilmente in Germania, in Inghilterra, dove ferve il protestantismo ed è sbandito dalla Spagna assolutamente cattolica. Il classicismo suppone il cristianesimo respinto dalla vita, e non combattuto dal pensiero; quando è combattuto, il poeta rientra immediatamente nel suo secolo, nella sua patria; non si cela nell'astratto, non evoca divinità più antiche, non fugge Jehovah invocando Giove. Brevemente, nel classicismo la vita vuol discendere dal cielo, e s'arresta nel falso perchè non vede ancora la terra.
La metafisica del risorgimento s'impadronì dell'equivoco classico; risorgendo colle contraddizioni eterne disegnò una religione astratta, che poteva essere cristiana e pagana. Quale ne fu il successo? dobbiamo interrogare Petrarca, che scrive di filosofia? Sarebbe crudeltà; il cantore della vita rende ortodossi gli antichi; Cicerone fatto cattolico, celebra la grandezza e l'umiltà, la gloria e l'oscurità; nella stessa pagina, nella stessa linea ammira Cesare e Bruto, dirige pompose felicitazioni ai principi, ai tiranni, ai signori, ai cospiratori che si scannano a vicenda; è l'amico di Francesco Carrara che assassinava lo zio, è l'amico di Matteo Visconti, poi di Giovanni e Galeazzo che avvelenavano Matteo, è l'amico di Bernabò Visconti, poi di Galeazzo che tradiva e imprigionava Bernabò, è l'amico di Cola di Rienzi che insorge contro il papa, del papa che imprigiona Cola di Rienzi; guelfo, vive protetto dai ghibellini e la sua filosofia è dedicata al traditore Correggio. Ama l'Italia; l'adora. Che vuole? Trabocca d'affetti e di parole sulla grandezza di Roma; e l'astratta Roma, l'astratto imperio, l'astratta gloria dei padroni del mondo vogliono il papa a Roma, l'imperatore in Italia; applaudono al tribuno che sorge, insultano al tribuno che cade; se cercasi un senso alla parola vitale del poeta, essa grida: viva chi vince e il mondo qual'è.
L'equivoco classico insterilisce il peripatetismo rinascente di Pomponaccio, di Cardano, di Vanini. I nuovi discepoli dello Stagirita sono nemici di Cristo che mettono a livello d'ogni profeta, d'ogni taumaturgo. Ma la metifisica deve trovar l'equazione tra i profeti, e son tutti trasformati in rivelatori di una religione astratta, classica, sempre la stessa ad ogni rivoluzione celeste, per cui la metafisica che nega Dio, accetta i miracoli di tutti i riformatori, riconoscendoli di fatto, attribuendoli alle sfere. Accetta il culto senza spiegarsi sui dogmi, accetta la legge soprannaturale senza curarsi delle leggi; e l'impotenza metafisica proclama e rispetta l'impostura dei taumaturgi cristiani, il dominio del papa, la schiavitù religiosa della moltitudine che crede condannata a un errore sì grossolano, che poco importa d'esaminarne la forma. Qui l'equivoco classico traduce la prosa del Petrarca nella politica del Machiavelli. Per sé, Machiavelli è rivelatore della nuova vita, vuole l'italia libera, una, come la Francia; dichiara che l'impero è conquista, che il papato è un'impostura; che l'impero perpetua l'ingiuria di Cesare, il papato perpetua la viltà di Cristo. Denunzia l'imperatore, il papa, Cesare e Cristo quai nemici dell'Italia, e l'accusa redentrice abbraccia l'Europa; liberando Roma, liberava il mondo. Trasformata in teoria, insegnava ad ogni uomo come si divien principe, profeta, condottiere, pontefice, come si uccide il sacerdote o il tiranno, come si spegne il cospiratore, il ribelle, come si fonda o si distrugge ogni Stato, ogni culto. Machiavelli svelava i secreti dell'impostura e della conquista. Pure la metafisica lo mette al seguito di Aristotele, gli impone la religione astratta, gli fa credere necessari i dogmi, i miracoli, i pontefici; la metafisica lo rende celebratore della forza astratta ammirata dal Petrarca e disprezzatore di quanto sfugge all'equazione dell'evento. Poichè l'inganno deve regnare, convien ammirare il grande inganno della chiesa; poichè la forza deve reggere i popoli, convien celebrare la gran conquista dell'impero, sancita dalla chiesa. Machiavelli profitta al nemico: egli stesso opera come Petrarca, che difende il papa da lui odiato, i Medici che lo disprezzano; la sua teoria applaude alla notte fetare di san Bartolomeo[4]. Lo stesso si dica di Vico, l'ultimo della tradizione classica, primo a dar leggi al corso della storia. La sua storia ideale sorge dalla religione astratta, trae ad una perfetta equazione tra ogni culto antico e moderno, pagano e cristiano trae ad una perfetta equazione ogni aristocrazia eroica o feudale: vede nemica della civiltà la democraziache avversa la religione, che combatte i senati. L'infelice compiutamente illuso predica il cristianesimo colla teoria dell'impostura, difende i governi colla teoria della conquista: a che dunque riuscirà nella pratica? Leggete le sue prose, celebra un Caraffa, uomo infame; è adulatore d'ogni marchese e d'ogni prelato, dedica a un pontefice la Nuova Scienza, è il più servile tra i servili.
Un'altra tradizione risuscita la scuola d'Alessandria, variamente comentata da Pico della Mirandola, da Marsilio Ficino, da Giordano Bruno, e la metafisica tradisce ancora la vita nuova coll'equivoco dei classicismo: I neoplatonici del risorgimento credono alla giustizia della religione astratta, ne sono gli apostoli, sempre solitari, sempre impossibili: si giunge a Campanella, in cui trovasi esperimentale l'inspirazione di Platone. Campanella è rivelatore: sente il giusto emancipato dal miracolo e poggiato sul vero; lo annuncia certo della vittorla, lo predica in piazza. La sua repubblica non è confidata al sillogismo, non alla dialettica, non ad una virtù nudrita nelle scuole; è confidata alla fame del povero, al diritto delle moltitudini contro l'usurpazione del ricco, del principe,del papa, La sua repubblica non è quella di Platone o di Tomaso Moro posta fuori dei genere umano, in un'isola deserta; essa sorge dal seno stesso della patria per trasformare la terra. Non fugge il commercio, non paventa l'industria, anzi la cerca; fida negli istinti dell'uomo, nella ricchezza della natura, nella forza della scienza. La sua repubblica non è progetto, è rivoluzione; non si limita a una patria, abbraccia il genere umano: non è un'utopia, è vera guerra contro íl papa, l'imperatore, Cristo e Cesare, e questa volta a nome della giustizia. Or bene, la metafisica lo attende al varco. convien che la repubblica stia all'equazione dell'ordine, della volontà di un Dio; convien che sia la comunione metafisica dei beni e delle donne. Campanella scorre attraverso l'impossibile, l'impossibile lo riconcilia col miracolo, gli fa accogliere i miracoli di tutte le religioni. Qui ancora il genio de' tempi moderni vuol salvo Campanella, lo toglie ai circoli fatali del peripatetismo; gli mostra che ogni nuovo culto vince in grandezza il culto antico; gli mostra che la religione non è un genere astratto, ma una rivelazione in progresso; gli mostra che ogni religione fu sempre vera, sempre giusta. Ma la metafisica interviene di nuovo, e la fede di Campanella non è irreligione, è religione; avversa il Cristo, ma ne riconosce i miracoli; avversa i misteri, ma accetta le profezie di Santa Brigida, le visioni di Postel; avversa Cristo disarmato che lascia la terra ai potenti, ma trae il millennio cristiano nella Città del Sole: la metafisica sottomette la repubblica universale all'individuo antico, al pontefice; ogni magistrato emana da tre sommi pontefici, lo slancio dell'irreligione e dell'umanità s'inviluppa nel regime di un convento universale. E l'errore metafisico annienta il concetto nell'azione: per recarlo in atto Campanella si fa pontefice, si fa impostore, vuol ingannare il re di Spagna, gli indirizza il libro della monarchia ispanica, dove gli promette una tirannia piena di menzogne e d'inganni: non riesce nell'intento, cospira, è prigioone: il mondo conosce la Città del Sole, e il rivelatore cancella le mille volte quelle pagine immortali scritte nel martirio; ridiventa impostore, pubblica almeno venti libri cristiani, cottotici e romani, perchè il pontefice ingannato, soggiogando tutti i re, riunisca tutti i popoli. Quest'intenzione di Campanella è mia congettura, e la credo generosa: scorrendo Campanella si vede dappertutto la metafisica della forza e dell'impostura che calpesta le mille volte la Città del Sole, predicando l'assassinio de' protestanti, le colonie antiche, la deportazione d'interi popoli, gli eserciti di giannizzeri e l'inquisizione regina del mondo[5].
La metafisica era impotentissima; la sua stessa impotenza non era sua, era quella del Petrarca, apparteneva al classicismo. Una magniloquenza spensierata che stordiva le menti, impediva ogni giudizio sulle contraddizioni positive della vita, assolveva ogni corruzione, proteggeva ogni inganno felice, ogni evento fortunato. Si sosteneva finchè innocua; quando la riforma di Lutero le dava un senso e poteva vederla plaudente, la reazione cattolica non ebbe che a mostrarsi; la rivoluzione dell'imopstura svanì silenziosamente. Il classicismo italiano si era sempre professato riverente ad ogni culto, li credeva tutti necessari; or bene, il cattolicismo reclamò quel rispetto che gli si professava esteriormente a nome dell'antica mitologia: e fu reso a Cristo e a Cesare quanto apparteneva a Giove ed agli eroi protetti da Giove.



Capitolo V

LA METAFISICA DEL SECOLO DECIMOSETTIMO

Nel decimosettimo secolo le scienze fisiche raddoppiano il moto della rivelazione, il cristianesimo è assalito da ogni parte, la storia, i viaggi, le scoperte fanno sentire l'urgenza di sottrarsi alla sua chiesa e di pensare liberamente. Anche qui la metafisica, alla vigilia della rivoluzione, trasporta la rivoluzione nell'impossibile. Si parla del libero esame; Descartes è il metafisico del libero esame; del dubbio preliminare: Dove cade il dubbio? sulla chiesa? nella tradizione? sull'autorità che vieta di conoscere il vero? Cade sul pensiero, è il dubbio per ogni cosa, è la generalità del dubbio, fatta astrazione dalle cose stesse. Seguiamo Descartes; egli vuole tutto dimostrato, non ammette se non le verità chiare ed evidenti: la chiara e distinta percezione distruggerà l'autorità che vieta il libero esame? Descartes si dichiara neutrale; dichiara che la religione si sottrae al suo dominio: la rivelazione sacra non è chiara, nè distinta; suppone il dono di una grazia soprannaturale, che il filosofo non può dispensare. Parla consigliato dalla paura? Non si può asseverarlo; egli ammette solo le verità assolute, separa seriamente la filosofia dalla storia, dalla morale, dalla politica: la religione deve subire la sorte della storia, della morale, della politica: essa non pretende di essere matematica, e il filosofo la confina tra le cose non matematiche. Qual è la morale di Descartes? Il metafisico è pure un uomo, un Francese; qual'è dunque la sua vita che sottrae al rigore della sua metafisica? Leggesi nella terza parte del suo discorso sul metodo: Descartes dubita di tutto, ma per non rimanere irresoluto nella sua azione si forma una morale provvisoria, che consiste nelle massime seguenti: «1.° seguire le leggi, i costumi, la religione del paese in cui si è nati; 2.° rimaner fermo quanto è possibile nelle opinioni adottate, qualunque sia l'evento; 3.° tentare di vincere sè stesso piuttosto che la fortuna». Le tre massime tradotte in buon volgare consigliano di obbedire alla religione dominante, di vincere noi stessi piuttosto che i nostri oppressori, di lasciare il mondo qual'è, e di essere irrazionalmente ostinati. Questo diciamo del metodo di Descartes: che diremo noi del suo dogma? Si riduce al deismo, e Dio diventa il termine medio per cui la teologia e la filosofia si conciliano quanto è dato di conciliarsi a due dottrine: Bossuet e Fénélon adottano il Dio di Descartes, mentre Malebranche e Leibniz adottano il Dio cristiano: lo scambio è continuo, perfetto, amichevole. Nello scambio il Dio astratto diviene principio d'una religione generica, che dicesi naturale. La religione naturale nega o ammette la religione rivelata che essa generalizza? respinge il cristianesimo, o gli serve d'introduzione? Nessuno può rispondere; la religione naturale può condurre al cristianesimo, può rovesciarlo, rimane indecisa, e si cospira onde perpetuare l'indecisione. Una morale naturale compie il deismo, ed è nuova astrazione in cui i doveri prendono una forma vaga e generale per abbracciare la morale della monarchia e quella della repubblica, la morale di Cristo e quella del mondo. Sorgono dubbi sui diritti, sui doveri? La metafisica vuol deciderli, trasporta ogni questione vivente nel campo delle contraddizioni eterne; e quivi vuole sciolti i problemi dell'eguaglianza, dello Stato, dell'umanità, Da ultimo; il libero esame ha emancipato l'individuo nella sfera della metafisica: ogni individuo è realmente emancipato? No; è stabilito a priori che la sua ragione gli appartiene; vi si aggiunge che l'individuo solo è potente per la ragione; le opere collettive sono condannate, disprezzate; non si rispettano se non sono opera di Licurgo, di Romolo, dei legislatori; e l'apologia metafisica dell'individuo impone l'obbedienza alle moltitudini; sottomette la stessa emancipazione all'individuo, consiglia allo stesso novatore di copiare i pontefici.
La metafisica perfezionava gli equivoci dei risorgimento; e anche qui il perfezionamento non era suo, apparteneva alla letteratura del secolo di Luigi XIV. Essa accoglieva in Francia il classicismo esule d'Italia, lo raffinava: la nuova vita abborriva le anticaglie dell'Europa, le disprezzava più che non al tempo di Petrarca, e ammirava l'antichità greco-romana colla nuova convinzione che si poteva oltrepassarla, Trascurata ognor più la realtà istorica, l'astrazione giunge a formarsi un linguaggio che è di tutti i tempi, di lutti i luoghi. Gli eroi di Corneille sono romani che non offendono alcun re, l'Ester di Racine poteva combattere la revocazione dell'editto di Nantes, e non muovere a sdegno alcun cattolico; il Telemaco di Fénélon . confonde la mente di chi vorrebbe indovinarne il pensiero: sì profondo, sì leale è l'equivoco tra la morale cristiana e la morale della libertà.
Nè si attribuisca all'equivoco metafisico del deismo la secolarizzazione dell'Europa; essa è dovuta più all'arte, che alla filosofia, più al Petrarca, che a Descartes. La secolarizzazione è il cristianesimo, meno la chiesa, il dogma, meno il sacerdote; essa solleva solo un problema di persone che può ricevere due soluzioni contraddittorie: il laico può succedere al sacerdote nell'insegnamento per l'unica considerazione che il bene può esser fatto egualmente dall'uno e dall'altro: il sacerdote può succedere di nuovo al laico per la stessa considerazione che il bene può esser fatto egualmente dall'uno e dall'altro. La secolarizzazione dà al re un diritto sulla religione, la quale non perde alcun diritto sul re; essa concede alla diplomazia l'uso di una lingua profana, il francese, che può servire egualmente a propagare le idee nuove e le antiche. La secolarizzazione corrisponde a dunque alla poesia di Corneille, di Racine, di Fénélon; s'insinua tra l'antico e il nuovo: e quando vince l'antico, non produce ragioni metafisiche, dà ragioni positive, sta nel fatto, oppone legge a legge, e si sottrae tanto all'indeterminato dall'arte quanto e quello della metafisica.
Concludiamo colla conclusione stessa del secolo decimosettimo: un uomo sorge, non è metafisico, è un proscritto del cattolicismo, è un eretico, è Bayle, che scrive il Dizionario, che scrive l'accusa positiva del cristianesimo, dichiarando, immorale, iniqua la caduta, la maledizione, tutta la tradizione giudaica. Bayle rendeva impossibile l'equivoco vitale del classicismo di Luigi XIV: che fa la metafisica? Scrive la teodicea di Leibnitz. S'impadronisce del libero esame di Descartes, e trasporta l'accusa di Bayle nella regioni dell'impossibile; all'iniquità patente dello Genesi oppone tutte le possibilità metafisiche che trasportano il giusto nell'ingiusto: Fa sorgere dall'impossibile il miracolo; dal miracolo la leggenda; dalla leggenda la chiesa, l'autorità; difensore di Cristo, Leibnitz si trova amico di Cesare, e siede nel consiglio aulico dell'imperatore, e dichiarasi nei migliore de' mondi possibili, e propone la conciliazione de' cattolici coi protestanti, quasi volesse combinare tutte le forze della cristianità contro la rivoluzione nascente


