Biblioteca Multimediale Marxista
a cura di
Alessandro Cortese de Bosis
A Lillian Vernon de Bosis
madre di due caduti per l'Italia
e la libertà.
Avvertenza
Ringrazio Furio Colombo, che presenta a Roma il libro di Lauro
de Bosis. Furio ha scritto recentemente pagine indimenticabili nel volume "Fascismo
e Antifascismo".
Insegnare ai giovani che cosa sia stato in Italia il fascismo, vecchio e nuovo,
è dovere dell'uomo di cultura, specie oggi, ricordando la guerra di liberazione
dal nazifascismo di cinquanta anni fa: liberazione che significa anche lotta
ad ogni forma di liberticidio, comunista e non.
Il compito di chi scrive si limita a collegare l'introduzione, alcune note esplicative,
le testimonianze e i commenti di Salvemini, Spadolini, Rogari, che precedono
e accompagnano il testo di "Storia della mia morte": scritto nel 1931,
dal pilota dell'aereo che, dopo il volo antifascista su Roma, non è più
rientrato alla base.
A. C. d. B.
Introduzione
di
Alessandro Cortese de Bosis
Mezzo secolo fa si concludeva il capitolo della Resistenza
contro il nazifascismo.
Rievocazioni storiche del 50º Anniversario si svolgono in tutto il Paese,
collegate idealmente al ricordo della Resistenza al regime fascista, fin dagli
anni venti, con il sacrificio di tanti, e fra i più grandi, Gobetti,
Amendola, Matteotti, i fratelli Rosselli; il rifiuto, l'esilio e la prigionia
di Turati, Saragat, Pertini; il movimento "Giustizia e Libertà".
Impossibile citare tutti gli individui, isolati spesso, o associati in gruppi
segreti: come l' "Alleanza Nazionale della Libertà", creata
da Lauro de Bosis. Tutti protagonisti di quello che fu giustamente definito
il Secondo Risorgimento.
L'Alleanza, nata ai primi del 1930, si proponeva di sensibilizzare l'opinione
pubblica moderata con l'invio di lettere circolari sui guasti prodotti dal regime
con la soppressione delle libertà statutarie, con il bavaglio posto alla
stampa, con il "delitto Matteotti" e con il progressivo insorgere
di una dittatura veramente totalitaria, la prima del genere in Europa, dopo
le leggi "fascistissime" del '25-'29.
L'Alleanza Nazionale ebbe una vita breve, non già improduttiva.
Colleghi e amici di Lauro, nel sodalizio, vennero arrestati e processati nel
dicembre 1930 dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, composto da
alti gerarchi fascisti. Fra gli imputati, di cospirazione, vi era anche la madre
di Lauro, Lillian Vernon de Bosis.
In quell'epoca Lauro era in America e perciò fu l'unico a non essere
processato.
Fallita l'Alleanza, Lauro decise di sfidare il regime con un gesto spettacolare,
diretto a dimostrare la permanente validità della Resistenza liberale
contro il fascismo.
E fu il volo su Roma, durante il quale egli disseminò 400.000 manifestini
contenenti un monito e un appello al Re e al popolo italiano.
Dal suo volo del 3 Ottobre 1931, Lauro non fece più ritorno.
Storia di un anno, dunque, o poco più. Ma la risonanza che ebbe il volo
è testimoniata dal rilievo che la stampa mondiale seppe dare all'episodio
e alla diffusione di Storia della mia morte,il testamento spirituale che egli
scrisse alla vigilia del decollo da Marsiglia.
L'idea di rievocare Lauro e la sua "Storia", oggi, nell'ambito delle
celebrazioni della Resistenza, ha trovato il più autorevole sostegno
nell'iniziativa del compianto Giovanni Spadolini che ha dedicato a Lauro alcune
mirabili pagine de "Il Mondo frantumato". Il Presidente del Senato
scriveva: "...noi proponiamo a qualche editore animoso e intraprendente
di ristampare un piccolo e prezioso libro... uscito a Torino presso una testata
editoriale ormai avvolta nel mito, Francesco De Silva... e che comprendeva nella
sua breve e gloriosa storia Se questo è un uomo di Primo Levi e l'Antologia
della rivoluzione liberale, curata dal nostro vecchio e indimenticabile amico
e collega Nino Valeri.
"Storia della mia morte", un'operetta scritta quasi in una notte da
un poeta e studioso, che si chiamava Lauro de Bosis, già autore predestinato
di Icaro, che aveva deciso di ripetere sulla Roma di Mussolini il gesto di Bassanesi
su Milano. Proprio nel pieno degli 'anni del consenso' per dirla con De Felice."
"De Bosis. Un personaggio unico e inconfondibile. Di padre italiano (e
quale padre!) e di madre americana1. Professore a New York: cultore profondo
e appassionato della storia della civiltà italiana, largamente permeato
di dannunzianesimo (Valiani, che se ne intende e che è di Fiume, ama
dire che D'Annunzio ha influenzato egualmente fascismo e antifascismo). Arrivato
tardi alla lotta contro il regime e non senza qualche sgradevole equivoco coi
compagni di esilio (eccetto Salvemini che lo capì subito e lo protesse
sempre). Fondatore nel '30, insieme con Mario Vinciguerra (un altro personaggio
che meriterebbe una "Vita") dell'Alleanza Nazionale, una specie di
riduzione dell' "Unione democratica" amendoliana in chiave monarchica,
anzi in chiave di collaborazione tra forze liberali cattoliche e moderate, al
fine di premere su Monarchia e Chiesa per la rottura col fascismo (non importa
se due anni dopo il Concordato). Scriveva de Bosis nella "circolare n.1"
dell'Alleanza nazionale (1 luglio 1930):
..."Eppure bisogna agire: per essere in pace colla propria coscienza, per
salvare l'Italia da mali peggiori, bisogna fare. Il regime non poggia che sulla
inerzia degli italiani. Guai a lasciare ai sovversivi il monopolio della lotta
contro il fascismo! Non solo si rischia che al momento della inevitabile crisi
non vi siano di pronti che loro, ma si finisce col lasciar identificare nell'opinione
pubblica antifascismo con comunismo, col risultato che chiunque ha interessi
da difendere preferirà in ultima analisi rassegnarsi al fascismo".
"Una specie di 25 Luglio ante litteram. Sanzionato dal volo che porterà
il poeta angelico sulla capitale, da un'altezza di duemila metri a poco più
di trecento metri, con un aereo disseminante 400.000 manifestini proprio nella
zona di Palazzo Venezia e di Palazzo Chigi. Un errore nel rifornimento della
benzina, condurrà a morte il pilota e il suo apparecchio nel rientro
in terra di Francia. 'Il martirio' - diceva Mazzini - 'non è mai sterile'".
È opportuno soffermarsi su queste parole che confermano in sintesi l'analisi
già elaborata dall'illustre storico nel 1981 durante il Convegno di studio
su Lauro de Bosis nel 50° anniversario del volo e sul quale più ampiamente
ritorneremo: analisi che restituisce al gesto di Lauro de Bosis il suo pieno
significato storico-politico di collegamento ideale tra il movimento di resistenza
amendoliano e la nascita, tredici anni dopo, del movimento di Liberazione Nazionale.
La relazione di Spadolini, e lo studio di Sandro Rogari, letti al Convegno,
segnano perciò una svolta importante nella storiografia dell'antifascismo
e dell'Alleanza Nazionale.
Spadolini ha avuto il merito di collocare la Storia della mia morte e l'Alleanza
Nazionale nella concatenazione storica dei movimenti di Resistenza degli anni
trenta.
Vi sono dunque due tempi o due fasi storiografiche sull'opera di Lauro de Bosis.
Dagli anni trenta al 1981 prevale la fase dell'elogio all'episodio isolato di
un solitario romantico-liberale senza conseguenze politiche di rilievo; dal
1981, grazie allo storico Spadolini, il volo diventa uno dei capitoli nella
storia di una lunga, tenace resistenza che, nonostante le sue disfatte, non
ebbe soluzione di continuità; e in cui il monito di Lauro insieme al
"non mollare" di Giustizia e Libertà, al rifiuto dei pochi
ma valorosi cattedratici di sottomettersi al regime e all'opera degli esuli,
politici e uomini di cultura, costituì un punto di riferimento costante
nel mondo occidentale e una ragione di speranza per gli oppositori del fascismo
- pochi o molti - in Italia e fuori dai nostri confini.
Nelle pagine che seguono cercheremo di integrare, con dati finora inediti, i
commenti di Gaetano Salvemini, Giovanni Spadolini, Sergio Fenoaltea, Mario Vinciguerra,
Sandro Rogari sull'impresa di Lauro de Bosis.
Il volo su Roma
di A. C. d. B.
Lauro de Bosis concepì e decise il volo su Roma e il
lancio dei messaggi al Re e al popolo italiano come l'adempimento di un preciso
dovere morale e politico. Dovere morale, perché egli solo era rimasto
libero dopo l'arresto e la condanna dei suoi compagni d'azione. Solidarietà
dunque con Vinciguerra e Rendi condannati a quindici anni di carcere, solo per
aver proposto il ripristino delle libertà statutarie, soppresse dalle
cosiddette "leggi fascistissime" che avevano demolito lo Stato liberale
nato dal Risorgimento. Dovere politico, perché occorreva dimostrare al
regime che la lotta continuava nonostante la cattura di membri dell'Alleanza
Nazionale; e rassicurare anche gli altri gruppi di oppositori, come 'Giustizia
e Libertà' e più in generale gli antifascisti in esilio e in patria.
Soprattutto occorreva che la grande stampa liberale europea, la quale aveva
registrato non senza amarezza la condanna di Vinciguerra e Rendi, nel Dicembre
1930, riprendesse e rilanciasse l'eroico gesto di sfida che Lauro aveva in animo
di compiere.
Lauro aveva appreso la notizia della condanna dei suoi colleghi il 1 Dicembre
1930, quando era ancora in navigazione dall'America verso Southampton, per rientrare
poi in Italia. La sua decisione fu immediata. Bisognava continuare la lotta.
L'accusa della propaganda fascista che lo dipinse come un disertore, indifferente
al destino dei suoi compagni di lotta, esigeva una risposta. Come ricorda Salvemini,
egli decise dunque di regolare il suo conto personale con il regime, con o senza
l'appoggio dei fuorusciti antifascisti.
Il volo di Bassanesi su Milano fu certo un importante precedente di cui Lauro
tenne conto nel progettare il volo su Roma. Vari scrittori hanno accennato anche
ad un altro episodio più remoto che può averlo ispirato: il volo
di D'Annunzio su Vienna, dodici anni prima, nel 1918, e il lancio di manifestini
sulla capitale austriaca.
Ancora più struggente per Lauro il ricordo di un altro de Bosis aviatore:
suo fratello Valente, che era stato decorato di medaglia d'argento con i Granatieri
di Sardegna, in prima linea nel 1917, e che era poi passato all'aeronautica.
Comandante di una squadriglia di idrovolanti antisommergibili a Palermo, Valente
de Bosis, dopo numerose azioni di guerra, era precipitato nello specchio d'acqua
della città siciliana. "Il tempo non lenirà il dolore"
avevano scritto i suoi ufficiali sui resti dell'aereo, reliquie poi inviate
a Roma, alla madre di Valente e di Lauro.
Sì, un gesto ardito si imponeva per Lauro: scriverà poi in Storia
della mia morte: "Varrò più da morto che da vivo".
La determinazione di Lauro ad attuare la sua beffa aerea si rivela anche nel
suo rifiuto di tener conto dei consigli di esperti da lui consultati e che gli
dettero un giudizio negativo sulle possibilità di riuscita dell'impresa.
Egli aveva pensato ad una rotta aerea Francia-Roma-Corsica come progetto più
valido. E nel Novembre 1930 egli si consultò circa la fattibilità
del volo non solo con lo stesso Bassanesi, ma anche con un pilota americano,
Eric Wilmer Wood, che Lauro aveva conosciuto negli Stati Uniti. La prudente
risposta di Wood lo metteva in guardia dall'affrontare il rischio dell'impresa.
Secondo Wood, il pilota dell'aereo (naturalmente l'amico non pensava che Lauro
lo avrebbe pilotato personalmente, data la sua inesperienza), il pilota - dicevamo
- avrebbe dovuto avere almeno 600-800 ore di volo a suo credito (Lauro ne avrà
solo sette al momento del decollo), e non meno di duecento ore nell'anno precedente;
e per quanto concerne il volo notturno si sarebbe dovuto trattare di uno dei
migliori piloti europei, con lunga esperienza di volo strumentale. Wood consigliava
anche - ben conoscendo l'obiettivo politico del gesto - di prendere il volo
durante una giornata caratterizzata da annuvolamenti cumuliformi per poter scomparire
e nascondersi dagli eventuali aerei da caccia. E Wood terminava consigliando
di usare un aereo "anfibio" Lockheed-Vega oppure un Boeing da cinquecento
cavalli.
Ma quegli aerei erano troppo dispendiosi per un esule isolato come Lauro che
dovette perciò ripiegare su un tipo di apparecchio di seconda mano, che
costava più o meno quanto il velivolo di Bassanesi: 45.000 franchi francesi.
E volle ignorare del tutto il parere negativo (e saggio) dell'amico pilota;
come pure i consigli della sua guida spirituale, Gaetano Salvemini. Lo storico
pugliese era contrario al progetto: per l'altissimo rischio dell'impresa, data
l'inesperienza di Lauro come aviatore, rischio di vedere un altro esponente
della lotta clandestina cadere in un'impresa presumibilmente sterile di risultati
politici. Era la stessa posizione di "Giustizia e Libertà":
e sta qui una delle principali differenze - pur tra varie analogie - fra il
volo di Bassanesi e quello di Lauro. Il volo su Milano non fu il progetto di
un individuo isolato: i migliori nomi dell'antifascismo in esilio, da Rosselli
a Tarchiani, lo assistettero nella redazione dei manifestini, ben diversi come
contenuto, dall'appello al Re e ai cittadini lanciati nel cielo di Roma. "Giustizia
e Libertà" non considerava affatto valido, anzi del tutto inattuale
il programma dell' "Alleanza Nazionale" con il suo proposito di radunare
intorno alla monarchia gli elementi liberali e conservatori. (E tuttavia si
leggono con commozione le pagine che la stampa clandestina di "GL",
dedicò a Lauro dopo la sua scomparsa).
De Bosis proseguì dunque da solo il suo proposito. Prese lezioni di volo
in Inghilterra. Con l'aiuto di pochi amici riuscì ad acquistare un piccolo
velivolo. Concordò con un pilota inglese il trasferimento dell'aereo
in Francia; la rotta più breve e più sicura, egli calcolava, sarebbe
stata quella da Cannes alla Corsica, e poi da là su Roma.
Impressionato, come si è detto, dal successo di Bassanesi, Lauro riuscì
a mettersi in contatto con un collaboratore del pilota lombardo, Gioacchino
Dolci, che aveva preso parte al volo su Milano. In precedenza il giovane Dolci
aveva altresì collaborato all'organizzazione della fuga da Lipari di
Rosselli, Lussu e Fausto Nitti. Lauro si recò poi a ispezionare i luoghi
più opportuni per il decollo. In Corsica visitò un'area pianeggiante
sulla costa orientale presso la "Ghisonaccia"2. Decise anzi che l'aviatore
inglese avrebbe trasferito lui stesso l'aereo (un De Havilland Moth di otto
cavalli, ben diverso, dunque, dal Lockheed di cinquecento cavalli che gli era
stato suggerito dall'amico Wood) da Cannes alla Corsica. Lauro lo avrebbe preso
in consegna alla Ghisonaccia. I manifestini dovevano essere stampati in una
tipografia di fiducia a cura di un altro grande protagonista dell'antifascismo
in esilio, con cui Lauro era da tempo in contatto: Don Sturzo.
L'appuntamento col pilota inglese è dunque fissato per l'11 Luglio 1931
al campo della Ghisonaccia. Lauro attende ansiosamente l'aereo e il suo carico
di manifestini.
Ma il pilota sbaglia la manovra d'atterraggio, un'ala tocca il terreno, il velivolo
si spezza. E, quel che è peggio, si perdono molti manifestini, che verranno
poi sequestrati dalla polizia francese. Tutto da ricominciare. Scriverà
poi Salvemini in Memorie di un fuoriuscito. "Occorreva una forza di volontà
sovrumana per ricominciare da capo. Lauro ricominciò". (Chi scrive
ricorda ancora, incredibilmente, quel giorno di Luglio 1931. Bambino di cinque
anni, giocava sul terrazzo di Piazza di Spagna, dove abitava la famiglia de
Bosis. Un terrazzo con vista su tutta Roma, pieno di fiori, "un'isola felice".
Egli ricorda una sola frase della madre di Lauro: la nonna materna dello scrivente.
Le era giunto un telegramma, lo lesse, disse soltanto: "È in Corsica".
Che cosa voleva dire la parola "Corsica", evidentemente mai sentita
da quel bambino? E come tanti incisivi eventi, quella frase si impresse indelebile
nella memoria infantile: forse riallacciandosi al ricordo di uomini sconosciuti,
col cappello in testa anche dentro la nostra casa, che erano venuti una certa
notte di un anno prima, per arrestare i famigliari di Lauro).
Luglio-Ottobre 1931. Pochi mesi di febbrile attività per riorganizzare
il volo su Roma. Fra le decisioni da prendere vi è la scelta del periodo
ottimale per la trasvolata notturna. Ma Lauro pensò perfino ad un'impresa
duplice e simultanea: un altro volo di Bassanesi al Nord congiunto col volo
su Roma. E lo scrisse in segreto ad un amico liberale, l'avvocato Ferrari, uno
dei pochissimi oltre Salvemini, Sforza, Ferlosio, Don Sturzo, con cui egli era
in contatto: "...Capisco che questo (il duplice volo) complicherebbe le
cose, ma si potrebbe all'ultimo momento fissare una data; se uno dei suonatori
all'ultimo istante vede che non può, pazienza. Per la vigilanza, ormai
sanno perfettamente quali erano le mie intenzioni3 su luogo, ora, percorso;
sicché io credo che più vigilanza di così sia impossibile.
La cosa non mi preoccupa; ma credo che se anche avvenisse un altro concerto
a nord prima del mio non pregiudicherebbe le cose a mio riguardo più
di quanto lo siano ora. Vede: mi tocca farlo quando non c'è luna, dalle
20 alle 21. Sicché o verso il 15 Agosto, il ché mi pare un po'
presto, o fra il 3 e il 15 Settembre".
Giorni dopo questa lettera, Lauro s'incontrò con Bassanesi, in Svizzera
o in Francia, e Bassanesi gli prospettò le grandi difficoltà che
Lauro avrebbe incontrato per un volo tanto più lungo e difficile del
percorso effettuato da Bassanesi stesso, dal Canton Ticino a Milano. Ma cercare
di rimuovere Lauro, accumulando difficoltà su difficoltà, era
tempo perso. "Non discutete il problema. Le difficoltà parleranno
da sole", così Churchill ammonì i suoi collaboratori prima
dello sbarco in Normandia (come avrebbe sorriso, Lauro, con il suo sense of
humour, di fronte a certi paragoni storici...).
Sulla preparazione, e soprattutto sulla ricerca del secondo apparecchio, occorre
lasciare la parola a Franco Fucci, che nel suo libro narra con precisione di
giornalista e di storico i particolari della vicenda. "...In Agosto e Settembre
egli percorre in su e in giù la Germania; mantiene una fitta corrispondenza
con i suoi amici, che impazziscono per inseguirlo con la posta nei suoi fulminei
e continui spostamenti. È, di volta in volta, a Monaco, Friburgo, Lindau,
a Garmisch, a Sciaffusa poi di nuovo a Monaco che è la sua base principale.
Il 4 Agosto scrive a La Piana (professore ad Harvard): "...In Italia hanno
capito subito che il pilota ero io4 dallo stile dei foglietti, perché
tra questi esuli non ce n'è neppure uno che sia in speaking terms col
Re. Salvemini se non altro approva [ma con quali critiche negative e inquietudini
diffuse, l'abbiamo detto], ma gli altri preferirebbero vedere il fascismo continuare
per cinquant'anni piuttosto che di vederlo finire con l'aiuto del Re...".
"Verso la metà di Agosto - è sempre Fucci che scrive - "Lauro
ha un contrattempo: un ritardo nella consegna dell'aereo, ormai acquistato a
Monaco, un Klemm con nominativo D-1783. Il velivolo è di un modello che,
per strana combinazione, la casa costruttrice ha battezzato "Pegasus";
proprio il nome che Lauro aveva scelto per l'aeroplano - qualunque esso sia
- con cui compirà il volo su Roma. Il ritardo gli fa perdere l'ultima
sera di Agosto senza luna...".
Per varie circostanze la stampa dei volantini venne effettuata vicino a Ginevra
e Lauro stesso li recò con sé a Marsiglia da dove - dopo i vari
mutamenti di programma e soprattutto dopo l'incidente sul campo della Ghisonaccia
- Lauro aveva deciso di decollare, non appena possibile, verso Roma.
L'aereo "Pegaso" gli venne effettivamente consegnato all'aeroporto
di Marignane (Marsiglia) la mattina del 3 Ottobre 1931 dai due aviatori tedeschi,
ex piloti di guerra, Hans Böhning e Max Rainer, dai quali lo aveva acquistato
all'aeroclub di Monaco per la somma di 45.000 franchi (anche questo secondo
apparecchio, superfluo dirlo, era "di occasione", ma in condizioni
soddisfacenti).
La notte dal 2 al 3 Ottobre, all'Hotel Terminus di Marsiglia, Lauro scrive Storia
della mia morte. Il manoscritto, che egli invierà all'amico Francesco
Ferrari a Bruxelles era destinato ad essere pubblicato, in caso di scomparsa
dell'autore, dal giornale liberale belga "Le Soir", secondo accordi
presi con il redattore capo della testata, Auguste d'Arsac, che aveva entusiasticamente
aderito alla iniziativa anticipando una parte della somma. Il liberalismo europeo
non conosceva confini: la "buona battaglia" di Lauro era condivisa
da questo autentico liberale belga. I due aviatori tedeschi avevano ricevuto
l'ordinazione del velivolo da Lauro, che nascondeva la propria identità
sotto il nome di William Morris. L'acquisto doveva servire - secondo l'acquirente
- per un "volo pubblicitario" su Barcellona.
Franco Fucci ricostruisce nel libro su de Bosis le probabili cause della scomparsa
del pilota. Insufficienza di carburante per un volo così lungo e per
una "permanenza" aerea su Roma così prolungata, venti contrari
che ne rallentarono notevolmente la velocità? Nessuno credette ad uno
scontro con gli aerei da caccia predisposti dal regime. Un anno prima (Luglio
1930), subito dopo il volo di Bassanesi, il Capo della Polizia aveva chiesto
e ottenuto l'intervento dell'aeronautica, negli aeroporti lungo il confine svizzero,
per prevenire e respingere "incursioni" come quella effettuata su
Milano: "Avvistato l'aereo sospetto ed esperiti gli ordinari mezzi tendenti
a ottenere il pacifico atterraggio, il capo pattuglia farà una raffica
di mitragliatrice a vuoto; se il primo avvertimento risulta inefficace, il capo
pattuglia, con altra raffica, colpirà l'aereo sospetto in parti non vitali;
se anche il secondo avvertimento non avrà pratici risultati, il capo
pattuglia potrà abbattere l'apparecchio(...). Tutta la materia, comunque,
dovrebb'essere... rigorosamente studiata sotto il triplice aspetto tecnico,
giuridico e di polizia... anche per evitare... equivoci che potrebbero causare
incidenti di natura internazionale e per perfezionare... questo primo rudimentale
servizio di difesa aerea contro incursioni di criminali politici''. Così
recita la richiesta ufficiale.
Quel 3 Ottobre, contro l'incursione del nostro "criminale politico"
gli aerei da caccia ebbero, tardivamente, l'ordine di levarsi in volo. Presumibilmente,
l'aereo "Pegaso" aveva già lasciato il cielo di Roma quando
il comandante dell'aeroporto5, informato dell'accaduto, ordinò in tutta
fretta il decollo.
A quanto risultò più tardi, presero il volo gli aerei pilotati
dagli ufficiali Aldo Pellegrini, Guido Bonini e Letterio Cannistracci. Il Maresciallo
Italo Balbo - che Lauro nomina nella Storia della mia morte come "il mio
amico Balbo" - conosceva e apprezzava i tre piloti. Essi erano stati accuratamente
selezionati per la trasvolata atlantica dall'Italia al Brasile prevista per
il 1932. Piloti esperti dunque. E Lauro ricorda, nel suo ultimo scritto, che
la velocità dei loro apparecchi era circa il doppio di quella di "Pegaso".
Ma le ricerche furono vane. Gli aerei da caccia rientrarono a Ciampino dopo
essersi sospinti sullo specchio d'acqua dell'arcipelago toscano, a volo radente
sul mare, anche per rintracciare l'eventuale relitto. L'aereo "Pegaso"
era scomparso. Anche i tre ufficiali, anni dopo, come accadde all'aviatore solitario,
caddero con i loro aerei. Aldo Pellegrini, divenuto Generale di squadra aerea,
morì nel Dicembre 1940, in un incidente di volo. Il Colonnello Guido
Bonini nel Marzo 1941, anche egli per un incidente. Il Colonnello Letterio Cannistracci
cadde durante la guerra civile spagnola. Il Maresciallo dell'Aria Italo Balbo
morì nel 1940, abbattuto dall'artiglieria antiaerea italiana, nel cielo
di Tobruk, dopo una incursione aerea inglese su quella città.
*****
"Icaro cadde qui..." Così inizia un sonetto
di Jacopo Sannazaro, che Lauro aveva incluso tra le liriche da lui pubblicate
nell'antologia The Golden book of Italian Poetry (Oxford University Press 1930).
Lauro cadde qui, nel Tirreno. E a questo punto non ci resta che dare la parola
ai testimoni del tempo. Primi fra tutti gli "storici di un giorno solo",
ossia i giornalisti che sui quotidiani di tanti Paesi dettero subito notizia
del volo, nonché i diplomatici che dall'estero riferirono sulle reazioni
della stampa locale. Subito dopo citeremo gli esponenti della Resistenza, i
compagni d'arme che difendevano dall'esilio una "certa idea" dell'Italia,
di un'Italia libera e del suo onore. Di idee e programmi d'azione diverse. "Marciare
divisi, ma colpire uniti" ammoniva Salvemini.
*****
Che la stampa estera si sarebbe subito impossessata della notizia del volo del 3 ottobre, appariva ovvio alle autorità del regime: bastava raccogliere uno delle centinaia di migliaia di manifestini e il "pezzo era fatto", anche se le congetture e le illazioni sull'autore potevano essere le più svariate. E così infatti scriveva al suo capo, un anonimo funzionario della Pubblica Sicurezza, in un "appunto riservato" del 4 Ottobre 1931, "anno IX dell'Era fascista".
RISERVATO
Da fonte giornalistica estera:
"Nella mattina ho potuto constatare che la notizia del
raid compiuto ieri su Roma dall'aeroplano che ha lanciato manifestini antifascisti
è conosciuta da tutti i corrispondenti esteri e devo avvertire che alcuni
di essi hanno deciso di lanciarla, questa sera per telefono, a Londra, Parigi,
Berlino, mentre gli americani la telegraferebbero.
Il corrispondente dell'Agenzia 'Patt', Corecki, mi ha detto che all'Ambasciata
di Polonia il fatto è biasimato e si dice che colui che lo ha compiuto
deve essere un matto, sia per il rischio per il quale si è esposto, sia
per il male che produce. Il servizio d'ordine disposto intorno al Palazzo Farnese
è considerato come una conferma della supposizione che l'apparecchio
sia venuto dalla Corsica. Waring, del 'Daily Telegraph', si esprimeva anche
egli in senso ostile ai fuoriusciti, ai quali ormai tutti attribuiscono il proposito
di tentare qualche nuova impresa con lancio di bombe. Alla Stampa Estera si
diceva stamane che l'apparecchio misteroso, di colore bianco, di modello diverso
da quelli italiani, volando a bassissima quota ed a lumi spenti, sarebbe passato
sopra il Vaticano, il Palazzo Venezia, la Villa Torlonia ed il Quirinale. A
Piazza San Silvestro sembrava che stesse per precipitare tanto si era avvicinato
ai tetti dei fabbricati. Alcuni corrispondenti non sarebbero disposti a trasmettere
la notizia. Ma se altri lo fanno, tutti si troveranno in questa necessità".
