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1. Strategia e tattica

 

Grammatica culturale e sovversione


Ora tratteremo di una questione davvero banale: com'è è possibile che, nella nostra società, le persone accettino con tanta naturalezza i molteplici rapporti di potere e comando cui sono sottomessi? Come mai questi rapporti vengono vissuti come normali ed è così raro che li si metta in discussione? E come turbare e confondere tale consenso sociale?
Tutte le istituzioni sociali fanno in modo che l'autoinserimento e la sottomissione ai rapporti di potere e comando vengano appresi fin da piccoli. Per esempio a scuola, uno dei principali luoghi di socializzazione, gli elementi della cultura dominante sono inculcati da subito, come lo sono i fondamenti dell'interpretazione storica dominante, la cultura generale di base e il sistema dei valori e delle norme sociali. Oltre alla trasmissione esplicita di questi contenuti, gli studenti sono sottoposti a un indottrinamento molto più complesso su come dovranno inserirsi e adeguarsi ai rapporti di comando e potere. Anche se la disposizione dei posti a sedere può essere cambiata a piacimento, il rispetto della forma valida è di volta in volta imposto in maniera coercitiva. Nel momento stesso in cui i banchi vengono posti in cerchio, ecco apparire l'autorità dell'insegnante, il solo autorizzato ad alzarsi in qualsiasi momento, andare in giro e rivolgere la parola agli studenti. Si stabilisce un sistema di comunicazione frontale e unilaterale: c'è chi decide le modalità di apprendimento (l'insegnante) e chi si adegua (gli studenti). La precisa suddivisione delle ore scolastiche diviene obbligatoria tramite segnali acustici. A ciò si aggiungono le strutture architettoniche dell'edificio, il suo ambiente fatto di classi, laboratori e stanze degli insegnanti (rigorosamente vietate agli studenti), e la suddivisione degli studenti in classi d'età e categorie di rendimento i cui parametri sono esami e pagelle. In quest'ambito è normale che l'insegnante stia di fronte agli studenti e conceda loro la parola in momenti e su temi già stabiliti, poiché pare che solo tale modo di procedere renda possibile un ordinato svolgimento della lezione. A essere riconfermata non è solo l'autorità di chi sta di fronte, ma anche la convinzione che la sottomissione all'autorità sia l'unico modo possibile di organizzare i rapporti sociali.
Nell'ambito delle regole (scritte e non) e delle convenzioni della scuola, studenti e insegnanti assumono quotidianamente comportamenti che, trasposti in altri ambiti sociali, serviranno a salvaguardare un ordine fondato su rapporti di potere. Definiamo l'insieme di tali regole grammatica culturale. Illustreremo con diversi esempi come questo sistema di regole produca e riproduca potere e comando, come esso normalizzi forme gerarchiche di comunicazione, e ciò non solo attraverso la pressione esterna, come a scuola, ma anche in contesti generalmente autodeterminati: la grammatica culturale non viene rispettata solo per coercizione, ma anche consapevolmente e nel proprio interesse.
Nelle riunioni delle associazioni il presidente è allo stesso tempo autorizzato e obbligato a dirigerne lo svolgimento, e ciò ribadisce continuamente che la sua posizione è distinta da quella degli altri. In tal modo divengono accettabili strutture sociali gerarchiche. Infine ci si organizza da soli nello stesso modo. Alle conferenze è noto a tutti i partecipanti che l'oratore è persona d'autorità, a cui compete stabilire i temi da discutere e che, almeno nella prima metà della manifestazione, detiene in esclusiva il diritto di parola.
Gli ascoltatori sono sì presenti volontariamente, ma si comportano in modo consono soltanto quando siedono, attenti e silenziosi, sulle sedie orientate in direzione del podio.
Passiamo a un esempio tratto da un contesto esplicitamente politico: sul medesimo modello formale delle conferenze si svolgono le manifestazioni elettorali con politici di partito. Tali manifestazioni illustrano in modo ancor più evidente un elemento centrale del dominio democratico-borghese: quest'ultimo non si fonda principalmente sulla violenza manifesta dell'apparato statale, bensì sulla produzione di consenso. Innumerevoli convenzioni salvaguardano la finzione che questo consenso si basi su una comunicazione paritaria tra dominanti e dominati (il dialogo coi cittadini). Così, grazie al modo in cui si svolge questa comunicazione apparente, viene garantito l'incontrastato funzionamento del dominio. Dunque, una qualunque manifestazione elettorale adotta la forma della conferenza senza che nel successivo giro di domande abbia luogo una vera discussione sui contenuti. Questi ultimi sono relativamente poco importanti per la salvaguardia della finzione di una produzione paritaria di consenso. Il messaggio principale dell'intera manifestazione è che viviamo in una democrazia parlamentare in cui tutti hanno diritto di esternare la propria opinione, fintantoché lo fanno conformandosi alle regole di questo tipo di manifestazioni e si attengono - nella scelta del tema e delle parole - alle convenzioni socialmente accettate. Che il diritto all'opinione rimanga alla fine senza conseguenze, perché i temi possibili - così come il modo di discuterli - sono già prestabiliti e limitati, non viene notato da nessuno, dal momento che quell'ambito formale, con le sue regole, viene interiorizzato e vissuto come normale e naturale. Quando il Cancelliere federale, circondato da celerini, organizzatori e guardie del corpo, invade la piazza più grande della città con volumi assordanti, non fa che mettere in scena la sua vicinanza ai cittadini e, fino a un certo punto, la finzione regge. Ma sarebbe ridicolo interpretare tali esibizioni di potere come possibilità di comunicazione, scambio reciproco e paritario. Il tutto si può interpretare in modo molto più convincente come rappresentazione funzionale all'autopersuasione del potere. Ma non è detto che il pubblico recepisca tali manifestazioni in questo senso, poiché la messa in scena (inscritta nelle forme della grammatica culturale) e l'esercizio del comando non vengono generalmente percepiti per quello che sono.
In queste cerimonie, gli intervenuti non sono sempre e solo accessori della rappresentazione del potere. A un ricevimento nemmeno gli ospiti credono davvero di essere venuti per ascoltare con attenzione le illuminanti parole del padrone di casa. Gli stimati signori (imbevuti di dopobarba e con addosso completi Hugo Boss) e le stimatissime signore (avvolte nel loro miglior abito da sera e altrettanto costosamente profumate) sanno certamente che si tratta di grammatica culturale, di vedere ed essere visti, sfoggiare la medaglia al valore, prendere e mantenere contatti, venire presentati a persone importanti. In breve: mettere in scena se stessi in questo determinato ambiente nel modo più vantaggioso possibile e farsi vedere in pubblico come beneficiari della commedia del potere. La partecipazione al rituale regolato dalla grammatica culturale permette al pubblico non solo l'autopersuasione ma anche una limitata partecipazione ai rapporti di potere.