Capitolo VI

LA METAFISICA DEL SECOLO DECIMOTTAVO

I teologi e i metafisici disprezzano la filosofia del secolo decimottavo, l'accusano di essere stata leggiera, superficiale, plebea; questo è il suo merito; e glielo diede Locke, che noi consideriamo qual rivelatore. Lasciamo i teologi e i metafisici; che ogni uomo di buona volontà interroghi Locke a nome dell'umanità, troverà in lui l'esploratore del mondo nel quale viviamo. Ecco i titoli di Locke alla nostra riconoscenza.
1.° Non cerca più un criterio assoluto, un che inconcusso; dimanda al pensiero delle cognizioni utili. L'uomo, dice egli, non può lavorare alla luce del sole, si contenti della luce del fuoco: in altri termini, non può giungere al vero matematico fuori delle matematiche, si limiti alla certezza positiva, terrestre, alle utili cognizioni. Così la filosofia scioglievasi d'un tratto dalle equazioni cartesiane, il libero esame cadeva sull'utile verità, non era trasportato nell'impossibile, la ragione discendeva dal cielo per riscattare la terra.
2.° E dove era la terra? nella percezione non chiara e distinta, ma chiara e determinata. Dunque progrediva ad onta del dubbio critico, e disdegnava le entità metafisiche quali tele d'aragno, quando si tratta del vero, e del giusto positivo e determinato.
3.° Dov'è la cognizione chiara e determinata? Nella sensazione; le nostre cognizioni, dice Locke, cominciano e finiscono colla sensazione, fuori della quale non havvi altro che il vuoto. Eccoci dunque resi alla natura; è oramai inteso che siamo di questo mondo, che urge di decomporre i nostri pensieri, di risalire alla loro origine, di tradurli in sensazioni, cioè di rettificarli coi fatti. I discepoli di Locke più non dichiaransi incompetenti nella morale, nella storia, nella politica, nella religione; al contrario, riducono ad inane aberrazione della mente quanto non concerne la morale, la politica, la storia e la religione.
4.° Dopo Locke, la ricerca sull'origine delle idee divenne una necessità. Non si giudichi metafisicamente la nuova teoria che trae le idee dall'origine del senso; è falsa di fatto; pure raggiunge l'intento. Se non si traducono i generi in individui, nè le idee in sensazioni, se Locke disconosce il complicato labirinto in cui s'avvolge, se, non istruito dalla critica, cerca nuove equazioni là dove era mestieri osservare e accettare il fenomeno, la sua teoria, guidata da una vera ispirazione, cercava meno l'origine delle idee, che l'origine dell'errore delle religioni: metafisicamente fallita, era istoricamente redentrice. Decomponeva, verificava la rivelazione soprannaturale, riducendola a' suoi elementi, e ne emergeva il trionfo della rivelazione naturale. Locke aveva la coscienza dell'alta impresa a cui si accingeva: combattendo le idee innate, dichiarava che la lotta esigeva coraggio, che doveva rovesciare il vitello d'oro, ed il vitello d'oro era il trono e l'altare, radicati nel miracolo religioso e sussidiati dall'impossibile metafisica.
5.° Per la prima volta il filosofo accettava la rivelazione naturale: la sua guerra contro gli assiomi, contro il sillogismo non è guerra insensata, come dissero i metafisici e i teologi; è guerra mal governata, ma mira allo scopo di subordinare la logica alla rivelazione naturale. Così Locke accusa gli assiomi di essere frivoli; e l'accusa è giusta, se si considerano isolatamente, se ci ricordiamo che essi riassumono la logica, e che soli regnando sulla natura, ci spingono alla contraddizione universale. Il perchè Locke dice alla sua maniera, che gli assiomi devono essere dominati, mette l'identità al servizio della diversità; senza l'identità, sono sue parole, tutto sarebbe uno, per l'identità le cose conservano la loro diversità. Stabiliva quindi il dominio della rivelazione naturale sugli assiomi, quindi lo stabiliva sulla logica; se non fissava la tesi, l'indicava, ed era molto.
6.° Locke, sottoponendosi alla rivelazione, identifica l'essere e il parere nella sensazione; la sua sensazione non è più un'immagine delle cose, non è neppure la sensazione metafisica di Kant, differente e non affermata; è una vera intuizione diretta e immediata delle cose, intuizione che deve precludere l'adito ad ogni ricerca ulteriore sull'esistenza del mondo. Quindi rifiuta di rispondere a chi gli domanda di distinguere logicamente il sogno dalla veglia, la ricordanza del fuoco dal fuoco ardente; egli invia l'interrogante all'ospitale dei pazzi. Il fatto deve regnare solo, assoluto.
7.° Da ultimo, Locke ha paura dei mostri, vuol fuggirli, evitarli; i mostri scompigliano la natura, turbano la ragione. Chiama mostri le transizioni da un genere all'altro, gli esseri intermediari, i fenomeni che mettono in difetto prima le classificazioni, poi il ragionamento. Colle transizioni Leibniz torceva la logica contro i fatti, dava il pensiero all'uomo che s'addormenta, poi all'uomo che dorme, poi all'essere inanimato: colle transizioni trovava il pensiero nel fiore, poi nella essenza d'ogni essere, uno per natura; colle transizioni costituiva il continuo di monadi indivisibili, coordinava il mondo in Dio, e scriveva la teodicea. La paura dei mostri doveva ritenere Locke nel mondo della natura, allontanandolo dalla regione dell'impossibile, che comincia nel diventare, nel nascere, nel perire, nell'alterarsi, e dove si ondeggia tra il sì e il no, e dove l'antico buon senso soccombe al sofisma del cumulo.
Fin qui la rivelazione di Locke: e bastava perchè il centro del sistema sociale mutasse il punto d'appoggio, e il regno della natura si sostituisse al regno di Cristo. Sulla rivelazione naturale presero immediatamente radice que' frammenti di scienza che erravano esuli dall'antico sistema; si coordinarono tutte le indagini storiche che fondavano la nuova storia dell'umanità, sorgeva quell'ispirazione di giustizia e di verità che vuole ogni uomo redento di mente e di cuore. I filosofi furono unanimi, furono interi per la prima volta, furono, come si disse, plebei.
La metafisica, espugnata, non vinta, dalla scuola di Locke, subisce una nuova fase, e anche qui la troviamo incapace di por mano alla liberazione dell'uomo. Il punto decisivo dell'emancipazione stava nel negare positivamente l'esistenza di Dio. Ora, la metà della scuola di Locke è deista: il nuovo deismo non è più la religione astratta del secolo dccimosettimo, non è più la terra neutrale dove si riunivano quasi amici i metafisici e i teologi. Il desimo muta sembiante, combatte il cristianesimo, deve maledire l'ingiustizia del Dio di Adamo, di Abramo e di Cristo. La rivelazione naturale è ancora ingombra di e d'antitesi, esita ancora sulla causa, sulla sostanza; non sa dove cominci, dove finisca la critica, non sa come debba, imporsi , come sia continuo in ogni fenomeno l'essere e il parere; e si tollera, si accetta il deismo, benchè ogni trattato lo confini in un ultimo capitolo, quasi sentina delle immondizie metafisiche, quasi rifugio dei mostri non vinti da Locke. Ora, che cos'è il deismo del secolo decimottavo? Copia dal cristianesimo la creazione, e non crede alla creazione; vuole che Dio sia redentore, e non crede alla caduta; parla del cielo, e sopprime le profezie e i miracoli che lo rendono possibile. Rodomonte nelle minaccie, scipito nella tenerezza, non ha più ragione d'essere, e si fonda sul vuoto. Che dico? Negando la caduta, deride il redentore, dichiara che nasciam tutti innocenti, che la giustizia è nel fondo del nostro cuore: dunque deve attribuire ogni male a Dio; ogni oppressione all'autore del mondo; dunque lungi dal venerare l'essere supremo dovrebbe combatterlo per recare in atto quella giustizia che diniega all'umanità. I deisti dovrebbero esser nemici di Dio: ma non lo sono, ma celebrano Dio, dunque celebrano una tirannia suprema, dunque lasciano una parte della nostra mente, una parte del nostro cuore fuori di noi. Dove? La metafisica dice in Dio, il fatto dice in Cristo, nella teologia. Il deista freme d'orrore dinanzi all'ateo, lo vuol espulso dalla società qual mostro: espelle dunque dalla società tutti i rivelatori della natura, da Talete sino a Spinoza, da Parmenide sino ad Holbach; espelle tutta la filosofia, la quale è rivelatrice nell'atomo, nel germe, nell'essere, nel genere, nell'individuo, nella sensazione, nella sostanza; ma non lo è mai stata in Dio. Il deismo conferma la proscrizione quando vuol dimostrare Dio; allora rinnega i dettati di Locke; il deismo conferma la proscrizione quando vuol dimostrare la immortalità dell'anima; allora dimentica a disegno che ogni prova ha doppio senso, e condanna necessariamente la vita o la morte.
Se v'ha il cielo, perchè la terra? Se v'ha la terra, perchè il cielo? Se la vita sta nell'anima, il nostro vivere nel corpo è sogno: se la vita sta nel corpo, è sogno la vita dell'anima: se la scienza terrestre ammessa dai deisti è vera, falsa è la scienza del cielo; e viceversa, se il cielo è, proscrive la terra. D'onde trarre l'immortalità provvidentemente ricompensata o punita dell'anima? L'anima spoglia di sensi non sente, non vede, non soffre, non ha ricordanze, nè desideri; l'anima sfugge al deismo; e se vuol raggiungerla per parlarci del paradiso, esso deve rovesciare la natura, la cosmogonia, ogni verità conquistata dalla scienza. Parimente se volete farci compiere, come si dice, il nostro destino, se volete soddisfare all'istinto che desidera l'immortalità, dovete scompigliare tutta la scienza. Sì, havvi in noi l'istinto che desidera l'immortalità; ma se ogni animale ama la vita, aborre la morte, la respinge come una sventura definitiva ed ultima. E tale è pure l'istinto dell'umanità. Si piange intorno al letto del morente, vedesi nella morte una luce che si spegne, una forza che si è consunta, un essere che si dissolve; quel lutto, quelle faci capovolte, quel canto lugubre che si perde lentamente nelle note minori, quelle bandiere trascinate a terra, que' tamburi velati, tutto svela che il dramma è finito. Volete compiere il destino a dispetto dell'apparenza, della verità, come se altro non fosse in voi che la vostra giovinezza? Credete che la natura corrisponda all'aspettativa de' vostri primi anni? Qui ancora guardate solo alla metà de' fenomeni, ignorate la natura, le sue opere, i suoi destini; Platone non sapeva spiegarci la morte del neonato, la credeva eccezione; la morte del neonato è la regola e si vede dappertutto nella natura. E se v'ha il cielo, la terra è un'eccezione, un errore; qui tutto è falso, nulla si compie, nulla può essere compito, convien rinunziare a tutto. No, non si lotta contro la morte senza lottare contro la metà della rivelazione, contro tutta la scienza. Dunque il mostro metafisico proscrive la verità, l'apparire, l'essere, il desiderio, la vita; e perchè? «Per non togliere», si dice, «agli infelici, agli oppressi l'ultima consolazione, l'idea di una provvidenza che veglia sul mondo, di una patria che ci attende». Dunque si consola l'oppresso, si allevia il popolo coll'aspettativa del cielo, gli si lascia la consolazione di un errore, s'imita la scuola d'Alessandria, s'imita la morte di Socrate, e non la vita, s'impone la morte di Cristo. E si soggiunge: «A che le promesse più splendide sull'avvenire dell'umanità se l'uomo finisce colla morte? Che c'importa l'avvenire del genere umano, se vi restiamo stranieri» Che v'importa l'avvenire se l'ignorate, se non ve ne giovate? Vi compiango: non e così che la madre parla al figlio, che il generale parla al soldato, che il cittadino parla alla patria: avventurate la vita in un misero duello per un capriccio, e volete un pagamento quando dovete esser giusti? Imitando il cristianesimo, la metafisica lo soccorre; dopo averlo combattuto, approva le consolazioni che dà agli oppressi; lascia passare il Vangelo, la Bibbia, tutto il sistema positivo, istorico; e così la metafisica del deismo combatte ogni filosofia a profitto del sacerdote, e agisce colla convinzione che non si regna senza l'impostura del culto, senza la favola di Er l'armeno, senza l'estasi della scuola alessandrina, senza i miti di tutte le religioni, senza la fatale alleanza dei sacerdoti e de' conquistatori.
Gli atei della scuola di Locke furono le mille volte più potenti, l'ateismo rivendica ogni diritto dell'uomo, lo fa essere suo pontefice, suo imperatore. Nè accuseremo certo l'ateismo del secolo decimottavo: solo osserveremo che, costretto a compiersi metafisicamente sull'equazione del senso, doveva combattere quanto sfuggiva all'equazione stessa: quindi l'accusa diretta contro i capi della società, concentrata nei capi, estesa a tutti i capi, estesa a tutti i legislatori passati, tranne poche eccezioni: quindi inconscio della conseguenza, l'ateismo finiva a lasciare il popolo qual moltitudine di bimani, preda eterna a una mano di sacerdoti e di conquistatori: quindi, predicando libertà ad un'eterna schiavitù, perdeva ogni speranza: ogni uomo della rivoluzione doveva essere dittatore, legislatore, imitare i conquistatori, i sacerdoti, e colla meccanica necessità della dominazione, trascendevasi prima al cieco empirismo delle cospirazioni, poi alla cieca violenza del combattimento. L'ateismo era vinto non era sistema sociale, non sostituivasi socialmente, sistematicamente alla religione; combatteva la dominazione spirituale, e lasciando sussistere la dominazione temporale che lo reclamava. Rimaneva spoglio di forse ogni suo successo, l'ateismo riducevasi ad un'ingiuria, cercava forze e trovava ribellioni, non rivoluzioni; la ragione diventava dea, poi donna, poi bordello; dava la libertà a migliaja di dementi; servi della proprietà, non dovevano combattere l'essere supremo; alienati di cuore, dovevano esserlo di mente. Fu facile alla teologia impadronirsi delle armi che gli erano lasciate: si dichiarò l'alleata della proprietà, la teoria dell'autorità sociale stordì la scuola di Locke col criticismo, poi col prestigio di antitesi insidiose, non previste, non vinte e mentre si ristabiliva di fatto il trono e l'altare, la teodicea sorgeva di diritto nella università, raccogliendo tutti i mostri che Leibniz ave va scatenato, che Locke deista e cristiano egli stesso, non aveva espulsi dalla natura, e che la metafisica del senso lasciava liberi d'accamparsi nell'idea per intervertire il fatto della natura e il regno della vera ragione. Così i redentori, calpestati dal popolo, si trovavano sopraffatti e senza altro rifugio che quello di un indomito diritto, ridotto a morire nella solitudine, finchè un altro ateismo valesse a riscattare l'uomo alienato di mente nel deismo e nel cristianesimo.