E infatti tutta la stampa europea pubblicò subito notizie sul "misterioso
volo". Riportiamo qualche titolo. "Un avion mystérieux lance
sur Rome des Tracts politiques" (Ere Nouvelle, Parigi); "Le raid clandestin
sur Rome" (Heure); "Les aviateurs allemands dont l'appareil survola
Rome vont être expulses de France" (Echo de Paris); "Il testamento
di un eroe che va volontariamente alla morte", (Duch Casu, giornale cecoslovacco);
"La legende d'Icare renouvélee (Volonté, Parigi); "O
poeta aviator De Bosis" (O seculo, Lisbona); "British plane is chased
over Rome" (Daily Herald, Londra), quando per un momento si credette che
l'aviatore fosse un certo Sir Morris, o Maurice, come Lauro aveva fatto credere
ai due aviatori tedeschi che lo avevano assistito. "Chi ha bombardato Roma
con manifestini antifascisti?" "Il misterioso 'Sir Morris' o un asso
italiano dell'aria?" si chiedeva il 6 Ottobre l'Agenzia Reuter; "Antifascist
leaflets addressed to King" (Manchester Guardian). "Identificato l'uomo
che ha 'bombardato' Roma" (Morning Post); "Un titolato inglese in
un volo spettacolare su Roma". "Search for Lauro de Bosis" (Manchester
Guardian).
Fin nella remota Riga il volo fu seguito come un eccezionale avvenimento. Il
quotidiano in lingua russa "Segodnja"(Oggi) pubblicò la notizia.
A Sofia il giornale "Narod" scriveva: "De Bosis non ha voluto
rimanere vivo dopo il suo atto eroico per non essere poi trascinato davanti
ai tribunali come è avvenuto per Bassanesi?6 "Der Flieger über
Rome", scrive la "Kölnishe illustrierte Zeitung".
E finalmente, quando apparve l'intero testo del suo testamento spirituale dal
titolo Storia della mia morte su "Le soir" di Bruxelles e poi sul
"New York Times", tutta la stampa europea, chiarito il mistero, dedicò
amplissimo spazio all'impresa: "The story of my death" (Times, Londra);
"Die Geschichte meins todes" (Der Abend, 16 Ottobre 1931); "Il
Testamento dell'aviatore della libertà Lauro de Bosis" (Munchen
Post, 20 Ottobre 1931).
Quasi si direbbe che la grande stampa europea scorgesse nel gesto di Lauro una
nota "rassicurante": perché dimostrava che vi erano ancora
persone disposte a rischiare la vita per la libertà in pericolo, non
solo in Italia ma anche in Germania, dove, nemmeno due anni dopo, Hitler sarebbe
andato al potere.
Sull'identità dei due aviatori tedeschi che consegnarono l'aereo a Lauro,
è interessante leggere quanto riferì a Roma il Console Generale
a Monaco, Guerrini Maraldi:
R. Ministero dell'Interno
Direz. Gen. della P.S.
R. Ministero degli Esteri
Ufficio STAMPA
R O M A
per conoscenza:R. Ambasciata d'Italia BERLINO
Oggetto: Notizie circa volo aviatore sconosciuto su Roma.
Riferimento: Telegramma R. Ministero dell'Interno n. 28022 del 7 corr.
La "München Telegramm Zeitung" del 6 corr. riportava
la notizia che nel volo misterioso compiuto su Roma sabato decorso da ignoto
aviatore erano rimasti implicati, sebbene involontariamente, due aviatori di
questa città, il signor Hanz Böhning ed il signor Max Rainer, i
quali avevano pilotato l'apparecchio, acquistato dal presunto suddito inglese
Morris in questa città, fino a Marignano (Marsiglia).
Nell'intento d'appurare quanto di vero vi fosse in tale notizia, mi rivolsi
subito al signor Heiler, ex maggiore dell'esercito germanico, da lungo tempo
da me favorevolmente conosciuto, ora direttore generale di questo aeroporto,
il quale mi fornì le seguenti informazioni:
"Nel decorso Settembre, certo signor Morris, spacciatosi per suddito inglese,
che aveva preso alloggio all'Hotel Bayerischer Hof di questa città, entrò
in trattative con questo aeroclub per l'acquisto di un aeroplano. Gli fu offerto
l'apparecchio Klemm D.1783 per il prezzo di 8.000 marchi, che l'aeroclub aveva
poco tempo prima acquistato per la somma di 7.000 marchi da una nota fabbrica
di aeroplani d'Augusta andata in fallimento. Il signor Morris che nel frattempo,
allo scopo di poter eseguire voli con minor spesa, si era fatto socio temporaneo
di questo club, si dimostrò soddisfatto dell'apparecchio e senz'altro
pagò l'importo richiestogli. Dichiarando inoltre che l'aeroplano gli
sarebbe servito a scopo di propaganda commerciale, pregò che all'apparecchio
fosse applicato un migliore sistema di illuminazione ed uno speciale ordigno
che gli permettesse il lancio, con maggiore facilità, di foglietti propagandistici.
Ad operazione compiuta l'apparecchio avrebbe dovuto essergli portato a Cannes,
poiché egli doveva ripartire subito in ferrovia.
Il signor Böhning ed il signor Hans Rainer, dietro compenso delle spese
da parte del Morris, partirono il 22, senonché furono costretti ad atterrare
a Ginevra per difetto di motore. Ritornarono a Monaco di Baviera, da dove ripartirono
il 2 Ottobre pilotando l'apparecchio fino a Cannes, ove l'aeroplano - sempre
secondo quanto mi è stato raccontato - fu regolarmente consegnato al
Morris.
Circa il Böhning ed il Rainer, già piloti di guerra ed attualmente
soci di questo aeroclub, ho potuto sapere che sembrano persone aliene dalla
politica, piuttosto interessate a far danari essendo sprovvisti assolutamente
di mezzi di fortuna. Il Böhning - mi disse il magg. Heiler - è persona
assai poco benvoluta in questi ambienti aviatori per il suo carattere litigioso
e per la sua indisciplinatezza. Più volte è stato ripreso dal
club per aver eseguito voli senza autorizzazione e senza le carte di bordo in
ordine. Nient'altro mi è stato possibile conoscere - anche dietro informazione
di altre persone - circa le loro tendenze politiche. Mi è stato però
decisamente assicurato che i due sunnominati fossero in buona fede e completamente
all'oscuro delle intenzioni del Morris e della sua reale identità. Sembra
che i due piloti abbiano ricevuto come compenso duecento marchi.
Non sono riuscito ad appurare se il presunto Morris fosse effettivamente in
possesso di un passaporto inglese intestato a tale nome. Devo presumere però
che egli lo fosse, ad evitare che nel corso delle trattative per l'acquisto
dell'aeroplano e per poter divenire socio dell'Aeroclub, potesse, se richiesto
dei suoi precisi documenti personali, destare sospetti.
Unisco alcuni ritagli di giornali nonché tre fotografie, che sono riuscito
a procurarmi mediante uno stratagemma e che - per ragioni intuibili - sarei
a pregare di tenere colla massima riservatezza, evitandone la pubblicazione.
Nessun'altra traccia - a quanto mi risulta almeno a tuttora - è stata
lasciata dal presunto Morris. Continuo tuttavia colla massima discrezione".
Ben dodici anni dopo, in piena guerra mondiale, "The Times
Literary supplement" di Londra, in un articolo dedicato agli eroi dell'aviazione
mondiale, da Blériot ai piloti da caccia della battaglia d'Inghilterra,
così concludeva la sua rievocazione: "Non tutta l'Italia ha dimenticato
la libertà... Nell'attuale guerra d'idee le frontiere nazionali esistono
solo come distinzioni geografiche. Questa è una guerra civile e la RAF
in occasione del suo anniversario può annoverare nella sua ideale brigata
internazionale... un nobile giovane poeta e aviatore italiano, Lauro de Bosis,
uno dei primi nella Resistenza alla minaccia contro l'Europa, che nell'Ottobre
1931 partì da Marsiglia in aereo per diffondere parole di libertà
su Roma; e di cui nessuno seppe più nulla... Fintanto che la causa della
libertà produrrà uomini di questa tempra che dedicano la loro
fede e il loro coraggio contro l'incommensurabile malvagità dei tiranni,
la liberazione della civiltà e il trionfo della pace sono garantiti.
Essi non hanno bisogno dell'aureola della leggenda per far meditare gli uomini:
il nudo resoconto delle loro gesta ispira le menti alla risoluzione"7.
Così il Times, in piena guerra, include un italiano, di un Paese nemico,
tra gli eroi dell'aviazione: caduto in difesa della libertà, come i "così
pochi" nell'autunno 1940 contro gli aerei nazisti demolitori di Coventry
e di Londra.
Aggiungiamo, tra le ironie della storia, che il Comando della polizia fascista,
venuta a conoscenza di quest'articolo, e credendo di capire che Lauro fosse
ancora vivo, diramò ordini segreti affinché lo si ricercasse in
patria o all'estero, "essendo egli probabilmente emigrato in Inghilterra
e arruolatosi. nella RAF" (sic).
L'articolo del Times apparve nell'Aprile 1943, tre mesi prima della caduta di
Mussolini con il concorso del Re, che Lauro aveva prefigurato fin dal 1930.
*****
Hanno dunque parlato i giornalisti del mondo occidentale. Ma
quali furono le reazioni degli amici di Lauro, dei testimoni a lui piu vicini?
L'onore di essere il primo a parlare spetta a Mario Vinciguerra, che languiva
da un anno in carcere quando Lauro volava su Roma. Mario Vinciguerra "sentì"
nel suo spirito che Lauro era accorso in volo anche per testimoniare, fino al
supremo sacrificio, la sua solidarietà con l'amico di "Allenza Nazionale
di Libertà". Il volo di Pegaso doveva significare al prigioniero,
a lui e a Rendi, che Lauro era loro fisicamente e idealmente vicino.
E prigioniero, lui, l'eminente giornalista del "Mondo", lo fu per
due volte. Amnistiato dopo otto anni di carcere, nel 1938, venne nuovamente
arrestato insieme alla figlia Claudia allora ventenne, nel 1943 a Milano: perché
Claudia - buon sangue non mente - fu trovata dalla polizia mentre recava stampati
antifascisti da Milano a Firenze. Liberati dopo il 25 Luglio, Mario e sua figlia,
inutile dirlo, continuarono la lotta clandestina durante l'occupazione tedesca.
Aveva ragione Lauro quando scrisse, di Vinciguerra e dell'Alleanza Nazionale:
"Siamo in pieno Risorgimento".
Ecco cosa seppe dire Mario Vinciguerra rievocando il suo amico e compagno di
lotta:
"Sono diciassette anni come oggi che la più audace, più generosa
e più poetica avventura dell'antifascismo si svolse, nel vespero cristallino
del 3 ottobre 1931, col volo di Lauro de Bosis su Roma. Ma quell'avvenimento,
prima di presentarsi al pubblico internazionale nel suo aspetto poetico e avventuroso,
fu un cocente tormento e un turbinoso dramma nello spirito del suo eroe".
"Questo è stato poco inteso fino adesso, per due ragioni: perché
in genere, nel considerare la vita di Lauro, persone che gli furono vicine hanno
amato soffermarsi su atteggiamenti della prima giovinezza, fatalmente influenzata
dalle tendenze estetizzanti dannunziane, che dominarono i primi anni di questo
secolo; e perché la politica organizzata dal governo onnipotente fece
discendere una cappa di silenzio su tutta l'ultima parte della vita di Lauro,
rendendo quasi impenetrabili le ragioni che lo determinarono all'ultimo atto".
"Il vero è che Lauro de Bosis, che era stato precocissimo, si trovava
sulla via di un processo di svolgimento e approfondimento delle ideologie carezzate
nei primi anni, quando si presentarono davanti alla sua coscienza, in forma
imperativa, i problemi della vita civica, ai quali fino al 1924 circa, aveva
dato poca attenzione, assorbito dalle visioni ed ambizioni poetiche".
"Fu la grande sorpresa e l'angosciosa rivelazione non solo per lui, ma
per tanti suoi coetanei, vissuti fino allora come in un cielo di sogno".
"A queste esigenze, politiche ed etiche insieme - quali gli si presentarono
col delitto Matteotti e sue conseguenze - egli rispose secondo il suo temperamento,
poetico e cavalleresco".
"Allontanatosi dall'Italia si recò negli Stati Uniti, ed ivi per
un paio d'anni s'illuse di poter fare una propaganda culturale italiana, fingendo
di non conoscere la politica del governo italiano. Ma posizioni di questo genere
sono insostenibili per un'anima retta e leale. Egli tornò in Italia nella
primavera del '30, deciso a cambiare strada definitivamente, ad entrare direttamente
nella lotta politica. Egli si era persuaso ormai che un mondo poetico estraneo
alla vita sociale è un'astrazione arcadica, un nascosto egoismo o una
nascosta viltà; e che dove non c'è libertà di coscienza
non c'è neanche poesia".
"Con questi convincimenti si gettò nella lotta, in cui impegnò
il fuggevole, ma luminoso resto della sua vita, creando d'incanto intorno a
sé una atmosfera tra l'inno e il romanzo d'avventure, in cui si mossero
gli amici, che egli attrasse intorno a sé in quei mesi. Colui che è
sopravissuto sente il dovere a questo punto di collocare accanto al ricordo
di Lauro quello di Renzo Rendi, che anche lui non è più, dopo
avere molto sofferto con alta dignità, senza pentimenti e senza rinunzie".
"Cosa si proponeva quel gruppo di amici? Ora è più facile
dirlo in sintesi, perche Franco Antonicelli, animatore della casa editrice De
Silva, e che ha creato la collana di memorie storiche della resistenza intitolata
a Leone Ginzburg, proprio in questi giorni ha fatto apparire in essa i documenti
di quell'episodio storico e le ultime fiammanti lettere di Lauro, insieme con
le pagine scritte alla vigilia del volo, Storia della mia morte che danno il
titolo al libro. La genesi della vicenda è lucidamente narrata nella
prefazione di Gaetano Salvemini".
"Lauro e gli amici si proponevano non di costituire un altro partito, ma
di raccogliere intorno alla bandiera dei diritti civili e delle libertà
costituzionali tutti i ceti e gli ordini che potessero esercitare una azione
efficiente".
"Per dire tutto in poche ed efficaci parole, mi avvarrò di quelle
di Croce, il quale, interpellato, ebbe a dire che, al punto in cui stavano le
cose, bisognava cercare di raccogliere tutte le forze sulle quali, sia pure
in via ipotetica, si potesse contare per la liberazione dal fascismo".
"Facili critici, quando sulla fine del 1930 gli amici di Lauro furono travolti
in un processo, e, poco dopo, Lauro fu inghiottito dalle acque, dissero con
un sorriso di commiserazione che il progetto di Lauro era pur sempre della poesia,
e che era un sogno pensare di mettere insieme laici liberali e democratici,
militari, aderenti al distrutto Partito popolare e dell'Azione Cattolica".
"Ebbene, guardando a quello che è avvenuto dopo, bisogna dire che
la Storia ha avuto il capriccio di dare ragione ai poeti; poiché, quando
è venuto il momento della stretta finale, nella fatale estate del 1943,
l'unica via d'uscita, in quel momento, è stata quella disegnata nel programma
dell'Alleanza nazionale; e gli elementi che teoricamente parevano ripugnassero,
operarono insieme, sotto la spinta della necessità comune, per liberare
la strada dall'immane sasso, e ridare via libera al paese".
"Io non so se, in quella tragica ora in cui giunse al
colpo di stato, Vittorio Emanuele III abbia pensato al programma dell'Alleanza
nazionale, e soprattutto all'ultimo disperato appello di Lauro a lui lanciato
coi manifestini dall'aeroplano nell'ottobre 1931. Se ci pensò, mi pare
impossibile che un gelo non abbia percorso le sue vene, considerando quella
nobile giovinezza perduta, e il troppo tardivo ricorso a quelle idee e progetti,
che minacciava ormai di sterilità e di rovina la loro attuazione da parte
della Monarchia".
"Così quel breve episodio che il governo del tempo crede' di avere
annegato nell'oblio, riappare ora nelle sue giuste proporzioni, e nel suo valore
storico, oltre che umano".
Mario Vinciguerra
Venti anni dopo, Sergio Fenoaltea - uno dei più strenui
animatori della lotta di liberazione nella Roma occupata dai nazisti, e poi
Ambasciatore a Washington e Senatore della Repubblica8 - così scriveva
acutamente sui tre successivi messaggi personali inviati al Re Vittorio Emanuele,
da tre esponenti della Resistenza: Giovanni Amendola, poi Lauro de Bosis, infine
Carlo Sforza: "...Il messaggio di Lauro era il secondo solenne avvertimento
alla monarchia. Il primo fu un celebre articolo di Giovanni Amendola, allora
capo dell'opposizione costituzionale al fascismo, apparso su 'Il Mondo', se
ricordiamo esattamente, nel 1925. Il giornale fu naturalmente sequestrato: ma
nell'articolo si prevedeva il sequestro, e si diceva: 'A noi importa che questo
articolo abbia un solo destinatario'. Amendola avvertiva il sovrano che, rinnegando
il patto statutario e facendosi complice del fascismo, la monarchia segnava
la propria condanna. Il terzo messaggio al Re fu la lettera di Carlo Sforza,
del Giugno 1940 quando, nel pieno del trionfo hitleriano, egli avvertì
Vittorio Emanuele che firmare la dichiarazione di guerra - di una guerra che,
malgrado tutto, le democrazie avrebbero vinto - era firmare il suicidio della
monarchia sabauda. Fra l'uno e l'altro, il sublime avvertimento di Lauro de
Bosis, che per darlo affrontava la morte".
Ricordiamo che esattamente cento anni prima, nel giugno 1831 - accennarlo non
significa paragonarlo - un altro patriota italiano, Giuseppe Mazzini, indirizzava
a Carlo Alberto, bisavolo di Vittorio Emanuele III, un messaggio-avvertimento.
La "lettera di un italiano", anch'essa rimasta inevasa, anch'essa
profetica di un "risorgere" della libertà: diciotto anni dopo.
Perché Lauro decise di volare su Roma, con la minaccia - fra le altre
- di essere intercettato e abbattuto dagli aerei da caccia di Balbo? La risposta
ce la dà Lauro stesso. L'idea del volo come rivincita e come dimostrazione
al regime che la lotta continuava; quell'idea era divenuta per lui "un'ossessione",
come il Capo Horn per l'olandese volante, aveva scritto. E poi, perché
andare a cercare oggi, con il metodo dello psicoanalista, i motivi reconditi
dell'azione eroica di un uomo solo?
Chi spinse, vent'anni dopo, Solzenitsin a sfidare da solo il regime dei gulag?
Chi, che cosa, indusse Luciano Bolis, prigioniero dei nazisti durante la resistenza
di Genova, a cercare la morte per non cedere alle torture e poi a recidersi
le corde vocali "perché non riuscivo a morire"?
Chi, che cosa spiega la sfida di Jean Moulin - capo della Resistenza francese
- che chiede una matita ai suoi torturatori, perché non può più
parlare dopo i giorni di tormenti continui, non già per scrivere i nomi
dei colleghi clandestini, ma per tracciare uno schizzo del capo torturatore,
rassomigliante a un maiale, venendone poi ucciso subito dopo?
Chi, che cosa indusse i martiri del Risorgimento a dire "tirem innanz"
verso il patibolo?
E perché Pertini, evaso dal carcere di Regina Coeli e poi libero dopo
l'arrivo degli alleati, decide di passare le linee e tornare in territorio occupato
dai tedeschi, al Nord, per continuare la lotta?
Perché Edgardo Sogno, medaglia d'oro, lascia anch'egli l'Italia libera
per dirigere al Nord la banda Franchi ed essere catturato dai nazisti mentre,
vestito da SS, cercava di liberare i capi partigiani?
E infiniti altri eroi - non vi è altro nome che questo - militari e civili
rifiutarono la vita per quest'idea d'onore, che "detta dentro" il
suo comando implacabile.
Perché i giudici Falcone e Borsellino e tanti altri che sanno tutto sulla
mafia e perciò sanno anche di essere condannati a morte, perché
resistono, perché non si fanno trasferire nelle retrovie? Come Lauro,
anche loro avrebbero potuto scrivere Storia della mia morte, lasciando in bianco
solo la data... "Varrò più da morto che da vivo", scrive
Lauro, nello stesso testo in cui si domanda perché nel Risorgimento tanti
giovani sceglievano la lotta e la morte, mentre "oggi sono così
pochi". Forse perché si pensava che il Fascismo fosse un fenomeno
passeggero e che l'eterno trasformismo italiano avrebbe finito alla lunga con
il mitigarlo, renderlo democratico.
Non è vero, egli ammoniva. Il fascismo va preso sul serio, per quello
che è. E ne prevedeva anche l'avvio ad una politica di riarmo e di aggressione.
Non poteva nel '31 prevedere l'insorgere del nazismo. Ma guerre e aggressioni
non furono proprio il contrassegno del fascismo e del nazismo, dal 1935 al 1941?
Del resto il suo commento alla condanna fascista di Vinciguerra ("è
una tragedia, ma la lotta deve continuare con fede incrollabile, fino alla vittoria")
non ricorda forse la sua poesia: "Ciascun mattino sugli azzurri monti..."
scritta a vent'anni e che conclude con una nota di incoraggiamento: "cosa
t'importa se a soffrir sei tu? Trionfa altrove un'altra gioventù".
Poesia che rievocherà poi, commosso, il suo maestro Gaetano Salvemini.
Severità del dovere. Del dovere fino in fondo, del dovere come conseguenza
ineluttabile dell'impegno di responsabilità personale, non delegabile
a nessuno. L'atto di Lauro è dunque perfettamente coerente alla sua psiche.
Uomo di cultura risorgimentale vedeva nel fascismo il tradimento dell'etica
e dello Stato risorgimentale, che è libero oltre che indipendente. Scrittori
liberali hanno ammonito nei decenni scorsi a non confondere questi due valori.
Fenoaltea citava Cuba e la Romania comunista come Paesi indipendenti sì
ma non certo liberi. E il Risorgimento aveva dato all'Italia uno Stato-Nazione
libero. Sessantacinque anni dopo non lo era più.
Occorreva dunque rimediare al più presto a questa contraddizione lottando
contro un regime che - adoperando le parole di Orwell ante litteram - assicurava
i giovani che "Nel fascismo è la salvezza della nostra libertà".
E contro una propaganda che esaltava le "opere del regime", Lauro
dimostrò con i fatti il rigoroso monito di Pertini che non si può
parlare di progresso sociale se il prezzo da pagare per conseguirlo è
la rinuncia alla libertà.
De Bosis - Solzenitsin - Luciano Bolis - Jean Moulin - Palach - chi di loro
poteva illudersi che il sacrificio personale di ognuno avrebbe portato alla
disfatta della tirannia? Nessuna illusione. Ma un dovere da compiere comunque:
portare testimonianza della propria fiducia nel proprio Paese "che può
essere tuo solo se è anche patria di libertà". La loro vita
stessa si identifica con questo dovere. Ecco perché la Storia della mia
morte diventa in realtà "La storia della mia vita". La vita
di Lauro si riassume in quel volo verso la morte.
Ma Lauro aveva l'abitudine all"'understatement": forse per controbilanciare
la drammaticità degli autori con cui si era misurato, traducendo "Edipo
Re", "Antigone" e scrivendo "Icaro". Quell'understatement
che gli fece dire: "Questo mio gesto dovrà essere considerato dai
miei connazionali solo come un piccolo atto di spirito civico...". Poco
più che una buona azione da boy scout? Così scrive Lauro nel suo
ultimo messaggio.
*****
Sì, lo stato d'animo di Lauro, dopo la condanna degli
amici Vinciguerra e Rendi è di profondo dolore, ma al tempo stesso di
fredda determinazione a continuare la lotta. Lo dice in una lettera del 20 Gennaio
1931: "... quando si è impegnati in battaglia, l'unica regola è
quella di combattere il più duramente possibile nonostante il dolore
e l'infelicità che ne derivano... Nell'ultima guerra abbiamo perso seicentomila
vite per liberare due province. Oggi si tratta di liberarne novantatre... Il
dolore di una dozzina di persone vicine a noi è cosa tragica, ma la causa
che abbiamo fatta nostra (non senza successo) coinvolge la felicità di
42 milioni di persone. Il prezzo non appare sproporzionato... Dio sa - prosegue
Lauro - la mia angoscia di essere libero e di non esser stato processato invece
degli altri... Sì, il dolore dei nostri amici è terribile ma quello
di milioni di italiani è ancora più terribile... Il mio cosiddetto
ottimismo non deriva certo dal fatto di essere meno sensibile di altri al dolore
dei miei amici, lo sa Dio: ma dal fatto di essere immerso nel dolore del Paese.
Guardo perciò le cose con gli occhi del soldato il quale è così
intento a dare il meglio di sé nella lotta che non ascolta pienamente
il lamento dei suoi compagni caduti o dei suoi cari... La battaglia è
appena iniziata e coloro che sono caduti oggi avranno più grande gloria
e felicità domani...".
Ritorna poi sulla sua assenza da Roma durante il processo dei suoi amici: "...
Se tu sapessi il mio tormento, la mia invidia. Se fossi rimasto a Roma forse
sarei apparso da solo al processo e vi avrei fatto una buona figura. Certo è
facile oggi dire quale terribile errore fu lasciare Roma (e nessuno lo rimpiange
più di me) ma la gente non sa che era necessario per me andare in America,
non solo per la Società (Italy-America, di cui era Segretario esecutivo)
ma anche per ottenere un posto senza il quale mi sarebbe stato assolutamente
impossibile continuare il mio lavoro in Italia... E comunque l'Alleanza Nazionale
va avanti... Dunque, quando parlo di pace non intendo certo indifferenza nei
riguardi del dolore degli altri, ma guardare al futuro con fermezza e fede incrollabili...".
E più tardi, sullo stesso tema: "... L'Alleanza Nazionale trionferà,
alla fine, anche senza di me, forse senza che il mio nome venga menzionato,
o menzionato solo per essere condannato... Ma questo mi è perfettamente
indifferente: sarà stata una di quelle battaglie perdute, ma che solo
per averle combattute assicurano la vittoria finale. Che più potrei sperare?".
Hanno parlato i testimoni di quei giorni. Di essi, il più illustre, Gaetano
Salvemini, così commentò, da par suo, il gesto di Lauro, anche
alla luce del suo credo politico, e dell'influenza esercitata sul giovane patriota
dalle esperienze familiari. Egli scriveva, in occasione della prima pubblicazione
di Storia della mia morte, nel 1948, citata da Giovanni Spadolini all'inizio
di questo volume.
Gaetano Salvemini
su Lauro de Bosis
Adolfo Lauro de Bosis nacque, ultimo di sette figli, in Roma il 9 dicembre 1901,
da Adolfo de Bosis e Lillian Vernon.
Il padre fu uomo di nobile cultura e d'alto sentire. Si debbono a lui versi
e saggi critici di vigore e signorilità non comuni. Tradusse stupendamente
le Liriche, I Cenci, e il Prometeo Liberato di Shelley, frammenti di Omero e
poesie di Walt Whitman. Nella rivista da lui diretta, Il Convito, che uscì
in dodici fascicoli dal gennaio 1895 al dicembre 1897, Carducci pubblicò
La Canzone di Legnano, d'Annunzio Le vergini delle Rocce, Pascoli alcuni dei
suoi migliori Poemi Conviviali. La sua casa fu convegno a quanto di meglio la
intelligenza italiana e non italiana contò in Roma fra il 1890 e il 1920:
poeti, pittori, musicisti, scienziati, critici, giornalisti, uomini politici.
Pubblicando nel 1922 la traduzione del Prometeo Liberato di Shelley, scrisse
nella dedica:
Ed ora a te, Adolfo Lauro, figlio mio! Pur dedicata a tua madre, questa traduzione
ti appartiene: perché io sono lieto di pubblicarla unicamente per rendermi
a un tuo desiderio. Come si può resistere a una domanda lampeggiata dagli
occhi tuoi? Tu dunque va e portala ai vivi, tu giovinetto.
Nel 1924, in una nota alla quarta edizione delle sue rime Amori ac Silentio,
respinse il rimprovero di aver ceduto "a un certo andazzo di poesia democratica
o socialistica in voga al declinare dell'Ottocento":
Così avessi fiato pari al mio animo veemente per inalzare pur sempre
il mio verso in grido di protesta e d'indignazione contro tutte le insolenze,
contro tutte le iniquità, per la difesa e per la elevazione degli umili,
per salutare le fide cittadinanze ideali... che i poeti cercano, con indefettibile
animo, dalle altezze dei loro sogni! Non è questa fede la lampada commessa
alle loro mani, alla quale, sola, si riconoscono? Giungerà ella a rischiarare
la tenebra?
Morì il 28 agosto 1924, dopo crudele malattia, con stoicismo eroico.
La madre di Lauro apparteneva a una famiglia americana di origine inglese, che
dal New England aveva proceduto verso il Middle West al tempo dei "pionieri".
Era figlia di un ministro protestante che fondò la Chiesa Metodista Episcopale
in Italia. Era vissuta in Italia fino dalla infanzia.