Cos'è la grammatica culturale?


La metafora "grammatica culturale" viene dalla linguistica. La grammatica è il sistema di regole posto alla base della lingua, che apprendiamo senza esserne consapevoli; essa è la struttura che determina la concatenazione e l'utilizzo dei singoli elementi dei predicati linguistici. Senza la grammatica non si possono esprimere nessi complessi, anche se ben poche persone riflettono, parlando nella propria lingua, sugli elementi delle frasi e delle coniugazioni. Rispettare le regole grammaticali è in linea di massima normale, e raramente ci si interroga sui loro fondamenti.
Con l'espressione "grammatica culturale" indichiamo il sistema di regole che struttura i rapporti e le interazioni sociali. Esso racchiude la totalità dei codici estetici e delle regole di comportamento, che determinano il fenotipo degli oggetti (quello ritenuto socialmente conforme) e il normale corso delle situazioni. La grammatica culturale ordina gli innumerevoli rituali che si ripetono ogni giorno a tutti i livelli di una società, e comprende anche le divisioni sociali dello spazio e del tempo, che determinano le forme di movimento e le possibilità di comunicazione.
Nonostante la sua rigida codificazione, la grammatica non viene mai fissata definitivamente: nella lingua scritta entrano convenzioni correntemente usate nella lingua parlata di tutti i giorni, i gerghi delle subculture diventano accettabili e la grammatica propria dei dialetti si adatta alla lingua colta. Analogamente si modifica anche la grammatica culturale: accanto al galateo della buona condotta, nella vita privata come nello spazio pubblico, esistono forme di autorappresentazione subculturali, o tipiche di determinate classi, che si influenzano reciprocamente.