SEZIONE TERZA

LA RIVOLUZIONE



Capitolo I

I PRINCIPJ DELLA RIVOLUZIONE

I principj della rivoluzione si riducono a due: il regno della scienza e quello dell'eguaglianza: ogni altro principio è termine medio per sospenderne o per agevolarne l'azione. I due principj furono inaugurati alla vigilia della rivoluzione; prima dell'89, li troviamo già immedesimati col destino della Francia, già accettati dalla poesia che precorre al movimento.
Ciatiamo i fatti. La Francia ha due rappresentanti, sono Voltaire e Rousseau; l'Europa li venera, nè mai vi furono dittatori più potenti e più popolari.
Qual'è la forza di Voltaire? Si esamini meccanicamente, non può essere intesa. Poeta, Voltaire non è grande come Shakespeare, non è corretto come Racine: la sua erudizione non arricchisce la filologia d'alcuna scoperta, la sua filosofia si limita a volgarizzare Locke. Non è abbastanza dotto per lottare con Leibnitz, non può rivalizzare con Bayle, non sa nemmeno apprezzare Rousseau, che deve dividere la sua gloria e superarla nel momento dell'azione. Egli è spiritoso, arguto, istrutto, elegante; tutte qualità secondarie, atte a giustificare l'accusa che gli vien fatta di essere superficiale. Qual'è, adunque, il secreto della sua potenza? Egli è l'uomo della vita nuova, nasce nel mondo di Locke, possiede spontaneo tutte le cognizioni laboriosamente conquistate da Bayle e dai liberi pensatori; esse formano la sua tradizione, non ne conosce altra. Tutto in lui concorre ad uno scopo; e quale? egli stesso l'addita: ècrason l'infâme! Ecco Voltaire. La facilità è il primo carattere del suo genio, che è genio poetico. Non parlo dei suoi versi o delle sue tragedie, parlo delle sue lettere, de' suoi romanzi, della sua prosa, in una parola, della sua ironia. L'ironia erompe dal fondo dell'anima sua, è irresistibile; con un epigramma annienta errori che avrebbero resistito a più volumi; il pregiudizio arrossisce, l'impostura è svergognata; nessuno può rimanere accigliato. L'ironia svela il conflitto tra le due rivelazioni di Cristo e della natura, svela che l'Europa cristiana è una parodia del vero, che i suoi regni sono mascherate, orgie, in cui ogni uomo veste gli abiti di un altro tempo e in cui le funzioni sono distribuite a controsenso: e il poeta moltiplica i punti di conflitto tra le due rivelazioni; il miracolo soccombe. E la metafisica rovina in un colla religione: il Candido discopre i deliri di Leibniz, il ridicolo della Bibbia penetra nella teodicea, e schianta la tradizione di Descartes meglio di Locke. Ecco il volteranismo: è nemico di Cristo, è il precursore alla rivoluzione, a cui tolto Voltaire si toglie la vita.
Il dato vitale della rivoluzione è adunque l'irreligione: il dato morale si trova in Rousseau. Troppo facile è criticare Rousseau: egli non è mai d'accordo colla scienza, non sa vincere l'antico meccanismo, non sa indovinare il nuovo, geme nelle angustie delle ipotesi, è un paradosso continuo; il Contratto sociale, l'Emilio, non sono libri, come si direbbe, giudiziosi. Che importa? Rousseau è il poeta della giustizia, l'antica società l'opprime, lo strazia, ed egli addita schietto il suo scopo, la vuol distrutta, vuol l'eguaglianza a qualunque patto, vuol abolita l'ineguaglianza che sorge dalla proprietà. Ecco Rousseau: lasciamo lo scritto contro la proprietà; egli la combatte dappertutto: egli la combatte quando inveisce contro la tirannia, quando vitupera i vizi della civiltà, quando disprezza le arti, l'industria, le scienze, la catena fatale delle istituzioni che sottopongono l'uomo al dominio dell'uomo. Combatte la proprietà quando vuol l'uomo libero, e desta nel lettore un'alterezza prima sconosciuta; quando, nuovo Diogene, cerca l'uomo redento dalla cupidigia nel proprio cuore; quando lo cerca virtuoso tra le Alpi colla novella Eloisa; quando nell'Emilio vuol crearlo coll'educazione indomito e invulnerabile tra gli eventi della civiltà; quando lo cerca seduto ne' comizi senza delegati, senza padroni, sciolto dai sofismi della pubblica salvezza, della finanza, del commercio, dell'industria. Da ultimo Rousseau combatte la proprietà quando fa l'apologia de' selvaggi. Preso alla lettera, la tesi di Rousseau è uno de' luoghi comuni del risorgimento; la letteratura classica accusò le mille volte le arti, il commercio, la navigazione, il lusso, la scienza di spingere la società nel moto ingovernabile de' valori per sottrarla alla previsione del legislatore, e discioglierla. Tutti i retori avevano declamato contro le delizie di Capua, tutti avevano applaudito il primo Catone che sbandiva i filosofi da Roma. Rousseau ha copiato l'invettiva del risorgimento contro la civiltà, ma per dargli un senso nuovo e imprevisto. Gli antichi, i classici combattevano la civiltà per conservare la proprietà, la religione, la società; Rousseau è il primo che la combatte per rovesciare la proprietà, che rende necessaria la religione e ordina la società europea. Gli antichi credevano che l'uomo è naturalmente inclinato al male, e che il legislatore può appena educarlo al bene con una forte pedagogia sociale; Rousseau crede che l'uomo è naturalmente buono, che la proprietà l'ha pervertito, che gli ha imposto l'errore della religione e le catene de]la civiltà. Tacito scriveva l'apologia de' Germani, Machiavelli quella degli Svizzeri; Rousseau li sorpassa le mille volte scrivendo l'apologia de' selvaggi. Presso i selvaggi, dice egli un fanciullo non comanda a un vecchio, un imbecille non comanda a un savio, una mano di ricchi non rigurgita di superfluità, mentre la moltitudine affamata manca del necessario. Che fare? dicono i derisori; volete rifugiarvi presso i selvaggi? No, siate uomo, siate cittadino; il selvaggio di Rousseau non è in America, è in noi, dappertutto ove havvi un uomo, e l'uomo della natura è superiore a tutti i legislatori; dinanzi a lui il savio de' tempi antichi altro non è più che un commesso revocabile se governa, e se non governa, un cittadino che dà il suo voto.
Credo inutile di provare che i principj di Voltaire e di Rousseau fossero accettati nel decimottavo secolo: parliamo dell'azione. Supponiamo che un contemporaneo di Rousseau, prevedendo il futuro, volendo crearlo egli stesso, ordisca una vasta cospirazione; supponiamo che, antivedendo la fatalità degli avvenimenti che trasporta le moltitudini di idea in idea, sempre al li là dello scopo prefisso, egli predisponga una serie d'iniziazioni in guisa, che il bagliore della luce non sgomenti i più timidi o i meno interessati all'impresa. Che farà? Nella prima iniziazione predicherà la morale universale, una filantropia generica; imiterà Petrarca, riunirà le più strane contraddizioni sotto il manto di una silenziosa ortodossia. Poi trascinerà in una seconda congrega occulta, ignorata dai primi iniziati, coloro che sentono la necessità di uscire dal vago della filantropia irriflessiva, senza però retrocedere all'ortodossia: qui Gesù Cristo e Confucio, i santi e i legislatori saranno posti in un fascio e si professerà una religione amichevolmente superiore a tutte le religioni. Poi il cospiratore riunirà in una terza congrega, parimente ignorata, coloro tra gli iniziati che la religione universale spinge a combattere il regno della forza e dell'errore: qui la società sarà una cospirazione contro il trono e l'altare, ma una cospirazione pacifica. Nel discuterla si svelerà l'imperiosa necessità del combattimento; gli interessi non cedono che alla dimostrazione della guerra; ecco una congrega superiore. Essa accoglierà coloro che dichiarano la guerra all'antica società, e la congrega dominerà l'azione generale delle iniziazioni inferiori, le dominerà perché le sa fatalmente spinte dalla ragione alla conseguenza desiderata, la quale sarà di fondare una nuova chiesa occulta, uno Stato in ogni Stato per abbattere il trono e l'altare. Ma s'ignora ancora che le fondamenta del trono non sono rinchiuse entro il recinto della corte, e quelle dell'altare non sono rinchiuse entro il giro del tempio; s'ignora che sono nell'arca ferrata d'ogni banchiere, nelle terre d'ogni ricco, e in ogni casa prediletta dall'ingiustizia della ricchezza. S'ignorerà che il trono e l'altare possono sopravvivere in una repubblica e farla peggiore della monarchia; e forse tra gli iniziati sarannovi degli ambiziosi che combattono la corte e faranno da re, combattono il clero e sono impostori. Ecco la necessità di un'ultima iniziazione che diriga tutte le altre, che le attenda all'ultima conclusione, senza la quale la fatalità rende inane ogni sforzo. Tale si mostra in oggi a noi la storia della rivoluzione, tale svelavasi nella massoneria, poi nella società degli Illuminati, fondata da Weisshaupt.
Tra Voltaire e Rousseau da una parte, e Weisshaupt dall'altra, havvi tutta la differenza che passa tra l'ispirazione poetica e un'azione empirica. Voltaire e Rousseau hanno il dono fatidico dell'arte, che si esprime col bello; leggendoli sentiamo che la tempesta da essi sollevata nel nostro cuore sarà tranquillata solo nel giorno in cui il Cristo sarà vinto e l'eguaglianza vittoriosa. I particolari, le invenzioni, gli accidenti della lotta, tutto rimane nell'ombra, l'ideale splende solo nell'avvenire. Weisshaupt vuol subito toccarlo con mano, deve improvvisar tutto, s'ingolfa nell'impossibile: di là gli infiniti precetti con cui regola il mistero; di là la discussione provocata e soffocata, eccitata e traviata; e le strane dottrine sulle intenzioni di Cristo, sulle società antiche e goffi errori frammisti ad altissimi dettati, scempie illusioni frammiste a previsioni giustissime. Voltaire e Rousseau confidano nella natura, ne abbracciano le contraddizioni, vedono i partiti che s'ignorano, che si spingono verso lo scopo, e lasciano alla natura lo scegliere gli iniziatori e il fissare la sorte di ogni iniziazione: Weisshaupt vede che la rivoluzione ha più bolge, e per crearle artificialmente, deve negare nell'una quanto afferma nell'altra, deve combattere nelle prime iniziazioni quanto poi inculca al reggente, al mago, all'uomo-re; quindi inganna, esagera l'astuzia del gesuita, s'impone quale autorità, vuol giungere al vero colla menzogna, alla natura con mille cerimonie copiate dal clero, alla libertà con un pontificato occulto che la nega ad ogni passo e che sarebbe nullo se fosse palesato. Voltaire e Rousseau predicano a tutti pubblicamente, indistintamente; le loro opere offrono mille aspetti variati, contengono tutte le iniziazioni, son tutte secrete e pubbliche. Quella pagina è diretta a un re che diventa despota illuminato; questa parla a un pontefice che sopprime i gesuiti; altrove il vago del classicismo detronizza il Cristo, e lo pareggia al savio; altrove l'empietà cammina colla fronte alzata, e vuol annientare la civiltà per giungere all'eguaglianza; e se il pontefice, se il re metton mano alla rivoluzione, nessuno li inganna, s'illudono da sè, e forse son traditi dal pensiero di ingannarla. Weisshaupt proponevasi di morire sommo pontefice assolutamente ignorato da infiniti credenti che riceverebbero i suoi ordini, e moriva inutile; nè dirigeva alcuno nell'ora dell'azione. Pure l'empirismo stranamente ingegnoso della cospirazione da lui concepita, mostra che intendeva a redimere l'uomo alienato di mente e di cuore, a rendergli la ragione che aveva trasportata in Dio e ad assicurargli la libertà, impossibile nell'atto finchè sussiste l'ineguaglianza dei beni.



Capitolo II

LA DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELL'UOMO

Dimentichiamo gli uomini, gli eventi, le vicissitudini accidentali; seguiamo solo i principj della rivoluzione; vedremo che la rivoluzione vuol recare in atto i due principj dell'irreligione e della legge agraria.
La prima iniziazione rivoluzionaria comincia colla Costituente e sta tutta nell'idea di pubblicare una dichiarazione dei diritti dell'uomo. «Noi abbiamo pensato come voi,» dice Necker all'assemblea costituente, «che la costituzione doveva essere preceduta da una dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino; non perchè tale dichiarazione avesse lo scopo di dare ai primi diritti la forza, la quale essi traggono solo dalla morale e dalla ragione, ma perchè essi fossero sempre presenti agli occhi ed al pensiero.» Secondo Meunier il relatore: «Ogni governo deve proporsi lo scopo di conservare i diritti dell'uomo... la costituzione deve cominciare dalla dichiarazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell'uomo. - La natura ha fatti gli uomini liberi ed eguali; - il principio di ogni sovranità risiede nella nazione; - il governo non deve mettere al libero esercizio delle umane facoltà altri limiti che quelli evidentemente necessari per assicurarne l'esercito ad ogni cittadino». Giusta Durand de Maillane, la dichiarazione «doveva essere affissa nelle municipalità, nè tribunali, nelle chiese.» Tutti gli uomini della rivoluzione erano unanimi sul punto di partenza; trattavasi di aprire una nuova era nella storia del genere umano. Alla volta sua l'antico regime era unanime nel respingere la dichiarazione: essa è inutile, dicevasi; essa è pericolosa, metafisica; essa incoraggia la ribellione. –«No,» replicava Castellane; «è utile perchè i diritti sono disconosciuti nel mondo, perchè la storia del governo francese, da Carlomagno in poi, è la storia della violazione dei diritti dell'uomo.» – «La dichiarazione è necessaria,» concludeva Mirabeau, «per la ragione che l'ignoranza e il disprezzo dei diritti naturali sono l'unica causa delle pubbliche sventure e della corruzione dei governi.»
La dichiarazione fu variamente discussa, poi modificata in altre costituzioni; ma stiamo all'idea sola di dichiarare i diritti dell'uomo: ma imponeva di attuare i due principi supremi nella misura permessa dagli eventi. Tutte le leggi rivoluzionarie ne furono le conseguenze ragionate.
In primo luogo, la dichiarazione legalizza Voltaire e Rousseau, li riassume, li impone: senza la dottrina de' due capi, a che dichiarare i diritti dell'uomo? Tanto valeva ascoltare Mirabeau il maggiore, che consigliava di sostituirle il decalogo; tanto valeva seguire il vescovo di Chartres, che proponeva di surrogarla con alcuni pensieri religiosi nobilmente espressi.
La dichiarazione dirige tutti i colpi della rivoluzione contro il feudalismo. Quando si sopprimono le servitù rusticali, il diritto di primogenitura, le distinzioni onorifiche, i titoli di nobiltà, le genealogie, si dichiara che si sacrificano ai diritti dell'uomo violati dalla feudalità.
Più tardi, si abbattono gli ordini monastici per due ragioni, perchè inutili e perchè contrari alla legge naturale: di fatto la natura, il lavoro, la libertà proscrivevano i tre voti di castità, di povertà e di obbedienza.
La costituzione civile del clero è anch'essa una conseguenza della dichiarazione dei diritti dell'uomo. Lo si dice espressamente: il sacerdote si reputa più dell'uomo; si pretende delegato dall'Altissimo, si vanta superiore al popolo, non riconosce eguali: che subisca la legge dell'eguaglianza, si assicuri la società contro le pretensioni del sacerdozio.
La sovranità del popolo sorge dalla sovranità umana; essa arma tutti i cittadini, la nazione armata trovasi superiore al governo, che diventa risponsabile: diviene impossibile il potere regio; tosto o tardi la nazione deve giudicarlo, e lo giudica in forza della dichiarazione che scopre l'uomo celato sotto la vetusta e mostruosa finzione del re.
La dichiarazione sottrae ogni popolo al dominio dei re: quando si tratta della Spagna, si proclama che il patto de' Pirenei non è un patto nazionale, e che le liti dei re non possono più essere quelle de' popoli. Avignone sfugge al pontefice, e si riunisce alla Francia, a nome della dichiarazione dei diritti dell'uomo. «Appena dichiaraste voi,» dicevano i deputati avignonesi, «che tutti gli uomini sono liberi, abbiamo voluto divenirlo noi pure. Forse il tempo non è lontano in cui il popolo francese detterà leggi all'universo, in cui tutte le nazioni vorranno riunirsi ad esso per fare di tutti gli uomini tanti amici, tanti fratelli. Il popolo avignonese ha voluto essere il primo.» La Francia si collega contro l'Europa. «Lo scopo dei re,» dice Brissot, «è d'impedire che si propali questa dichiarazione che minaccia tutti i troni. Ma noi possiamo lottare,» soggiunge egli, «perchè la libertà non fallisce contro l'oro e con essa torremo ai re gli eserciti e i popoli.»
La guerra della rivoluzione ha il suo programma, e lo riceve dalla dichiarazione dei diritti dell'uomo contro la cristianità. In qual modo hannosi a governare i generali della repubblica ne' paesi conquistati? «Lo scopo della guerra,» dice Chambon, «è la distruzione di tutti i privilegi; guerra ai palagi, pace ai tuguri. Tutto ciò che è privilegiato, tutto ciò che sente di tirannia, dev'essere trattato da nemico. La Francia si dichiara potere rivoluzionario nei paesi conquistati; quindi la Convenzione decreta: l.° che nei paesi conquistati le decime, i diritti feudali sono aboliti; 2.° la sovranità del popolo è proclamata con la convocazione delle assemblee primarie, da cui sono esclusi i preti e i nobili; 3.° per la prima volta gli agenti del cessato potere rimangono pure esclusi dall'assemblea nazionale e da ogni officio politico; 4.° tutte le pubbliche ricchezze sono poste sotto la salvaguardia della repubblica francese; 5.° i commissari della repubblica cessano dà ogni officio nell'atto stesso in cui il governo è definitivamente constituito.»
Così la Francia, trasfigurata dalla dichiarazione dei diritti dell'uomo, è condannata ad essere la nazione liberatrice. I primi lesi dal nuovo diritto sono il papa in Avignone, l'imperatore nel Belgio; poi il trono e l'altare trovansi minacciati in ogni Stato, poi la lega europea riunisce contro la Francia tutti i principi, tutti i sacerdozi dell'Europa. Da una parte la rivoluzione deve combattere ogni religione armata; dall'altra deve combattere ogni privilegio: che cos'è adunque la rivelazione, se non la guerra dell'irreligione e dell'eguaglianza? Essa vuole la giustizia presagita da Campanella, essa atterra il pontefice, l'imperatore, Cristo e Cesare, le quattro tirannie che Machiavelli aveva additate all'odio dell'Italia.