La casa paterna fu la migliore scuola di Lauro e contribuì più
che ogni altra influenza alla formazione della sua vasta coltura e della sua
solida struttura morale. Studiò chimica all'Università di Roma,
dove si laureò nel 1922. Ma la poesia, la filosofia e la critica letteraria
erano le sue vere passioni. Era buon grecista. La sua traduzione dell'Edipo
Re di Sofocle fu rappresentata nel 1923 allo Stadio del Palatino, e l'anno seguente
fu data alle stampe.
Gli anni formativi della sua adolescenza videro la prima guerra mondiale (1914-1918)
e quella crisi di smarrimento che aprì la via al trionfo di Mussolini
(1919-1921). Lauro seguì con simpatia la prima fase del movimento fascista.
La città di Roma, in cui viveva, era immune dalle forme più bestiali
del fascismo, i giornali non ne parlavano o attribuivano tutte le responsabilità
ai "sovversivi", ed era facile a un giovane inesperto non vedere nel
fascismo che un risveglio del sentimento nazionale offeso. Ma non prese mai
parte attiva in quel movimento. La politica non lo interessava. Gli studi lo
assorbivano intero. D'Annunzio era allora l'idolo della gioventù. Lauro
ne subì la influenza. Quando se ne liberò, soleva dire di quello
che chiamava il "cimurro dannunziano": "Ce lo leveremo d'addosso,
ma ci vuole tempo".
Sempre in quegli anni ebbe qualche accenno di curiosità, più che
di fede, religiosa. Ma ben presto cessò in lui anche quella curiosità.
Si sentì parte di un "ordine cosmico" nel quale la vita doveva
essere accettata con tutti i suoi conflitti, i suoi dolori, le sue gioie. Questa
visione del mondo, della vita e dell'umano destino è consegnata in una
poesia che fu ritrovata nelle sue carte dopo la sua morte, e che a me sembra
assai bella:
Ciascun mattino sugli azzurri monti
Ebbre di luce balzano le aurore.
Ciascun mattino i mari, i laghi, i fonti
Rispecchiano il novissimo splendore.
Ciascun mattino mille vivi cuori
S'empion di gioia alla novella luce.
Ciascun mattino nuova forza adduce
Novelli canti e più novelli amori.
Dunque, fanciullo, sta sereno e pensa
Che i tuoi tormenti e la tua gioia frale
Son le pallide note di un'immensa
Sinfonia che trascende il bene e il male.
Indifferente alle tue poche pene
La Natura prosegue il suo cammino.
Canta la sera e canta sul mattino
E in un inno compone il male e il bene.
Ascolta, ascolta il suo canoro andare,
Piaciti di sue note or bianche or nere,
Gli uomini sono i flutti del suo mare,
La tristezza è sorella del piacere.
Cosa t'importa se a soffrir sei tu?
Trionfa altrove un'altra gioventù.
In politica era "liberale" come Croce, nel senso
che la parola aveva allora in Italia, cioè era un conservatore dell'Italia
quale era stata creata dal Risorgimento. Accettava i diritti personali e politici
dei cittadini e le istituzioni rappresentative e la indipendenza del governo
secolare della Chiesa. Nell'atmosfera di un regime libero tutte le riforme e
trasformazioni politiche e sociali erano accettabili, purché volute dalla
maggioranza e promosse per vie legali.
Croce prese posizione netta contro il fascismo solo nel 1925, dopo che Mussolini
"era andato troppo avanti", demolendo ogni reliquia delle libertà
costituzionali italiane. Lauro stesso, nel 1931, nella prefazione all'opuscolo
sulla "Alleanza Nazionale", indicò il 1925 come l'anno critico
della politica italiana.
Alla fine del 1924 - a ventitrè anni - chiamato dalla società
"Italia-America" di New York, visitò per la prima volta gli
Stati Uniti e vi fece conferenze su soggetti di letteratura, storia e filosofia.
Parlava correttamente l'inglese, era attraente, di maniere semplici e raffinate.
Ebbe un grande successo. D'allora in poi passò sempre parte del tempo
in America. Nell'estate del 1926 insegnò lingua e letteratura italiana
nel corso estivo di Harvard. In quegli anni pubblicò in forma abbreviata
la traduzione dell'opera famosa di J. G. Frazer, Il Ramo d'oro, sulla magia
e religione dei popoli primitivi (1925); e poi le traduzioni de La vita privata
di Elena di Troia di J. Erskine (1928) e di Il ponte di San Luis Rey di T. Wilder
(1929).
Negli Stati Uniti, meglio che se fosse vissuto in Italia, Lauro non poteva non
aprire gli occhi al significato di quanto avveniva in Italia. Gli scritti più
seri che si pubblicavano in America sull'Italia, e le conversazioni con persone
assennate e moralmente integre gli rivelavano che il fascismo invece di essere
unanimemente ammirato fuori d'Italia, come si faceva credere alla ignara gioventù
italiana, era oggetto di disprezzo quando non faceva ridere.
La traduzione dell'Antigone di Sofocle, pubblicata nel 1927, è in lui
il primo indice del passaggio all'antifascismo militante. Antigone, che Lauro
ha prescelto per il suo lavoro, vìola la legge scritta per obbedire al
comando della legge morale.
Al 1927 appartiene anche Icaro, la sola completa opera poetica che rimanga di
lui. Nessuna influenza dannunziana in questo poema. Nessuna traccia del provincialismo
sgonfione, volgare e selvaggio, che dominava nel pensiero fascista allora. Lauro
ha definitivamente scelto la sua fede e la proclama senza veli9.
Icaro e suo padre, Dedalo, sono schiavi di Minosse. Dedalo ha scoperto il ferro,
e con questo assicura a Minosse la dominazione del mondo. È il tecnico
che bada solo alla sua arte. Vive in solitudine, non ha fede negli uomini, vorrebbe
uscire di schiavitù, ma non pensa che a se stesso: "che so io di
tiranni e libertà?" Icaro è il poeta che sogna un mondo nuovo
di uomini liberi ed eguali, e intende operare per raggiungerlo. La spada, che
suo padre ha regalata al tiranno, egli avrebbe voluto brandirla per liberare
il popolo.
Dedalo costruisce le ali per volare: lui e suo figlio potranno sfuggire alla
servitù e tornare liberi nella loro patria. Icaro ha una mira più
vasta:
Il nuovo
mondo che sorge senza ceppi e senza
vincoli di muraglie e di frontiere,
uno ed uguale per gli uguali, libero
per i liberi, che accerchia le diverse
genti, sfatte dall'odio, in una sola
azzurra patria, luminosa e immensa:
il cielo, o Fedra, il cielo, ecco il mio regno!
- E se si frangon l'ale?
- Quando si corre a un buon cimento, sfuma
ogni labile aspetto de la vita
e più non v'è che un demone e una meta.
Minosse scopre che Dedalo e Icaro pensano di fuggire volando; fa mettere nei ferri Dedalo, e ordina che Icaro sia gettato nell'antro dei leoni. Fedra, figlia di Minosse, impetra ed ottiene la grazia per Dedalo e per Icaro, che essa ama riamata. Ma Icaro non accetta il dono, se prima non proverà la scoperta paterna.
Giovine
sai tu il rischio che corri?
- Tutto il fascino è questo.
- E se cadrai?
Tu non temi la morte?
- Non mi tocca.
Finché c'è vita si combatte; e poi...
pace! Il mio fato, quale sia, io voglio!
Dedalo nel momento in cui il figlio si accinge all'impresa si sente preso dall'angoscia:
- Figlio,
figlio valente ed animoso, quanto
avrei con te dividere voluto
il rischio! Insieme non sarebbe stato
nulla. Ma ora da tuo padre forse
avrai avuto insieme con l'immensa
gloria la morte. E sarò stato io...
- De la gloria e del rischio parimente
grazie ti rendo, poi che l'una, padre,
nulla sarebbe senza l'altro. Bella
anche di più la gloria se fiorisca
su la morte.
In una lettera dell'inverno 1931, Lauro accennò all'origine
del suo poema:
Perché ho scritto Icaro? Chi lo sa? Fu in un momento piuttosto eccezionale.
La mamma mi suggerì l'idea di prendere come soggetto Icarus. Questa le
era venuta mentre leggeva un sonetto francese su Icaro del secolo decimosesto...
Poi c'era stato propria allora il volo di Lindbergh. E c'era la memoria di mio
fratello che morì a ventitre anni cadendo nel mare come Icaro. Le parole
di Erigone nel quinto atto sono veramente quelle della mamma allora. Per diverso
tempo avevo desiderato scrivere una tragedia lirica per glorificare il progresso,
l'élan vital, nella sua forma individuale ed eroica. Il mito di Icaro
è quello che incorpora, più di qualunque altro, lo spirito d'oggi.
Eppure non era mai stato messo in una tragedia. Lo scrissi in diciotto sere.
Ecco il sonetto di Philippe Desportes:
ICARE est cheut icy, le jeune audacieux,
Qui pour voler au ciel eut assez de courage;
Icy tomba son corps dégarni de plumage
Laissant tous braves coeurs de sa chute envieux. O bienheureux travail d'un
esprit glorieux,
Qui tire un si grand gain d'un si petit dommage; O bienheureux malheur plein
de tant d'avantage, Qu'il rende le vaincu des ans victorieux!
Un chemin si nouveau n'estonna sa jeunesse.
Le pouvoir lui faillit mais non la hardiesse,
Il eust pour le brûler des astres le plus beau.
Il mourut poursuivant une haute adventure,
Le ciel fut son désir, la mer sa sépulture,
Est il plus beau dessein, ou plus riche tombeau?
È curioso notare che il sonetto di Desportes è
la traduzione di un sonetto di Sannazaro, che Lauro doveva poi riprodurre nel
Golden Book of Italian Poetry. Ma più che dal poeta francese, più
che dal poeta italiano, più che dalla memoria di suo fratello Valente,
Lauro trasse la ispirazione dalle convinzioni morali e politiche a cui aveva
oramai dedicato il suo cuore. Naturalmente l'uomo non deve essere giudicato
su quanto scrisse a ventisei anni. C'erano in lui ben altre possibilità
spezzate dalla morte.
Nell'estate del 1928 gli fu offerto l'ufficio di segretario della società
"Italia-America" negli Stati Uniti. Questa organizzazione, sorta nel
1920 per promuovere le buone relazioni fra i due paesi, si era così cambiata
a poco a poco dopo il 1923 che era diventata organo di propaganda fascista.
Dapprima Lauro rifiutò.
Non potevo accettare - scrisse nell'agosto del 1928 a persona amica - senza
fare un compromesso colla mia coscienza e tradire i miei principî. Nella
conferma ufficiale dell'offerta affermano che l'ufficio è assolutamente
apolitico. Ma è ovvio che l'ufficio rende necessità un'attitudine
favorevole al fascismo e che non è possibile sfuggire all'obbligo di
diventare strumento di propaganda fascista. Forse non si resero conto di questo
fatto e credono di potere tenersi fuori dalla politica. Ma al punto a cui siamo
arrivati, nulla rimane in Italia che sia apolitico, e per quanti sforzi si facciano,
non è possibile rimanere neutrali. Eppoi la mia nomina avrebbe dovuto
essere "convalidata" da Mussolini. Certo lui l'avrebbe passata pensando
che io sono ancora favorevole al fascismo. Ma io non avrei potuto accettare
sapendo che egli avrebbe rifiutato il consenso se avesse conosciuto la mia fede.
Sarebbe stato disonesto approfittare della sua ignoranza sul mio cambiamento
per escamoter da lui un favore.
Ma tutti gli amici insistevano che accettasse. Chester Aldrich, che era diventato
allora presidente della società "Italia-America", ed era generoso
amico dell'Italia e liberale sincero, gli garantì che avrebbe dovuto
fare solamente opera di cultura disinteressata. Si arrese. E in verità
nei due anni in cui egli occupò l'ufficio, la Società tenne una
condotta onesta e dignitosa. Ma si sentiva a disagio. La ripugnanza contro il
fascismo cresceva. Ripeteva spesso a se stesso e agli amici che non era lecito
starsene inerti innanzi a tale disastro morale. Bisognava far qualcosa. Ma che
cosa?
Nella primavera del 1929, quando ci incontrammo per la prima volta in New York,
egli mi domandò che cosa avrei io pensato se un aeroplano avesse volato
su Roma esortando gl'italiani a mettere fine alla loro schiavitù e vergogna.
Io gli risposi che se fosse stato possibile avrei applaudito di tutto cuore.
"È possibile", egli replicò, "un aviatore inglese,
mio amico, mi assicura che è possibile". Icaro aveva cominciato
a prendere realtà nel suo spirito.
Nel 1930 pubblicò Icaro e la traduzione del Prometeo Incatenato di Eschilo,
e preparò il Golden Book of Italian Poetry (che doveva uscir postumo
nel 1932). I fascisti non capirono quello che Antigone e Icaro e Prometeo insegnavano.
Credevano che Lauro fosse uno dei loro, e questo doveva bastare. Eppoi Icaro
aveva ottenuto il premio olimpico della poesia nella gara internazionale di
Amsterdam nel 1928. Quel "bravo giovane si faceva onore". Passi, dunque,
Icaro. Possono i libri di poesia essere pericolosi per chi comanda centinaia
di migliaia di armati?
Lauro andava ripetendosi che qualche cosa bisognava fare. Nell'estate di quell'anno,
tornato dagli Stati Uniti per le vacanze, iniziò sotto il nome di "Alleanza
Nazionale" un lavoro di propaganda clandestina. Fra il giugno e l'ottobre,
compose otto foglietti, li ciclostilò in seicento copie e li impostò
lui stesso, viaggiando sotto il naso delle spie, dall'una all'altra città
dell'Italia settentrionale. Egli si rivolgeva al Re ricordandogli il suo dovere
di tener fede al giuramento di re costituzionale. Non vi era nelle circolari
dell'"Alleanza Nazionale" una sola parola che eccitasse ad azioni
illegali o rivoluzionarie. I lettori erano invitati "se volevano rimanere
in pace con la loro coscienza" a "non lasciare alle forze sovversive
il monopolio della lotta contro il fascismo". Se gli uomini di buona volontà
non promuovevano essi il ritorno alle pratiche della monarchia costituzionale,
i comunisti avrebbero preso l'iniziativa. Gli italiani dovevano guardarsi bene
dall'aderire ai movimenti antimonarchici e anticlericali. Mussolini era ben
contento di mostrare al Quirinale e al Vaticano che la sola alternativa al fascismo
era una rivoluzione contro la monarchia e contro la Chiesa. Il Re aveva l'esercito
e non era possibile mettersi contro l'esercito. Il Papa aveva con sé
l'Azione Cattolica. Quando la crisi fosse sopravvenuta, esercito e Azione Cattolica
si sarebbero associati non solo contro il fascismo ma anche contro ogni pericolo
estremista. L'"Alleanza Nazionale" intendeva servire come terreno
d'intesa per chiunque volesse combattere il fascismo stringendosi intorno al
Quirinale e al Vaticano.
Oggi si può rivelare che Lauro non si mise alla ventura, "Orazio
sol contro Toscana tutta". Alcuni uomini maturi, fra cui uno che oggi è
morto, il Duca di Cesarò, lo incoraggiarono. Anche Croce guardò
con simpatia il tentativo, ed ebbe a dire che, al punto a cui stavano le cose,
bisognava cercare di raccogliere tutte le forze sulle quali, sia pure in linea
ipotetica, si potesse contare per la liberazione dal fascismo. Umberto Zanotti
Bianco aderì con entusiasmo e prestò ogni aiuto all'impresa, e
così Romolo Ferlosio, raro esempio di banchiere idealista. E poiché
l' "Alleanza" si proponeva di penetrare anche negli ambienti cattolici,
fu cercato e trovato un favoreggiatore anche da questo lato, nella persona di
padre Enrico Rosa, S. J., tra i più distinti collaboratori della Civiltà
cattolica, e uno dei pochi ecclesiastici del tempo più sinceramente riluttante
al compromesso vaticano-fascista, da cui non presagiva nulla di bene per la
Chiesa. Egli usò di fidate amicizie per divulgare discretamente i fogli
dell' "Alleanza" in mezzo all'Azione cattolica.
Quale diffusione ebbero i fogli di Lauro? Quanti di essi furono intercettati
dalla censura postale? Quanti arrivarono a destinazione? Quanti furono distrutti
per paura? Quanti ridattilografati o riciclostilati e rimessi in circolazione?
Nessuno lo saprà mai.
Dalle lettere di Lauro a Francesco Luigi Ferrari e a me risulta chiaro che Lauro
era sì monarchico, ma nel senso tradizionale che è piuttosto il
senso inglese: "un re ci vuole, ma bisogna che sappia fare il suo mestiere,
se no lo mandiamo via". Nel 1931 salutò con gioia la nascita della
repubblica spagnola. Quanto alla monarchia di Savoia, dopo il 1922, e più
ancora dopo il 1924, egli non s'illudeva, e riconosceva che essa era venuta
meno a specifici doveri statutari. Ma, sul piano politico, che cosa era più
conveniente fare? La monarchia esisteva di fatto, e possedeva nell'esercito
una forza propria. Le forze antifasciste in Italia non potevano prevalere, se
minacciavano non solo Mussolini ma anche il Re, e così spingevano il
Re e l'esercito a stringersi con Mussolini. Era più pratico - Lauro pensava
- utilizzare la monarchia e l'esercito nell'intento di restaurare il regime
di libertà in Italia. Nel clima di libertà ristabilito dopo la
caduta del regime fascista, ciascun partito politico avrebbe ripreso la sua
funzione. Chi avesse avuto miglior filo avrebbe tessuto miglior tela. E se la
maggioranza del paese avesse voluto la repubblica, perché non una repubblica
anche in Italia?
Quanto al Vaticano, Lauro viveva nella atmosfera del Risorgimento italiano.
Il cattolicesimo era per lui una delle religioni primitive da lui studiate nell'opera
di Frazer. La distinzione crociana fra filosofia (religione superata) e religione
(filosofia cristallizzata) gli consentiva di trattare la religione come una
realtà da tenere in conto. Il Papa esisteva in Italia come il Re. Non
era un ideale, ma, come Lauro usava dire, era una forza, era un interesse, e
doveva essere uno strumento da utilizzare in una lotta contro il fascismo, che
altrimenti sarebbe stata senza speranza.
Nella primavera di quell'anno Lauro aveva conosciuto Mario Vinciguerra, e ben
presto una cordiale amicizia s'era stretta tra loro. Quando si risolse ad intraprendere
la propaganda dell' "Alleanza nazionale", si confidò con lui,
e ne ebbe immediata promessa di appoggio. Finché egli rimase a Roma,
però, tenne per sé la parte più pesante e rischiosa del
lavoro, cioè la tiratura delle copie mediante un ciclostile e la loro
impostazione. Egli sapeva che Vinciguerra, già arrestato due anni prima
per alcuni mesi, era sorvegliato dalla polizia, e il suo animo generoso non
lo avrebbe mai indotto a mettere l'amico in una situazione molto pericolosa
(naturalmente una percentuale di pericolo spettava a chiunque volesse fare dell'antifascismo
sul serio). Ma nell'ottobre gli fu necessario ritornare negli Stati Uniti per
alcune settimane. Intendeva dimettersi da segretario della società "Italia-America"
e poi ritornare e rimanere in Italia. Doveva fare le consegne dell'ufficio al
suo successore. Sperava anche di ottenere dalla "Lega per l'educazione
internazionale" l'ufficio di rappresentarla in Italia. Con un incarico
di quel genere avrebbe potuto viaggiare spesso, mettersi a contatto con molte
persone colte nelle diverse parti d'Italia, estendere la propria influenza e
attività.
Egli, che era leale e candido come un fanciullo, doveva dissimulare se voleva
operare. Chi vive in un paese libero trova difficile comprendere e approvare
siffatti sotterfugi. Questo è il delitto più orribile dei regimi
dispotici: costringono quanti vogliono rivendicare per il proprio popolo i diritti
di libertà a mascherare opinioni e attività, a servirsi della
stampa clandestina, a vivere due vite contraddittorie, una vita pubblica e una
vita segreta, sacrificando i doveri della verità al diritto della resistenza
politica. Perfino i caratteri più onesti ed aperti sono trascinati a
servirsi di metodi, che in regime di libertà sarebbero essi i primi a
condannare. Messosi su questa strada pericolosa, Lauro commise un errore di
cui doveva ben presto subire le conseguenze amare. Per ottenere l'incarico della
"Lega per l'educazione internazionale" scrisse all'ambasciatore italiano
a Washington una lettera in cui protestava fedeltà al regime. Sperava
così di lavorare in Italia con maggiore sicurezza per sé e per
le sue idee.
Prima della partenza de Bosis, di Cesarò, Vinciguerra, Ferlosio, Zanotti
Bianco si misero d'accordo sul modo di continuare l'impresa durante la breve
assenza dell'amico e promotore. La compilazione dei foglietti sarebbe avvenuta
su per giù come era proceduta fino allora, cioè mediante un'amichevole
collaborazione in massima parte tra Lauro, Vinciguerra e Ferlosio (per la parte
finanziaria). Lauro, a questo scopo, lasciava una buona messe di appunti e prometteva
di far pervenire in modo sicuro dall'estero altro materiale. Si trattava di
superare le altre maggiori difficoltà riguardanti il lavoro al ciclostile
e la diffusione. Su quest'ultimo punto, di Cesarò e Zanotti Bianco offrirono
la loro opera, e infatti si prodigarono; per l'altro, de Bosis e Vinciguerra
pensarono di avvalersi di un giovane pubblicista laborioso e serio, Renzo Rendi,
che sul finire di settembre s'era accostato ad essi con sincero desiderio di
collaborare, e della signorina Maria Cardoni, nella quale giustamente il Ferlosio
riponeva ogni fiducia.
Lauro partì dagli Stati Uniti per Roma alla fine di novembre. Quando
il piroscafo era prossimo all'Inghilterra, ricevette da un amico attraverso
il telegrafo la notizia che sua madre, tre altre persone della famiglia e i
suoi due amici Vinciguerra e Rendi erano stati arrestati.
Il suo primo impulso fu di continuare nel viaggio, andare a Roma, e farsi arrestare.
Mentre a Londra si dibatteva in angosciose incertezze fu chiamato d'urgenza
a Berna dall'amico Ferlosio, il quale, disponendo del passaporto ed essendo
insospettato, in seguito a preghiera della famiglia de Bosis, s'era messo subito
in viaggio per la Svizzera. Da lui Lauro poté apprendere più ampie
notizie sull'avvenimento. Tanto Ferlosio, a nome della famiglia, quanto altri
amici di Londra, di Parigi, di Svizzera furono concordi nel dissuaderlo dal
primo proposito. Andando in Italia egli non avrebbe salvato né sua madre
né i suoi amici, ed avrebbe perduto se stesso. Il dovere del soldato
che vede cadere al suo fianco i suoi compagni, è di continuare nella
lotta e non quello di rendersi prigioniero. Lauro doveva dimostrare la sua solidarietà
con la madre e gli amici continuando la loro battaglia e non lasciandosi murare
con essi nella stessa galera.
Una serie di circostanze avverse aveva portato all'arresto di Vinciguerra. In
provincia di Verona era avvenuto, circa due mesi prima, l'arresto di alcuni
diffonditori delle circolari. Da qualche scritto e dagli interrogatori la polizia
fu portata a rivolgere la sua attenzione sugli antifascisti di Roma. Malgrado
questo, e checché si sia potuto dire in altro senso, essa non era riuscita
ad individuare nessuno. L'arresto di Vinciguerra avvenne per un caso disgraziato,
dopo che egli aveva imbucato alcune circolari; futili circostanze provocarono
quello di Rendi e, immediatamente dopo, della signora de Bosis10. La polizia
perquisì minutamente l'appartamento dei de Bosis, e scoprì la
macchina da ciclostilare. La signora de Bosis non si era mai interessata di
politica. In assenza di Lauro aveva ciclostilato una delle sue circolari, per
affetto materno più che per determinata adesione alle sue idee. Non si
perde' d'animo al momento dell'arresto. Il delegato che l'arrestò le
domandò cortesemente: "Signora, perché ha fatto così?"
E lei, ricordando che poco tempo prima Mussolini aveva parlato del popolo italiano
come di "quaranta milioni di buone pecore italiane" che davano al
governo la loro lana, rispose: "Perché non sono una pecora".
Chi si trova solo in carcere per la prima volta e non è un delinquente
di professione, va soggetto alle esaltazioni e allucinazioni più inaspettate,
anche se ha un carattere di ferro. La Signora de Bosis aveva sessantasei anni
ed era malata. Quattro guardie rimanevano giorno e notte nella sua stanza alla
infermeria. Tre persone della sua famiglia erano state arrestate come lei e
trattenute per due giorni.
Le lasciarono vedere Rendi e Vinciguerra il secondo giorno, ma non poté
parlare con loro. Se non si fosse sottomessa, se non avesse promesso di non
far più nulla in futuro contro il fascismo, i suoi altri figli avrebbero
pagato insieme a lei la pena; le loro carriere sarebbero state spezzate - così
le diceva l'avvocato che la consigliava.
Si aspettava di essere mandata al confino ed era pronta ad accettare la pena.
Ma dopo avere cercato di assistere uno dei suoi figli, doveva ora evitare che
gli altri fossero danneggiati dalla propria azione. Anche a costo di spergiurare
doveva fare il possibile per salvarli. La sua anima apparteneva a lei, e non
le importava quel che la gente avrebbe detto, ammesso che la gente volesse interessarsi
proprio di lei.
In questi pensieri era confortata dai suggerimenti dell'avvocato sceltole dai
familiari. Alla fine fra costoro, l'avvocato e la prigioniera si giunse d'accordo
alla decisione di piegarsi alla dura condizione, offerta con modi insinuanti
dal governo, che la signora scrivesse una lettera di sottomissione personale
a Mussolini. Questa era prospettata dagli organi governativi come una soluzione
bonaria, confidenziale di una vertenza incresciosa per entrambe le parti. Purtroppo
si die' fede a quelle lusinghe. La signora de Bosis non pensò mai che
una lettera scritta da lei potesse essere usata contro il figlio assente. La
lettera sarebbe rimasta un segreto fra il Duce generoso e lei. Perché
rifiutarsi a un passo così necessario alla intera famiglia, innocuo per
tutti, naturale per una madre? La donna infelice scrisse la lettera. (Questo
non evitò che da allora in poi i suoi figli in Italia fossero sempre
tenuti d'occhio e spesso disturbati).
Il 22 dicembre ebbe luogo il processo innanzi al Tribunale speciale per la difesa
dello Stato. Vinciguerra e Rendi tennero un contegno dignitoso. Accettarono
la propria responsabilità, ma protestarono di non aver mai esortato alla
violenza. Questa era la pura verità. La signora de Bosis ammise di avere
ciclostilato un foglio dell' "Alleanza nazionale". Con sua grande
sorpresa e costernazione a questo punto fu letta la sua lettera a Mussolini.
Ogni via di scampo le era intercettata.
Alla fine venne il colpo di scena più clamoroso. Fu letta solennemente
la lettera di Lauro nell'ottobre all'ambasciatore fascista a Washington.
Ottenuto lo scopo di demolire moralmente l'assente, il Tribunale assolvette
la signora de Bosis, che come cittadina americana era protetta dalla opinione
pubblica del suo paese, e una condanna avrebbe fatto scandalo. Quanto a Vinciguerra
e Rendi, la stessa legge fascista non condannava "la propaganda delle dottrine,
programmi e metodi tradizionalmente riguardati come compatibili con la costituzione
politica ed economica dello Stato". Tutt'al più i due accusati avrebbero
dovuto essere condannati per avere violato la legge che vietava le pubblicazioni
clandestine e quella che proteggeva dalle critiche la persona di Mussolini.
I giudici, invece, li condannarono a quindici anni di reclusione. Una persona
accusata di aver ciclostilato le circolari fu condannata a tre anni. Altri tre
accusati che avevano fatto lo stesso, ma espressero la loro ammirazione per
il Duce, furono assolti. Insomma i giudici distribuirono a capriccio condanne
e assoluzioni. Condannarono a pene feroci quegli accusati che non fecero atto
di contrizione, e assolvettero quelli che avevano fatto pace con il regime.
Non fu osservata né la lettera né lo spirito di nessuna legge.
Il fascismo era fatto così.
I pennivendoli italiani e non italiani fecero il resto, gareggiando a gettare
il ridicolo sui condannati e il fango sull'assente. Chi più si segnalò
in questa opera abbietta, fu il corrispondente del New York Times, Arnaldo Cortesi.
Una prima notizia delle condanne, ma non del modo come il processo si era svolto,
arrivò a de Bosis in Parigi la mattina del 23 dicembre. Ne fu turbatissimo.
Sarebbe stato assai più sereno se avesse condiviso la sorte dei suoi
amici, anzi fosse stato condannato a una pena maggiore! Ad ogni modo, il processo
aveva fatto conoscere all'Italia e al mondo l'esistenza dell' "Alleanza
nazionale". Questa avrebbe ora allargato la sua azione. Niente era perduto.
Dall'estero egli avrebbe ripreso il lavoro.