Capitolo III

LA GUERRA CONTRO IL PRIVILEGIO

L'opera della costituente cadde perchè inviluppò la dichiarazione dei diritti dell'uomo in un triplice equivoco che la paralizzava sui tre punti della religione, della proprietà e del governo.
Nella religione la lotta tra l'uomo e Dio era compiutamente dissimulata: l'irreligione proclamava la libertà, ma non proclamava sé stessa: la libertà dei culti non aveva un principio che la giustificasse, restava a mezz'aria, senza base, anzi riducevasi ad una specie di secolarizzazione. Essa stipendiava il clero, lo arrolava al suo servizio; la chiesa, diceva Thouret, è un servizio pubblico. Quindi se ne confessava l'utilità, se ne riconoscevano indirettamente i dogmi. Perchè non ne rimanesse dubbio, la costituzione proclamava l'esistenza di Dio, e Dio proteggeva Cristo; la libertà richiamava gli esuli protestanti, e il richiamo poteva essere inteso come un atto di tolleranza. L'equivoco era sì generale, che il frate Gerle, per iscusare i patrioti accusati d'irreligione, proponeva di far decretare che la religione cattolica sarebbe sempre la religione della Francia. Senza dubbio Gerle era ingenuo; ma che venivagli risposto? dichiarate, se volete, rispondeva Buchotte,che la religione cattolica è la vostra religione: e qual era dunque la religione della rivoluzione? Tutti si tacevano: il detto più audace di Mirabeau si riduce ad una dissimulazione vestita d'insolenza. Mirabeau, levandosi, diceva le celebri parole: vedo la finestra d'onde un re di Francia tirava il primo colpo d'archibugio nella notte di san Bartolomeo. Queste parole trionfavano, ma erano equivoche, ma la libertà de' culti riducevasi a tollerare i protestanti, a proteggerli. Parimenti quando si discute la costituzione civile del clero, gli uomini della Costituente non si dicono cattolici, non si dicono d0altro culto, non si dicono filosofi, dichiarano esser loro intenzione di non regolare se non la disciplina. Dichiarate, dicono i cattolici, che non volete toccare lo spirituale. - Noi dichiariamo, rispose Mirabeau, che non lo abbiamo toccato. Audacissima ritirata che comprovava il proposito deliberato di mantenere l'equivoco, di nascondere il pensiero della rivoluzione, per cui la Francia dominata da un Dio astratto, servito dal clero a spese pubbliche per cui l'irreligione pagava la religione.
La legge agraria fermavasi alla confiscazione dei beni del clero e alla soppressione dei diritti feudali: all'abolizione dei vincoli antiquati che soffocavano l'industria. La costituente lasciava tutte le ricchezze nelle mani de' ricchi, riduceva l'eguaglianza promessa a una derisione; altronde, la stessa dichiarazione dei diritti dell'uomo dell'89 garantiva la proprietà, quasi volesse assicurare l'ineguaglianza a priori.
Nel governo, l'equivoco della Costituente conciliava la rivoluzione e la monarchia: la costituzione limitavasi a spiegare la monarchia col linguaggio della democrazia; rispettava le persone dell'antico regime, e dava loro nuovi nomi e nuove funzioni. Il popolo diventava sovrano, ma il re era capo dello Stato; il re non era se non il capo della nazione, ma era più che la nazione per l'inviolabilità, pel veto, pel diritto di attraversare ogni progresso, sempre celato dietro la responsabilità de' suoi ministri. Il popolo era onnipotente nei comizi, ma alla condizione di pagare il censo, di partecipare alla ricchezza delle classi privilegiate, alla condizione di non esser popolo.
Il triplice equivoco della Costituente si svelò d'un tratto nell'atto della guerra. Luigi XVI dirigeva la guerra: contro chi? Contro i re; e chi era egli? un re. Era nemico del nemico, o tradiva la nazione? Ecco il problema; la guerra mette in pericolo la vita, e provoca rapido il libero esame, e il libero esame discopre che il clero, la nobiltà, il re son congiurati contro la nazione: Robespierre denunzia la congiura al primo nascere: la denunzia prima che la guerra sia dichiarata. Tutti i suoi amici spingevano alla guerra, operavano, declamavano come se le idee dovessero rovesciar sole ogni ostacolo; liberissimi di mente, erano ciechi sui mille ostacoli che loro opponevano l'ineguaglianza, il dominio, l'interesse, e quindi lo stesso ascetismo dell'antico regime. Il solo Robespierre resiste all'idea di dichiarare la guerra. «Esaminiamo,» diceva egli al club dei giacobini, «di qual specie di guerra siam noi minacciati. Trattasi della guerra di una nazione contro altre nazioni? trattasi della guerra di un re contro altri re? No, trattasi della guerra di tutti i nemici della costituzione francese contro la rivoluzione francese. - La guerra,» continuava egli, «è sollecitata dal nemico, e piace al ministero, alla corte, a tutti i seidi dell'aristocrazia. Imparate adunque che il vero nemico è in Francia. Imparate che la guerra è buona per gli officiali militari, per gli ambiziosi, per gli agitatori, essa è buona pei ministri, le opere dei quali essa copre di un velo impenetrabile e quasi sacro; per il potere esecutivo, del quale accresce l'autorità, l'ascendente e l'aura popolare; essa è buona per la nobiltà, per i faccendieri, per i moderati che governano.» L'entusiasmo cresceva, e cercava il nemico alle frontiere. Robespierre insisteva dicendo: «Invece di spacciare con enfasi tanti luoghi comuni sugli effetti miracolosi della dichiarazione dei diritti e sulla conquista della libertà del mondo, fa mestieri ponderar bene le circostanze in cui ci troviamo e gli effetti della nostra costituzione. Non è forse al solo potere esecutivo ch'essa dà il diritto di proporre la guerra, di farne gli apprestamenti, di governarla, di sospenderla, di rallentarla, di affrettarla, di scegliere il momento e di regolare i mezzi per farla? In qual modo spezzerete voi tutti questi ostacoli? Vorreste trarvi dall'impaccio di questa costituzione, voi che sino ad ora non avete potuto mostrare bastevole energia per farla eseguire?» La guerra è dichiarata, Robespierre s'ostina a penetrare nel fondo dell'equivoco, della vuota libertà che lascia regnare gli antichi signori: egli dimanda se i popoli oppressi sono insorti contro i tiranni in favore della Francia: «Non sono insorti,» dice, «perchè la guerra è diretta dalla corte. Che si è fatto per destare, per secondare l'ardore de' patrioti belgi e liegesi? In qual maniera si è risposto alle incalzanti sollecitazioni di coloro che abbiamo veduti tra noi? Perchè, adunque, si è lasciata la stampa inoperosa? Perchè manifesti destinati a sviluppare i diritti del popolo ed i principj della libertà... non sono stati sparsi prima tra il popolo e nell'esercito austriaco? Perchè non si è offerta loro una formale malleveria della condotta che ci proponiamo di tenere, dopo la conquista, nelle cose politiche di quello Stato?»
Così Robespierre trasportò per la prima volta il problema della rivoluzione sul campo della coscienza; non ascoltato ne' primi momenti, egli rimase assolutamente solo, a' primi disastri campali la Francia cadde nel suo sistema e la Gironda ne subì l'impero a suo malgrado e senza saperlo. Quando Vergniaud, il capo della Gironda, propone di dichiarare che la patria è in pericolo, Vergniaud altro più non è che un discepolo di Robespierre. Lo copia dopo l'evento; il suo discorso è un'accusa contro la corte, una vera confessione dinanzi alla rivoluzione. Vergniaud confessa che fu richiamato l'esercito del nord quando era vittorioso, confessa che la Francia è minacciata sul Reno, confessa che il re ha rifiutata la sua sanzione a un decreto contro la sedizione cattolica, a un decreto per stabilire un campo tra Parigi e la frontiera. Vergniaud riconosce che il re non difende la Francia, che lo straniero vuol difendere il re, che Coblentz, che il trattato di Pilnitz, che Berlino, che Vienna si collegano contro la rivoluzione, che il nemico marcia su Parigi, che le Tuilleries si armano, che il ministero tradisce; in somma, che la guerra ha messo la patria in pericolo.
Vinto era l'equivoco della Costituente che annullava la dichiarazione dei diritti dell'uomo, era palese la differenza tra il re e la nazione, tra il nobile e il funzionario, tra il sacerdote e l'uomo. Il re cadeva, i traditori erano puniti, i tempi di Robespierre erano giunti; ognuno voleva rinnovato il patto sociale, e si convocava la Convenzione. Alla fine la ragione, proclamata dea, destituiva il Cristo; il calendario era mutato, ai santi del cielo erano sostituiti gli eroi della terra. Quattro soli anni bastarono al trionfo dell'irreligione. Se non che, la religione è la teoria della schiavitù, e se l'ineguaglianza sussiste, la religione risorge spontanea nelle idee.
La guerra contro l'ineguaglianza fu confidata a Robespierre, e Robespierre cadde come la Costituente, perché avviluppò la dichiarazione dei diritti dell'uomo in un nuovo equivoco. Uomo di guerra, egli pensava che il nemico fosse nel governo: combatteva nell'antico governo il dominio della religione e della proprietà, non voleva risalire più oltre. Indi la sua impotenza.
Nella religione Robespierre si ferma a combattere l'influenza degli arcivescovi, dei cardinali, dell'alto clero; non combatte la religione immagina di subordinare gli antichi culti al deismo. Quindi impone un Dio che non può dimostrare, che non può manifestarsi, che non può punire, che non può ricompensare e che la stessa metafisica non ha mai rispettato. Non basta: si agita la questione dello stipendio del clero: e il Dio di Robespierre protegge l'evangelio, vi trova una legge di eguaglianza, la paga; nè s'accorge che paga l'eguaglianza nel cielo, che paga la dottrina dell'ineguaglianza sulla terra. V'ha di più. Il deismo di Robespierre denunzia gli atei quai nemici della pubblica moralità, li accusa di tradire la patria, di essere mercenari di Pitt e dell'Austria, li trae al patibolo; Hébert è decapitato, e tutta la reazione europea applaude al supplizio. Si svenava l'uomo che credeva alla propria ragione; a Vienna e altrove credevasi già possibile di aprir negoziati con Robespierre, se l'Essere supremo continuava a regnare, avrebbe potuto benedire un concordato colla chiesa.
Lo stesso equivoco si riproduce a proposito della proprietà; Robespierre sente che gli incombe di tentare la rivoluzione del povero. Ecco le sue parole: «La feudalità è distrutta», dice egli; «ma non per i poveri, che non possiedono nulla nelle campagne emancipate; le imposte sono distribuite con maggiore giustizia ma l'alleviamento è quasi insensibile per il povero; l'eguaglianza civile è ristabilita, ma l'educazione e l'istruzione mancano al povero. Qui si tratta della rivoluzione del povero; ma dev'essere «rivoluzione dolce, pacifica, che si compia senza spaventare la proprietà, senza offendere la giustizia.» Conveniva adunque compiere la rivoluzione del povero, e rispettare l'antico riparto della proprietà. Robespierre lo rispetta, non tocca alla divisione delle terre, nè il diritto di eredità; propone l'imposta progressiva, fa adottare la legge sulle sussistenze; sono leggi utilissime, ma esterne, non organiche. Propone l'educazione nazionale di tutti i figli della patria a spese pubbliche; non proclama un diritto immediato, urgente, che diriga un'azione politica, nella quale il povero si trovi sciolto dalle catene dell'antico riparto. L'eguaglianza svaniva in parole, in vuote predicazioni; l'ineguaglianza delle fortune sacrificava il povero al ricco, l'eredità perpetuava la classe degli oziosi, la libertà del plebeo rimaneva oppressa dal ricco, mentre la sua ragione rimaneva alienata in Dio.
Da ultimo, il doppio equivoco religioso ed economico si riproduceva nel governo. Robespierre trovavasi alle prese con una sedizione invisibile, sempre rinascente, universale, essa lo assaliva negli eserciti, nelle città, nelle campagne, nel seno stesso della Convenzione: la causa secondaria della sedizione era nell' antico regime, la causa prime era nell'eredità: non erano solo i nobili, i preti e i faccendieri che cospirassero, erano le fortune fondate nell'antico regime. Robespierre è sublime quando denunzia i nemici della patria, mai la morale non ispirò più poderoso pensiero, il delitto impallidiva, la regia cospirazione sentivasi fulminata e avvilita. Pure la morale, staccata dal disegno di una riforma economica, cadeva nel vago, non afferrava i nemici della rivoluzione, ravvisandoli al segno evidentissimo della ricchezza; Robespierre era ridotto ad accusare le intenzioni, a sospettare le tendenze. Voleva incatenare i giornalisti, i mendichi, s'irritava contro la legalità antica che gli sottraeva il nemico, s'irritava contro la legge equivoca da lui stesso voluta, uccideva le persone, lasciava vivere il sistema avverso. Robespierre credeva al popolo, lo voleva armato, gli aveva detto che ogni governo è un commesso, che deve sempre essere sospetto; e non dubitava punto di esser più che un governo, di essere dittatore, di essere l'antico censore, il pontefice antico da lui fulminato. Ma la moltitudine che lo circonda, lo giudica dalle opere, lo vuol dittatore perché denunzia i nemici della patria, il popolo venera l'uomo incorruttibile che vuol verace guerra allo straniero, l'inquisitore giustissimo che invia al patibolo i sediziosi della corte e del clero. Il popolo non vede che Robespierre vuole la rivoluzione del povero, perché non ne vede patente il programma; la metafisica di Rousseau vela Robespierre a tutti, a lui stesso; e quando la patria più non è in pericolo, Robespierre soccombe, non è difeso, non ha più ragione d'essere. Dacchè trattavasi solo di combattere l'antico governo, meno la religione, meno la proprietà, altrettanto valevano i termidoriani e i loro successori, i quali, in quanto risparmiavano il sangue, erano migliori del deputato d'Arras.



Capitolo IV

LA GUERRA ESTERNA


Napoleone succede alla dittatura di Robespierre, la continua; egli pure vuole la religione, la proprietà, meno l'antico governo; egli pure sorge dall'idea che la patria è in pericolo. Non la difende? Non combatte? Non è il rappresentante della democrazia francese? Qualunque sia la sua intenzione, egli continua la guerra liberatrice del 92; egli è terribile, come Robespierre, nella grande repubblica della cristianità. Quando pensiamo a suoi nemici, quando lo vediamo accusato, odiato, vilipeso da una mano di re che guidano alla strage popoli di bimani, retti col bastone; quando vediamo l'esercito francese vittorioso contro sei coalizioni europee, e due milioni di francesi che muoiono gridando: viva l'imperatore; quando leggiamo i libercoli della vilissima reazione che oggi ancora scrive, vocifera, tradisce, uccide e s'inebria di sangue in tutta Europa; quando pensiamo alle innumerevoli infamie dissipate in Italia, in Piemonte, al solo apparire di Napoleone; quando pensiamo che Napoleone, nemico fatale dell'antico regime della cristianità, conquassava il papato, l'impero, e redimeva l'Italia, e la destava a farsi nazione, ed esiliava i vetusti suoi principi, e creava una generazione nuova che sapeva combattere senza tradire; come mai non riconoscere in lui il secondo dittatore della rivoluzione?
Ma Napoleone combatteva l'antico regime, meno la religione e la proprietà, quindi riproduceva nel seno della cristianità, sotto forme grandi e strane, la contraddizione che aveva spento Robespierre. Napoleone combatte gli antichi re della Francia; dunque gli basta essere al governo per assicurare la vittoria, quindi ordina la reazione, dunque deporta i giacobini, sottoscrive il concordato con la chiesa, sopprime il tribunato, s'incorona imperatore. Parimente all'estero, volendo rispettare la proprietà e la religione, Napoleone mira solo ad esser governo per vincer gli antichi governi.. Dunque è conquistatore, dunque innalza nuovi troni, infrange le corone, arrogasi il diritto di Carlomagno, ristaura l'impero a suo profitto. Ne nasce che colla guerra imperiale Napoleone in Francia è capo e nemico della rivoluzione, all'estero è liberatore e conquistatore; dovunque riassume la rivoluzione e Carlomagno, Voltaire e Cristo, la legge agraria e i feudi, la libertà individuale e la Bastiglia, l'uomo di genio e il re. La guerra imperiale sfuggiva di continuo alla contraddizione prorogandone lo scioglimento; pure la contraddizione era patente, continua, ingrandiva ad ogni passo: colla vittoria deificava il successo, e l'immenso successo non aveva fondamento. Napoleone era aborrito dal re quanto Robespierre, e dai popoli quanto i loro principi naturali, a cui la guerra imperiale lasciava gli antichi sostegni della proprietà e della religione. I popoli non erano più associati alla rivoluzione, e questa era travisata a tal punto, che gli stessi re potevano imitarla promettendo le costituzioni. Quindi Napoleone scompare a Waterloo, oppresso da tutti i re che parlavano in nonne di. Dio, e abbandonato dagli uomini che parlavano a nome della ragione. Ne risulta però questo doppio insegnamento: cioè, che il trono e l'altare si fondano sull'ingiustizia e sull'errore, in guisa che nè il deismo metafisico, nè la guerra imperiale può sradicarli. In secondo luogo, dopo Napoleone, l'Europa apprende che l'iniziativa della rivoluzione sta in Francia, in guisa che ogni nemico della iniziativa francese riesce amico della reazione europea; da Napoleone in poi ogni moto francese è moto immediatamente europeo; la supremazia francese cresce ad ogni giorno, cresce talmente, che in Italia, in Germania, dappertutto, il medio ceto, già nemico dei re, si collega col trono e coll'altare per difendere l'ineguaglianza e l'eredità.