Il giorno dopo, le corrispondenze dei giornali francesi, in cui il pubblico
dibattimento era descritto in modo da aggravare iniquamente la posizione morale
della signora de Bosis e dell'assente, e poi le infamie dei giornali italiani
lo annientarono. La sua azione politica minacciava di essere paralizzata. Come
avrebbe potuto respingere efficacemente il rimprovero di godersi la libertà,
mentre i due amici suoi erano sepolti vivi?
Adorava sua madre. Quando conobbe le circostanze in cui aveva scritto la lettera
a Mussolini, comprese e giustificò il suo smarrimento. Ma come far accettare
il proprio giudizio agli estranei e agli ignari?
Furono mesi di tragico muto dolore. Nessuno più rispondeva dall'Italia
ai suoi appelli. La certezza che il lavoro dell' "Alleanza nazionale"
fosse continuato in Italia da altri, unico possibile conforto al suo cuore,
svaniva. Sfuggì alla disperazione perché un'idea cominciò
a dominare nel suo spirito. Egli doveva testimoniare la propria fede affrontando
un pericolo mortale. Doveva volare nel cielo di Roma in un aeroplano da cui
cadessero manifestini per esortare il Re e il popolo d'Italia ad ascoltare la
voce dell'onore e del dovere. Confortata, rafforzata da questa idea, la sua
fibra giovanile superò la prova di quell'inverno terribile. Il suo carattere
ne uscì ritemprato e più forte.
Tradusse in inglese e pubblicò nell'opuscolo The "Alleanza nazionale":
documents of the Second Italian Risorgimento (Paris, Imprimerie Vendôme,
338, Rue Sant-Honoré; MXCXXXI) i manifesti dell' "Alleanza nazionale",
per dimostrare quanto ingiusta e illegale era stata la condanna inflitta ai
suoi due amici.
Viveva a Parigi solitario. Fra gli emigrati non ve n'era uno solo che approvasse
le sue idee sul Re e sul Papa. Parecchi ne diffidavano. Vedeva solamente qualche
inglese e americano, i Nitti, amici di famiglia - era legato specialmente alla
Luigia Nitti, giovane di eccezionale ingegno e angelico cuore - e me. Si teneva
a contatto per lettera con Don Sturzo, che viveva a Londra; con Francesco Luigi
Ferrari, un altro cattolico di bella intelligenza e di bel carattere, che aveva
dovuto evadere dall'Italia e viveva a Bruxelles, e col conte Carlo Sforza, che
dimorava anche lui a Bruxelles e di tanto in tanto passava per Parigi.
L'idea di presentarsi a Roma e farsi condannare affiorava spesso nel suo spirito.
Lo sconsigliai tenacemente. Si togliesse dalla testa di poter sfidare un processo
pubblico. I giornalisti italiani e non italiani asserviti a Mussolini avrebbero
falsificato le sue parole e fatto scempio del suo onore, ancora una volta. Probabilmente
non sarebbe neanche stato portato al pubblico dibattimento. Appena arrivato
a Roma, sarebbe sparito senza lasciar traccia di sé.
Naturalmente discutevamo sulla monarchia e sul Vaticano, e discutevamo a perdita
di fiato. Il dissenso politico era sul metodo più che sulla sostanza.
Lauro era giunto alla conclusione che in ultima istanza una repubblica era diventata
oramai inevitabile in Italia, ma per il passaggio dal dispotismo fascista alla
repubblica riteneva probabilmente necessaria la fase intermedia di una monarchia
costituzionale, grazie alla quale il paese avesse un minimo di libertà,
che gli permettesse di cercare a ragion veduta la sua strada. Un rovesciamento
del regime fascista non poteva avvenire senza la cooperazione della monarchia
e dell'esercito. Secondo me, Lauro perdeva il suo tempo quando eccitava il Re
a restaurare le istituzioni libere. L'uomo era troppo scettico e vile per prendere
una iniziativa di quel genere. Nel 1925 aveva lasciato che i fascisti bastonassero
a morte uno dei suoi fedeli, Giovanni Amendola. Aveva lasciato ora che due monarchici,
Vinciguerra e Rendi, fossero condannati a quindici anni di galera. Perché
sciupare energie preziose su una via senza uscita? Quanto al Papa e alla Azione
cattolica, non erano essi che sostenevano Mussolini in Italia. Era Mussolini
che li proteggeva quando facevano quel che voleva lui, e li minacciava quando
non obbedivano. In compenso dei privilegi che ottenevano in Italia, facevano
la "propaganda" di Mussolini all'estero. Finché la dittatura
fascista fosse rimasta salda sulle sue basi, il Papa sarebbe rimasto buon amico
di Mussolini insieme al Re. Dopo che la dittatura fascista fosse andata in rovina,
che bisogno ci sarebbe più stato di esortare tanto il Re quanto il Papa
a cambiare connotati? "Lascia che i morti seppelliscano i loro morti",
gli ripetevo.
Come sempre avviene, ciascuno rimaneva del proprio parere. Ma il nostro dissenso
non offuscò mai la nostra amicizia affettuosa. Io sentivo in lui un cuore
sincero e puro. C'era nel suo pensiero una eccezionale onestà. Aveva
un assoluto disinteresse personale. Era immune da quello che è un difetto
più comune in Italia che negli altri paesi: la vanità. A parte
il fascino che esercitava su di me quella lucida aurora giovanile, io ero persuaso
che chiunque intendesse combattere la dittatura fascista - monarchico, cattolico,
repubblicano, socialista, comunista, anarchico che fosse - dovesse essere accolto
come fratello e cooperatore. Ciascuno combattesse sotto la propria bandiera
coi propri metodi. Marciar divisi e colpire uniti. Caduto il nemico comune,
ognuno avrebbe ripreso la propria strada nel nuovo clima di libertà per
tutti.
Col passare dei giorni si rinsaldava nel suo animo il proposito di effettuare
il volo su Roma.
Volare su Roma! Ma dove trovare i mezzi per imparare a volare e per acquistare
un aeroplano? Viveva come portiere in un piccolo albergo economizzando ottocento
franchi al mese che mandava alla famiglia di Rendi. Quando ricevé la
prima mancia, ne fu tutto costernato. "Ma ci si fa presto l'abitudine",
diceva sorridendo in quel suo sorriso dolce, triste e insieme gioviale.
Nell'aprile venne da me tutto felice. Il denaro per l'impresa era trovato. Oggi
si può rivelare che il denaro fu procurato dal redattore capo del quotidiano
liberale di Bruxelles, Le Soir, d'Arsac, un vecchietto dal cuore d'oro, anticlericale,
anticomunista e antifascista, insomma liberale sul serio e non a parole. L'idea
di rivolgersi a lui venne a Ferrari, nonostante l'anticlericalismo di d'Arsac,
e fu idea felice: Lauro, se l'impresa fosse riuscita, l'avrebbe raccontata sul
giornale di d'Arsac, e questo sarebbe stato il pagamento.
Il dottor Sicca, un medico italiano che viveva a Londra, amico generoso degli
esuli, contribuì largamente alle spese.
Io non avevo nessun diritto né di sollevare obiezioni, né di incoraggiare,
il che del resto non era necessario. Data la sua decisa volontà, ogni
consiglio che potesse indebolirlo nel momento dell'azione sarebbe stato delittuoso.
E quando mi domandò la mia opinione sul testo dei fogliolini che si proponeva
di far cadere dall'aeroplano, gliela detti mettendomi naturalmente dal suo punto
di vista. Perciò lo consigliai a parlare al Re come monarchico coerente
e non come uomo che non lo rispettasse più. Parlava della impresa con
perfetta calma, come di un affare d'ordinaria amministrazione. Sapeva di mettere
in gioco la vita. Ma la vita non gli sarebbe valsa niente, se non l'avesse giocata
in quel modo. Se fosse rimasto incatenato a una esistenza mediocre e tranquilla
mentre i suoi due compagni rimanevano in galera, non avrebbe potuto più
dedicarsi a nessuna attività politica senza sentirsi accusato di viltà
da gente che aveva interesse a vituperarlo e da gente di buona fede che non
lo conosceva affatto. Se invece fosse riuscito nella sua impresa, avrebbe dimostrato
anche ai più ciechi che non era uomo da sfuggire ai pericoli e che era
rimasto libero per continuare la buona battaglia. Si era fidanzato ad una donna
ammirevole. Chi più di lui doveva desiderare di vivere? Ma le circostanze
lo avevano condotto al punto che il volo su Roma era diventato per lui una necessità,
un dovere, e un desiderio, la più perfetta espressione del suo carattere.
Se la vittoria avesse coronato il suo ardire, egli avrebbe continuato a vivere
la sua vita con maggior forza e certezza, nel più alto grado d'intensità.
Cominciò a imparare l'uso dell'aeroplano in aprile in un campo privato
di aviazione vicino a Versailles. Il 24 maggio, giorno di Pentecoste, fece il
primo volo da solo. Ma proprio allora si sentì sorvegliato. Si trasferì
a Londra, e qui continuò la pratica, sempre sotto falso nome. Il piano
era di acquistare un aeroplano inglese; un amico inglese lo avrebbe portato
dall'Inghilterra in Corsica in un luogo fuori mano, presso Bastia; Lauro allora
avrebbe preso l'aeroplano; sarebbe arrivato a Roma verso il tramonto; il ritorno
nella oscurità della notte sarebbe stato pericoloso, anche se gli aeroplani
fascisti non gli avessero dato la caccia; l'amico avrebbe acceso dei fuochi
per indicare il luogo dove discendere; se tutto fosse andato bene, non sarebbe
rimasto più per lui e per l'aiutante che tornarsene in Francia.
Il 22 giugno cominciò a mettere per iscritto in francese le ragioni dell'impresa.
Era il primo abbozzo di quel che doveva essere la Storia della mia morte. Non
ne fu contento. Il manoscritto fu trovato fra le sue carte. Non occorre riprodurlo
per intero. Farebbe doppione col testo definitivo. Ma alcune parti danno una
idea immediata del suo stato d'animo in quel momento.
Il mio tecnico dice che ho una probabilità su dieci
di riuscire, e da buon inglese sorride dietro gli occhiali. Una su dieci! Ma
questo è molto più di quanto mi occorre. Il mio tecnico non sente
che per me la via più comoda per trovare la pace dell'anima è
la via di Roma. Mi occorrebbe più coraggio a rinunciare che ad andare.
Eppoi tutti i pericoli sono nel ritorno. Non c'è dubbio che se arrivo
a Roma, una volta compiuto il mio lavoro, io posso chiudere il bilancio della
mia vita. E se sarò abbattuto dalle mitragliatrici degli aeroplani fascisti,
il successo del mio volo dal punto di vista della causa sarà raddoppiato...
Siccome questo scritto sarà letto solamente se io muoio, mi sia permesso
di parlare in stile oltretomba. Che i miei amici non rimpiangano la mia morte.
Essa è stata per me il miglior modo di vivere intensamente la mia vita.
Sarei partito anche se avessi saputo che non sarei ritornato. Anzitutto era
il mio semplice dovere di soldato. Io avevo un debito urgente da pagare. Se
non l'avessi pagato, la vita mi sarebbe stata intollerabile.
Se fosse sopravissuto, Lauro pensava di ritornare in America e farvi un giro
di conferenze su: La filosofia dell'umanità, L'unità dell'Europa,
e L'Umanesimo della civiltà italiana. Impossibile trovare una contraddizione
più radicale, assoluta, inconciliabile fra dottrina del fascismo e la
fede internazionalista di Lauro.
L'aeroplano fu comprato in Inghilterra, attraverso il tecnico, di cui Lauro
parla nel testo del 22 giugno. I manifesti avrebbero dovuto essere stampati
ad Auch, presso la frontiera franco-svizzera, per cura di Carlo Emanuele Aprato.
All'ultimo momento parve più opportuno stamparli in una piccola cittadina
inglese per caricare l'aeroplano in Inghilterra ed evitare questo traffico in
Francia dove la polizia poteva stare all'erta. Le autorità inglesi, insospettite,
non volevano lasciar partire l'aeroplano. Insistevano per conoscere le ragioni,
la via, la mèta del viaggio. Quante bugie siano state necessarie per
tenerle a bada, Dio solo lo sa.
Finalmente l'aeroplano poté partire. Arrivò l'11 luglio in Corsica
al luogo designato. Nell'atterrare si ruppe un'ala sparpagliando i fogli. L'impresa
era fallita. E quel che era peggio, il progetto non era più segreto.
Occorreva una forza di volontà sovrumana per ricominciare da capo. Lauro
ricominciò.
Questa volta non poteva più prendere come base d'operazione l'Inghilterra.
Sotto il nome di Mr. Morris, un inglese, agente di pubblicità, che voleva
usare l'aeroplano per i suoi affari, andò ad acquistare un altro aeroplano
in Germania. Due meccanici tedeschi, ignari delle sue intenzioni, lo assistettero
nello scegliere e impratichirsi della macchina. I manifesti furono stampati
ad Annmasse, questa volta. Fu fissato per il volo il pomeriggio del 4 settembre.
Ma la persona che avrebbe dovuto portare l'aeroplano a Cannes si ammalò.
Bisognò aspettare per un altro mese una serata senza luna. In ottobre,
finalmente, non vi furono difficoltà.
I due meccanici tedeschi arrivarono la sera del 2 ottobre al campo di Cannes.
Lauro era già a Marsiglia. Assicuratosi che tutto era in ordine scrisse
in francese nella notte dal 2 al 3 ottobre la Storia della mia morte, e la mattina
del 3 la imbucò perché Ferrari la facesse pubblicare qualora il
viaggio fosse stato senza ritorno. L'aeroplano, il 3 ottobre, passò dall'aeroporto
di Cannes a quello di Marignano presso Marsiglia. Ecco quanto riferì
uno dei due meccanici tedeschi, l'ultima persona che Lauro vide prima di partire:
Verso le due pomeridiane un taxi arrivò e ne saltò fuori Mr. Morris,
salutandoci cordialmente. Nell'hangar sgombrammo l'aeroplano di ogni altro peso
mentre Mr. Morris portava sacchetti pieni di roba stampata. Noi non ce ne meravigliammo
perché già ci aveva detto a Monaco che aveva contratti di pubblicità.
Era nervoso. Pensammo che questo dipendesse dal fatto che per tre o quattro
settimane non aveva fatto esercizio. Perciò gli dissi che avrebbe fatto
bene a provare un paio di volte prima di partire per Barcellona. "Non ho
tempo," mi disse, "tutto andrà bene." In circa dieci minuti
caricai la benzina per il motore, mentre Mr. Morris collocava tutta la roba
stampata sul sedile anteriore dell'aeroplano, e il mio compagno dava un'ultima
occhiata alla macchina. Riempito il serbatoio, accertammo che tutto era in perfetto
ordine. L'aeroplano aveva un raggio d'azione di almeno otto o nove ore. Ce n'era
d'avanzo per andare a Barcellona e tornare a Nizza. Mr. Morris venne a me e
mi disse: "Herr Rainer, sono lieto che ella sia venuto. Ci ritroveremo
a Nizza questa notte. Questo è del denaro. Paghi il taxi e faccia un
buon pranzo col suo compagno". Mi dette 600 franchi, e dopo alcuni minuti
altri 400 franchi, perché 600 franchi non sarebbero bastati. Disse "Prenda
il treno che lascia Marsiglia alle 4 pomeridiane circa. Quando tornerò,
ce la godremo". Prese il suo posto nell'aereo. Prese anche una bottiglia
ordinaria. Credo fosse caffè. A noi non piaceva vederlo partire. Io gli
dissi: "Mr. Morris, non dimentichi di pompare in tempo la benzina dal serbatoio
laterale in quello principiale; se no, la macchina si fermerà."
Mr. Morris mi domandò sull'uso della lampada elettrica che gli avevo
portato in dono, e io gli detti le spiegazioni. Spingemmo l'aereo fuori dell'hangar
coll'aiuto del conduttore del taxi. Temendo che Mr. Morris potesse dimenticare
di pompare la benzina in tempo, gli ripetei ancora una volta l'avviso. Adesso
egli era più calmo. L'elica cominciò a girare. Io dissi: "Buon
viaggio, buona fortuna, e arrivederci a Nizza stanotte". Il mio compagno
lo seguì fino al punto di partenza, mentre io raccoglievo i nostri oggetti
e li mettevo nel taxi. Guardai l'aereo mentre partiva e salutai. La partenza
fu eccellente.
Partito alle 15,15, Lauro arrivò a Roma, poco dopo il tramonto, alle
20. Discese da un'altezza di duemila metri fino a poco più di trecento
metri. Disseminò 400.000 manifestini proprio sul centro di Roma: Piazza
Venezia, il Corso, intorno a Palazzo Chigi, e poi sull'aeroporto. Migliaia di
foglietti caddero in grembo agli spettatori di un cinematografo all'aperto.
Fu uno spettacolo di abilità e di coraggio che riempì di ammirarazione
e trepidazione chi ne fu testimone. Le strade della città in cui i manifestini
cadevano furono tutte in subbuglio. La gente leggeva e passava i fogli di mano
in mano. "Era come vivere in un mondo nuovo, qualcosa che non si era mai
sentito per anni". Dopo circa mezz'ora l'aeroplano sparì nella notte.
Sulla fine di Lauro si può fare una sola ragionevole ipotesi. Vi erano
fra Marignan e Roma meno che cinque ore di volo. La benzina nei due serbatoi
era sufficiente per otto o nove ore, cioè non per tornare da Roma a Cannes.
Ma vi era un terzo serbatoio che avrebbe dato la benzina necessaria per l'ultima
parte del volo. Gli assistenti credendo che Lauro sarebbe andato a Barcellona
e non a Roma, non pensarono che fosse necessario fornire anche il terzo serbatoio.
Lauro verso la fine del viaggio si trovò senza la benzina necessaria.
"E il fatal gorgo sopra lui si chiuse".
L'aviazione preposta alla difesa di Roma fu in pieno scompiglio. Gli ufficiali
erano tutti assenti dai loro posti, con immenso furore di Balbo e di Mussolini.
Solo dopo mezz'ora, si fecero vivi, iniziarono la caccia, e tanto per far qualcosa
andarono ad aspettare Lauro al varco verso la Corsica, mentre lui volava verso
l'isola d'Elba. Camions e motociclette della polizia perlustrarono la città
per soffocare possibili dimostrazioni. Carabinieri e agenti investigatori in
cerca dei foglietti illegali, perquisirono case private dopo avere letti quelli
che erano caduti dal cielo, e qualcuno fra essi ne approvò il contenuto
e ne conservò una copia come reliquia. Anche la macchina del partito
si mise in movimento. Le occorsero quattro ore per sgranchirsi. A mezzanotte
vi fu una "dimostrazione spontanea" di fedeltà fatta da gente
mezzo assonnata che aveva dovuto levarsi dal letto.
Volando su Roma per mezz'ora e riprendendo la via del ritorno senza essere disturbato,
Lauro aveva clamorosamente dimostrato quanto fosse inefficace la decantata arma
antiaerea fascista. Questa seconda sfida li aveva trovati inetti allo stesso
modo. Eppure, la intenzione di de Bosis era nota fin da quando, nel luglio,
aveva lasciato in Corsica l'aeroplano e i manifesti.
I giornali del 4 ottobre ricevettero l'ordine di non dedicare che due righe
all'avvenimento e di non fare neanche il nome del colpevole. Dissero solamente
che l'aeroplano da Roma si era diretto verso la Jugoslavia. In quel momento
le relazioni colla Jugoslavia erano torbide e un po' di calunnia "patriottica"
veniva a proposito. Quella falsa notizia è interessante, perché
dimostra che nessuno a Roma sapeva dove l'aeroplano fosse andato e che quindi
non ha fondamento la voce che Lauro sia stato abbattuto dall'aviazione fascista.
Un "trionfo" di questo genere sarebbe stato magnificato in tutti i
toni se fosse realmente avvenuto.
In Roma gli agenti fascisti, e fuori d'Italia i diplomatici del regime sparsero
la voce che Lauro si godeva la vita sulla Riviera francese, ma si teneva nascosto
per "non aver seccature" e per suscitare simpatia, facendo credere
di essere morto. Dissero anche che guadagnava quattrini in America, e tutto
sommato non aveva corso nessun pericolo. La menzogna non si arrestò neanche
innanzi alla morte.
Dodici anni dopo, altri aeroplani violarono il cielo di Roma, portando un messaggio,
non di riabilitazione e di vita, ma di distruzione e di morte.
Nel 1931 la voce di Lauro de Bosis cadde nel deserto. Il suo sacrificio fu vano.
Fu vano? Un atto di eroismo non va mai perduto. Chi muore per un ideale non
sa quel che succederà alle speranze del suo cuore. Obbedisce all'appello
del dovere. "La voce del mio cor per l'aria sento". Da cosa nasce
cosa. Sarà quel che sarà. Altri ripresero il lavoro di Lauro dove
lui dove' arrestarsi. Quale lunga schiera di lottatori e di martiri! Senza tanta
preparazione e tanti sacrifici gli eroismi dei patrioti italiani nella guerra
di liberazione non sarebbero stati possibili dopo il settembre 1943. Altri mieterono
dove lui seminò.
Che cosa penserebbe, che cosa farebbe oggi Lauro? Nessuno può dare una
risposta assoluta a domande di questo genere. Lo spirito umano è un complesso
di forze e impulsi incalcolabili. Fattori infinitesimali possono condurre lo
stesso uomo a reagire dinanzi allo stesso fenomeno nelle maniere più
inaspettate. Ma non è in nessun modo pensabile che l'autore di Icaro
avrebbe sentito altro che orrore innanzi alle vittorie feroci di Hitler, che
non avrebbe protestato con tutte le forze della sua anima quando aeroplani italiani
bombardarono e cosparsero di iprite l'Etiopia; che dopo avere salutato con gioia
il sorgere della repubblica in Spagna, egli non sarebbe accorso a difendere
quella stessa repubblica contro i complici italiani e tedeschi di Franco; che
l'alleanza con Hitler, l'attacco all'Albania, l'attacco alla Francia e all'Inghilterra,
l'attacco alla Grecia, e poi le disfatte militari,- e poi la dichiarazione di
guerra agli Stati Uniti, e poi l'intera penisola divenuta campo di battaglie
e distruzione agli eserciti di tutto il mondo - insomma dodici altri anni di
tragiche esperienze lo avrebbero lasciato immobile nelle posizioni del 1931.
Nel 1943 Mussolini fu eliminato da un colpo di stato preparato dal Re d'accordo
coi capi militari e senza dubbio con l'approvazione del Vaticano: proprio quello
che Lauro avrebbe desiderato. Ma nel luglio del 1943 intervennero nel gioco
forze che Lauro non prevedeva, e che del resto nel 1931 nessuno di noi prevedeva.
Nel luglio del 1943, il Re e i capi militari organizzarono il colpo di stato
contro Mussolini, perché le forze anglo-americane avevano occupato la
Sicilia, e i capi militari italiani e il Re si erano fino alla fine dell'anno
precedente convinti della inevitabilità della sconfitta. Nello stesso
tempo, il malcontento popolare montava da ogni parte. I grandi scioperi dell'Italia
settentrionale nella primavera del 1943 minacciavano di trasformarsi in un movimento
rivoluzionario ben più minaccioso che quel primo movimento economico.
Sotto l'incubo delle due minaccie - la sconfitta militare e la rivolta popolare
- il Re e i suoi si decisero ad agire non per salvare l'Italia dal fascismo,
ma per salvare se stessi dalla rovina. Quello che essi volevano era sostituire
in Italia al fascismo con Mussolini un neofascismo senza Mussolini.
È ben difficile ammettere che Lauro, messo di fronte a questa nuova situazione,
se ne sarebbe accontentato, come se essa rappresentasse la culminazione delle
sue speranze. Più difficile ancora è ritenere che egli avrebbe
insistito nel suo piano primitivo dopo la fuga del Re e di Badoglio da Roma
e dopo la totale disintegrazione delle forze armate provocata da quella fuga.
Gaetano Salvemini
*****
Dopo questo esauriente commento dello storico pugliese che fu titolare della cattedra "Lauro de Bosis", istituita da Ruth Draper all'Università di Harvard, leggiamo ora il testamento spirituale e politico di Lauro, scritto alla vigilia del suo ultimo volo.
STORIA DELLA MIA MORTE
Domani alle tre, su un prato della Costa azzurra, ho un appuntamento
con Pegaso.
Pegaso - è il nome del mio aeroplano - ha la groppa rossa e le ali bianche;
benché abbia la forza di ottanta cavalli, è svelto come una rondine.
S'abbevera di benzina e si avventa nei cieli come il suo fratello di un tempo,
ma di notte, se vuole, sa scivolare nell'aria come un fantasma. L'ho trovato
nella foresta Ercinia, e il suo ex-padrone me lo porterà sulle rive del
Mar Tirreno credendo in buona fede che abbia da servire agli svaghi di un giovane
signore britannico. La mia cattiva pronuncia non gli ha destato sospetti: gli
chiedo qui scusa dell'inganno.
Ma non andremo a caccia di chimere. Andremo a portare un messaggio di libertà
a un popolo schiavo di là dal mare. Fuor di metafora (bisognava usarne
per lasciar discretamente nell'ombra le origini del mio velivolo) andiamo a
Roma per diffondere in pieno cielo quelle parole di libertà che, da ormai
sette anni, son proibite come delittuose; e con ragione, giacché se fossero
permesse, scoterebbero in poche ore la tirannia fascista. Tutti i regimi della
terra, anche l'afgano e il turco, posson lasciare, chi più chi meno,
una qualche libertà ai loro sudditi: solo il fascismo, per difendersi,
è costretto a annientare il pensiero. Né gli si può rimproverare
di punire la fede nella libertà e la fedeltà alla costituzione
italiana più severamente che non il parricidio: se vuol sopravvivere,
non può fare altrimenti. Non gli si può rimproverare di aver deportato
senza processo migliaia di cittadini, né di aver distribuito, in quattro
anni, settemila anni di galera: come potrebbe tenere soggetto un popolo libero
se non lo terrorizzasse con la sua nera guarnigione di trecentomila sicari?
Per il fascismo non v'è scelta. Se si accetta anche minimamente il suo
punto di vista, si è obbligati a dichiarare col suo apostolo Mussolini:
"La libertà è un cadavere putrefatto". Se si desidera
anche minimamente la continuazione di un tal dominio, bisogna approvare l'assassinio
di Matteotti e le ricompense elargite agli assassini, la distruzione dei giornali
italiani, la devastazione della casa di Croce, i miliardi spesi ad assoldare
spie e agenti provocatori, la spada di Damocle sospesa sulla testa di ogni cittadino.
So bene che né gli austriaci nel 1850, né i Borboni, né
gli altri tiranni d'Italia son mai arrivati a tanto: essi non han mai deportato
gente senza processo; il totale delle loro condanne non s'è mai, neppur
da lontano, avvicinato alla cifra di settemila anni di galera in quattro anni;
soprattutto, essi non si sono mai sognati di arruolare di forza, nelle file
del loro esercito di aguzzini, i figli stessi dei liberali, come fa il fascismo,
strappando i figli a tutte le famiglie (anche liberali e socialiste) fin dall'età
di otto anni per imporre loro la divisa dei carnefici e assoggettarli a una
barbara educazione guerresca: "Amate il fucile, adorate la mitragliatrice,
e non dimenticate il pugnale", ha scritto Mussolini in un articolo destinato
ai ragazzi.
L'atteggiamento che consiste nell'ammirare il fascismo pur deplorando gli eccessi
non ha senso. Il fascismo non può esistere che grazie ai suoi eccessi.
I suoi cosiddetti eccessi sono la sua logica. E per la logica stessa della sua
natura che il fascismo è condotto a esaltare il sicario e a schiaffeggiare
Toscanini. Si è detto che l'assassinio di Matteotti fu un errore: ma
dal punto di vista del fascismo, quel delitto fu un colpo di genio. Si dice
che il fascismo fa male a ricorrere alla tortura per estorcere confessioni ai
suoi prigionieri: ma se il fascismo vuol vivere, non può fare altrimenti.
I giornali esteri dovrebbero capirlo una buona volta. Non si può augurarsi
che il fascismo diventi pacifico e umano senza volere la sua liquidazione piena
e completa. Il fascismo questo l'ha capito e, da sette anni a questa parte,
l'Italia è diventata una grande prigione, dove s'insegna ai bambini a
adorare le loro catene e a compiangere quelli che ne sono liberi. I giovani
che hanno adesso vent'anni non possono avere nessun ricordo di una atmosfera
diversa da questa. Il nome di Matteotti è loro quasi sconosciuto. Fin
dall'età di tredici anni si è loro insegnato che gli uomini non
hanno nessun diritto, tranne quelli che lo Stato si degna di dar loro in prestito
a suo unico arbitrio. Molti ci credono. Il mito che Mussolini ha salvato l'Italia
dal bolscevismo è ormai accettato senza discussione. Ma non bisogna per
questo credere che l'Italia si lasci ingannare. La prova che il popolo italiano
è in grandissima maggioranza profondamente antifascista ne è data
dallo stesso regime, con la paura che esso mostra al minimo sussurro e con la
ferocia con la quale punisce i minimi accenni di pensiero indipendente. I regimi
che si sentono forti non agiscono a questo modo.