Capitolo V

LA MONARCHIA IN FRANCIA

I Borboni furono imposti dall'Europa; ma nè Luigi XVIII, nè Carlo X, nè Luigi Filippo non sono mai stati re. Il re è un capo la cui l'autorità è incontestata, il cui principio è sacro: il re è il padre del popolo, l'anima della nazione, l'uomo indispensabile, a cui nulla può supplire se non la pubblica ragione. Dopo Luigi XVI, dopo il 93, la Francia non ebbe più re. I Borboni del 1815 furono accettati quali dittatori.
Nel fatto i Borboni regnarono sempre assediati dalle cospirazioni, poi in tre giorni furono sbanditi; il loro governo era dunque provvisorio, forzato, effimero: dunque la rivoluzione non era vinta, dunque il dato vitale di Voltaire e di Rousseau sussisteva, ed era mestieri appagarlo. Tutti i re lo riconoscevano, e credevano necessaria in Francia quella costituzione che rifiutavano ai propri popoli; mentre imponevano i Borboni, i re transigevano colla Francia; la loro vittoria riceveva il limite della carta. Ora la carta accordava una libertà rifiutata da Napoleone, e il fatto non consentito ma risultante dalla carta, era che cessava la dittatura di Robespierre in un con quella di Napoleone. Entrambi rifiutavano al popolo il diritto alla propria ragione, ch'era trasportata in Dio; entrambi dominavano la religione del popolo; entrambi stabilivano il regno di una ragione di Stato, metafisica presso Robespierre, politica presso Napoleone; entrambi erano semidei, e regnavano sugli Dei e sugli uomini; entrambi si facevano giuoco de' pontefici, e pagavano religioni e cui non credevano; entrambi organizzavano il regno dell'impostura. Ora, colla carta la Francia ebbe un capo dell'antica legge, e ciò meglio valeva, non In diritto, lo ripeto, ma in fatto. Il genio che presiedeva alle iniziazioni della Francia accolse la corte come si accoglievano gli iloti al banchetto di Sparta per ubbriacarli e per istudiarli: i re, i vescovi, i conti, i marchesi avevano vinto, ed erano accolti, e patto di lasciarsi sindacare in pubblico.
Il primo atto del nuovo dittatore fu di considerare la libertà delta carta qual dono che proveniva unicamente da un atto della sua regia volontà: la carta era concessa. L'ilota dovette ricredersi, e la carta veniva dominata dalla rivoluzione; la libertàera superiore al re, e i re rispettavano più la Francia che non i Borboni. In secondo luogo, tutti gli uomini della ristaurazione imitarono in ogni modo la costituzione inglese; condannati ad esser liberi, volevano esserlo come gli Inglesi. Affettavano di considerare il re, i Pari, la camera, il censo elettorale quali instituzioni sacre poste fuori di dubbio; pensavano che la discussione non cadrebbe se non sugli affari correnti del regno. S'ingannavano: per fondare il regime inglese, per fondare la reazione, discutevano per l'appunto quella rivoluzione di cui non volevano parlare; la lotta parlamentaria diventando rivoluzionaria, che rendeva dubbia ad ogni passo la dittatura de' Borboni.
Predicavisi necessaria un'autorità; e sembrava che il secolo decimottavo, la storia stessa della rivoluzione dessero ragione agli apologisti dell'autorità. Voltaire e Rousseau non riconoscevano forse che i popoli erano sempre stati preda dei tiranni, dei conquistatori o almeno dei legislatori? Come mai riscattare dal dominio dei re e dei pontefici la moltitudine che vuol obbedire ai pontefici, ai re, ai capi, qualunque sia la loro denominazione? Non era evidente che se il movimento liberatore partiva, dall'alto, conduceva alla tirannia, che il tiranno invocato da Platone avrebbe fondato, non la repubblica, ma la teocrazia? La scienza storica della Germania rivela una risposta imprevista, e ci mostra che ogni pontefice non ha regnato se non alla condizione di rappresentare gli interessi e la fede di un popolo: qual interesse rappresentavano i Borboni? Quello dello straniero: qual era la loro fede? Il cristianesimo era vinto, non era più altro che la meccanica di un'ineguaghanza voluta, imposta colle baionette dell'Europa. La fede, gli interessi della Francia scacciavano i rappresentanti della cristianità; e si svelava il moto storico per cui i pontefici vincono i pontefici, e per cui ogni dogma soprannaturale deve finire.
Nei minuti particolari la discussione che speravasi inglese era un tormento continuo, una vera insurrezione: la derisione, l'invettiva, l'odio contro l'antiquata commedia della monarchia aumentavano ad ogni passo; e giungevasi a questa conseguenza, proclamata letteralmente dagli stessi conservatori, dagli stessi ministri di Carlo X, ch'egli era cosa impossibile il governare colla libertà della stampa. D'indi le ordinanze di Polignac, d'indi le tre giornate di luglio, e il regno di Luigi Filippo.
Anche Luigi Filippo fu dittatore, e non altro; la carta toglievagli la sovranità, lo sostituiva a Carlo X, che aveva violato la libertà della stampa; era adunque inteso che dovesse rispettare la libertà dei pensiero, che ogni sua resistenza dovesse fondarsi sulla ragione, che la sua parte fosse di mostrare gli ostacoli opposti alla rivoluzione dal fato. La dittatura di Luigi Filippo fu la dittatura della discussione. La tribuna, la stampa, la letteratura non furono mai più fiorenti, né più imperiose; si entrò nell' éra delle gradazioni, delle ingegnose tergiversazioni, dei sapientissimi inganni. Per sua sventura Luigi Filippo doveva resistere ai diritti dell'uomo che rivendicano la ragione e l'eguaglianza.
Luigi Filippo difende la religione a nome della ragione; s'impadronisce del Dio di Robespierre, e senza professarlo, senza crederlo giusto, l'introduce nell'università, gli apre le porte dell'Instituto. Nello stesso mentre paga a tre cleri, al cattolico, al protestante, all'ebreo, il rispettivo salario; e re di quattro religioni distinte e contrarie, vuol ricostituire il dominio napoleonico sulle idee religiose. S'insegna nelle cattedre come i dogmi hanno fine, s'insegna nei templi che la fede risorge; ed ecco il governo che deve difendere le religioni discutendo ad alta voce quanto in altri tempi susurravasi arcanamente all'orecchio. Perchè tanto rispetto per il papa, per Lutero, per la sinagoga? Si risponde che abbisogna una religione per il popolo, un cielo al povero, una qualsiasi illusione per mansuefare la plebe diseredata. E perchè una religione all'Istituto e alla Sorbona? Per conservare l'errore del popolo. Quindi il Dio di Robespierre assale e rispetta, disprezza e venera tutte le religioni: poi s'inchina alla Bibbia, e destituisce il filosofo; vuol la verità subordinata all'errore, la storia alla favola; insegna che il vero progresso si sviluppa con misura, con circospezione, con destrezza. Ed ecco che sorge la morale della disinvoltura; il governo è inteso a scegliere i ministri dell'occasione, della circostanza, dell'opportunità; gli uomini che sappiano librarsi nel giusto mezzo tra il vero ed il falso, tra il giusto e l'ingiusto: si fa astrazione da ogni principio, da ogni diritto, da ogni morale. Quindi ognuno inteso a farsi aggradare come uomo possibile ognuno inteso a farsi via alla fortuna, rimovendo da sè l'impossibile, cioè la ragione integra e pura. Quindi il successo divien regola, divien legge; il re-ostacolo, sta col fatto, colla forza; resiste, e sempre discutendo, ad ogni fatto che vuol compiersi; resiste al diventare, al sorgere, al nascere, alla vita; la sua ragione combatte la ragione. Difende forse la chiesa, i re? No; il fatto solo del suo governo è un insulto all'antico regime; egli si dice un giusto mezzo; e qui ancora la ricerca del giusto mezzo deve esser fatta in pubblico, innanzi alla rivoluzione ed alla chiesa: indi nuova difficoltà; il giusto mezzo è accusato dalla chiesa di esser voltèriano, dalla rivoluzione di esser cattolico; il giusto mezzo non può difendersi, è senza coscienza, è come Napoleone nel momento della grandezza, religioso e irreligioso, empio innanzi ad ogni coscienza, unicamente sostenuto dalla malizia, dagli espedienti e definitivamente dalla cupidigia regale, che cerca la lega di tutti i culti contro il culto della verità. Sotto Luigi Filippo, la scienza officiale s'insterilisce a disegno, sopprime le proprie conseguenze, si rivolta contro la sincera scienza; il governo ordisce in seno alla nazione la santa alleanza di tutti gli errori.
La resistenza è la stessa contro l'eguaglianza: la carta riconosce l'eguaglianza di tutti i cittadini innanzi alla legge, ma Luigi Filippo è il re de' ricchi; dimostra che i soli proprietari sono sapienti, sono degni di governare; che l'immensa maggioranza della nazione non ha tanto discernimento che basti ad eleggere un deputato; che la virtù è incarnata nei milionari, ne' venturieri. Poi accusa i democratici d'essere dementi, perchè vogliono l'eguaglianza; accusa gli operai di essere cupidi perchè non vogliono morir di fame; professa che i savi, i moderati sono i banchieri, i monopolisti, gli sfaccendati, i sofisti che comentano Platone e fanno l'elogio dei ricchi. Rimaneva a Luigi Filippo di esser la providenza dell'industria e del commercio; ivi poteva trovare le ragioni per farsi necessario: ma qui una nuova fatalità lo attende. Il povero pensa alla sua rivoluzione; Rousseau, Robespierre non l'avevano sperata; vedevano che l'industria diffonde l'agiatezza, che nutre i popoli, che la sorte del mondo è vincolata ai destini dell' industria; e volendo lottare, si smarrivano nel paradosso che raccomanda una indeterminata virtù. Fourier e Saint-Simon uscivano dal paradosso cercando la rivoluzione del povero precisamente nell'industria, che sembrava renderla impossibile. Verso il 1806, nel momento stesso in cui la libera concorrenza all'interno faceva sentire i suoi benefizi, essi ne scoprivano i vizi; l'accusavano d'arricchire i ricchi e d'impoverire i poveri, scorgevano la miseria crescente dell' operaio, e il principio di una rivoluzione crescente all'infinito. L'esercito del proletario s'arma nel 1830, ha le sue legioni a Parigi, a Lyon, a Lille, dappertutto dove il capitale ingrassa immolando la libertà, il lavoro, la salute del povero. Era oramai aggiunto all'antica rivoluzione un nuovo dato vitale. Fourier e Saint-Simon rappresentano una nuova èra colla dualità dell'interesse e della giustizia; Fourier è l'interprete della nuova vita, la svolge nella iperbole del falanstero, deride la civiltà, gli inciviliti, gli equivoci della commedia umana travolta nell'impossibile della metafisica e della religione. Fourier vuole l'interesse, dimentica il dovere, è facile alla transazione, è il Voltaire del proletario, gli assomiglia per la facilità, per l'ironia e per la critica. Saint-Simon sente meglio la giustizia, rammenta Rousseau, è paradossale, ma spietato nell'assalto e irresistibile nella, censura. Che fa Luigi Filippo? Difende l'ineguaglianza a nome dell'eguaglianza; si fonda sul principio della libertà individuale per proteggere e fomentare i vizi della libera concorrenza; vuol profittarne, vuol trarne la perpetuità della sua dinastia. Volge il medio ceto contro il popolo, ordina una nuova nobiltà di arricchiti, mostra l'urgenza di combattere la rivoluzione del povero col ferro, col fuoco; non vuol nemmeno che sia discussa all'università, all'Instituto; appone a delitto il parlarne.
La politica di Luigi Filippo è consentanea alla resistenza, sistematica contro la ragione e l'eguaglianza degli uomini. La rivoluzione parte dal principio della sovranità del popolo, e reclama per conseguenza la sovranità dei popoli; essa isola la Francia per opporla alla cristianità. Pure v'ha un capo, v'ha un limite; è necessario questo limite? Convien discutere, si discute. Ecco il problema della guerra e della pace; e sorge a proposito della santa sede che la rivoluzione vuol abbattuta e che il capo della Francia vuoi salva. Si giunge a una transazione, il principio del non intervento è proclamato, non vi sarà adunque né la lega dei popoli, nè quella dei re: ogni nazione s'isolerà, camminerà sola, giungerà alla libertà, se vorrà, se saprà conquistarla.. Tale è l'utopia del 1830; bastava alla libertà di tutti; lasciava togliere l'Italia al papa e all'imperatore, lasciava liberare la Spagna, vivere indipendente il Belgio, democratizzarsi la Germania. Ma l'inazione è impossibile, ma il non intervento è assurdo, ma la libertà isolata d'ogni popolo è finzione giuridica: tutti i popoli si collegano coll'industria, col commercio, colla religione o coll'irreligione. Che farà Luigi Filippo? Segue inversamente la politica di Napoleone; vien detto il Napoleone della pace, e per sua sventura deve spiegarsi pubblicamente, sfoggiare alla tribuna la sua sapienza, confessare il suo secreto, già indovinato da tutti. Egli lusinga i popoli ed i re, rispetta ogni fatto compito, ogni successo felice; è il re dell'occasione, della circostanza, dell'opportunità; concilia, tergiversa, transige, ma pubblicamente, dinanzi a tutti, e trovasi esecrato dai popoli, sospetto ai re; progredisce alla sua maniera, or cedendo alt' Inghilterra, ora ingannandola, ora minacciando, ora disarmando,
Luigi Filippo regna diciotto anni: evita con massima cura i falli de' tre monarchi destituiti dalla rivoluzione: non tradisce come Luigi XVI; non s'avventura colla guerra, come Napoleone; non viola la carta, come Carlo X. Fino all'ultimo momento discute, sostiene la parte del regio ilota; e cade fulminato dalla rivoluzione del disprezzo, cade d'improvviso senza saper come. Era dittatore, e credevasi re.