Nel giugno 1930, io cominciai a far circolare delle lettere bimensili, di carattere
strettamente costituzionale, sulla necessità che tutte le persone d'ordine
venissero a una qualche intesa tra loro per il giorno il cui il fascismo sarebbe
crollato. Siccome il fascismo sembra aver fatto suo il motto di Luigi XV "Dopo
di me, il diluvio", l'iniziativa era quanto mai opportuna. Difatti le lettere,
secondo il principio della catena, cominciarono a circolare a migliaia. Per
cinque mesi, riuscii a compiere questo lavoro da solo, spedendo ogni quindici
giorni seicento lettere firmate l'"Alleanza nazionale", con la preghiera
che ogni persona che le riceveva ne facesse a sua volta sei copie. Sfortunatamente,
in dicembre, durante un breve viaggio che ero stato costretto a intraprendere
all'estero, la polizia arrestò i due amici che avevano accettato di imbucare
le lettere in mia assenza. Essi furono sottoposti alla tortura e condannati
a quindici anni di carcere. Uno dei due, Mario Vinciguerra, scrittore fra i
migliori che abbia l'Italia, critico d'arte e di letteratura, sebbene di salute
malferma, fu lasciato un'intera notte (una notte di dicembre) completamente
nudo sulla terrazza della Questura centrale di Roma. Dopodiché fu malmenato
e battuto a tal segno da rimanere sordo da un orecchio. Poi fu gettato in una
cella di due metri per due, dove non c'era neppure uno sgabello per sedersi
e dove, ogni mattina, gli si toglieva persino il letto. Dopo le proteste dei
giornali esteri e di eminenti personalità politiche inglesi e americane,
le sue condizioni son state migliorate. Mussolini è arrivato ad offrire
la libertà a tutt'e due, purché firmassero una lettera di sottomissione.
Tutti e due han rifiutato.
Il giorno in cui lessi la notizia dell'arresto dei miei amici ero in procinto
di riattraversare la frontiera per tornare a Roma. Il mio primo impulso fu naturalmente
di recarmi ugualmente a Roma per condividere la loro sorte; ma mi resi subito
conto che il dovere di un soldato non è di consegnarsi nelle mani del
nemico, bensì di continuare a battersi fino all'ultimo. Decisi immediatamente
di andare a Roma, non già per arrendermi, ma anzi per dare impulso all'attività
dell'Alleanza lanciando dal cielo quattrocentomila lettere e poi, o morire combattendo,
oppure tornare alla base per prepararvi altri colpi. Il cielo di Roma non è
mai stato violato da aeroplani nemici. Mi dissi che io sarei il primo, e mi
misi subito a preparare l'impresa.
La cosa non era facile. Anche la modesta impresa di guadagnarsi il pane è
cosa ardua, per un poeta. Quando, per giunta, egli si trovi nelle condizioni
del profugo, e per colmo di sfortuna in un anno di crisi economica, non c'è
da stupirsi se egli scenda assai presto fino ai più bassi gradini della
vita randagia. Per giunta, non sapevo guidare neppure la motocicletta: figurarsi
l'aeroplano! Per cominciare, trovai un impiego come portiere all'Hôtel
Victor Emanuel III, rue de Ponthieu, a Parigi. I miei amici repubblicani mi
prendevano in giro dicendo che ero punito dove avevo peccato. A dire il vero,
non adempivo soltanto le mansioni di portiere, ma anche quelle di gerente e
di telefonista. Talvolta, con tre o quattro campanelli che squillavano all'unisono,
mi si sentiva gridare con voce stentorea nella tromba delle scale: "Irma,
un doppio burro al 35". Come preparazione al mio volo su Roma, non era
un gran che; e tuttavia, tra il conto del fornaio e le ricevute dei clienti,
scrivevo un messaggio al Re d'Italia e studiavo la carta del Mar Tirreno.
Il seguito dei miei preparativi è la parte più interessante della
storia, ma purtroppo deve rimaner segreto. Nel mese di maggio feci il mio primo
volo da solo a bordo di un apparecchio Farman, nei pressi di Versailles. Poi,
avendo saputo che il mio segreto era giunto alle orecchie dei fascisti, mi affrettai
a sparire per ricomparire sotto altro nome in Inghilterra. Il 13 luglio lasciavo
Cannes su un biplano inglese, portando con me ottanta chili di manifestini.
Siccome la mia esperienza di pilota si limitava a cinque ore di volo, partii
solo, per non rischiare la vita di un amico.
Sfortunatamente, la mia impresa fu troncata sulle coste della Corsica da un
incidente, e dovetti darmi alla macchia, abbandonando l'aeroplano in un campo.
Il mio segreto era svelato. Le polizie d'Inghilterra e di Francia mi si misero
alle calcagna con uno zelo che mi lusingò assai: arrivarono fino a disputarsi
la mia fotografia. Le prego di scusarmi per le noie che ho causato.
Il peggio è che ormai non potevo più contare sulla sorpresa, la
mia maggiore possibilità di successo. E tuttavia, Roma divenne per me
quel che il capo Horn era per l'Olandese volante; giurai di arrivarci vivo o
morto. La mia morte (benché seccante per me, che ho tante cose da portare
a termine) non potrà che giovare al successo del volo. Siccome i pericoli
son tutti nel ritorno, essa non potrà sopraggiungere prima che io abbia
recapitato le mie quattrocentomila lettere: queste non ne saranno che meglio
"raccomandate". Dopo tutto, si tratta di dare un piccolo esempio di
spirito civico, e d'attirare l'attenzione dei miei concittadini sull'anormalità
della loro situazione.
Io sono convinto che il fascismo non cadrà se prima non si troveranno
una ventina di giovani che sacrifichino la loro vita per spronare l'animo degli
italiani. Mentre, durante il Risorgimento, i giovani pronti a dar la vita si
contavano a migliaia, oggi ce ne sono assai pochi. Non è che il coraggio
e la fede siano in loro minori che nei loro padri. Gli è piuttosto che
nessuno prende il fascismo sul serio. Tutti, cominciando dai suoi stessi capi,
si aspettano una fine prossima, e sembra sproporzionato dar la vita per far
finire una cosa che crollerà da sé. È un errore.
Bisogna morire. Spero che, dopo di me, molti altri seguiranno, e riusciranno
infine a scuotere l'opinione pubblica.
Non mi resta che dare il testo dei miei messaggi.
Nel primo - diretto al Re - ho cercato d'interpretare il sentimento della massa
del popolo, facendo astrazione dal mio personale. Credo che un repubblicano
e un monarchico potrebbero egualmente sottoscriverli. Noi ci limitiamo a porre
il dilemma: "Per la libertà o contro la libertà". Il
nonno dell'attuale Re, dopo la più terribile disfatta della storia d'Italia,
seppe resistere al maresciallo austriaco, il quale voleva forzarlo ad abrogare
la costituzione. Vuole veramente l'attuale monarca, dopo la più grande
vittoria della storia d'Italia (vittoria di liberali), lasciar perire senza
il minimo gesto l'ultimo brandello di costituzione?
A parte le lettere, getterò molte copie di un magnifico libretto di Bolton
King: Il fascismo in Italia. Come si getta pane a una città affamata,
così a Roma bisogna gettare libri di storia.
Dopo aver sorvolato a quattromila metri la Corsica e l'isola di Montecristo,
arriverò a Roma verso le otto, facendo gli ultimi venti chilometri a
motore spento. Sebbene non abbia, per tutta esperienza, che sette ore e mezzo
di volo, se cado non sarà per errore di pilotaggio. Il mio aeroplano
non fa che centocinquanta chilometri all'ora, quelli di Mussolini ne fanno trecento.
Egli ne ha novecento, e han tutti ricevuto l'ordine di abbattere a ogni costo
con le loro mitragliatrici qualunque aeroplano sospetto. Per poco che mi conoscano,
devon sapere che, dopo il primo tentativo, non posso aver abbandonato l'impresa.
Se il mio amico Balbo ha fatto il suo dovere, essi sono ora là ad attendermi.
Tanto meglio: varrò più morto che vivo.
Ecco i testi:
ALLEANZA NAZIONALE
Roma Anno VIII dal delitto Matteotti
Cittadini,
voi tenete un altare davanti alla salma dell'ignoto eroe della libertà;
ma lasciate ch'essa venga profanata ogni giorno da chi, lì accanto, getta
in galera tutti coloro che nella libertà credono ancora. L'Absburgo in
camicia nera, rientrato di soppiatto nel suo palazzo, è un oltraggio
per tutti i nostri morti. Quella libertà per cui essi dieder la vita,
egli la chiama "un cadavere putrefatto" e lo calpesta indisturbato
da nove anni.
Seicentomila cittadini si son fatti ammazzare per liberar due città:
fino a quando tollererete voi l'uomo che tiene schiava l'Italia intera?
Da nove anni vi si dà a intendere che torna a conto sacrificare libertà
e coscienza pur d'avere un governo forte e capace. Dopo nove anni vi accorgete
che avete avuto non solo il più tirannico e il più corrotto ma
anche il più bancarottiero di tutti i governi. Avete rinunziato alla
libertà per vedervi tolto anche il pane!
Accampato tra voi, come una guarnigione straniera, il fascismo oltre a corrompere
le vostre anime, distrugge le vostre sostanze: paralizza la vita economica del
paese, sprofonda miliardi per preparare la guerra e per tenervi oppressi, lascia
ingigantire tutte le spese rimaste senza il vostro controllo ed abbandona il
paese alla rapacità dei suoi gerarchi famelici. Mentre esso vanta il
suo "prestigio nel mondo", il mondo guarda con orrore un regime che
per ridurvi a un gregge di schiavi, deve logicamente schiaffeggiar Toscanini
ed esaltar la brutalità dei suoi sgherri.
Cittadini, non vi lasciate intimorire dalle bande che voi stessi pagate né
da questo "Radetzky in quarantottesimo": il secondo Risorgimento trionferà
come il primo. L'Alleanza nazionale ha lanciato il programma d'unione di tutte
le forze contro il fascismo. La borbonica ferocia delle condanne vi dimostra
quanto quel programma gli faccia paura. Stringetevi in alleanza! Gli spagnuoli
han liberato la patria loro: non tradite la vostra!
Il Direttorio
ALLEANZA NAZIONALE
Roma Anno VIII dal delitto Matteotti
Chiunque tu sia, tu certo imprechi contro il fascismo e ne
senti tutta la servile vergogna. Ma anche tu ne sei responsabile con la tua
inerzia. Non cercarti un'illusoria giustificazione col dirti che non c'è
nulla da fare. Non è vero. Tutti gli uomini di coraggio e d'onore lavorano
in silenzio per preparare un'Italia libera. Anche se non vuoi esser dei nostri,
vi son sempre dieci cose che tu puoi fare da solo. Puoi, dunque devi.
1. Non assistere a nessuna cerimonia fascista. 2. Non comprare nessun giornale.
Son tutte bugie.
3. Non fumare. (Il fumo rende al fascismo oltre 3 milardi l'anno, tanto di che
pagare tutti i suoi sbirri. Fa contro il nuovo Radetzky quel che fecero i milanesi
contro l'antico. E fu il principio delle Cinque giornate).
4. Non far nessun atto né dir nessuna parola che suoni ossequio al regime.
5. Boicotta nei rapporti personali e d'affari i servitori del regime. Sono i
tuoi sfruttatori. 6. Boicotta o intralcia con l'ostruzionismo tutte le iniziative
fasciste. Anche le migliori servono a ribadirti addosso le catene. (Bottai ha
dichiarato: "Lo Stato corporativo è i1 miglior strumento di polizia
che abbiamo trovato finora!")
7. Non accettare nulla dal fascismo. Qualsiasi cosa ti dia è il prezzo
della tua prostituzione.
8. Diffondi le circolari dell'Alleanza. Diffondi ogni notizia vera che puoi
ghermire. La verità è sempre antifascista.
9. Forma una catena di amici fidati su cui contare per ogni evenienza.
10. Abbi fede nell'Italia e nella Libertà. Il disfattismo degli italiani
è la vera base del regime fascista. Comunica agli altri la tua fede ed
il tuo fervore. Siamo in pieno Risorgimento. I nuovi oppressori son più
corruttori e più selvaggi di quelli antichi, ma cadranno egualmente.
Essi non sono uniti che da una complicità e noi dalla volontà
d'esser liberi. Gli spagnuoli han liberato la patria loro. Non disperar della
tua.
Il Direttorio
ALLEANZA NAZIONALE
Al Re d'Italia
Maestà,
tra il re e il popolo v'è un patto sacro: Voi lo giuraste. Quando in
nome di quel patto Voi ci chiamaste a difendere la libertà d'Italia ed
i principi da Voi giurati, noi prendemmo le armi in sei milioni, e seicentomila
morirono al Vostro comando. Oggi, in nome di quegli stessi principi, calpestati
come non mai, in nome del Vostro onore di Re, ed in nome dei nostri morti, tocca
a noi di rammentarVi quel patto.
Seicentomila cittadini han dato a un Vostro cenno la vita per togliere il giogo
da due città: è col Vostro consenso che un giogo infinitamente
peggiore grava da anni sull'Italia intera? Accettate Voi veramente d'infrangere
dopo Vittorio Veneto quel giuramento cui il Vostro Avo restò fedele dopo
Novara?
Son sette anni che Vi vediamo firmare i decreti di Radetzky con la penna di
Carlo Alberto. Pure, Voi ci avete guidati alla vittoria e per ventiquattr'anni
siete stato il campione della libertà. No; non possiamo dimenticarlo.
Noi abbiamo ricevuto dai nostri padri un'Italia libera. Sareste proprio Voi,
il re vittorioso, a tramandarla schiava ai nostri figli? Maestà, non
vogliamo crederlo.
Molti hanno perso fede nella Monarchia. Non fate che il loro numero cresca.
Non fate che il popolo italiano, seguendo l'esempio di quello spagnuolo Vi giudichi
responsabile dell'oppressione. Come può seguitare ad avere fede in Voi
se i migliori tra noi vengono puniti per questa fede come se fosse il peggior
dei delitti, e ciò vien fatto nel Vostro nome?
Gli italiani che soffrono la vergogna d'esser bollati di fronte al mondo come
un gregge servile, non sanno se Voi siete con loro o con la guarnigione degli
oppressori.
Maestà, scegliete. Una terza via non esiste. Dal fondo della loro disperazione
quaranta milioni d'Italiani Vi guardano.
Il Direttorio
Cinquant'anni dopo il volo, così prendeva la parola sul gesto di Lauro un altro grande storico e statista: Giovanni Spadolini.
Relazione di
Giovanni Spadolini
nel Cinquantenario del volo di Lauro de Bosis
3 ottobre 1981
Cari amici, costretto da inderogabili impegni dovuti ai miei
compiti istituzionali a restare lontano dall'incontro di studi, ormai a periodicità
annuale, dell' Istituto per la Storia del Movimento Liberale, che l'amico Camurani
presiede con competenza pari alla passione, desidero porgere il mio saluto a
tutti gli studiosi intervenuti e in particolare all'amico e collega Carlo Bo,
di cui mi è caro ricordare i molti anni di proficua collaborazione giornalistica,
e a Giovanni Malagodi, del quale ricordo il felice incontro sul terreno del
dibattito storiografico poco più di un anno fa, a Ferrara, nella città
che gli è quasi natale, per il convegno di studi su un personaggio caro
ai miei studi gobettiani, Max Ascoli.
Einaudi, Amendola, Gobetti, Ascoli, de Bosis. L'Istituto per la Storia del Movimento
Liberale prosegue nell'approfondimento dei fili della nostra cultura democratica
e liberale, di quella cultura revisionistica e contestatrice di un certo Risorgimento
agiografico e retorico, volta alla ricerca dei fondamenti democratici di uno
Stato che nel primo dopoguerra doveva aprirsi a nuove istanze di riformismo
sociale che la guerra aveva suscitato.
Dopo Amendola, di cui mi è particolarmente cara la memoria del convegno
del 1976, tenuto nelle sale bolognesi del Circolo della Stampa, per l'affettuosa
e calda partecipazione di uno degli ultimi amendoliani viventi, uno degli ultimi
protagonisti di quell'entusiasmante anche se effimera esperienza che fu l'Unione
Nazionale, Ugo La Malfa; dopo Ascoli, esponente dell'altro filone del revisionismo
democratico del primo dopoguerra, quello gobettiano, che aveva proseguito la
sua battaglia antifascista in America, Lauro de Bosis, che rappresenta una singolare
mediazione fra la vicenda personale e culturale di Amendola e di Ascoli.
Perché, cari amici, della battaglia politica di Giovanni Amendola molto
ricorre in de Bosis. Che cos'è la stessa Alleanza Nazionale, col suo
programma di coalizzazione delle forze costituzionali del paese, dai cattolici
ai socialisti, in funzione antifascista se non l'ideale continuazione della
battaglia morale dell'Aventino? Che cosa è l'Alleanza Nazionale se non
la prefigurazione, sia pure limitata e condizionata dai tempi, dei Comitati
di Liberazione Nazionale? Che cos'è la necessità avvertita di
tenere conto delle forze storiche presenti nel paese, la Chiesa e la monarchia,
se non l'anticipazione di un realismo politico che fu proprio di tanta parte
dell'antifascismo, senza con ciò compromettere i principi di una visione
laica dello stato e di un orientamento ormai sostanzialmente repubblicano che
de Bosis manifesta chiaramente nelle sue lettere a Salvemini.
E, d'altra parte, di Ascoli ricorre in de Bosis la comune esperienza americana.
Anzi vien fatto di chiedersi, anche se manca documentazione in proposito, se
si sono conosciuti. Di certo, anche se per brevi periodi, nel 1930, sia Ascoli
che de Bosis erano a New York. Comunque, per ambedue l'esperienza americana
è stata decisiva. Per Ascoli ha contribuito a far maturare una riflessione
che già si era formata nelle pagine di "Critica Sociale" e
della"Rivoluzione Liberale", per il giovane Lauro che, figlio di madre
di nazionalità americana approdava in America per la prima volta venticinquenne
nel 1926, lo spirito e l'influenza delle libertà di cui il cittadino
americano poteva godere avevano accelerato la sua conversione antifascista,
avevano suscitato il fermo proposito di combattere l'ignobile degradazione in
cui il fascismo aveva ridotto l'Italia.
Un proposito che si era concretizzato nell'estate del 1930 nell'organizzazione
clandestina dell'Alleanza Nazionale per la Libertà per la quale Lauro
aveva subito trovato l'appoggio, il sostegno e la collaborazione di Renzo Rendi
e di quella indimenticabile figura di antifascista e carissimo amico e collega
di tante battaglie giornalistiche che fu Mario Vinciguerra. Un proposito che,
quale che sia il giudizio dello storico sulle sue reali possibilità di
successo nella lotta al regime fascista - e sarà proprio questa giornata
di studi che dovrà dare una risposta a questo problema storiografico
- fu pagato ad un prezzo altissimo da tutti i suoi promotori: quindici anni
di carcere, solo più tardi ridotti a sette per Vinciguerra e Rendi, e
la sua morte, cercata dallo stesso Lauro, che era fortuitamente sfuggito alla
cattura, col suo volo su Roma di cinquant'anni fa, compiuto per lanciare un
appello contro chi teneva schiava l'Italia...
Io credo, cari amici, che la testimonianza di intransigenza morale, fino al
sacrificio della vita, che Lauro de Bosis ha voluto dare resti pietra miliare
di quella certa idea dell'Italia per la quale ci siamo battuti e continueremo
a batterci.
Dopo Gaetano Salvemini, dopo Giovanni Spadolini, la parola
spetta ora a Sandro Rogari.
Questo lucido ed esauriente commento del Professor Sandro Rogari, letto nel
50º Anniversario del volo di Lauro de Bosis su Roma nell'importante convegno
di Ancona animato dal Professor Camurani, pone in luce il rifiuto del fascismo
di un de Bosis che come tanti altri giovani aveva sulle prime aderito a certi
aspetti retorici ed attivistici del movimento. È lo stesso travaglio
critico che ha ispirato altre opere come il bellissimo libro di Francesco Berti
Arnoaldi "Viaggio con l'amico" (Sellerio, Palermo) in cui l'autore,
valoroso esponente della Resistenza, ricorda con parole indimenticabili, il
sacrificio di un altro "fratello ideale" di Lauro, Giuliano Benassi,
trucidato dalle SS dopo un'epica, esemplare resistenza personale. Dopo le "Lettere
di condannati a morte della Resistenza" e tante altre sublimi testimonianze
(leggiamo sempre con commozione "Il mio granellino di sabbia" di Luciano
Bolis) ripercorrere il libro di Berti Arnoaldi insieme a queste pagine di Sandro
Rogari fa riemergere la coerente continuità ideale fra la prima e la
seconda Resistenza italiana.
Relazione di Sandro Rogari
Scrive Giuseppe Prezzolini in uno dei più penetranti
ritratti che siano stati dedicati a Lauro de Bosis - anche se, a mio avviso,
molto ingeneroso - che la sua scomparsa nel cielo di Roma il 3 ottobre 1931
è un "mistero da spiegare". "Non il fatto in sé,
- scrive Prezzolini - che par semplice, ma le ragioni, se di ragioni si può
parlare in atti della vita, che tutta la vita riassumono". E il quesito
nasce in Prezzolini proprio dalla profonda conoscenza del personaggio, dalla
sua convinzione, per il giudizio che si era fatto, che si trattasse di uomo
simpatico e generoso ma un po' leggero; capace di grandi entusiasmi e di grandi
propositi, ma inadeguati ai fini che intendeva raggiungere, e comunque alimentati
soprattutto da un grande ottimismo. Insomma non si trattava di uomo capace di
condurre una lunga battaglia clandestina e di morire per un ideale politico.
Ma era un uomo, secondo Prezzolini, che proprio per l'aura dannunziana che lo
circondava, per le ascendenze paterne, per sua formazione e cultura era capace
piuttosto di divenire un martire cavalleresco. Poteva morire, o comunque arrischiare
in modo grave la vita per un motivo di carattere morale, che in quel momento
stava, sempre secondo Prezzolini, nella pessima figura fatta quando, sia pure
per una combinazione fortuita, era sfuggito alla cattura, perché all'estero,
nel novembre-dicembre del 1930, mentre i suoi due compagni di cordata della
Alleanza nazionale, Vinciguerra e Rendi, assieme a tanti altri e alla stessa
madre, erano stati arrestati.
A questo punto, in realtà, il quesito iniziale di Prezzolini finirebbe
per rivelarsi retorico. La risposta c'è, anche se diversa da quella che
ci aspetteremmo. Ma credo che sia necessario prendere subito le distanze da
Prezzolini chiarendo che il giudizio espresso muove da una valutazione personale,
non da una analisi storica della vicenda politica di de Bosis; manca nel ritratto
del poeta d'Icaro un collegamento con quello che de Bosis, talvolta in modo
non del tutto consapevole, è stato nella storia dell'antifascismo italiano;
manca, ancora, un collegamento con l'Aventino e con quanto la sua sconfitta
ha pesato anche nell'analisi politica dell'Alleanza nazionale. Insomma, il giudizio
di Prezzolini è tutto confinato negli ambiti, che a noi stanno un po'
stretti, della valutazione personale, ma sfuggono alla reale dimensione storica
del problema.
Dovendo quindi noi muoverci su questo secondo piano, che è poi l'unico
che ci interessa, è necessario anzitutto riuscire a comprendere da dove
nasca l'antifascismo di Lauro; quali ne siano le prime manifestazioni. E, stando
ai testi e ai ricordi di chi l'ha conosciuto,gli anni coincidono con l'avvio
del processo di instaurazione dello stato totalitario. Il fascismo ha superato
la crisi dell'Aventino e sta avviando la costruzione del regime che otterrà
un successo decisivo nell'acquisizione del consenso grazie alla Conciliazione.
Questa fase della costruzione dello stato totalitario coincide col primo svilupparsi
di una sensibilità politica in Lauro.
In ciò deve essere stata determinante l'esperienza americana. A questo
proposito abbiamo la testimonianza di Gaetano Salvemini, ma abbiamo soprattutto
una lettera scritta da Lauro a Prezzolini. Scriveva da New York, nel maggio
1926, prima di iniziare ad Harvard il corso estivo di lingua e letteratura italiana:
" ... è doloroso confessarlo, ma mi si son sviluppate delle insane
aspirazioni politiche (naturalmente a lunga scadenza) e ho deciso di mettermi
a studiare sul serio per essere pronto quando verrà il tempo tra cinque
o dieci o quindici anni. Non so se è un'illusione, ma credo che tra un
certo numero di anni ci sarà un terribile bisogno di uomini nuovi, che
non siano stati né dall'una né dall'altra parte in questi anni,
e ho paura che ce ne saranno pochissimi. Almeno a vedere con che preparazione
e con che educazione politica vengon su i giovani tra i venti e i trentacinque
anni. Che ne dici tu?"
Cinque o dieci o quindici anni; non si dà una scadenza politica precisa,
anzi non si parla neanche del regime fascista, che pure è presente e
anzi determinante nella conversione di Lauro all'impegno politico. Direi addiritura,
stando al testo parziale della lettera, che la stessa conversione di Lauro sia
in fieri, ancora indefinita, non chiarita soprattutto a se stesso. Purtroppo
mancandoci fonti dirette - in questo ha ragione Prezzolini: gli epistolari finora
pubblicati sono del tutto incompleti - dobbiamo giustificare certi percorsi
del suo pensiero tramite la sua biografia. La sua chiamata alla fine del 1924
in America per conto della società ''Italia-America'', i suoi cicli di
conferenze nel continente americano, ebbero senza dubbio un peso decisivo. Come
ricorda Salvemini, l'immagine che la propaganda fascista dava dell'Italia, presentata
come un paese abitato da un popolo anarcoide e corrotto, fortunatamente salvato
dall'uomo della Provvidenza, da Mussolini, finiva per essere fortemente offensiva
per chi, come de Bosis, era orgoglioso d'essere italiano, non suddito di Mussolini.
Ma soprattutto deve avere avuto il suo peso constatare come nell'ottica americana
il fascismo non era quella panacea che si voleva presentare agli italiani. A
Lauro che ventenne, pur non prendendo parte in prima persona, aveva plaudito
al fascismo forse soprattutto per quel tanto di volontaristico, di eroico, di
accattivante, il regime di Mussolini cominciava a rivelare il suo vero volto.
Del resto, se andiamo a leggere quei frammenti di lettere che sono reperibili
di Lauro ventenne, troviamo proprio quello spirito d'attivismo frenetico, quell'entusiasmo
per il diverso e per il nuovo che, tipico di tutti i giovani, era esasperato
dai riflessi della guerra appena conclusa, era attratto dai movimenti politici
emergenti. "Sono passato fin ora per questa mia vita senza fermarmi e senza
riflettere, - scriveva a Sibilla Aleramo nel dicembre 1921 - cantando e mordendo
ad ogni frutto, senza chiedermi né il perché né il dove.
Se mi guardo intorno non so né quel che ho voluto né quel che
voglio, per l'avvenire non vedo né una meta né una ragione(...)
Ho molto imparato e molto goduto delle parole degli altri (e delle vostre, Sibilla)
ma, ch'io sappia, non ho mai detto, io, nessuna parola che avesse qualche valore".
C'è in queste parole l'ansia di volere vivere ad ogni costo, d'essere
protagonista; il fascismo non poteva non avere una attrattiva irresistibile,
era inevitabilmente frainteso da questi giovani, come del resto lo fu, con ben
peggiori implicazioni da uomini ben più anziani e gravati di ben altre
responsabilità.
Ma se nell'estate del 1926 la maturazione politica era ancora incerta, l'anno
successivo, di ritorno in Italia, l'antifascismo di Lauro è ormai pienamente
acquisito. La traduzione dell'Antigone di Sofocle è - come scrive Salvemini
- "il primo indice del passaggio all'antifascismo militante". E in
quello stesso 1927 Lauro scrive la sua unica opera poetica organica, Icaro,
che già nel titolo è rivelatrice degli intenti dell'autore. Ad
una componente famigliare difficilmente ponderabile e valutabile nella sua portata,
nella sua influenza su Lauro, si unisce una componente culturale che fonde il
mito positivista di una scienza dominatrice del mondo, e quindi creatrice di
libertà per l'uomo, con forme di vitalismo bergsoniano di marca nettamente
antipositivista. Del Bergson dell'Evoluzione creatrice Lauro avrebbe potuto
sottoscrivere il detto che la vita "è ininterrotto zampillo di novità".
Questa lettera è rivelatrice di ascendenze culturali che emergeranno
ancor più chiare dall'analisi dei pochi testi politici e filosofici che
ci ha lasciato.