Capitolo VI

IL GOVERNO DELLA LIBERTÀ

I nostri veri nemici non sono più nè marchesi, nè principi, nè re, ma si chiamano tutti cittadini e sono borghesi che vegliano spietatamente alla difesa della proprietà e della religione. La sera del 24 febbraio Parigi era triste; le vie dei ricchi quartieri erano deserte; la borghesia sentiva che, espulso Luigi Filippo, diveniva imminente la rivoluzione del povero. Volle che la rivoluzione si fermasse, e la fermò immediatamente riducendola alle vaghe generalità che avevano resa impotente la prima repubblica,copiando a disegno una catastrofe. Il suo principio fu la libertà, e cominciò dal parlare un linguaggio, a pubblicare decreti che abbracciavano nella loro generalità la libertà dell'antica e della nuova società. I poveri e i ricchi, il minuto commercio e la banca, i comunisti e i legittimisti, tutte le classi si trovavano provvisoriamente protette dall'equivoco classico della nuova repubblica. Una stupidezza fittizia invade i giornali; ognuno si fa sollecito di favorire il doppio senso della libertà; si evitano tutti i problemi, si differiscono tutte le soluzioni. Qualche volta il governo è costretto a spiegarsi; allora si contraddice a disegno, affinchè la contraddizione apra la via a nuovi equivoci. L'emancipazione del proletario à officialmente promessa, i privilegi dei capitale sono officialmente rassicurati, i repubblicani puri fraternizzano coi banchieri, i gesuiti colla Sorbona, i vescovi benedicono gli alberi della libertà. Il classicismo, il formalismo, quel sistema di generalità indefinite, inaugurato dal Petrarca, sviluppato da Fénélon e da tutti gli uomini che si mettevano tra il medio-evo e il risorgimento, tra il cattolicismo e il protestantismo, tra la monarchia e la rivoluzione, è abbracciato, esagerato dal governo, che ben sceglie il suo nome, e si chiama provvisorio. La sua generalità iperbolica non poteva durare; la corrente degli affari doveva rovesciarlo, il suo formalismo oltrepassava i limiti del possibile. D'indi il suo procedimento e la sua caduta.
Il suo procedere fu semplice: la democrazia fremeva, si rivoltava. Il governo provvisorio la lasciò libera in piazza, nei circoli, al Luxembourg, fuori dell'amministrazione: lecito ad essa di continuare nella pubblica via, nelle fabbriche nazionali, poco importavagli dove, la rivoluzione del povero, purchè non fosse nel governo. In pari tempo l'orleanismo conservò i suoi impieghi, il legittimismo invase l'assemblea nazionale, il bonapartismo s'agitò apertamente: non si torse un capello ad alcuno. Il governo era clemente, generoso, senza occhi, senza orecchi per quella libertà formale ch'era avversa alla giustizia del popolo.
La caduta del governo provvisorio fu semplice come il suo procedere. Il primo giorno in cui fu assalito dalla democrazie si trovò nei campo nemico, la sua libertà era quella della religione, della proprietà, della borghesia; il suo diritto mitragliò la democrazia senza pietà, senza misericordia; in giugno superò mille volte le più nefaste repressioni della monarchia. Allora il governo provvisorio fu congedato; i tre partiti che le generalità classiche della prima repubblica avevano lasciato sopravvivere, si collegarono per fissare e utilizzare le libertà della proprietà e della religione.
Non dobbiamo difendere, dobbiamo combattere la costituzione del 48: essa involge nelle insidiose sue generalità la contraddizione tra la libertà del borghese e quella del popolo, tra la sovranità del ricco e quella del povero. Qual'è il governo che costituisce? È un governo equivoco, la repubblica soggetta a revisione, cioè una repubblica che può egualmente retrocedere alla monarchia o progredire nella rivoluzione.
La costituzione chiama un presidente alla direzione della repubblica; e come non si fonda su alcun dogma, il presidente potrà esser dittatore, il dittatore potrà essere un dittatore democratico o un pretendente, un nuovo Robespierre o un antico re.
Perchè non rimanga dubbio sulla latitudine dell'equivoco, il presidente deve essere eletto direttamente dal suffragio universale; alla sua volta l'assemblea nazionale deve emanare direttamente dal suffragio universale. Qui l'equivoca generalità si apre due uscite, prepara una contraddizione, offre un campo naturale alla guerra tra la rivoluzione e la controrivoluzione. Se la democrazia è padrona dell'assemblea nazionale, la reazione sarà alla presidenza; se la democrazia s'impadronisce della presidenza, la reazione si rifugierà nell'assemblea nazionale. La legge è a doppio senso.
Il diritto all'assistenza è ancora una generalità inutile: si riduce al diritto di necessità supposto da tutte le leggi. Qual'è questa necessità? che reclama la miseria del proletario? che devesi accordare alla rivoluzione del povero? L'assistenza abbraccia egualmente la tassa dei poveri e la legge agraria, il work-house e le fabbriche nazionali.
Sappiamo già qual'è il valore delle tre parole indeterminate, libertà, eguaglianza, fratellanza: sono derisioni se la legge non le rende positive, e nessuna legge le determina. La legge si spiega solo accordando la libertà della stampa, il diritto di riunione, il diritto d'insurrezione, e si direbbe che è difficile il chiedere di più; la legge accorda il diritto di parlare, di cospirare e di combattere. Pure ogni malleveria è anticipatamente subordinata al principio stesso che protegge: quanto è sacro, quanto è inviolabile, è il principio, non la malleveria. Qual'è il principio della costituzione? Esso è equivoco; aristocratico e democratico; quindi il valore della malleveria diviene equivoco; e la malleveria deve difendere, non la libertà, ma l'equivoco della libertà.
Il governo è accusato di aver violata la costituzione; egli è certo che soppresse i circoli, incatenò la stampa; egli è ancor pili certo che il 13 giugno 1849 non rispettò il diritto d'insurrezione: pure se rimaniamo sul terreno del diritto indeterminato saremo eternamente vinti, nessuno ignora che la stampa, i circoli, l'insurrezione sono subordinati alle necessità della guerra: nessuno ignora che la rivoluzione è un combattimento: nessuno ignora che l'immensa maggioranza de costituenti decretava lo stato d'assedio, imponeva la costituzione in un collo stato d'assedio. Era dunque sottinteso che le guarentigie rimanevano subordinate allo spirito generale della costituzione, alla difesa della società, quale l'intendevano i vincitori delle giornate di giugno. In una parola, il formalismo del Petrarca dava ragione ai condottieri; quello del 1848 diede ancor ragione al più forte. Chi combatte sul campo della costituzione lascia smarrire in questioni tecniche, amministrative, politiche il dogma della scienza e dcll'eguaglianza; cade nelle insidie della libertà astratta; cade vittima della libertà dei ricchi.



Capitolo VII

LA LIBERTÀ DEI CULTI

La libertà de' culti, è un nuovo equivoco, una contraddizione positiva e intollerabile.Una religione è una soluzione piena, intera del problema del destino; essa abbraccia il presente, il passato, l'avvenire; essa comprende l'uomo, lo Stato, l'umanità; essa spiega tutto, dirige tutto; nulla havvi che si sottragga al suo dominio. Mal conosce il prete chi suppone ch'ei possa starsi nella sua chiesa circoscritto alle sue cerimonie; il prete regna sulle coscienze, e ogni cosa è subordinata alla sua decisione; il prete è un magistrato morale, e ogni cosa subordinata alla morale. Datemi la vostra coscienza, vi lascio tutti i tesori della terra; li crederete vostri, e io ne sarò il padrone. La libertà di una religione è il suo impero; il suo primo dovere è di regnar sopra di sè, di giudicarsi da sè, di propagarsi, di insegnare; in altri termini, di comandare. Una religione è l'assoluto; due o più religioni sono due o più assoluti che si negano, che si maledicono a vicenda, e devono combattersi colla parola, cogli atti, col fatto. Per sè stessa la loro libertà è la guerra civile.
Materialmente impossibile, la libertà dei culti riesce nella pratica al dominio del governo sui culti. Il governo interviene come polizia; qui impedisce al clero di riunirsi in un sinodo, là vieta ai vescovi di carteggiare con Roma, altrove sopprime alcune cerimonie, altrove ne reclama altre. Ma perchè sottoporrete il sacerdote a una legge che forse il suo dogma riguarda come empia? perché farvi giudici del vescovo, giudici del pontefice, di Cristo? perchè farvi dominatori dell'ebreo, del cattolico e del protestante? Proclamate il diritto della scienza, o lasciate libero l'errore del culto; dichiaratevi superiore a Mosè, a Cristo e a Lutero, o dichiaratevi inferiore al vescovo, al pastore ed al rabbino. Non v'ha mezzo: non si scioglie problema con ragioni di polizia, di convenienza, di opportunità; colla sola libertà astratta non si giunge a giustificare il menomo editto, la menoma intrusione.
I culti sono pagati, dunque la libertà de' culti non è libertà, è un servizio pubblico, come diceva Thouret; dunque lo Stato paga tre errori contraddittorii, li incoraggia, li utilizza: e che? Qui non v'ha dubbio, si esce dall'equivoco, i tre errori sono pagati per combattere il vero; Dio, sotto tre forme, è pagato perchè la mente del povero resti In forza altrui. Nè si accusi lo Stato d'inconseguenza, se paga tre culti opposti, tre dottrine contraddittorie sul papa e su Cristo: che gl'importano le contraddizioni sull'evangelio, su Cristo o sul papa? Le tre religioni sono religioni, sono tre teorie della servitù; tutte difendono il dominio del ricco, la libertà del borghese, e combattono egualmente perchè la rivelazione naturale sia vinta dalla rivelazione soprannaturale, perché i diritti del popolo siano vinti dai privilegi del ricco. La libertà de' culti riproduce la santa alleanza di tutti gli errori contro tutti i diritti.
Nel fatto, i tre servigi pubblici sorvegliano l'istruzione pubblica, le impediscono di essere pubblica educazione, ne sospettano con un medesimo intento il primo principio, la filosofia; la degradano, la riducono ad una specialità, le tolgono la direzione degli studi, non le permettono nemmeno di essere la sterile metafisica: le impongono di contraffare la Bibbia col deismo, il catechismo colla morale, la scolastica colla logica; le dettano il tema delle sue dissertazioni, le impongono le conseguenze anticipate, per cui le sue composizioni saranno lavori retorici o eruditi, certo insignificanti. Lo Stato che paga le tre religioni paga la sua filosofia, per cui sono prese tutte le misure necessarie per compiere la santa alleanza della filosofia venduta colla religione pagata. Quindi l'università pronta a promovere la reazione di Robespierre, pronta a proscrivere Hébert, Helvétius, Danton, Vergniaud; quindi l'università disposta a combattere la stessa metafisica, e assorta nell'impresa di opprimere il dogma colla storia, i principj colla erudizione; in guisa che di Platone, di Descartes, di Locke si conoscano il meccanismo meno la vita, gli errori meno la rivelazione. Tale è la filosofia della reazione; tale è la filosofia dell'università francese, massimamente per colpa di Vittorio Cousin[6].
L'alleanza dei teologi coi sofisti opprime l'istruzione pubblica; i teologi e i sofisti s'uniscono a patto di non dominarsi e vicenda, dominano unitamente a patto di combattere la ragione, di renderne irrito ogni sforzo, nullo ogni risultato. Quindi si elidono per far regnare la retorica, si rassegnano volontariamente essi stessi ad essere retori: quindi all'Istituto la prima sezione, la sezione sovrana dei quaranta immortali è costituita dalla retorica, rappresenta il regno della frase, dello stile, della magniloquenza, il regno di Petrarca, che si collega colla arroganza della nobiltà, colla corruzione della politica e coll'abuso della ricchezza, Quel presidente della camera dei Pari, quel gran signore dalle smisurate rendite siedono accanto a Lamartine. perché il trono della ragione é vacante, e lo si vuole vacante e inane.
V'ha di più; l'istruzione pubblica è ancora serva della frase, s'impone a tutti i giovani lo studio del greco e del latino. L'erudizione greco-latina era il lusso della chiesa, ora ha missione di occupare il posto delle cognizioni necessarie alla vita, di escluderle sì che l'educazione del borghese resti signorile, liberale, inutile, e non serva se non a distinguerlo dalla plebe, a separarlo per sempre dal popolo. Per togliere la mente al popolo i ricchi la tolgono ai propri figli. Ascoltiamo Michele Chevalier, uno tra gli uomini più affezionati al governo di Luigi Filippo. «Le scuole,» dice egli, «sono solo l'ombra di quello che dovrebbero essere; io parlo delle scuole dei giovani, delle scuole di grammatica, di quelle che dovrebbero prepararci gli agricoltori... S'insegnano cognizioni poco necessarie, e non s'insegnano le cognizioni indispensabili. La stessa direzione che le menti vi ricevono non è buona, perchè i giovani non vi apprendono l'inclinazione al lavoro de' campi e delle manifatture, e vi attingono piuttosto l'avversione per ogni lavoro manuale.» Blanqui il seniore, è più esplicito. «Hannovi,» dice egli, « da 1000 a 1200 industrie, e una sol maniera di istruzione. L'insegnamento primario non conta se non 2,400,000 alunni; 8,000 comuni mancano di maestri pei fanciulli, 31,000 comuni non hanno scuole per le fanciulle, la metà sola dei giovani riceve qualche educazione. Quale è la conseguenza? Nel 1834 su 7,964 individui giudicati per delitti, ve n'erano 7.077 analfabeti. - L'insegnamento secondario dei collegi, dei licei, delle instituzioni, dei seminari conta 70.774 alunni, sono 70,000 latinisti. Che divengono? 6.000 studiano il diritto, 5,000 si danno alla medicina, 5,000 diventano professori, mettiamo che 20,000 entrino nella chiesa; rimane un eccedente di 40,000 latinisti, necessariamente inutili a sè stessi e alla società. Essi hanno studiato la storia antica, e ignorano la storia del loro tempo, ignorano i primi elementi della contabilità; nulla sanno d'affari; è impossibile di far d'un baccelliere un manifatturiere, un agricoltore, un mercante, un commesso di banca, un agente di cambio, a meno di rifarne l'educazione cominciando dalla calligrafia.» Il signor Carlo Dupin, Say e mille altri ripetono le stesse cose, benchè conservatori e assai monarchici; ma l'economia politica è spietata, è la scienza dei valori; e anche falsata nei principi, dimostra che sotto il dominio del prete e del sofista l'istruzione pubblica deve essere un valore inutile.
Un sistema d'oppressione si svela nella scelta degli alunni che lo Stato vuole ammaestrati. L'università è fondata per i borghesi, lo Stato non prende cura se non dei figli del benestante, soccorre a chi non ha mestieri di soccorso: il povero è dimenticato. Napoleone mise termine agli sforzi dell'antica repubblica per fondare l'educazione del povero: quanto fu tentato dopo il 1833 attesta egualmente l'oppressione del teologo e del sofista. Le nuove scuole non sono altro che una copia dell'istruzione parochiale, una secolarizzazione della tradizione cristiana, un nuovo fasto, un lusso suburbano per dare al paesano le idee dei ricchi. Non s'insegna all'uomo del popolo qual'è la sua patria, quali sono i suoi diritti; la Bibbia gli cela le verità della fisica; si tenta la sua ambizione, non si vuole la sua virtù; si vuole accaparrare la sua mente. Poi, a che le scuole del povero? Sono aperte; ma il proletario ha bisogno de' suoi figli, che sono parti integranti dell'economia domestica; i figli devono guadagnare il pane o col custodire le mandre o col lavorar nelle fabbriche. Il proletario ha fame, e voi gli offrite cognizioni inutili? Ha bisogno dei figli, e parlate di obbligarlo a mantenerli alla scuola? Muore di stento, e volete che imiti i ricchi? E quando gli ha imitati! Quando il figlio del proletario si desta alle ragione, quando si sente eguale al padrone, più utile del proprietario, the farà della sua istruzione; dei suo ingegno, del suo diritto? L'università gli offre di farlo dottore, se può pagarla; le scuole tecniche non lo conducono a nulla; l'industria non mette capo che all'interesse personale; l'interesse del diseredato non ha il capitale sul quale attivarsi. Non v'ha mezzo; regni il prete, regni il sofista, regni libera la favola; la teoria della servitù sarà necessaria, finche l'eguaglianza non aprirà le scuole del popolo, in cui tutti i figli della patria siano nudriti a spese dello Stato. Intanto la libertà dei culti è la schiavitù del popolo, e la schiavitù della scienza viola i diritti della verità e quelli dell'umanità.