Un punto importante da rilevare è che l'antifascismo di de Bosis si manifesta
in via primaria con un linguaggio poetico che gli è più congeniale.
Sotto questo profilo, anche se Lauro scrisse significativi testi di analisi
politica e filosofica negli ultimi mesi di vita, ha ragione Mario Vinciguerra
quando sostiene che de Bosis "sentiva bene e riconosceva di non essere
un uomo politico nel vero senso della parola, né la sua anima infiammata
di poesia e tesa verso un ideale di assoluta indipendenza avrebbe potuto giammai
piegarsi alla formulazione precisa di un programma politico e ad una disciplina
di partito". Sarebbe inutile cercare in lui l'organizzazione di un pensiero
sistematico, ma è certo possibile trovare colleganze intellettuali significative,
magari anche sedimenti di una cultura liberale fortemente innovativa - da Amendola
a Gobetti - che riemerse nell'esilio, quasi effetto di letture che nella prima
metà degli anni venti non avevano rappresentato per lui uno stimolo immediato.
Dopo Icaro, nell'estate del 1928, la sua irrequietezza lo riporta in America
a ricoprire l'ufficio di segretario della società Italia-America. Dapprima
aveva rifiutato per il rischio di compromissione politica che quella carica
poteva comportare. Poi accettò su pressioni di Chester Aldrich che era
divenuto presidente della società e gli aveva garantito che avrebbe fatto
solo cultura del tutto disinteressata.
E a tal proposito possiamo fare una considerazione apparentemente banale, ma
in realtà sempre a torto trascurata, a proposito dell'impressione che
deve avere esercitato su di lui la grande crisi economica. Il trovarsi in America
in quell'ottobre del 1929 e assistere agli sviluppi successivi della grande
crisi sul continente americano fece maturare a mio avviso, in de Bosis, la convinzione
che l'impatto di questo maremoto sarebbe stato sconvolgente anche sulle società
europee. Non ho pezze d'appoggio adeguate per giustificare questa tesi, ma mi
pare del tutto significativo - e mi scuserete se anticipo questo tema - che
alla crisi economica del regime sia dedicato addirittura un numero doppio dell'Alleanza
nazionale, il 3-4 del 1-15 agosto 1930.
"Nessuno sa - si legge nel foglio - come i prossimi buoni del tesoro saranno
pagati. L'Italia 'non ha più bisogno di danaro straniero', perché
non riceve più credito da nessuno. Dappertutto prestiti nascostamente
forzosi, quindi nessun bilancio sincero. Ogni fascio tassa le imprese secondo
un proprio calcolo. Licenziamenti impossibili senza permesso dell'autorità
politica, quindi rapido aumento di fallimenti e di cambiali insolvibili".
L'immagine che si dà della crisi è gravissima; il suo sviluppo
sembra irreversibile. E su questo tema si ritorna in un documento finora rimasto
inedito e che getta nuova luce sulla sopravvivenza dell'Alleanza nazionale che
gli storici hanno dato fino ad oggi virtualmente liquidata con gli arresti del
dicembre 1930.
Una lettera firmata l'"Alleanza nazionale per la libertà" e
datata 8 maggio 1931, impostata a Roma, viene recapitata a certo onorevole Baragiola
che il giorno prima aveva esaltato alla Camera il rinnovo dei buoni del tesoro
come indice della forza economica del regime. "Ma quale forza" - si
legge nella lettera - "Alle tre parole 'prestiti al fascismo', tutte le
casseforti estere si sono inchiavardate come per incanto. Dunque, la volontà
d'indipendenza si risolve nella storiella dell'uva acerba". La truffa econonica
perpetrata dal regime verso il popolo italiano viene ribadita in questa lettera
di cui non è possibile stabilire la paternità - de Bosis non si
trovava a Roma nel maggio del 1931 - ma che è facile ricollegare in qualche
modo al promotore della Alleanza nazionale. E ancora vale la pena di fare un'ultima
annotazione sul riflesso dei fallimenti bancari che sono interpretati dall'organo
della Concentrazione antifascista "La Libertà" e da altri quotidiani
stranieri come sintomo dello sfacelo economico del regime, non senza che la
polizia fascista vi dedichi una preoccupata attenzione.
Tutto questo per dire che, a mio avviso, gli aspetti economici della crisi o
supposta crisi del fascismo sono in de Bosis e nei suoi amici un prius che precede
gli altri aspetti della crisi, quelli più strettamente politici. Anche
perché altrimenti non si comprende come mai Lauro nel maggio del 1926
dava al regime una scadenza non lunga, ma certo piuttosto lontana nel tempo,
mentre nel 1930 egli è convinto che il regime non abbia più di
due anni di vita. Il 21 dicenbre 1930 scrivendo da Parigi a Ruth Draper in merito
all'arresto della madre e di Rendi e Vinciguerra, Lauro manifesta la convinzione
che per i suoi compagni prendere due o trent'anni sia lo stesso, dal momento
che "questo regime non può durare più di due anni".
In queste parole si può leggere certamente ancora l'iniziale smarrimento
di chi si trova al sicuro mentre i propri compagni di lotta sono stati arrestati
- un problema di coscienza che senza dubbio graverà sulla decisione del
volo - ma, se collegate alla iniziativa dell'estate precedente, possono anche
riflettere una reale convinzione di precarietà del fascismo.
Comunque, chiusa questa parentesi, che tuttavia investe un punto qualificante
dell'analisi del fascismo operata da Lauro - e anche delle deformazioni da cui
era viziata - riprendiamo la ricostruzione della nascita dell'Alleanza nazionale
dal ritorno in Italia di Lauro nell'estate del 1930; ossia dal momento in cui
le fonti e la memorialistica ci offrono materiali più consistenti di
analisi storica. Vale subito la pena di correggere certa storiografia americana
sull'antifascisno in merito all'ispiratore dell'Alleanza. Non Mario Vinciguerra,
come scrive Charles F. Delzell, ma lo stesso Lauro fu l'ispiratore e l'organizzatore
della trama clandestina nel giugno del 1930. Questo risulta chiaramente non
solo dalla prefazione all'opuscolo The 'Alleanza Nazionale', documents of the
Second Italian Risorgimento, pubblicato nel 1931 a Parigi ma anche nella lettera
inviata a Salvemini nel gennaio 1931.
"Vinciguerra è stato veramente eroico - scriveva Lauro. - Ha persino
affermato che l'idea dell'Alleanza era venuta a lui, mentre in realtà,
pur ricevendo i fogli non seppe che ero io che li mandavo fino alla metà
di agosto (Rendi lo seppe solo in ottobre)".
Il meccanismo con cui Lauro intendeva sviluppare la sua trama clandestina era
molto semplice. Egli stesso all'inizio si sarebbe preoccupato della stesura
e dell'invio per posta di un buon numero di circolari dell'Alleanza che i singoli
destinatari dovevo riprodurre in sei copie e a sua volta spedire ad altrettante
persone. La diffusione avrebbe avuto così una progressione geometrica.
Questo doveva essere il marchingegno - che è facile definire ingenuo
- che avrebbe dovuto organizzare il dissenso contro il fascismo che, secondo
Lauro, era diffuso nel paese; e che investiva anche i quadri del fascismo: si
tenga presente che destinatari delle circolari non erano solo persone note per
i loro precedenti antifascisti, ma anche piccoli gerarchi del regime.
Questo per quanto riguarda l'avvio organizzativo, mentre i perni politici del
ribaltone che avrebbe dovuto fare il regime dovevano essere la monarchia e la
Santa Sede. Era ferma convinzione di Lauro che l'antifascismo avesse commesso
due gravi errori: l'essere antimonarchico e l'essere anticlericale. Questo,
invece di ostacolare Mussolini, aveva fatto il suo gioco.
"Ora sarebbe follia disconoscere i seguenti fatti: - si legge nella seconda
circolare del 15 luglio 1930 - la Monarchia con l'esercito e il Vaticano con
l'Azione cattolica sono le due più grandi forze che esistano in Italia
fuori del fascismo. Nessuno dubita che il Re e il Papa non siano in cuor loro
antifascisti. Se fin'ora hanno, l'uno subìto, l'altro utilizzato il fascismo
per quel che, a torto o a ragione, è parso loro il bene della Monarchia
e della Chiesa, tocca a noi capovolgere e non già consolidare quel gioco
d'interessi, di speranze e di timori, che han fin qui determinato la loro condotta.
E non è chi non veda come già di per sé sta mutando diametralmente."
Siamo così giunti al punto centrale di quella che con termine un po'
altisonante potremmo definire la strategia politica di Lauro de Bosis: coinvolgere
le forze istituzionali del paese nella lotta antifascista puntando sulla loro
reale - o presunta - ostilità verso il regime. Questo piano aveva due
risvolti essenziali nelle intenzioni di de Bosis. Anzitutto doveva essere tranquillizzante
per i cosiddetti ben pensanti, per gli uomini d'ordine. De Bosis mirava a sfatare
il mito alimentato per fini strumentali dal regime che l'alternativa al fascismo
era il comunismo.
Coinvolgere monarchia e Santa Sede significava soprattutto questo: garantire
con la coalizione liberale italiana - ma intesa in senso lato perché,
come vedremo, l'Alleanza non si qualificava come movimento liberale contrapposto
o differenziato da altri movimenti politici compresi in quello che potremmo
chiamare l'arco aventiniano - che la caduta del regime sarebbe avvenuta nell'ordine
costituzionale. Sotto questo profilo il primo manifesto dell'Alleanza era stato
chiaro: "tocca (...) agli uomini d'ordine di determinare la crisi del fascismo
e salvare così l'Italia anche dalla minaccia contraria".
Il secondo risvolto della strategia di de Bosis implicava una critica di fondo
a quella che era stata la politica dell'Aventino e anche alla linea della Concentrazione
parigina.
"Per il passato,- si legge nell'ultima circolare, del dicembre 1930 - responsabili
del fascismo sono stati un po' tutti: quelli che gli hanno aperto le porte non
più di quelli che in cinquant'anni hanno contribuito alle miserie della
vita politica italiana. Qualunque azione imperniata sopra una intransigente
valutazione morale era quindi condannata a trovar tutti nemici e a isterilirsi
in una vacua e generale condanna dell'Italia in blocco".
In fin dei conti, de Bosis è profondamente contrario alle tesi della
pura condanna morale proveniente da quella che a torto, secondo lui, si considera
"l'altra Italia". Le magagne e i meriti, se ci sono e per quel tanto
che ci sono, appartengono a tutti gli italiani; la purificazione dalle prime
e l'esaltazione dei secondi può essere solo una opera comune, non può
nascere dalla divisione manichea fra chi ha perduto l'Italia e chi può
salvarla. La Monarchia e la Chiesa cattolica, pur con i loro gravi errori e
le loro responsabilità, pur se gravati dal peso di aver provocato ritardi
e cadute nello sviluppo civile del paese, fanno parte della storia d'Italia,
e gli antifascisti devono prenderne atto. Questa mi sembra essere l'intuizione
di fondo che de Bosis trasfuse nel programma dell'Alleanza nazionale. Ed essa
rappresenta, a mio avviso, un superamento delle posizioni aventiniane e un programma
che anticipa la logica ispiratrice dei comitati di Liberazione nazionale.
Naturalmente, si tratta di un programma che è suscettibile di essere
qualificato come sostanzialmente conservatore, desideroso di ripristinare uno
status quo ante che l'antifascismo rifiutava. E che questo fosse l'atteggiamento
assunto dalla "Concentrazione" e da "Giustizia e Libertà"
nei confronti dell'Alleanza è comprovato da molteplici testimonianze.
Lo stesso de Bosis ne fa riferimento in una lettera a Giorgio La Piana spedita
dal parigino hotel Victor-Emmanuel III ove lavorò nell'inverno del 1931
come portiere, per preparare l'impresa dell'ottobre successivo. "La stessa
Concentrazione di Parigi, - scrive - che in settembre ci aveva violentemente
attaccato (con la sciocca idea che val meglio il fascismo che non un'Italia
ancora monarchica), ora ha capito la forza del nostro movimento e cerca di mettersi
in contatto con esso. Insomma i sacrifici non sono stati vani". Ma esiste
anche una documentazione inedita che conferma le rivalità soprattutto
provenienti da "Giustizia e Libertà". In un rapporto del 14
gennaio 1932 proveniente da Parigi si legge che "l'affermarsi della nuova
organizzazione antifascista 'Alleanza Nazionale' - che si è rivelata
con il noto volo di Lauro de Bosis e la recente istituzione repubblicana 'La
Giovane Italia' - con un programma di natura terroristica - fecero comprendere
ai dirigenti del comitato 'Giustizia e Libertà' che le su accennate associazioni,
in quanto operavano nel regno potevano rappresentare un serio pericolo di concorrenza
per l'azione antifascista, con un conseguente grave discapito per le sorti future
della organizzazione stessa". Del resto delle ostilità che provenivano
dall'antifascismo parigino abbiamo conferma anche nella testimonianza di Mario
Vinciguerra.
Ma in realtà l'atteggiamento dell'antifascismo parigino era frutto o
di rivalità o di fraintendimento sulle finalità politiche del
movimento di de Bosis. In Lauro vi era una forma di realismo politico, non una
personale adesione o fedeltà alle istituzioni considerate corresponsabili
del fascismo. Naturalmente si può discutere se questo, nel 1930, fosse
veramente realismo politico; se cioè veramente avesse un fondamento credere
in un sostanziale antifascismo della Monarchia e della Santa Sede a un anno
dalla Conciliazione. E di questo discuteremo.
Per quanto riguarda il primo punto, ossia la valutazione che de Bosis faceva
della Monarchia, abbiamo la probante personale interpretazione di Lauro che
il 2 febbraio 1931 scriveva a Salvemini per chiarire che "né Vinciguerra
né alcuno di noi altri siamo d'un pelo più monarchici dei nostri
amici di 'Giustizia e Libertà'; crediamo soltanto alla necessità
di manovrare con delle forze esistenti e non con delle idee, che condividiamo
anche noi, ma dietro alle quali oggi in Italia non ci sono delle vere forze
su cui far presa".
Ed era ancor più esplicito nella lettera inviata a Francesco Luigi Ferrari
a fine maggio del 1930:
"Io, naturalmente, preferisco la repubblica alla monarchia, e non ho il
minimo attaccamento ai Savoia, (...) Quello che mancava finora è un aut
aut dei monarchici, che, se non raccolto, fa più male alla monarchia
che non tutta l'opposizione repubblicana".
E disponiamo della ancor più probante testimonianza di Salvemini:
"Il dissenso politico (fra de Bosis e me) era sul metodo più che
sulla sostanza. Lauro era giunto alla conclusione che una repubblica era diventata
ormai inevitabile in Italia, ma per il passaggio dal dispotismo fascista alla
repubblica riteneva probabilmente necessaria la fase intermedia di una monarchia
costituzionale, grazie alla quale il paese avesse un minimo di libertà,
che gli permettesse di cercare, a ragione veduta, la sua storia".
Per quanto riguarda poi la linea di Lauro verso il mondo cattolico, e la gerarchia
ecclesiastica, ogni accusa di clericalismo rivolta a Lauro è destituita
di ogni fondamento. Anche in questo caso ci soccorre la testimonianza di una
bozza di piano delle cose da fare nell'Italia liberata dal fascismo che Lauro
delineò all'amico Cecil Sprigge, conosciuto a Roma quando era corrispondente
del "Manchester Guardian".
Vale poi la considerazione di massima che Lauro considerava le forme codificate,
dogmatiche, di religiosità come retaggio di civiltà arretrate,
destinate ad essere superate dalla religione della libertà, intesa come
credenza laica dell'immanenza del divino nel consorzio umano, non della sua
trascendenza. In questo, Lauro raccoglieva l'eredità del pensiero di
Vico tramite la mediazione di Croce. Del resto, tutta crociana era la sua sottovalutazione
del movimento modernista e del suo tentativo di conciliare la Chiesa con le
esigenze dell'età moderna:
"Se avesse accettato i suggerimenti dei Modernisti la Chiesa cattolica
avrebbe commesso un atto di suicidio immediato. La Chiesa cattolica, rifiutandosi
di discutere, ha ancora dalla sua parte molte maestose e venerabili forze di
carattere sentimentale se non intellettuale".
Lauro non aveva raccolto la lezione di Amendola e la sua strenua difesa del
modernismo come moto profondo di rinnovamento della Chiesa cattolica che avrebbe
avuto un effetto benefico anche nel progresso della società italiana;
tramite Croce, aveva fatto sue certe incomprensioni della classe dirigente giolittiana
per tutto quanto avveniva all'interno della Chiesa cattolica, con cui si trattava
ormai solo sul piano politico e diplomatico. Mi pare quindi di poter interpretare
il ruolo che la Santa Sede avrebbe avuto, secondo de Bosis, nel crollo del regime
in un quadro di pura valutazione realistica delle tendenze in atto nel mondo
cattolico - anche se questa interpretazione era estremizzata - senza alcun apprezzamento
da parte di Lauro di questo presunto antifascismo come di un progresso reale
del mondo cattolico che si sarebbe riverberato nella società italiana
del post-fascismo.
Il problema storiografico, dunque, è un altro. Non si tratta di assolvere
o di condannare Lauro de Bosis e l'Alleanza Nazionale in funzione dei collegamenti
che intendeva creare e considerava opportuni fra monarchia e Santa Sede e il
supposto antifascismo latente nell'opinione pubblica italiana, ma piuttosto
di valutare la fondatezza delle sue analisi politiche. Naturalmente è
un quesito di carattere storiografico che può trovare una risposta semplice
- o addirittura semplicistica - nella banale constatazione che il moto fallì.
La razionalità del reale, per dirla in termini hegeliani , sta dalla
parte di Mussolini. Ma ad una critica storiografica più accorta, desiderosa
di accertare nella loro reale portata i motivi di dissenso verso il regime che
indubbiamente esistevano, anche dopo il pur grande successo ottenuto dal fascismo
grazie ai Patti dell'11 febbraio 1929, questa constatazione non basta. Tanto
più che la possibilità che oggi ha lo storico di accertare l'attenzione
e la preoccupazione con cui la polizia fascista seguì e perseguì
il fenomeno si oppone ad ogni valutazione riduttiva dello stesso.
Le carte di polizia sono illuminanti anzitutto sull'apporto dei cattolici all'organizzazione
clandestina. Anzi i primi ad essere scoperti - molto prima dei capi, Vinciguerra
e Rendi - a Verona agli inizi dell'ottobre 1930 furono degli ex-popolari assieme
a socialisti. In particolare sono interessanti i risvolti dell'arresto del professor
Umberto Gelmetti, ex- popolare arrestato il 25 settembre 1930 su accusa di altri
arrestati per aver riprodotto le circolari 1, 2, 3, 4 dell'Alleanza nazionale.
Dal verbale di polizia risulta, in base alle sue dichiarazioni che:
"egli non era mai venuto in possesso, né aveva visti libelli antifascisti
di alcun genere, dichiarava che soltanto nella decorsa primavera, trovandosi
a Trento, vide nelle mani di un alto prelato del luogo, del quale sconosceva
(sic) il nome, una circolare dattilografata in due o tre fogli, diretta con
firma anonima 'I VOSTRI DIOCESANI E I CATTOLICI MILANESI' contro il Cardinale
Schuster di Milano".
In detta circolare, secondo Gelmetti, si accennava all'errore commesso dal Cardinale
Schuster nell'aver affermato in una lettera da lui diretta al Segretario Politico
del Fascio di Milano, in occasione del Decennale dei Fasci di Combattimento,
che il Papa e la Chiesa "avevano benedetto il Fascismo nelle sue origini".
Il documento cui faceva riferimento il Gelmetti era in realtà noto al
Ministero. I motivi della protesta dei cattolici milanesi - trecento erano i
firmatari della lettera e pare che fra questi vi fosse anche Stefano Jacini
- erano motivati soprattutto dall'affermazione del cardinale che "l'Italia
cattolica e il Santo Padre sino dalla prima ora hanno benedetto il fascismo
ed hanno concepito grandi speranze sulle giovani forze del Fascismo stesso".
Il cardinale veniva accusato di dimenticare le violenze che in più occasioni
i fascisti avevano messo in atto contro i cattolici, e soprattutto l'ostilità
più volte manifestata contro l'azione cattolica.
Ma di tutta la vicenda delle ostilità che suscitava la figura di Schuster
- sia in ambienti cattolici ostili al regime sia anche in sacerdoti fascistissimi
- è interessante in questa sede il fatto che essa superasse i confini
della diocesi di Milano e divenisse quasi simbolo presso certo ex-popolarismo
di contestazione verso i settori della gerarchia ecclesiastica più favorevoli
a forme di legittimazione ideologica del regime. Quale collegamento ci fosse
fra questi ex-popolari e padre Enrico Rosa S. J., direttore de "La Civiltà
Cattolica" non è possibile dire. Il primo storico dei rapporti fra
mondo cattolico e fascismo a parlare dell'apporto dato da padre Rosa alla diffusione
delle circolari dell'Allenanza nazionale è stato Richard Webster che
a sua volta, si basa sulla testimonianza di Luigi Salvatorelli. Comunque si
tratta di tradizione orale, fondata sul dato incontestabile che padre Rosa era
personalmente ostile al regime ed era arrivato a provocare il sequestro di un
numero de "La Civiltà Cattolica" ove paragonava il Concordato
sottoscritto con Mussolini con quello napoleonico: "Mussolini, come l'imperatore,
intendeva fare del concordato un instrumentum regni," suscitando le proteste
della Chiesa che rifiutava ogni compromissione - nella interpretazione del gesuita
- con un sistema politico. Mancano prove documentarie d'appoggio dell'attività
di diffusione delle circolari dell'Alleanza esercitata da padre Rosa.
Il cospicuo numero di ex-popolari che cade nella rete della polizia fascista
a Verona non è comunque un caso limitato al Veneto, come pensa Webster.
Ad Ancona la percentuale di ex-popolari era parimenti alta, anche se pare che
il centro motore della organizzazione fosse certo Aldemiro Nacci, di professione
tipografo, che la polizia fascista qualifica come "anarchico sfegatato".
Mentre in Liguria la maggiore personalità affiliata al movimento era
il professor Giuseppe Rensi, docente di filosofia, qualificato come "socialista
non biografato", ma che, in realtà, aveva precedenti politici democratico-repubblicani.
Figurava fra gli arrestati anche un certo Tito Rosina, ex attivista del movimento
clandestino "Italia Libera".
Comunque, dal quadro generale che possiamo trarre dalle carte di polizia emerge
una partecipazione all'organizzazione clandestina che coinvolge ex-popolari,
socialisti d'ispirazione riformista, repubblicani, democratici di diversa estrazione,
e qualche anarchico. Parteciparono o sodalizzarono con l'Alleanza anche il duca
di Cesarò e Zanotti Bianco; il finanziere Ferlosio fu il finanziatore
del movimento che fu visto di buon occhio anche da Benedetto Croce. Sono completamente
assenti i comunisti che, evidentemente, non potevano sottoscrivere un movimento
i cui principi erano profondamente legalitari, e che, anzi, nella ispirazione
di fondo, intendeva provare che in Italia esisteva un antifascismo non comunista,
e soprattutto era possibile dare uno sbocco statutario di tipo liberaldemocratico
alla lotta contro il fascismo.
La dinamica dell'arresto dei capi dell'organizzazione, Vinciguerra e Rendi,
oltre che della madre di de Bosis, cui Lauro sfuggì perché si
trovava in America da metà settembre, è nota. Vinciguerra fu sorpreso
mentre impostava le lettere; Rendi fu arrestato perché, sospettato per
i frequenti contatti con Vinciguerra, furono trovate a casa sua le macchine
da scrivere con cui erano state battute alcune circolari della Alleanza; mentre
la madre di Lauro, Liliana Vernon, fu tratta in arresto perché teneva
in casa il ciclostile con cui erano stati riprodotti esemplari delle varie circolari.
Questi arresti avvennero fra la fine di novembre e gli inizi di dicembre del
1930. L'organizzazione fu sostanzialmente decapitata, anche se continuò
una certa attività, promossa da de Bosis da Parigi, nella prima metà
del 1931. Nel corso del processo il regime potè gettare fango su Lauro
e sua madre per la lettera che il primo aveva scritto all'ambasciatore italiano
a Washington ove si dichiarava fedele al regime per ottenere l'incarico di rappresentanza
in Italia della "Lega per l'educazione nazionale": sarebbe stata una
buona copertura per poter viaggiare e contattare molte persone. Mentre la madre
di Lauro si compromise con una lettera di sottomissione al duce, condizione
perché gli altri suoi figli non avessero la carriera stroncata11.
La lettera, nonostante le promesse contrarie, fu resa di pubblica ragione. Vinciguerra
e Rendi furono condannati a quindici anni di carcere, che furono poi ridotti
a sette. Era una pena durissima che si giustifica solo con la volontà
del regime di dare una lezione feroce agli ambienti costituzionali che intendessero
manifestare intenzioni ostili al regime. Mi sembra acuta, a questo proposito
la notazione del quotidiano di Tunisi "Le Petit Matin" del 22 dicembre
1930 - che non era sfuggita alla polizia - a proposito del fatto che questo
processo era il primo "a far tradurre innanzi al Tribunale Speciale per
la difesa dello Stato non dei rivoluzionari o dei comunisti, ma dei semplici
cittadini cattolici e monarchici operanti in nome delle opinioni liberali".
Con qualche riserva per la troppo restrittiva delimitazione a cattolici e monarchici,
l'osservazione era comunque valida.
Ma allora quali reali possibilità di successo aveva il movimento suscitato
da Lauro de Bosis? E se scontiamo, come pare legittimo, che queste in realtà
non ci fossero, quale fondamento aveva la sua convinzione della ostilità
della Chiesa e della Monarchia verso il fascismo?
Per quanto riguarda la prima, va anzitutto detto che motivi di ostilità
c'erano e per quel tanto che si manifestavano, riguardavano due punti essenziali:
l'educazione cattolica della gioventù e l'Azione cattolica, che la gerarchia
ecclesiastica considerava tramite essenziale per mantenere uno stretto contatto
con la società civile. Il secondo punto avrebbe scatenato una crisi molto
grave fra Chiesa e regime nella estate del 1931 - dopo le crisi che pure c'erano
state prima della firma dei Patti - anche perché la Conciliazione aveva
rinfocolato nel mondo cattolico la convinzione che fosse giunta l'ora per la
creazione di una monarchia cattolica. La Conciliazione, insomma, crea un clima
di effervescenza e di grandi aspettative nel mondo cattolico che si traducono
anche in uno sforzo di espansione organizzativa, certo non visto di buon occhio
dal regime fascista. Perché se andiamo al fondo delle crisi, dei contrasti,
o delle potenzialità di contrasto che pure vi furono fra mondo cattolico
e fascismo - ma badando bene a non esaltarne troppo la portata - vediamo come
esse non fossero tanto radicate in motivi di ordine ideologico. Per intenderci,
i conflitti non si muovevano sulla base delle incompatibilità fra il
vecchio popolarismo e l'ideologia totalitaria del regime, ma piuttosto per la
stessa presenza di una organizzazione di massa, con oltre un milione di iscritti,
che non era antifascista, ma che non era integrata nelle organizzazioni del
regime. La Santa Sede difese strenuamente la sopravvivenza del laicato cattolico
organizzato e fu vittoriosa in questa battaglia, grazie alla grande duttilità
con cui seppe piegarsi alle pressioni del regime nel 1931, senza cedere sull'essenziale
e recuperando le posizioni perdute a partire dalla metà degli anni trenta.
L'errore di valutazione compiuto da de Bosis stava, dunque, nel confondere Azione
cattolica e dissidenza degli ex-popolari. Questi ultimi in parte ancora sopravvivevano
nelle file dell'Azione cattolica, ma a condizione che non si trattasse di personalità
eminenti e note del popolarismo e a condizione che non manifestassero in alcun
modo il loro antifascismo, salvo ad essere emarginati dall'or-ganizzazione.
La Santa Sede accettava il conflitto con il regime per mantenere saldi i punti
di raccordo con la società civile, ma non per difendere posizioni politiche
o ideologiche che essa stessa non condivideva. Il fatto poi che esistessero
sacerdoti o vescovi o gesuiti dalle personali opinioni contrarie al regime non
modificava nella sostanza il quadro delineato.
Per quanto riguarda la monarchia, è sufficiente rinviare alle osservazioni
sempre acute di Renzo De Felice a proposito della volontà di Mussolini,
tanto più in questa fase, di risolvere i rapporti con la monarchia "senza
scosse e col tempo - quando cioè il suo peso nella diarchia fosse diventato
superiore a quello del re, assai probabilmente, quando, con la morte di Vittorio
Emanuele III, il problema fosse venuto naturalmente sul tappeto". E, a
conferma di questa tesi, De Felice fa riferimento proprio alle forze armate
e alla opposizione del duce ad ogni progetto di radicale fascistizzazione che
pure gli veniva presentato "perché sapeva che ciò gli avrebbe
creato gravi difficoltà con la monarchia". Mi pare evidente che
se Mussolini, disponendo di un osservatorio certo migliore di quello di de Bosis
e dei suoi amici dell'Alleanza nazionale, avesse creduto in una minaccia che
poteva venire dal re o dall'esercito avrebbe tenuto una linea diversa.