Capitolo VIII

LA PROPAGANDA DELLA LIBERTÀ

L'astratta libertà ha rassicurato la libertà : in oggi il borghese di Parigi protegge il papa, l'imperatore e i re dell'Europa; sacrifica l'Italia all'antico patto sociale delta cristianità. La spedizione di Roma fu la conseguenze più ragionata e più insolente della libertà formale; dobbiamo analizzarla nel principio, perchè dobbiamo troncare dalla radice l'errore che l'ha ordita.
La prima premessa della spedizione di Roma sta nel manifesto di Lamartine: sotto l'impero della libertà staccata da ogni dogma, Lamartine cominciava dal togliere alla rivoluzione il senso e le conseguente della rivoluzione; riduceva la repubblica a una forma di governo come la monarchia, a un'affare assolutamente francese e interno: «La proclamazione della repubblica», sono le sue parole, «non è un atto aggressivo contro veruna forma di governo nel mondo. Le forme di governo hanno differenze tanto legittime, quanto la differenza di carattere, di situazione geografica e di sviluppo intellettuale, morale e materiale presso i popoli: le nazioni, al pari degli individui, hanno le loro diverse età » . Lamartine distoglie i popoli dalla rivoluzione, li sconforta dall'imitare la Francia. «Un popolo», secondo lui, «si perde, se non aspetta l'ora della sua maturità». Il manifesto accusa anticipatamente i rivoluzionari che volessero subordinare le forme politiche ai principj della rivoluzione. «La monarchia e la repubblica», dice Lamartine, «non sono agli occhi dei veri uomini di Stato principi assoluti che si combattano a morte; sono due fatti che si contrastano, e che possono vivere a fronte l'uno dell'altro comprendendosi e rispettandosi » . Così il vero uomo di Stato non è d'alcun dogma, vivo dalla libertà che protegge ogni dogma, vive nel formalismo dell'occasione, della circostanza; la coscienza non è legata, ogni fede è soppressa.
Dopo di aver separata la rivoluzione dalla libertà, Lamartine compiva il lavoro ritorcendo la libertà contro la rivoluzione. Ecco le sue parole: «Tornare dopo mezzo secolo ai principj del 92 o a quelli della conquista imperiale, non sarebbe progredire, ma retrocedere nei termini» . Dunque non volevasi il principio del 92 osai confidato a Luigi XVI, ma pur liberatore; confondevasi a disegno l'intento rivoluzionario del 92 coi traviamento della conquista imperiale: Lamartine accusava già la propaganda armata della rivoluzione, anzi la calunniava. «Nel 1792», diceva egli, «era soltanto il ceto-medio che voleva esercitare la libertà,e goderne. Il suo trionfo era allora egoista, siccome suole essere il trionfo di ogni oligarchia. Esso voleva tenere per sè solo i diritti conquistati da tutti, e convenivagli perciò operare una forte diversione alla signoria popolare col precipitarla sul campo di battaglia per impedirle di pensare al governo. Questa diversione era la guerra; la guerra fu il pensiero de' monarchisti e de' girondini». Qui preparavasi l'accusa di monarchismo e di girondismo contro coloro che volessero combattere il manifesto; dichiaravansi sospetti coloro che volessero spingere alla guerra contro la cristianità, accusavansi di voler operare una forte diversione all'avvenimento del popolo, di voler precipitare il popolo sul campo di battaglia per impedirgli d'entrare nel proprio governo. Erano sospetti; e dinanzi a chi? Dinanzi a Lamartine, l'uomo dei borghesi, che volevano quel governo, che lo tenevano,che volevano conservarlo, che volevano lo statu quo. Quindi le parole con cui Lamartine dichiara finito ogni dissidio interno. «Nel 1792 una lotta terribile si prolungava . tra le classi spodestate dei loro privilegi, e le classi che avevano conquistata l'eguaglianza e la libertà. Non vi sono più oramai classi distinte e diseguali. Nel 1792, il pensiero del secolo che tramontava era solo nella mente di qualche filosofo; oggi la filosofia è popolare. Cinquant'anni di libertà di pensare, di parlare, di scrivere hanno prodotto il loro effetto». Insomma, Lamartine, alla vigilia della più formidabile lotta generata dalla libertà di pensare, di parlare, di scrivere, annunziava finita la rivoluzione; e se si restava nella teoria della libertà formale, era finita; non aveva dogma, non principio d'onde muovere verso un qualsiasi avvenire, non aveva una coscienza morale e giuridica avversa alla cristianità, non aveva ragione alcuna di combattere i re, i principi, il papa, l'imperatore; aveva tutte le ragioni della pace per rientrare nel concerto europeo. L'astratta libertà dava per conseguenza lo statu quo: Lamartine non mancava di formulare la consegunza. «I trattati del 1815», concludeva egli, non . esistono più di diritto per la repubblica francese, nondimeno le circoscrizioni territoriali di questi trattati sono un fatto ch'essa accetta qual punto di partenza ne' suoi rapporti con le altre nazioni». Esse non potevano chiedere di più; la libertà proponeva alla cristianità le basi della cristianità; abbandonava le Polonia, il regno Lombardo-Veneto; limitavasi a reclamare il non intervento in Svizzera e negli Stati indipendenti d'Italia. La libertà guarentiva la repubblica elvetica e la teocrazia di Roma, sorrideva ai popoli; e rassicurava i re. Lamartine era repubblicano come gli eroi del Petrarca; come Petrarca, voleva l'Italia emancipata sotto il dominio del papa e dell'imperatore; e lo stesso Lamartine, comentando il proprio manifesto, diceva poi che non creava verun nuovo caso di guerra e che molti ne faceva sparire.
A malgrado di Lamartine e de' suoi colleghi nel governo, la rivoluzione si propaga. La vecchia Europa cade in dissoluzione. La Sicilia dichiara per sempre decaduto il Borbone; a Napoli la democrazia disdegna la costituzione concessa; a Roma Pio IX è costretto ad accordare uno statuto, e il granduca deve imitarlo. I principi di Parma e di Modena sono espulsi; Venezia proclama la repubblica; la Lombardia si solleva; il re di Sardegna è spinto sul campo di battaglia; la rivoluzione accende Vienna, Berlino, il Wurtemberg, Baden la Baviera, l'Assia-Darmstadt, l'Assia-Cassel, Nassau, la Sassonia, Oldenburgo, Mecklenburgo, Amburgo, Brema, Lubecca. La libertà formale rimansi impassibile; lascia fare la Germania, che vuol esser una, sotto l'impero; lascia fare l'Italia , che vuol essere una, sotto il papato; lascia fare i re, che ingannano i popoli; lascia ordire un'immensa cospirazione di banchieri, di diplomatici e di soldati, che stordiscono i popoli colla diversione della guerra, della nazionalità, dell'unità; perchè in nessun luogo il povero intenda l'imminente protesta del proletario di Francia. Quando la Costituente fu convocata, il dì 8 maggio, Lamartine monta alla tribuna, e descrive le ventidue rivoluzioni che hanno risposto all'iniziativa di febbraio; e dice alla democrazia: «Ecco in settantadue giorni il risultato della nostra politica». La reazione avrebbe trionfato da Berlino fino a Palermo, i re ed i principi avrebbero bombardate tutte le città dell'Europa; e Lamartine avrebbe potuto dire: noi abbiamo rassicurato il papa, l'imperatore, i re, i principi; abbiamo scoraggiati i popoli, dimenticati i Polacchi, i Lombardi, i Veneziani; noi abbiamo accettate le divisioni territoriali del 1815; or bene, in onta della catastrofe di febbraio, in settantadue giorni tutto è ristabilito nell'Europa intera.
La libertà formale era adottata in principiò dal governo provvisorio, lo fu dalla Costituente; e la Costituente vi rimase fedele fino agli ultimi momenti. Ad ogni spinta verso l'azione, rispondevasi: «Bisogna attendere in armi che l'Italia e la Germania ci chiamino, per assicurare in comune l'opera della loro emancipazione . Intanto si lusingava ogni errore, si proteggeva ogni intrigo, si vezzeggiava il tradimento. E in Italia era manifesto. «Gli amici dell'Italia si rassicurino», diceva il Petrarca francese; «se si levasse un grido di dolore, se le circostanze lo rendessero necessario, la Francia interverrebbe al suo modo e al suo tempo. L'Italia sarà libera ad ogni modo». Si prometteva di soccorrere l'Italia, quand'ella il volesse; ma il soccorso era sottoposto alle circostanze, e la Francia doveva accordarlo all'ora e tempo opportuni, d'accordo coi Tedeschi, d'accordo colla cristianità; promettevasi la libertà, ma promettevasi ad un tempo ai Tedeschi, ai Polacchi, agli Italiani, a tutti i popoli più opposti per principj, per interessi, per tendenza, per ambizioni, per tradizioni, promettevasi la libertà, ma si operava secondo la teoria dei fatti compiuti; il soccorso doveva giungere dopo la sconfitta, dopo la sciagura, quando l'oppresso non poteva più invocarlo, quando più non v'erano assemblee, nè rappresentanti, quando la libertà sarebbe divenuta cristiana, imperiale e papale. L'assurda promessa fu riassunta dal voto del 24 maggio, che poneva per principio: il patto fraterno con l'Alemagna, la libertà dell'Italia ed il ristauramento della Polonia». Il decreto dell'assemblea metteva innanzi una contraddizione in termini, una doppia, collisione premeditata tra l'Alemagna e la Polonia, tra l'Alemagna e l'Italia, affinchè tutti gli equivoci fossero apparecchiati al tradimento della libertà formale.
All'epoca della capitolazione di Milano si intende un grido di dolore: Cavaignac promette d'intervenire al suo modo, all'ora sua; promette una soluzione pacifica coll'Inghilterra, con tutte le potenze; e l'Alta Italia sarà libera se l'Austria liberamente il consente. Il papa fugge, sopraffatto dalla democrazia: la libertà vuol proteggerne la sua fuga, vuole ospitarlo in Francia, vuol liberare gli Stati romani dall'anarchia; vuol entrare in Roma, assediarvi tutti i repubblicani d'Italia. Si oppose al ministero l'articolo 8.° della costituzione, che proclama la libertà di tutti i popoli. Or bene, quest'articolo non fu violato; poteva avere solo il valore della costituzione; chi protestò fece salvo l'onore della democrazia francese, ma combatteva sulla terra tradita della libertà formale; la vittoria era impossibile di diritto e di fatto. Lasciamo il fatto, troppo noto, stiamo al diritto. La costituzione ha definita la libertà? ha proscritto il papato? ha condannato il cattolicismo? No; anzi ha assicurato la libertà ai cattolici, e quindi al mondo cattolico. Preso alla lettera, l'articolo 8.° della costituzione rende impossibile ogni azione della Francia all'estero. È possibile di rispettare dappertutto, e sempre, la libertà di tutti i popoli? è possibile di fraternizzare nello stesso tempo colla Germania e coll'Italia, colla Russia e colla Polonia? è possibile agire senza offendere, senza urtare alcun dogma? L'articolo 8.° non ha senso, come la parola classica del Petrarca; deve dunque essere interpretato. Da chi? Dalla costituzione. Qual'è il dogma della costituzione? Essa pone per primo principio il Dio di Robespierre, che, vago per sè, deve essere interpretato: la costituzione stipendia le tre religioni; dunque le tre religioni sono le tre interpretazioni legali di Dio; dunque ogni culto deve sostenere la parte sua, onde stabilire il dominio della rivelazione soprannaturale, ciascuno deve appuntellare il governo nella misura prefissa dalla statistica, dal numero de' suoi credenti; da ultimo, la statistica della Francia deve unirsi alla geografia politica dell'Europa per fissare alla maggioranza de' Francesi la parte da sostenere all'estero. Che diveniva la causa della libertà romana? Quella del mondo cattolico; era mestieri che la repubblica francese abbattesse la repubblica romana, poichè questa colle sue insurrezioni distruggeva il principio primo che tiene alienato nel nome di Cristo il mezzodì dell'Europa e la maggioranza del popolo francese. Quindi Odilon Barrot parlò di difendere la causa dei nostri nazionali a Roma, cioè il clero francese; parlò di sostenere la nostra influenza in Italia, l'influenza cattolica; Oudinot giunse da fratello sotto le mura di Roma, intendi da fratello cattolico; M. Lesseps negoziò per la libertà di Roma; intendi la libertà cattolica; e compita l'opera, i sofisti che l'avevano diretta cedettero la parola a Falloux, che spiegò la libertà del papato. Che la discussione sugli affari di Roma fosse piena d'ipocrisia e di cavilli, d'infamie e di pentimenti, non io certo il negherò; quanto negherò sempre si è, che la costituzione fosse violata; essa non lo fu, non poteva esserlo, voleva da sè la propria violazione; e questo dico perchè ciò insegna doversi uscire dal principio astratto della libertà, se non vogliamo essere traditi ad ogni passo, e avviluppati in mille frodi. La libertà ci ha fatto genti senza dogmi, senza regola, senza condotta; le nostre leggi sono insidie, le nostro discussioni sono sottigliezze bizantine, le nostre costituzioni proteggono i più forti, i re, i papi, i condottieri. Presso gli antichi, nel medio-evo, le leggi erano precise, emanavano da un principio, affermavano, negavano i dogmi; l'equivoco era impossibile, Finchè noi non avremo il coraggio di inscrivere nelle nostre costituzioni la nostra vera religione, cioè la scienza, i nostri nemici s'insinueranno sempre nel nostro campo colle armi loro, fornite dalla nostra viltà[7]



Capitolo IX

LA LIBERTA ECONOMICA.

L'astratta libertà che regna in questo momento protegge tutte le libertà, quella del ricco e quella dei povero; per cui l'antica iniquità si riproduce attraverso leggi che promettono giustizia. Or bene, lasciata da parte ogni discussione socialista, non esaminata se non l'economia politica, ci troveremo spinti al nuovo riparto dei beni dai principj stessi degli economisti. La necessità del riparto si mostra progressiva nelle tre teorie successive del lusso, del libero scambio e della libere concorrenza.
La teoria del lusso è la prima riabilitazione scientifica e pratica dell'industria e del commercio; essa nasce negli scritti mezzo politici, mezzo morali della scuola di Hobbes e di Mandeville, e dice alla società teologica e feudale: «Voi predicate l'evangelio; orbene, l'evangelio ci ruina, le sue virtù sono flagelli; se fossero praticate, il commercio e l'industria svanirebbero: voi ci accusate di essere -viziosi, vogliam esserlo; e guai se non lo fossimo; morremmo di fame. ci accusate di sciogliere la società, noi la vincoliamo alla terra e la togliamo al cielo con tutte le forze dei nostri istinti e dei nostri vizi». La teoria, a primo aspetto immorale, vuol la plebe attiva, gli confida la società, incoraggia il lavoro, e l'incoraggia con un vero assalto contro l'antico riparto de' beni. «Signori», dice, «spendete, siate viziosi, dissipate il vostro, ruinatevi, sarete altrettanti benefattori del genere umano». Poi sopravviene il sistema mercantile, e l'invettiva paradossale divien scienza: il sistema mercantile conclude: che convien proteggere l'industria e il commercio; conviene che lo Stato assicuri loro un vantaggio: e chi lo pagherà? Il ricco. Perlochè resta stabilito che il ricco sarà tenuto di preferire l'industria nazionale,di stipendiarla, di pagarle un tributo. Questo è il primo sistema sulla ricchezza e che cosa suppone? Che la proprietà debba cedere all'industria; che il ricco deve cedere al povero.
Giunge un secondo sistema, quello di Quesnay, del libero scambio; mi sia lecito riassumerlo in due parole. Quesnay dice: qual'è il risultato delle leggi proibitive, con cui avete protetta l'industria nazionale? Fu di assicurare al negozianti, ai fabbricanti un premio sui loro prodotti; colle leggi proibitive si costringe il ricco a comperare a doppio prezzo a Parigi una merce che potrebbe far venire da Londra a metà del prezzo; colle leggi proibitive si esagerano i prezzi per arricchire una sola classe della società. Qual'è il risultato dell'esagerazione dei prezzi? È la ruina del ricco, e quindi la ruina della stessa industria. Quesnay propone a dunque una gran transazione tra la proprietà e l'industria; e questa transazione costituisce la sua teoria, la quale necessariamente si divide in due parti, l'una relativa alla proprietà, l'altra all'industria.
La prima teoria di Quesnay considera la proprietà territoriale quale unica sorgente di tutte le ricchezze. Le merci, secondo Quesnay, non sono altro che prodotti agricoli manifatturati; senza terra non havvi prodotto, non manifattura, non lavoro, nè ricchezza alcuna. I proprietari soli sono i ricchi: padroni dei suolo e di tutte le produzioni, comandano il lavoro; il commercio, l'industria sono in balia dei proprietari: tolto il ricco, è tolto il compratore, le merci non hanno più valore, il commercio più non ha scopo. La società si fonda adunque sulla proprietà; solo il proprietario appartiene alla patria; il mercante non ha patria; chi non è proprietario è un salariato, un uomo per sè sterile. Questa è l'antica teoria: dà per conseguenza, che il sovrano non è tale se non perchè signore del suolo. Il contratto con cui ai acquista la proprietà è un atto sottoscritto dinanzi al sovrano, e per esso si diventa comproprietario, consovrano; si riceve una proprietà guarentita. L'ordine pubblico si fonda sul contratto sociale del sovrano e dei proprietario; è lo proprietà che deve governare; il governo dev'essere un despotismo legale. Quesnay, Mercier, De la Rivière, i fisiocratici, difendevano così l'antico regime, traducendo l'antica teoria in un nuovo linguaggio: la parola proprietario applicavasi egualmente al nobile, al borghese, a chi eredita la sua fortuna, a chi la guadagna, e chi cede il proprio fondo, a chi lo prende in affitto, al proprietario ozioso, all'affittaiuolo attivo.
Alla teoria della proprietà Quesnay aggiungevano un'altra dell'industria e del commercio. In sua sentenza, l'uomo che non è proprietario, sia artefice, sia commerciante, non deve ricevere alcuna protezione, e non deve pagare alcuna imposta. Non deve, ricevere protezione: nel fatto egli non è produttivo come il proprietario, egli è sterile; si limita a manifatturare, a scambiare i prodotti della terra; la sua industria, il suo cambio non sono altro che servigi resi al proprietario. Proteggete voi i suoi servigi? esagerate voi i suoi profitti? Esagerate lo stipendio che riceve dal proprietario, proteggete uomini senza patria, che non hanno radice nel suolo, che sono nemici di tutti i veri produttori (i proprietari), e che formano tra di essi una vera lega contro il genere umano. Ogni protezione accordata al commercio è dunque un'imposta stabilita in favore dei negozianti sulla proprietà, una ruina per il proprietario, una pubblica calamità, poichè inaridisce la sorgente della ricchezza, distrugge le ricchezze riproduttive, quelle del suolo. Dunque concludevasi: devono essere abolite le dogane, dev'essere libero il commercio; non si ha a temere che una nazione s'arricchisca a detrimento delle altre. Ogni compratore è venditore, ogni venditore è compratore; le merci si scambiano colle merci, e non si scambiano, in ultima analisi, se non i prodotti del suolo. In secondo luogo, i non proprietari non devono pagare alcuna imposta: e proponevasi l'abolizione di tutte le imposte indirette, le tasse, capitazioni, dazi, ecc.: ciò perchè erano pagate dal proprietario, che pagavale col salario; meglio dunque valeva che l'uomo sterile fosse lasciato a sè, libero, e che il proprietario pagasse direttamente il sovrano. L'imposta indiretta, secondo Quesnay, 1.° incarisce i salari, 2 ° ricade sulla proprietà, 3.° ricade sul sovrano, 4.° distrugge la ricchezza riproduttiva, e 5 ° ruina tutti. Bisogna adunque che ogni imposta sia diretta, che il governo sia pagato dei proprietari, che essi soli portino i pesi dello Stato.
La teoria di Quesnay è una vera reazione incendiaria; mentre combatte con disprezzo la teoria dei lusso e delle protezioni, l'oltrepassa in ogni punto a favore del proletario. Accorda libertà piena, intera, assoluta al commercio ed all'industria; scioglie l'uno e l'altra da ogni vincolo, da ogni imposta, da ogni tassa. Quesnay suppone, per la prima volta, che l'istinto, il quale provoca lo scambio e sostituisce un valore all'altro, è il migliore dei giudici; suppone che bisogna assecondare l'interesse di tutti, che non devesi combatterlo, nè governarlo. L'interesse consiglia al mercante i migliori spacci, ai consumatori le migliori compre; l'interesse, sviluppando le rivalità tra i mercanti. fa abbassare i prezzi a profitto di tutti. Dunque è la natura stessa che deve dirigerci; la saggezza del legislatore consiste nel far niente, quella del governo consiste nel non governare. Prima di Quesnay non erasi mai confidato tanto negli istinti della vita. E la confidenza trascendeva i limiti dello Stato; mentre Quesnay disdegnosamente accusa i commercianti di esser collegati contro il genere umano, li mostra collegati, mostra nell'industria e nel commercio l'umanità crescente e in opposizione con tutti gli Stati; la mostra più sicura della patria, perchè non ha bisogno di leggi, nè di governi; sa svilupparsi ed ordinarsi; e raggiunge liberissima l'intento suo, lasciando la patria al despotismo legale. La teoria del libero scambio è rivoluzionaria per la tendenza; ma vuol fermare la rivoluzione, vuol salvare l'antico riparto messo in causa dall'industria: quindi Quesnay lo rassicura affidandogli il governo, subordinando ogni libertà al Dio Termine delle proprietà. I proprietari sono veramente protetti da Quesnay? Sono degradati; regnano, ma subiscono la legge della giustizia; regnano perchè ricchi, ma sostengono soli tutti i pesi dello Stato; regnano, ma senza comandare a verun commerciante, a verun lavorante; regnano, ma ogni arricchito può divenir proprietario, e li titolo della proprietà è solo titolo di nobiltà. Non basta; l'antico riparto è messo in dubbio dalla teoria nell'atto stesso che vien difeso. I fisiocratici difendono i proprietari con tutte le ragioni che nobilitano l'agricoltore. Essi vogliono ignorare che il proprietario è il gran signore, il nobile, il cortigiano, l'ozioso; essi vogliono ignorare che il tipo dei proprietario è l'uomo che non ha mai visti i suoi campi, e che ne trae una rendita senza lavoro, senza cure, senza spese, senza vigilanza; essi affettano d'ignorare che chiamasi pessima proprietà quella che reclama cure assidue, una rigida vigilanza, la presenza del proprietario. Essi vedono solo l'agricoltore, non l'affittaiuolo, non il paesano, non l'operaio della campagna oppressi dal proprietario, e tanto più infelici, quanto più il proprietario è felice. Quesnay e i suoi discepoli si creano un proprietario astratto, un Cincinnato imaginario, un essere di regione che abbraccia le due classi ostili de' proprietari e degli agricoltori; e, grazie all'equivoco, giustificano l'antico regime colle proprietà, e la proprietà colle ragioni che difendono l'artefice.
Non si può rimanere nell'equivoco; ed ecco Adamo Smith che si toglie alle contraddizioni di Quesnay. Smith trascura la reazione, e sviluppa la rivoluzione fisiocratica: in sua sentenza non è la proprietà che crea la ricchezza, è il lavoro: solo il lavoro è principio d'ogni ricchezza, solo è produttivo; tolto il lavoro dell'agricoltura, del commercio, dell'industria, i campi, le merci non hanno più valore alcuno. Quindi la classe produttiva è quella che lavora, la classe sterile, inutile, improduttiva è quella che non lavora, che vive oziando. Qui il proprietario astratto di Quesnay è detronizzato: Quesnay aveva stabilito che si deve lasciar libero il commercio; Smith trae la libertà alle sue ultime conseguenze. Quesnay aveva dimostro che il commerciante non ha patria, è cosmopolita; Smith è cosmopolita, non riconosce alcun monopolio nazionale nè internazionale, sopprime le colonie; Quesnay aveva fatto l'interesse unico giudice, la natura libera unica guida del moto industriale e commerciale; Smith generalizza il dettato in modo, che il mondo cade in balia dell'artefice, del commerciante, del lavorante, e il proprietario stesso rimane degradato e ridotto allo stato di ostacolo, di parassita. Ma la ragione vuole che il moto tocchi al riparto: il lavorante di Smith è un essere astratto, come il proprietario di Quesnay; la libera concorrenza del lavoro è equivoca, teorica come la libera concorrenza dello scambio. Credete che il lavoro sia creatore? credete che il lavoro debba essere libero? credete alla potenza suprema della rivalità? all'intenzione ultima della natura, la quale, dando libera cariera all'istinto, giunge al meglio in ogni lavoro fisico, intellettuale e morale? Pensate che la libertà animi il lavoro, che confidi ogni funzione all'istinto che la cerca, le invenzioni a chi sa utilizzarle? Bisogna dunque che il lavoro sia libero veramente, che la concorrenza sia reale, naturale, che si sviluppi sulla base dell'eguaglianza. L'uomo deva rivalizzare coll'uomo. Che accade nella società attuale? Gli uni nascono ricchi, gli altri poveri; gli uni vivono nell'opulenza, gli altri nella miseria: ai primi i capitali, le macchine, le fabbriche, la terra, l'educazione, l'istruzione; ai secondi il lavoro senza capitale, senza istruzione, senza macchine, senza istrumenti. Dunque il lavoro dei primi è libero, quello dei secondi è sottoposto alla necessità, in balìa dell'impresario, del capitalista, del funzionario. Dunque la libertà di Adamo Smith è equivoca: sviluppandosi sulla base dell'eguaglianza, sulla premessa della legge agraria, attua la giustizia, e confida ogni funzione all'uomo che vi è predestinato dalla natura; sviluppandosi sulla base dell'ineguaglianza, essa profitta solo ai ricchi, ai capitalisti, ai proprietari. Il lavorante di Smith è un essere equivoco, come il proprietario di Quesnay: qual'è la conseguenza? La libertà di Smith protegge egualmente il forte e il debole, il padrone e il servo; è la libertà equivoca del borghese, corrisponde alla libertà astratta dei culti, si collega colla religione astratta, è la pratica della servitù, è un equivoco che invoca una soluzione colla forza della miseria crescente. Adunque la necessità del nuovo riparto sorge dall'intimo dell'economia politica, è imperiosa come la ragione e la vita dell'uomo, e impone alla comunanza dello Stato la missione di eguagliare le fortune.
Concludiamo. Interrogata sotto ogni aspetto, la filosofia conduce a due inevitabili conseguenze, il regno della scienza, il regno dell'eguaglianza. Questo era l'intento dei primi filosofi, questo è l'intento della rivoluzione. I primi filosofi furono i precursori della rivoluzione: ma traditi dalla metafisica, sentivansi solitari, impotenti, inviluppati da ostacoli infiniti; e invocando i demoni, le favole, un artificio estrinseco, un felice inganno, cadevano sotto il felicissimo inganno della chiesa; Socrate non poteva regnare se non sotto la protezione di Cristo. La rivoluzione liberò Socrate prigione della teologia, ne divulgò la parola, la trasmise a tutti gli uomini, e vuol costituire l'umanità sulla terra colla forza della scienza e con quella del diritto. Da mezzo secolo la metafisica tende un'ultima insidia alla rivoluzione: essa trasporta il problema della scienza nelle antinomie dell'essere, e il problema dell'eguaglianza nelle antinomie del diritto. Ne consegue, che abbiamo il regno della scienza fatta astrazione dalla verità, il regno della libertà fatta astrazione dai dogmi, il regno dell'eguaglianza fatta astrazione dal riparto, il regno dell'industria fatta astrazione dal capitale: e s'incoraggiano le nazionalità senza badare all'umanità; si pensava perfino a fondare un impero meno l'impero, un papato meno il papato, quasi fosse proposito deliberato di predicare la rivoluzione meno la rivoluzione, mantenendoci in eterno nel regno dell'impossibile. I miseri cavilli della metafisica sarebbero morti nel vuoto delle scuole, se leggi equivoche a disegno non li avessero tratti in piazza per stabilire una tregua tra la rivoluzione e la controrivoluzione. Ma la tregua non regge; ad ogni momento vediamo avvicinarsi il giorno della guerra. Gli uomini di poca fede si ricordino che l'impostura aperta non ha mai regnato, e noi viviamo sotto l'impostura del borghese, che governa le religioni: si ricordino che la confidenza negli eventi imprevisti non è cieca, è la fede stessa nel vero, il quale, tradito in ogni punto da una società che si fonda sul falso, promette una ruina imminente, un vicino trionfo; si ricordino che non vi fu mai progresso che non toccasse alla proprietà e alla religione, e che non fosse progresso dell'eguaglianza e della scienza; si ricordino che il dato di Voltaire, di Rousseau, di Weisshaupt ferve in ogni cuore, e, tolto il velo del formalismo, già dall'89 al 93 quattro soli anni bastavano per trascorrere dall'equivoco della libertà al regno della scienza e dell'eguaglianza . Quanto a noi, visto nella critica l'arme che pon fine alla metafisica, visto nella critica decretata a priori la catastrofe di ogni formalismo, visto che la critica ci spinge sul campo della rivelazione naturale. ci rinchiude nel fatto, ci lega alla terra e ci vieta di uscirne; noi abbiamo sentito compiersi d'un tratto nella nostra mente la filosofia della rivoluzione, e da quel punto il dissimulare ci parve tradimento.



[1] La logica impedisce al pensiero di nascere, di morire, di cominciare, di cambiare; essa gli impone di durare eterno e inalterabile.
Il pensiero non può cominciare: donde verrebbe? Da ciò che non è il pensiero, dal nulla, dall'assurdo. Il pensiero non può finire; e come lo potrebbe? Cesserebbe d'essere uguale, identico con sè stesso, e cadrebbe per assurdo nel nulla. Ne consegue, che voi avete pensato prima di nascere, che voi pensate vivendo, e che dopo la morte penserete ancora. Si risponderà:
- Egli è certo che il nostro pensiero comincia coll'esperienza; evidentemente sospeso col sonno, cesserà colla morte.
- Ne siete ben sicuri? Durante il sonno non sognate voi dimenticando poi nel risvegliarvi i vostri sogni? Quando vi addormentate, non vi ha forse una transizione in cui pensate e di cui perdete la memoria? La vostra memoria può non seguire il pensiero; essa non lo segue nei sogni, non nel momento dell'addormentarsi, non nella leggerezza del vaneggiare, non quando il pensiero scorre a caso attraverso l'imaginazione. Dunque la testimonianza della memoria non basta a stabilire che il pensiero comincia e che finisce; dunque potete accordare alla logica che il pensiero è eterno; voi non avete prova alcuna contro la logica, ed essa produce contro di voi l'identità, l'equazione, il sillogismo.
- Un pensiero dimenticato è inutile.
- Lo so, e che importa? non si tratta di sapere se i pensieri coperti dall'oblio siano utili, si tratta di sapere se si pensa sempre sì o no.
- Ma se il pensiero precede la vita, se resta dopo la morte, sarà falso che esso venga suscitato dall'esperienza, e dovremo rivocare in dubbio tutte le verità più elementari.
- Ebbene, sia; diremo falso che il pensiero venga suscitato dall'esperienza, falso che corrisponda alle cose; metteremo in dubbio le verità le più elementari. Secondo la logica, il pensiero è eterno o impossibile; libero a voi d'accordargli l'eternità o di negarlo intieramente. Scegliete. –
Queste sono le ragioni con cui Leibniz dimostrava a Locke che noi pensiamo sempre; e Locke, sorpreso dalle transizioni dell'uomo che s'addormenta, dell'uomo che sogna, dell'uomo che vaneggia senza ricordarsi de' suoi pensieri, finiva per rispondere: Può darsi che l'uomo pensi sempre. Può darsi! dunque voi siete vinto? dunque il fatto che non si pensa se non vivendo è dubbio? dunque l'evidenza non è più che una possibilità. Ora tale possibilità deve cedere alla possibilità opposta, essendo, in forza della logica, non solo possibile, ma necessario che si pensi sempre: se mancasse la continuità il pensiero cadrebbe nel nulla, sarebbe continuamente impossibile. Non basta; la logica vuole che si pensi sempre lo stesso pensiero; Leibniz si fermava a mezza via, non reclamava che la continuità del pensare; io domando l'eternità di ogni pensiero, l'immobilità dell'intelligenza in ogni dato concetto. I miei pensieri non possono variare, se non succedendosi, distruggendosi a vicenda: io non posso pensare ad Apollo, poi a Minerva, poi a Giove, senza sostituire successivamente l'una all'altra le mie idee; nella tessa guisa che nella natura gli esseri cambiano, trasformandosi successivamente in cose diverse. Leibnitz, che confessava essere contraddittoria l'alterazione nelle cose, doveva pur confessare esser contraddittorio il cominciare, il finire di ogni pensiero; Leibnitz che voleva il pensare eterno nella monade, perchè non cominciasse per assurdo, venendo da ciò che non è il pensiero, doveva volere eterno ogni pensiero, perchè non cominciasse per assurdo, vedendo da ciò che non è lo stesso pensiero.
[2] Vedi Essai sur le principe et les limites de la philosophie de l'histoire. - Paris, 1843.
[3] Essai sur le principe et les limites de la philosophie de l'histoire, p. 207 § 1.° - L'histoire ideal au point de vue desi intèrèts.
[4] Vedi Machiavel juge des rèvolutions de notre temps, par Joseph Ferrari, Paris, 1849.
[5] Vedi De religiosis Campanella opinionibus: Auctore JOSEPH FERRARI - Paris, 1840.
[6] Rinvio il lettore al mio lavoro: Les philosophes salariés. - Parigi, presso Sandré, 1842
[7] Vedi la mia Federazione Repubblicana. - Londra 1851.