I mesi che succedono all'arresto di Vinciguerra, Rendi e della madre sono mesi
che potrebbero essere definiti, con una formula cara a certa agiografia mazziniana,
della tempesta del dubbio. Compie il primo tentativo aereo fallimentare in Corsica
nel luglio 1931 ed è poi costretto a riparare in Inghilterra per sfuggire
alla cattura. (Dalle carte della polizia sarebbe risultato anche un suo viaggio
in America in quella estate del 1931 perché viene intercettata una sua
lettera alla madre, proveniente dagli Stati Uniti, del 10 settembre 1931, ove
Lauro si rammarica con la madre di aver trascinato anche lei nella via da lui
percorsa e per causa sua averla esposta a tanti guai).
Traspare da questi studi la concezione di un liberalismo che non si lascia cristallizzare
in un apparato istituzionale fisso ed immutabile, ma che si evolve con la storia,
che deve sempre rispondere ad una sfida permanente di rinnovamento e di adattamento
alle circostanze. Questa "religione della libertà" esprime
la sua fede laica in una crescita umana e civile nella quale la "negatività",
che nella fattispecie concreta è rappresentata dalla dittatura fascista,
non rappresenta altro che una caduta momentanea, una parentesi, come avrebbe
detto Croce. Questo, tuttavia, non comporta in de Bosis una assuefazione passiva
alla realtà del regime. Egli è un eroe mazziniano, come l'ha descritto
acutamente Piero Calamandrei nel magistrale ritratto di Lauro de Bosis disegnato
nel quinto anniversario della Liberazione. È un eroe del Risorgimento
che opera una sintesi di pensiero e di azione; il suo ottimismo liberale non
prescinde dall'impegno concreto fino al sacrificio della vita per gli ideali
in cui crede.
È facile osservare che la sua visione di una battaglia individuale contro
il fascismo è più il frutto di una cultura ottocentesca, che non
il portato della consapevolezza della forza dei mostri totalitari del novecento.
Nella sua statura di eroe romantico, de Bosis non è toccato dal pessimismo
della ragione individuale proprio dell'uomo del novecento. Ma a torto lo ridurremmo
negli ambiti angusti di una cultura tutta ottocentesca. Nello scritto sull'Unità
europea rivela una sensibilità tutta gobettiana quando esalta il progresso
attuato dall'internazionale socialista, "la forza che ha fatto la parte
del liberalismo contro le vecchie forze conservatrici", pur additando i
rischi che essa corre di divenire portatrice di dispotismo.
Come è del tutto ingiusto e ingiustificato ridurre il suo ottimismo a
leggerezza, come fa Prezzolini, per tornare al punto di partenza del mio intervento;
come è ancora fuorviante ridurre la figura di Lauro a quella di "un
martire cavalleresco che si è sacrificato per l'onore". Egli, come
abbiamo visto anche nella lettera scritta alla madre, non ha alcuna speranza
di successo immediato. Cionostante ritiene che il suo sacrificio non sia inutile;
la sua fede laica gli permette di credere nella immortalità delle opere,
anche le più anonime, anche se perdenti, purché votate ad un grande
ideale. In una delle sue pagine più significative ed illuminanti del
senso della sua vita, scrive:
"Coloro che hanno collocato il loro amore nelle cose eterne sono più
immortali di quelli che lo hanno dedicato alle cose periture, e delle due categorie
di individui sono più immortali quelli che amano cose grandi e sono pronti
a morire per esse (...) L'immortalità non è figlia della morte
ma dell'amore".
La sua volle essere una testimonianza di verità, costasse quello che
costasse, perché era certo che alla fine la verità avrebbe trionfato,
e Lauro sarebbe stato partecipe di questo trionfo.
*****
Così, infine, ebbe a esprimersi Piero Calamandrei, illustre
giurista e uomo politico, nella commemorazione del volo, il 25 aprile 1951,
ventennale della scomparsa di Lauro.
"... dobbiamo ricordare che chi primo lanciò il grido nel silenzio
sconsolato furono gli uomini isolati ed esemplari che anche negli anni del buio
seppero segnare la strada e mantenere la continuità tra il primo e il
secondo Risorgimento. La Resistenza è stata possibile perché Cesare
Battisti, eroe che ricongiunge due secoli, è stato impiccato; perché
Matteotti è stato pugnalato; perché Amendola è stato abbattuto
dai sicari e Gobetti stroncato a bastonate; perché i Rosselli sono stati
assassinati; perché Gramsci è stato fatto morire in galera; perché
Lauro de Bosis si è inabissato nella notte dopo avere assolto il suo
voto. Sono essi i precursori della Resistenza; essi i fratelli di tutti i caduti
dell'ultima guerra, di tutti i torturati dai tedeschi, di tutti i trucidati
dai fascisti, di tutti gli scomparsi nei campi di deportazione.
Così, come Salvemini, Spadolini e gli altri testimoni e autori citati,
anche Calamandrei pone in luce l'aspetto "risorgimentale" dell'azione
di Lauro e il suo legame tra la Resistenza al fascismo e la Guerra di Liberazione,
dodici anni dopo.
Testimonianze
1 bis, rue Vaneau VIIº
15 octobre 33
Mon cher Aveline,
Tous mes remerciements pour l'envoi (pas encore reçu) du Lauro de Bosis.
Je connais déjà et Icare et l'admirable testament, ayant eu en
mains tous les documents de cette héroïque et mortelle aventure;
mais suis heureux d'avoir ce volume et de le tenir de vous.
Bien cordialement votre
André Gide
*****
Copie d'une lettre à Gide
16.10.33
Mon cher ami,
Je n'ai pas oublié que vous avez eu entre les mains tous les documents
concernant l'aventure et la mort de Lauro de Bosis. Je n'ai pas oublié
non plus notre entretien, le jour où je suis venu vous demander la préface
que nous rêvions d'avoir de vous. Vos scrupules ont arrêté
ma prière. Mais ces scrupules, ces objections, qui ne pouvaient prendre
place dans un avant-propos, ne les verrons-nous pas exprimés dans quelche
page de votre journal? Tous les amis de Lauro de Bosis souhaitent de voir son
nom ecrit par André Gide et ils savent bien que vos réserves seront
encore sous votre plume un grand hommage à une charmante et belle mémoire.
Votre toujours fidèle
Claude Aveline
*****
Bougie 10.12.33
Cher et illustre confrère,
Je ne sais comme vous remercier de l'envoi de l'Icare dont la lecture m'a ravi.
Il a eu la change de trouver un traducteur grand poète M. Ferdinand Hérold,
dont j'ai toujours admiré la sensibilité et le talent. C'est un
monument digne de Lauro de Bosis que la France a dédié à
sa mémoire. Encore merci, et en vous souhaitant un heureux Noël
et toutes sortes de félicités pour 1934,
Agréez, cher et illustre confrère, l'assurance de mon admiration
et de mon dévouement.
Teixeira-Gomes
*****
Northampton Mass.28 Novembre 1933
Cher Monsieur Aveline,
J'ai reçu le livre de mon cher, héroïque, inoubliable ami
Lauro de Bosis. Je trouve la traduction très belle: elle fait ressortir
admirablement toutes les intentions du texte.
C'est avec émotion que je vous remercie de m'avoir fait l'honneur de
me l'envoyer.
G. Ant. Borgese
*****
le 10 Décembre 1933
Monsieur,
J'ai tardé à vous remercier du très beau livre, Icare,
que vous m'avez envoyé. J'ai moins tardé à écrire
un article pour la N. R. F. destiné à réveiller énergiquement
le souvenir du héros. Je ne puis m'empêcher de regretter ces méthodes
de lutte, qui, par la mort de l'homme libre, donnent force au tyran. Mais la
beauté du geste est toute pure. La lettre finale, Histoire de ma Mort,
est sublime: et le drame d'Icare égale les plus hauts qu'on puisse lire.
Honneur au traducteur qui a tant sauvé de la poésie originale.
Graces à Romain Rolland, qui paraît toujours justement où
on l'attend, et à vous, Monsieur, qui avez transformé en objet
ce précieux livre. Lauro de Bosis nous a quittés; c'est donc que
nous avions oublié la liberté chérie. J'ai résolu
de ressentir ce départ comme un mépris. Mais d'un autre côté,
je sais, et voudrais faire entendre, que le devoir d'un homme libre n'est jamais
de mourir. C'est ainsi que cet ange flamboyant me divise contre moi-même.
Encore merci à vous, et message fraternel à tous les amis du héros.
Alain
*****
Cassis 31 Octobre 33
Cher ami,
J'ai reçu votre lettre et j'apprends que le beau livre de Bosis est arrivé
chez moi à Belleme - Je vais le faire venir avec toutes les précautions
nécessaires. Je suis bien heureux d'être des privilégiés
qui possèderont cette édition de choix. La vie, la pensée,
la mort, de Lauro de Bosis éveillent en moi d'autant plus d'émotion,
qu'en ce moment, repris entièrement par l'achèvement des Thibault,
je vis avec eux dans cette semaine terrible qui a précédé
les mobilisations européennes de 1914, où justement, jour après
jour, grâce aux machiavéliques dosages de la presse, la fièvre
mauvaise de vengeance et haine fratricide montait de degré en degré,
collective, contagieuse, irrésistible. C'est vous dire quel accueil je
réserve à votre livre.
Le "Testament" de Bosis, lu dans je ne sais plus quelle revue, m'avait
déjà profondément bouleversé.
Je pense rester encore cet hiver dans le Midi. Je ne puis donc vous dire "à
bientôt". Mais tout a une fin, même les réclusions laborieuses,
et, en attendant, mon amitié ne s'altère pas. Vous n'en doutez
pas?
Vôtre
Roger Martin du Gard
*****
Villeneuve (Vaud) Villa Olga
24 Octobre 1933
Cher Claude Aveline,
Merci de vos beaux livres. Je félicite sincèrement l'éditeur
et les imprimeurs.
Si vous pouviez disposer encore pour moi de deux ou trois exemplaires, je vous
en serais reconnaissant. - Mais il ne faut pas que cela puisse vous gêner.
Et combien j'aurais souhaité qu'un de ces volumes pût parvenir
à la mère de Lauro! J'ai reçu d'elle, le mois dernier,
une lettre bien émouvante, que des amis avaient portée, par dessus
les Alpes, pour la mettre à la poste de Chamonix. Si vous aviez quelque
moyen de l'atteindre, son adresse est:
Madame Liliana Vernon de Bosis, 36 viale Principe Eugenio, Firenze.
Je vous serre affectueusement la main
Votre dévoué
Romain ROLLAND
*****
Paris le 18 Octobre 1933
Monsieur,
Je reçois votre lettre et l'exemplaire Icare que vous avez eu l'amabilité
de m'offrir.
Je vous suis infiniment reconnaissant de m'avoir procuré l'occasion de
savourer les beautés poétiques de ce livre édité
par vous soins, et vous prie d'agréer, Monsieur, l'assurance de ma considération
très distinguée.
S. Madariaga
*****
Meudon
10, rue du Parc
17 Octobre 1933
Mon cher Claude,
Je viens de recevoir l'exemplaire d'Icare que vous avez bien voulu m'envoyer
et je vous en remercie de tout coeur. Je serai heureux de lire le drame et le
"testament" de l'héroïque Lauro de Bosis...
Quand vous verra-t-on à Meudon? J'espère que ce sera bientôt.
Je pense souvent avec émotion à votre dernière visite.
A vous bien affectueusement.
Jaques Maritain
*****
20 Octobre 1933
62, rue Pierre Charron
Paris 8º
Monsieur,
Je viens de recevoir l'Icare de Lauro de Bosis. J'ai aimé Lauro de Bosis.
Je regarde aujourd'hui son livre avec une dévotion profonde. Je vous
remercie d'avoir édité le livre et de me l'avoir envoyé.
Je ne manquerai pas de faire de mon miex pour que la renommée de Lauro
de Bosis et la valeur de sa voix soient répandues.
Agréez, Monsieur, mes sentiments bien dévoués.
Lionello Venturi
*****
32, Chepstow Villas
London W.ll
22.X.33
Monsieur,
Je vous remercie beaucoup d'avoir pensé à moi en envoyant un exemplaire
de la traduction d'Icare de Lauro de Bosis.
Le souvenir du jeune poète et héros est toujours présent
à ma pensée et à mon coeur: et l'Italie de l'avenir ne
l'oubliera jamais.
Veuillez agréer, Monsieur Aveline, mes sentiments très dévoués
Luigi Sturzo
*****
Paris, le 24 Octobre 1933
Cher Monsieur,
J'ai reçu de votre part la belle édition française de Icaro.
Ami des lettres et italien qui a cru être son devoir de tout sacrifier
à l'amour de la liberté, j'éprouve une profonde reconnaissance
vers tous ceux qui coopèrent à l'exaltation du souvenir de Lauro
de Bosis. Il est voué à l'immortalité comme tous les poètes
qui ont sanctifié leur rêve par une mort glorieuse.
Lauro de Bosis, qui est aujourd'hui un héros pur parmi les antifascistes,
sera demain pour tous les italiens un des saints martyrs du deuxième
"Risorgimento" de notre patrie.
Merci donc, Monsieur, à vous, à Miss Draper et à Messieurs
Rolland et Hérold.
Votre très dévoué
Alberto Tarchiani
*****
(telegramma)
14º PC S Roma Quirinale
Si compiono oggi quarant'anni dal giorno in cui Lauro de Bosis, nobile figura di antifascista, scomparve nel cielo del Tirreno dopo il solitario volo da lui effettuato su Roma per dimostrare contro la dittatura. Mi è caro in tale occasione, non solo rendere omaggio alla memoria, ma testimoniare l'ammirazione e la gratitudine che l'Italia restituita a libertà deve a lui e alla purezza del suo eroismo. Il suo fu un atto di sfida del cui rischio egli fu pienamente consapevole. Tanto consapevole da dettare, prima di compierlo, quella "Storia della mia morte" che non possiamo rileggere senza commuoverci e che è bene richiamare ai dimentichi e additare ai giovani. Trentenne, poeta, innamorato della vita, egli fece nondimeno volontario e cosciente dono di essa per l'affermazione degli ideali di libertà. Esempio per tutti, desidero dirle nella presente ricorrenza che il ricordo di Lauro de Bosis non perirà.
Giuseppe Saragat
(telegramma)
Signora Charis Cortese de Bosis
Via Giovagnoli, 25
00152 Roma
Cinquant'anni orsono, la sera del 3 ottobre 1931, Lauro de Bosis, giovane generoso, con grande coraggio, compiva un'impresa che si sarebbe conclusa tragicamente, come lui stesso aveva presagito. Con la sola forza dell'ideale e della fede nella libertà, lanciava la sua sfida alla tirannide fascista, realizzando il suo audace volo propagandistico per risvegliare le coscienze degli italiani al culto di quei valori per i quali si erano immolate intere generazioni di patrioti. La "Storia della mia morte" di Lauro de Bosis resta un esemplare testamento spirituale per quanti si volgano a cercare, in momenti di crisi morale, un sicuro punto di riferimento nella lotta per la democrazia. Con questi sentimenti desidero esprimerLe, gentile Signora, il mio comosso ricordo e quello degli italiani tutti per la figura sempre viva di suo fratello Lauro
Sandro Pertini
*****
I sottoscritti membri del Comitato Centrale di Liberazione Nazionale dichiarano di avere tenuto più volte, durante l'occupazione tedesca di Roma, riunioni plenarie del Comitato nell'appartamento abitato dalla sig.ra CARIS DE BOSIS in Via Due Macelli, 66 da questa cortesemente e coraggiosamente offerto.
Nel documento qui sopra riprodotto, in ordine, compaiono le firme autografe di: Ivanhoe Bonomi, Meuccio Ruini, Pietro Nenni, Giovanni Gronchi, Mauro Scoccimarro, Alcide De Gasperi, Sergio Fenoaltea, Giorgio Amendola.
*****
[qui le riproduzioni di alcuni manoscritti. Nota per l'edizione elettronica (e-text)]
EPILOGO
"Icaro cadde qui". Così scriveva Jacopo Sannazaro
nel sonetto caro a Lauro de Bosis: caduto, non dimenticato. Il nome di Lauro
rivive nell'affetto dei suoi congiunti ed è rievocato ogni giorno nella
più celebre università degli Stati Uniti. Il destino ha voluto
che l'ideatore di Alleanza Nazionale per la libertà desse vita, con la
sua morte, ad un alleanza culturale tra Italia e America: che si concreta con
l'ospitalità offerta da Harvard ad esponenti della nostra cultura, presso
la cattedra intitolata al nome di Lauro: "the Lauro de Bosis lectureship
on Italian civilization".
Il loro compito è dei più importanti per l'Italia e per l'America:
confermare e arricchire quell'intimo rapporto di interdipendenza culturale tra
due paesi appartenenti alla stessa civiltà. Una generosa e intelligente
iniziativa di Ruth Draper - compagna di Lauro in Italia e in esilio - ha reso
possibile fin dal 1934 l'istituzione del Comitato Inter-disciplinare sulla Civiltà
Italiana che per più di sessant'anni ha ricordato il gesto di Lauro.
Ruth Draper aveva intuito che legare il nome di Lauro alla diffusione della
cultura Italiana in America era il tributo più nobile e più gradito
alla sua memoria.
Il Presidente della Harvard University, Professor Conant, non esitò ad
accogliere l'iniziativa, anche se autorevoli simpatizzanti americani del fascismo
tentarono tenacemente di impedirglielo. Ma l'ateneo è sovrano. E la decisione
favorevole di Conant rese possibile questa istituzione veramente unica nei rapporti
tra Italia e America.
Il primo titolare fu Gaetano Salvemini, come sappiamo, amico e maestro di Lauro,
una delle poche ma eloquenti voci italiane che dall'estero denunciavano puntualmente,
con scrupoloso senso della verità storica, quella politica dissennata
del fascismo che avrebbe portato l'Italia a coinvolgersi in otto guerre o interventi
unilaterali nello spazio di sei anni: 1935-1941. Fino alla catastrofe finale.
Da Gaetano Salvemini a Dante della Terza, autorevole Direttore del Dipartimento
di Filologia Romanza di Harvard. L'elenco degli uomini di cultura, veri ambasciatori
della nostra civiltà antica e moderna, non ha bisogno di commenti. Fra
gli altri: S. Quasimodo, F. Venturi, G. Spini, R. Prodi, P. Sylos-Labini, F.
Farneti, V. Frosini, S. Romano, V. Branca, F. Chiapelli e altri illustri docenti.
Se oggi il governo Italiano potesse e sapesse promuovere la creazione di analoghe
"ambasciate culturali" in seno alle maggiori università del
più importante paese del mondo, l'immagine dell'Italia in America, ne
risulterebbe riequilibrata e arricchita.
Si tratterebbe in fondo, ricordando le parole con cui Lauro descrisse il suo
gesto, di fornire un "atto di spirito civico."
Per l'Italia.
Introduzione
di Plinio Perilli
"Ce lo leveremo d'addosso, ma ci vuole tempo"...
Come invocando presto il conforto propedeutico d'un urgente e nudo controestetismo,
d'una provvidenziale e volitiva cura omeopatica, così il giovane Lauro
De Bosis, figlioccio ideale del Vate Imaginifico, additava e stigmatizzava il
proprio stesso "cimurro dannunziano". Primi anni Venti, vocazione
generazionale, versi adolescenziali, lirismi atavici, davvero ancestrali, predestinati:
...
Ciascun mattino mille vivi cuori
S'empion di gioia alla novella luce.
Ciascun mattino nuova forza adduce
Novelli canti e più novelli amori.
Dunque, fanciullo sta sereno e pensa
Che i tuoi tormenti e la tua gioia frale
Son le pallide note di un'immensa
Singonia che trascende il bene e il male
...
Lauro era figlio di un personaggio importante e stimato, nel
panorama dell'Italia tra fine Ottocento e inizio secolo: quell'Adolfo De Bosis
amico e sodale di D'Annunzio, direttore dell'allor celebre rivista "Il
convito", antipositivistica e votata ad accarezzare e codificare le istanze
d'un aulico, accentuato romanticismo decadente ed estetizzante. I collaboratori,
oltre all'autore del Piacere e de Le vergini delle rocce (che uscì appunto
sul "Convito" fra il 1894 e il '95), erano il Giovanni Pascoli degli
appunto battezzati Poemi Conviviali, ed altri artisti e grandi figure intellettuali
quali E. Scarfoglio, A. Venturi, G. Sartorio... Adolfo era anch'egli poeta,
sensuale, raffinato, fra il dannunziano e il preraffaellita (Amori ac silentio
sacrum, 1900), nonché apprezzato traduttore del Prometeo liberato di
Shelley.
Per questo abbiamo parlato del figlio Lauro come d'un predestinato: culturalmente,
liricamente, finanche politicamente. Nato nel 1901, col Secolo, non poté
davvero esimersi dal nutrirsi e impastarsi d'ogni cara, fulgida retorica potentemente
in auge. Ma forse proprio questa dispiegata preparazione psicologica - il privilegio
d'un Idealismo incarnato, d'un Estetismo praticato, risolto già in casa,
anzi per medesima connotazione, felice patologia, tara e dono di sangue - lo
condusse fuori bellamente, verso altri lidi, altri convincimenti, egualmente
nobili ma certo più aderenti ai tempi nuovi, e alla difficile situazione
politica dell'Italia anni '20, in avanzato grado di fascistizzazione.
Sfebbrò da solo, Lauro, redento in proprio, emancipato da ogni vacuo
trionfo estetico o idealizzazione dorata quanto inattendibile. Non poco, certo,
lo aiutò anche l'internazionalità, l'estraneità sapienziale
della madre (Lilian Vernon, americana, figlia d'un pastore protestante metodista)
a quel Gotha Italico, a quel Parnaso elegante ma troppo accondiscendente con
una dittatura di destra inventata, sublimata con drammatico cinismo da un ex
trascinante oratore socialista, vecchio compagno di galera con Nenni, e ora
circondato e duce di scombiccherate, gaglioffe squadracce da combattimento pagate,
in nome d'una sacra crociata contro il bolscevismo, coi soldi degli industriali
del Nord e dei gattopardi o latifondisti del Sud, e benedette dalla trasparente,
cauta ma consenziente ambiguità della Chiesa, presto avviata all'utile,
affaristico concordato dei Patti Lateranensi (1929)...
"Gli anni formativi della sua adolescenza" - rievoca il grande, affettuoso
rispetto memoralistico d'un Gaetano Salvemini - "videro la prima guerra
mondiale (1914-1918) e quella crisi di smarrimento che aprì la via al
trionfo di Mussolini (1919-1921). Lauro seguì con simpatia la prima fase
del movimento fascista. (...) Ma non prese mai parte attiva in quel movimento.
La politica non lo interessava. Gli studi lo assorbivano intero. D'Annunzio
era allora l'idolo della gioventù. Lauro ne subì l'influenza.
(...) In politica era 'liberale' come Croce, nel senso che la parola aveva allora
in Italia, cioè era un conservatore dell'Italia quale era stata creata
dal Risorgimento"... I suoi miti, le sue aspettative e in fondo anche i
suoi errori di valutazione, furono in realtà quelli di tutti, anche della
migliore intellighenzia; conferma Salvemini, il grande storico e antifascista,
fondatore nel '25, coi fratelli Rosselli, del periodico clandestino "Non
mollare", poi esule in USA dal '34 al '47: "Croce prese posizione
netta contro il fascismo solo nel 1925, dopo che Mussolini 'era andato troppo
avanti', demolendo ogni reliquia delle libertà costituzionali italiane.
Lauro stesso, nel 1931, nella prefazione all'opuscolo dell''Allenza Nazionale',
indicò il 1925 come l'anno critico della politica italiana"...
Così si era formato Lauro, frutto adolescente d'un'intera epoca dello
Stile, del Gusto, di Amori Sensuali o Letterari, di Liberata, Sconfinata Retorica:
Così veda tu un giorno il mare latino coprirsi
di strage alla tua guerra
e per le tue corone piegarsi i tuoi lauri e i tuoi (mirti,
o semprerinascente, o fiore di tutte le stirpi,
aroma di tutta la terra,
Italia, Italia,
sacra alla nuova aurora
con l'aratro e la prora!
- sono i versi roboanti ed enfatici del "Canto augurale per la nazione
eletta", che D'Annunzio intonò proprio nel 1901, anno natale di
Lauro, nome, cuore poetico per eccellenza...
L'Imaginifico, poi Orbo Veggente dopo l'incidente aviatorio e le gesta di guerra,
aveva salutato il nuovo secolo col romanzo Il Fuoco (l'amore con la Duse, la
morte di Wagner a Venezia), aveva abbracciato la grande poesia col terzo libro
delle Laudi, Alcyone (1904), per sperdersi poi nelle liiriche celebratorie e
propagandistiche di Merope (1912) e Asterope (1914-18): la canzone d'oltremare,
quella del sangue, del sacramento, dei trofei, dei Dardanelli... Cielo e Mare,
Terra ed Eroi - tutto vi confluiva... supremo "Annunzio" dedicato
alle Pleiadi e ai Fati! Aggiornatissimo pre-futurista, classicheggiante padre
in pectore di tutte le avanguardie e gli esibizionismi di Modernità,
il Gabriele nazionale aveva all'uopo dedicato un intero romanzo, Forse che sì
forse che no (1910), ai primordi dell'arte e della tecnica aviatorie, infuse
nel personaggio di Paolo Tarsis, alter-ego o proiezione del Vate, esteta fanatico
di macchine ed aeroplani... L'intero finale del libro, con Paolo disperato perché
Isabella, ormai impazzita, viene rinchiusa in casa e gli è impedito di
rivederla - e con Paolo senza speranza che prende allora il suo aereo e decide
di tentare un volo senza ritorno, immolandosi come supremo esorcismo esistenziale...
Ma il viaggio, il volo giustappunto romanzesco riesce, e Paolo, trasvolatore
fatale, approda dal continente alla Sardegna, liberato e quasi riscattato verso
e contro il sole...
Inquietante, profetico "prologo" letterario, scritto, d'una vicenda,
d'un'emozione suprema che Lauro De Bosis, allora bimbetto, vivrà poi
davvero, e con ben altre implicazioni morali, etiche, politiche - fuor da ogni
banale o superomistico estetismo allora di moda...
*****
Certo è che questi nuovi Icari futuristi seducevano in pieno l'immaginario
dei tempi, anche se D'Annunzio, cominciando nel 1909 il campo d'aviazione romano
di Centocelle, e intrattenendosi col famoso tenente Calderara per mettere a
punto una nuova terminologia aviatoria per il romanzo, rimaneva insoddisfatto
delle espressioni tecniche come "sterzare", "planare", "aeroplano"
- preferendo, ad esempio, la più lieve e lirica parola "velivolo",
consacrata da Ovidio e da Virgilio... Il Futurismo chiedeva lumi alla classicità.
Già, il futurismo! Neanche quel germe mancava, nel non piccolo elenco
di malattie virali esantematiche che aveva dovuto patire, attraversare il giovane
Lauro: "Risveglio dell'idealismo" - scriveva Boccioni nei suoi taccuini
- "La vita prende forma nell'ideale. Quindi lo stile contiene il rinnovarsi
della fiamma-idea". Mutava l'arte, mutava il mondo, ma le fiamme-idee lottavano,
vincevano o soccombevano con gli stessi sentimenti di sempre, i medesimi perigliosi
gorghi di civiltà, le correnti, marine o aeree della Storia: "Accennare
con la forma ai voli dell'anima", annotava Boccioni nel 1907. E ricopiava
dall'epistolario di Wagner una confessione drammaticamente egocentrica: "Io
mi rendo sempre più conto che la vera causa di tutte le mie sofferenze
consiste unicamente nel fatto di non poter rinunziare definitivamente alla vita
e alle ambizioni". Oppure raccontava ammirato una corsa automobilistica
al circuito di Brescia: "Mi sembrava di vedere gli eroi nuovi! Sarà
vero? Certo che in quelle corse meravigliosamente fantastiche c'era l'idealità
eterna della conquista. Bisogna trasformare in materia d'arte il tutto".
Quando Boccioni morirà, l'amico, sodale e capoplotone Marinetti, gli
dedicherà con la penna un ritratto indimenticabile, che ora vale anche
per quel momento artistiico, quel morbo seducente e nuovo: "Il futurismo
plastico che egli amò era la nuova Italia ebbra cosciente improvvisatrice
e volitiva, tutta ad angoli prepotenti, a spirali volanti, a colori belli, così
assolutamente opposta alla vecchia Italia scialba cascante molle e stupidamente
fronzoluta"...
Un manifesto futurista del 1916 teorizzava "La nuova religione morale della
velocità"; quei poeti cantavano l'aereo, il treno, la torpediniera:
"voleremo insaziabilmente!" invoca Enrico Cavacchioli in "Fuga
in aeroplano", e come lui Libero Altomare, Paolo Buzzi, eccetera. "La
velocità" - commenta Mario Verdone - "consente di uscire dalla
dimensione terrestre, di acquistare una coscienza cosmica"...
Intanto, in attesa della marinettiana, ardente quanto improbabile "ricostruzione
futurista dell'Universo", il nostro giovane e baldo Lauro smaltiva i postumi
di queste e tante altre influenze: un'antica ipoteca postromantica, anzitutto
(i privilegi paradossali in 23 articoli che invocava e "brevettava"
Stendhal: "Articolo 23 - Dieci volte l'anno il privilegiato potrà
venir trasportato nel luogo in cui vorrà, alla velocità di cento
leghe l'ora; durante il viaggio dormirà"; o il pathos irrefrenabile
di De Musset quando stila in quartine "L'heure de ma mort"):
Da un anno e mezzo l'ora della morte
suona da ogni lato alle mie orecchie
... Tutto,
persino il mio riposo è una battaglia;
si consuma e si prodiga lottando
la mia forza, e così come un destriero
spossato di fatica, barcollando
stramazza a terra spento il mio coraggio.
Ainsi je caressais une folle chimère... Oh, sì,
davvero troppe chimere poetiche affollavano le menti dei giovani del nuovo secolo,
dai Canti orfici di Campana ("Sui suoi divini ginocchi, sulla sua forma
pallida come un sogno uscito dagli innumerevoli sogni dell'ombra", - delira
ne "Il viaggio e il ritorno" - Tra le innumerevoli luci fallaci, l'antica
amica, l'eterna Chimera teneva fra le mani rosse il mio antico cuore"),
all'Apollinaire di Alcools:
...
È Cristo che sale in cielo meglio d'un aviatore
Del primato mondiale d'altezza è lui il detentore
Pupilla Cristo dell'occhio
ventesima pupilla dei secoli questo secolo
Ci sa fare e mutato in uccello come Gesù in aria sale
I diavoli negli abissi alzano il capo a guardare
Dicono che imita Simon Mago in Giudea
Gridano se sa rubar gli spazi di ladro abbia (nomea
Gli angeli intorno al bel volteggiatore volteggiano
Icaro Enoch Elia Apollonio di Tiana
Intorno al primo aeroplano aleggiano
...
Senza dimenticare il ventoso rutilante Nietzsche poeta di "Al maestrale"
("Liberiamo il litorale / Da Respiri estenuati / E da sguardi scoraggiati!"),
o le meditazioni di Miguel de Unamuno sull'"uomo di passione" quale
"unico vero ribelle" ("Io ho bisogno dell'immortalità
della mia anima, della persistenza infinita della mia coscienza individuale").
*****
Alla fine del 1924, appena ventitreenne, Lauro De Bosis, invitato dalla società
"Italia-America" di New York, visita per la prima volta gli USA e
vi tiene conferenze stoorico-letterarie e filosofiche. Tornò molte altre
volte: "negli Stati Uniti" - ha ragione Salvemini - "meglio che
se fosse vissuto in Italia, Lauro non poteva non aprire gli occhi al significato
di quanto avveniva in Italia". Così come più tardi avverrà
con Ignazio Silone e l'esilio svizzero nel quale nascevano i suoi importanti
libri, da Fontamara, edito a Zurigo nel 1933, alle opere di battaglia poliitica
come Il fascismo (1934) o La scuola dei dittatori (1938).
Nel 1927, con la traduzione dell'Antigone, Lauro intraprende un'autentica svolta,
non solo estetica, ma propriamente intellettuale, civile. Nella storia di quest'eroina
di Sofocle che viola la legge scritta per obbedire al sacro comando del principio
morale e del diritto naturale, nell'adesione a questo classico, Salvemini capta
"il primo indice del passaggio all'antifascismo militante". Vero è
anche il suo definitivo svincolarsi da ogni retaggio dannunziano nel suo primo
(e unico) testo poetico, Icaro, edito nel '30. In una lettera del 1931, Lauro
ripercorre l'ispirata genesi del suo poema:
"... La mamma mi suggerì l'idea di prendere come soggetto Icarus.
Questa le era venuta mentre leggeva un sonetto francese su Icaro del secolo
decimosesto... Poi c'era stato proprio allora il volo di Lindbergh. E c'era
la memoria di mio fratello che morì a ventitre anni cadendo nel mare
come Icaro. Le parole di Erigone nel quinto atto sono veramente quelle della
mamma allora. Per diverso tempo avevo desiderato scrivere una tragedia lirica
per glorificare il progresso, l'élan vital, nella sua forma indiividuale
ed eroica. Il mito di Icaro è quello che incorpora, più di qualunque
altro, lo spirito d'oggi. Eppure non era mai stato messo in tragedia"...
Naturalmente i fascisti non compresero il valore metaforico, la viva pregnanza
simbolica di quei due miti, Antigone, Dedalo e Icaro. L'episodio ovidiano del
giovinetto malinconico per l'esilio forzato a Creta da re Minosse, poi inebriato
dal volo e imprudente in alto, più in alto, contro troppo sole - fu considerato
un consueto, innocuo soggetto poetico. Nessun alto gerarca o ufficiale della
Regia Aereonautica Militare avrebbe profetato fin da allora, dopo i colloqui
con Chester Aldrch, presidente della società "Italia-America",
e poi, nel luglio 1930, lo stesso volo dalla Svizzera su Milano di Giovanni
Bassanesi e Gioacchino Dolci, lanciando miriadi di manifestini dell'organizzazione
repubblicana socialista "Giustizia e Libertà", il piano di
Lauro De Bosis per volare su Roma esortando tutti gli italiani con un messaggio
al Re e un altro ai cittadini della Capitale, a porre fine alla loro pigra,
ignava acquiescenza al regime fascista. Con diverso intento si ripetevano le
dannunziane gesta del volo su Vienna il 9 agosto 1918, con la squadriglia "Serenissima"
- e perfino la provocazione del fido legionario fiumano Guido Keller, nel novembre
del '20, ai tempi della Reggenza del Carnaro, quando l'irruento aviatore e avventuriero
dannunziano lasciò cadere, volando su Roma, una rosa bianca sul Vaticano,
omaggio a S. Francesco patrono nazionale, sul Quirinale sette rose rosse, omaggio
alla Regina e al popolo d'Italia, e su Monteciitorio un pitale di ferro smaltato,
dedicato ai Signori della Politica...
Lauro "uomo di passione" civile, paladino e alfiere dell'"infinita
persistenza" della propria "coscienza individuale", per dirla
con Unamuno, portò a definitiva maturazione la sua scelta di vita in
uno dei decenni più torbidi e ingrati nella storia d'Europa. La eroica
eredità ottocentesca, mazziniana, garibaldina, savoiarda e massone, che
aveva portato nel '18 a chiudere, con 600.000 morti, la c.d. quarta guerra d'indipendenza
e dunque il lungo processo storico e bellico del Risorgimento s'era presto disciolta,
annacquata o corrotta nella nuova dissennata marea dell'Era Littoria. Gli intellettuali
tacevano, o si schieravano a favore. Bontempelli e il suo movimento '900 tuonavano
col furore risolutorio ed epocale degli Editti Sommari: "Il secolo XIX
finisce col 1915. Il XX comincia col 1922. Tutto il disordine mentale e pratico
del 1919 e del 1920 fa parte dell'azione violenta che doveva compiere l'opera
della guerra nell'uffizio di chiudere il secolo decimonono in modo deciso e
irrevocabile. La guerra e il travaglio del 1919-20 bruciarono fino alla cenere
più impalpabile gli ultimi avanzi delle ultime degenerazioni del romanticismo.
Col 1922 comincia una grande era antiromantica"...
Le analisi culturali, letterarie, a questo punto, s'intrecciano inestricabilmente
con gli eventi politici, e sarebbe assurdo perfino voler inseguire, proporre
una cronologia settoriale senza tener conto dei vari campi e versanti in cui
tanto drammatici avvenimenti maturarono.
...
1922:
In Italia, colpo di stato fascista, pieni poteri a Mussolini; creazione dell'URSS.
Alvaro, L'uomo nel labirinto. Pirandello, Enrico IV... Gobetti fonda e dirige
"Rivoluzione liberale"...
1923:
Stalin primo segretario del partito comunista dell'URSS. Freud, L'io e l'es.
Lukàcs, Storia e coscienza di classe. Rilke, Sonetti a Orfeo. Svevo,
La coscienza di Zeno...
1924:
Morte di Lenin; riconoscimento dell'URSS da parte degli stati europei; in Italia,
scioglimento delle Camere; assassinio di Matteotti. Thomas Mann, La montagna
incantata. A Breton, Primo manifesto surrealista. M. Sironi Paesaggio urbano.
Maccari, "Il selvaggio"...
1925:
In Italia instaurazione della dittatura fascista. Trotzkij esautorato in Russia.
Kafka, Il processo. Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell'arte. Montale,
Ossi di seppia...
"Soppressa nel '25 ogni manifestazione di vita democratica, fuoriusciti
o ridotti al silenzio col carcere e con la violenza i più prestigiosi
oppositori," - rievoca Salvatore Guglielmino - "Mussolini con la creazione
dell'Accademia d'Italia, dell'Istituto fascista di cultura, con le scuole di
'mistica fascista' cerca di legare al regime anche la cultura. In realtà
(...) egli ottenne solo conformistiche adesioni e la migliore produzione letteraria
in quegli anni ignorò le mitologie e le parole d'ordine ufficiali"...
Gramsci su "L'Ordine nuovo" e Gobetti su "La Rivoluzione liberale",
teorizzano un'attività letteraria in rapporto alle questioni più
vive della realtà nazionale. Guerra e dopoguerra accentuano la definitiva
crisi dei valori borghesi, e i migliori movimenti artistici d'avanguardia portano
all'estrema conseguenza questo riifiuto intellettuale, psicologico, oltreché
politico. Dal divagante, infiorato Simbolismo si giunge all'urgente inquietudine
dell'Espressionismo ("Mai la pace è stata così lontana e
la libertà così morta" - dirà Hermann Bahr, morto
nel 1934, pochi anni dopo il sacrificio di Lauro De Bosis - "Ed ecco che
l'angoscia leva il suo grido: l'uomo invoca urlando la sua anima, tutta la nostra
generazione non è che un unico grido d'angoscia. E grida anche l'arte,
verso le tenebre profonde, invoca aiuto, invoca lo spirito: e questo è
l'espressionismo").
*****
Lauro invocava, in Italia, la fine dell'Indifferenza al Regime, primo passo
verso uno strascicato ma gigantesco consenso collettivo, e la temperie, anche
artistica, d'un tronfio, ambiguo "ritorno all'ordine". L'Indifferenza,
il sentimento che il giovane romanziere Moravia, nel '29, elegge a simbolo e
protagonista subdolo quanto invasivo, infettivo, insomma endemico, della sua
stessa classe sociale ("Gli indifferenti di Moravia", argomenterà
Asor Rosa nel volume einaudiano della Storia d'Italia, dedicato alla cultura
dall'Unità ad oggi, "assommano la rappresentazione realistica, il
commento critico e al tempo stesso la piccola epica dei personaggi che essi
descrivono"). Moravia, per splendida, mimetica sintesi neuro-vegetativa,
s'emancipa, esorcizza le proprie forti radici.
Anche Lauro, elegante, bennato rampollo borghese, smascherava e lottava contro
un'Indifferenza atavica, rinnegata, rifiutata ma dura a vincersi, a estirparsi.
Come il Michele Ardengo di Moravia, soffre e anela il passaggio dall'indignazione
interiore, insomma dal pensiero narciiso o annodato, umbratile, all'azione solare,
manifesta, rischiosa, irrevocabile gesto d'eticità, protesta civile,
e, in fondo, al contempo, autodifesa e autocritica. La retorica insopportabile
e malvagia esige ora una virile controretorica, un vaccino forte, efficace.
Tale doveva essere e fu, non solo nei voti di Lauro, il progetto e il movimento
di Allenaza Nazionale, ben documentato dai ricchi documenti di questo libro
che, accentrato sul nucleo eroico, come un cuore pulsante, della Storia della
mia morte, testamento di Lauro prima del volo fatale su Roma, si articola in
molte altre struggenti e sentite testimonianze d'ordine storico, morale e civile.
Del resto, "un determinato momento storico-sociale non è mai omogeneo,
anzi è ricco di contraddizioni" - lo ribadiva Antonio Gramsci nei
suoi esemplari Quaderni dal Carcere meditando proprio sul tema "Arte e
lotta per una nuova civiltà". Certo è che per la cultura
di quegli anni bui, coartati, più dei titoli delle opere d'arte, più
dei libri, dei testi, valgono davvero, come in un tormentato, tragico cimitero
dello Spirito, le epigrafi, le nude e crude date di nascita e morte, morti quasi
sempre violente, provocate, dei nostri migliori cuori e cervelli: Giacomo Matteotti
(1885-1924); Giovanni Amendola (1882-1926); Piero Gobetti (1901-1926); Carlo
Rosselli (1899-1937); e Nello Rosselli ((1901-1937); Antonio Gramsci (1891-1937)...
Circolava eccome sangue risorgimentale, in Lauro (ai tempi di Garibaldi, sarebbe
certo stato protagonista ammirevole di tali imprese, insieme coi migliori giovani
di tante belle famiglie, nobili e borghesi; avrebbe fraternizzato per fede letteraria
o politica con Nievo o Mameli!); ma, consapevole o meno, Lauro assomiglia, per
raggiunta, seppur sofferta pacatezza, equilibrio intellettuale, rigore d'analisi,
al suo grande coetaneo Piero Gobetti (anch'egli del 1901), profondamente diverso
dal tipico letterato dannunziano o futurista, nonostante tante spore, tanti
seducenti condizionamenti fluttuassero nell'aria. "In Gobetti", ha
scritto Montale, che gli fu amico, "l'idealismo era soprattutto tragico,
la persuasione che la battaglia deve essere affrontata, non elusa e che è
troppo facile attendere dal tempo soluzioni di compromesso"... Così
Lauro mai dette al tempo, mai s'arrese in soluzioni di compromesso, o rinunciò
a scendere in campo paladino d'una battaglia vinta già idealmente, perfino
contro la morte: "varrò più morto che vivo" esclamò
a chiudere l'autobiografica, profetica Histoire de ma mort, un documento morale
e civile saldo come una pietra angolare, e trasparente come un cristallo finissimo:
"... Ho cercato d'interpretare il sentimento della massa del popolo, facendo
astrazione dal mio personale." Parlando dei suoi messaggi, soggiungeva:
"Credo che un repubblicano e un monarchico potrebbero egualmente sottoscriverli.
Noi ci limitiamo a porre il dilemma: 'Per la libertà o contro la libertà'".
Tutta la breve vita di Lauro De Bosis, e il suo combattuto progetto di un'Alleanza
Nazionale contro il fascismo, bene intende e oggi commemora l'amoroso nipote
Alessandro Cortese de Bosis, esplicano e rifulgono "il loro valore di anello
di congiunzione tra la prima e la seconda Resistenza, da cui è nata la
Repubblica nel 1946" Lauro preferiva chiamarlo Secondo Risorgimento Italiano,
come amò battezzarlo in un suo opuscolo appassionato tradotto anche in
inglese.
"Le nazioni non hanno grandi uomini che a loro dispetto", scrive Baudelaire,
inesorabilmente polemico nei Giornali intimi.E Thomas Carlyle chiamava tanto
più letterato ad un suo veemente dovere d'eroismo: "Vi sono letterati
sinceri e ve ne sono di non sinceri; come in tutte le specie di cose, vi è
il genuino e l'artefatto. Se l'eroe è preso nel significato di sincero,
allora io dico che l'eroe letterato adempie presso di noi una funzione sempre
onorevole, sempre altissima, e che, una volta ben conosciuta, doveva essere
la più alta. Egli esprime fuori di sé, nel modo che gli è
proprio, l'anima sua ispirata, ed è quanto un uomo in tutti i casi può
fare. (...) Eroe è colui che vive nella sfera interiore delle cose, nel
vero, nel divino e nell'eterno, che esistono sempre invisibili per la maggior
parte, sotto il temporale e il triviale; la sua essenza è in questo;
egli lo dichiara fuori di sé, con atti o parole secondo il caso, manifestando
se stesso fuori di sé".
Quest'eroismo, ben più che solo letterario, Lauro De Bosis tenne a dimostrarlo
anche coi fatti, giacché poco gli bastavano le parole - da sole - affettate,
ridondanti, o scabre e taglienti che fossero. Nei lirici "Frammenti d'antropologia",
Novalis, principe del grande romanticismo tedesco, recitava: "Diventare
uomini è un'arte. L'uomo è un individuo storico dato a se stesso"...
E in un recente, acuto saggio di Wolf Lepenies siamo portati prepotentemente
a interrogarci sull' Ascesa e declino degli intellettuali in Europa - cioè
proprio sul ruolo attivo, o così detto status ufficiale ("Malinconia
e utopia - fra questi due poli si collocano gli splendori e le miserie degli
intellettuali europei").
Difficile proclamare leggi, norme, decreti etico-culturali. Vale forse più
la coscienza, la cognizione altalenante del dubbio: una sorta di sana, feconda
incertezza programmatica. QUella che confessava e incarnava un grande scrittore,
intellettuale organico, pensatore civile, come Albert Camus: " Intellettuale?
Sì. E non rinnegare mai. Intellettuale=colui che si sdoppia. Mi piace.
Sono contento di essere entrambe le cose. 'Ma possono coesistere?'. Domanda
pratica Bisogna darci dentro. 'Disprezzo l'intelligenza' significa in realtà:
'Non posso sopportare i miei dubbi'. Io preferisco tenere gli occhi aperti".
*****
Teneva gli occhi bene aperti, Lauro De Bosis, nel suo testamento-proclama; e
l'anima libera - lealtà e coscienza, calore e respiro: "Seicentomila
cittadini si son fatti ammazzare per liberar due città: fino a quando
tollererete voi l'uomo che tiene schiava l'Italia intera? (...) Il Disfattismo
degli italiani è la vera base del regime fascista. Comunica agli altri
la tua fede ed il tuo fervore. Siamo in pieno Risorgimento. (...) L'atteggiamento
che consiste nell'ammirare il fascismo pur deplorando gli eccessi non ha senso.
Il fascismo non può esistere che grazie ai suoi eccessi. I suoi cosiddetti
eccessi sono la sua logica. E per la logica stessa della sua natura che il fascismo
è condotto a esaltare il sicario e a schiaffeggiare Toscanini. Si è
detto che l'assassinio di Matteotti fu un errore: ma dal punto di vista del
fascismo, quel delitto fu un colpo di genio"...
Nulla davvero della trascorsa, ampollosa, affabulante retorica dannunziana che
aveva dettato al Vate, ad esempio, "L'orazion piccola in vista del Carnaro"
(e in genere tutti i discorsi e messaggi per l'impresa di Fiume, raccolti nella
Penultima ventura e ne L'urna inesausta) - nulla, anche, dell'urgenza rivoltosa
futurista che animava, sublimava (o inficiava?) Kobilek, il "giornale di
battaglia" d'Ardengo Soffici, fra bombarde, mitragliatrici e granate, in
un "firmamento arrotato dallo strisciare sibilante, ululante, abbaiante,
di migliaia di proiettili"...
Quando uno studioso, fuor d'ogni ideologismo o controretorica, vorrà
veramente stilare una storia degli intellettuali italiani sotto il fascismo,
dovrà collocare, annoverare in prima fila il pensiero e il sacrificio
di Lauro De Bosis - e poi magari percorrere, recuperare, privilegiare, una strada
diversa, alternativa, rispetto alle trattatistiche coerenti, agli stereotipi
ufficiali d'ogni medaglione storiografico... E dovrà recuperare un altro
testo importante come il Diario di un privilegiato sotto il fascismo tenuto
dal giovane Leo Ferrero (1903-1933) dall'autunno del 1926 al dicembre 1927,
altro anno cruciale dopo l'attentato di Bologna a Mussolini e l'inasprimento
della politica del regime contro gli oppositori clandestini e gli intellettuali
indipendenti. O ricordare il valore di "evasione e rifugio", come
sottolinea Solmi, della ricerca d'un Pavese, d'un Vittorini, e dei loro migliori
coetanei scrittori verso la letteratura americana (la scoperta del primitivo
e del selvaggio come "attivo fermento mitico del mondo moderno").
E infine, paragonare, collazionare il saggio d'intervento che un delirante,
mistificante Ezra Pound il 18 aprile 1943 dedicò all'"Amor di patria",
o il 10 maggio 1942 alle "Idee fondamentali" ("Lo Stato deve
poter assorbire TUTTA l'energia, e tutte le energie dell'uomo. L'idea fascista
è questa: lo stato può, e deve, assorbire tutte le energie dell'uomo
senza stroncare l'uomo"), al tragico, escatologico, fatale messaggio che
uno dei più sventurati ed eroici condannati a morte della Resistenza
italiana, il ventiduenne Giorgio Paglia, lasciò ai suoi poveri cari,
la mamma e il fratello: "Sappi che combattendo io combattivo solo per ottenere
un'Italia Libera da ogni straniero. Ricorda anche tu quanto nostro Padre ci
ha insegnato: 'la Patria sopratutto ed il suo bene'".
Questo medesimo empito e questi sinceri sentimenti di un uomo, di cittadino,
accompagnò, condivise e anticipò Lauro De Bosis. Poeta, scrittore
- che oltrepassò la Scrittura: esattamente come, nel suo gesto scritto,
suicidio annunciato o neomitico, travalicò i consueti bioritmi della
Politica, ogni praticata logica tattica o tecnica dell'Opposizione. Forse davvero
in volo ripensò, declamò a memoria, squisito retaggio di prima
giovinezza, la dannunziana "Canzone d'oltremare":
I miei Lauri gettai sotto i tuoi piedi,
o Vittoria senz'ali. È giunta l'ora.
Tu sorridi alla terra che tu predi.
Italia! Dall'ardor che mi divora
sorge un canto più fresco del mattino,
mentre di te l'esilio si colora.
Oggi più alta sei che il tuo destino,
più bella sei che la tua veste d'aria;
e di lungi il tuo volto è più divino.
...
Lirismi da far ora avverare, come i versi metaforici del suo poema, parole belle
trasmutate, transustanziate in azione: "non andremo a caccia di chimere"...
Così le fragili ali di Icaro, che in Lauro stesso s'erano disciolte,
abbacinate in poesia, adesso si materializzano in un Pegaso umano, troppo umano,
tutto cuore e metallo: "è il nome del mio aeroplano - ha la groppa
rossa e le ali bianche: benché abbia la forza di ottanta cavalli, è
svelto come una rondine"...
Quando tutto fu in ordine, o comunque tale sembrò, Lauro, che era a Marsiglia,
vergò in francese, in una sola notte, dal 2 al 3 ottobre 1931, la Storia
della mia morte, e la mattina stessa del giorno 3 la spedì perché
l'amico Ferrari potesse farla pubblicare, se il viaggio fosse risultato senza
ritorno. Decollò nel pomeriggio alle 15,15, dall'aeroporto di Marignan,
presso Marsiglia. In rotta verso Roma, gli arrivò poco dopo il tramonto,
verso le ore venti. Scese da duemila metri a circa 300, fino a lanciare in pieno
centro cittadino almeno 400.000 manifestini, fra Piazza Venezia, il Corso, Palazzo
Chigi... I passanti erano ammutoliti e insieme ammirati, le vie in subbuglio;
tutti leggevano i manifestini e se li passavano. Mezz'ora dopo l'aereo Pegaso
sparì nella notte.
E forse entrò in una favola, in un nuovo mito che anch'esso appartiene
all'arte, alla religione più sacra della Storia. Lauro mai fece ritorno.
Volò via, volava, e ancora in volo, un eternato, universale Volo di notte,
come quello che Pari a lui scrisse e per sempre vivrà l'estro e il coraggio
del suo ideale collega Antoine de Saint-Exupéry, alla ricerca della Felicità,
dell'Amore, del Piccolo Principe affaticato nell'immenso giardino della Vita:
"Infatti, sul pianeta del piccolo principe ci sono, come su tutti i pianeti,
le erbe buone e quelle cattive. Di conseguenza: dei buoni semi di erbe buone
e dei cattivi semi di erbe cattive. Ma i semi sono invisibili. Dormono nel segreto
della terra fino a che all'uno o all'altro pigli la fantasia di risvegliarsi.
Allora si stira, e sospinge dapprincipio timidamente verso il sole un bellissimo
ramoscello inoffensivo. Se si tratta di un ramoscello di ravanello o di rosaio,
si può lasciarlo spuntare come vuole. Ma se si tratta di una pianta cattiva,
bisogna strapparla subito, appena la si è riconosciuta. C'erano dei terribili
semi sul pianeta del piccolo principe: erano i semi del baobab. I suolo ne era
infestato. Ora, un baobab, se si arriva troppo tardi, non si riesce più
a sbarazzarsene. Ingombra tutto il pianeta. Lo trapassa con le sue radici. E
se il pianeta è troppo piccolo e i baobab troppo numerosi, lo fanno scoppiare"...
Volano ancora, Lauro e Antoine, invisibili a noi, separati, irraggiunti, o forse
insieme, ogni notte fino all'alba, dal buio al Sole, dal ricordo sognante al
progresso severo, liberi e quasi-angeli, verso il nostro Futuro: "L'aeroplano
era improvvisamente sboccato, nello stesso attimo in cui era emerso, in una
calma che pareva straordinaria. Non un'onda che lo facesse inclinare. Come una
barca quando passa la diga, esso entrava in acque riservate. Era preso in una
parte sconosciuta di cielo, nascosta come la rada delle isole felici. Sotto
di lui, la tempesta formava un altro mondo di tremila metri di spessore, percorso
da raffiche, da trombe d'acqua, da lampi; ma essa volgeva agli astri una faccia
di neve e di cristallo. (...)
S'immaginava d'aver raggiunto uno strano limbo, perché tutto si faceva
luminoso; le sue mani, le sue vesti, le sue ali. La luce non scendeva dagli
astri, ma si sprigionava, sotto di lui, intorno a lui, da quei depositi bianchi...".
Plinio Perilli
NOTE
1 Adolfo de Bosis, poeta, traduttore di Shelley, fondatore della Rivista Letteraria "Il Convito", e direttore amministrativo della Società Terni.
2 Ringrazio Franco Fucci per il bel libro "Ali contro Mussolini" (Mursia, 1978) in cui questo ed altri episodi della preparazione del volo sono narrati (pag.170 e segg.); libro scritto dopo una lunga intervista con mia madre Caris de Bosis.
3 Dopo l'incidente in Corsica.
4 In realtà era il tecnico inglese atterrato in Corsica. (n. di F.F).
5 Venne destituito subito dopo l'incursione.
6 Bassanesi fu processato in Svizzera, ma solo per "sorvolo illegale" del territorio elvetico. Venne assolto ed espulso.
7 Fra gli eroi dell'aria caduti per la libertà, il Times, un anno dopo, avrebbe certo incluso Antoine de Saint Exupéry, indimenticato autore di "Vol de Nuit" e di "Petit Prince".
8 Si leggano, su Fenoaltea, le pagine che gli ha dedicato Spadolini nel suo volume "Italia di minoranza", pag. 185 e segg.
9 Icaro fu fatto conoscere al pubblico anglosassone da una perfetta traduzione in inglese di Ruth Draper, alla quale l'illustre letterato Gilbert Murray aggiunse in prefazione un commosso ricordo di de Bosis.
10 Vedi le circostanziate notizie date dal medesimo Vinciguerra in una lettera al conte Sforza, in Nuova Europa, 4 febbraio 1945 (e vedi risposta dello Sforza, ivi, 11 febbraio).
11 Condizione sine qua non, aggiungo, per poter uscir di prigione
e farsi operare d'urgenza per una grave malattia. Decisione voluta soprattutto
dalla figlia Caris che come ricorda Fucci in "Ali contro Mussolini",
dichiarò più tardi che non avrebbe esitato a ripetere quel gesto
"perché amavo mia madre più dell'Italia". La madre e
la sorella di Lauro dettero valida prova di antifascismo militante ospitando
a casa loro, durante tutta l'occupazione nazista di Roma, il comitato di liberazione
nazionale, da Saragat a Nenni, a Fenoaltea (v. appendice). Ed è singolare
rilevare che venticinque anni prima di Albert Camus, la signora de Bosis pronunciò
una frase molto simile a quella dello scrittore francese (Premio Nobel) accusato
dagli intellettuali di Algeri di ignorare il movimento indipendentistico del
F. L. N.: "Voi gettate le bombe nelle strade. Potreste uccidere mia madre.
Ed io amo mia madre più della giustizia".
(N. di Alessandro Cortese de Bosis)