Grammatica culturale e potere


Nonostante la sua flessibilità, il ruolo normativo della grammatica non è in alcun modo neutrale, modificabile, accessibile, apprendibile né utilizzabile da tutti. La grammatica culturale è, al contrario, espressione delle relazioni sociali di potere e comando, e le sue regole giocano un ruolo importante nella produzione e riproduzione di queste ultime.
Essa penetra l'intero spazio sociale e culturale, pubblico e non in luoghi diversi, nelle scuole e nelle associazioni, alle conferenze, sul posto di lavoro come anche negli ambiti della società non istituzionalizzati (nelle birrerie, in famiglia, nella vita di tutti i giorni) la grammatica culturale produce spesso forme simili di rapporti sociali, ma ne regola anche le graduazioni, le differenziazioni. Essa consente alle persone di orientarsi nello spazio sociale, le guida nel loro agire, ma soprattutto consiglia determinate interpretazioni di situazioni, luoghi, testi e oggetti. Infatti, i significati non sono fissi, ma diversi a seconda del contesto: a un banchetto di nozze la birra assume un significato diverso da quello che ha allo stadio di calcio. E' una Pils, e viene bevuta in un bicchiere di vetro, mentre allo stadio c'è solo la Export in bicchieri di plastica e non la si può non accompagnare a un Bockwurst. Il bacio fraterno che suggella l'amicizia tra politici, ormai un po' démodé, ha poco a che fare con i tentativi di approccio in una birreria. Un uomo in minigonna desta associazioni diverse rispetto a quelle di una donna vestita allo stesso modo. Chi si vuole comportare normalmente deve quindi distinguere i contesti e interpretare le relative forme di espressione culturale. Chi si presenta ubriaco fradicio a una manifestazione elettorale si comporta tanto male quanto chi rimane sobrio durante un giro di bevute.
Oggetti d'uso e modi di comportamento, interazioni e rituali sono segni, significano qualcosa. Il semiologo Roland Barthes ha trattato diffusamente del processo di produzione di significato a vantaggio della società borghese. Faremo riferimento alle sue riflessioni teoriche, poiché forniscono punti fermi per capire come la grammatica culturale, in qualità di elemento storicamente determinato, sia diventata un fatto apparentemente naturale e come il potere si celi dietro tale naturalezza.
Per Barthes un segno è composto da due elementi: il portatore di significato (significante) e il senso con ciò espresso (significato). Secondo il corretto modus operandi della grammatica culturale, è importante che si possano distinguere due sistemi di segni: nel primo i significanti hanno un senso chiaro espresso linguisticamente, quindi un significato. Dal rapporto tra significante e significato emerge un senso. In questo primo sistema di segni, la seduta di un'associazione con le sue strutture determinate, ha più o meno il senso di regolare le esigenze dell'associazione in modo razionale ed efficace. Nel secondo sistema la seduta si trasforma nella forma semplice, nel significante. Non è più importante se per la presidenza viene scelto il Sig. A o la Sig.ra B, se l'associazione fa la sua gita annuale nella Foresta Nera o al Lago di Costanza. Ciò che conta è che la seduta venga condotta ordinatamente, in conformità alla grammatica culturale, che i soci siano vestiti in maniera adeguata, che venga mantenuta la gerarchia presidenza-membri ordinari, che tutti si comportino conformemente al loro status. In questo secondo sistema di segni, che Barthes definisce sistema del mito, la seduta dell'associazione significa semplicemente che il potere deve essere accettato e che i processi sociali devono venire regolati gerarchicamente. E questo significato viene trasportato in innumerevoli situazioni quotidiane e modelli comuni di comportamento. In questo sistema mitico esprimono la normalità dei rapporti dominanti e con ciò la legittimità di potere e di comando (R. Barthes, Miti d'oggi).
In questo senso la grammatica culturale è parte di una mitologia del quotidiano nella quale potere e comando appaiono come naturali dati di fatto. Questa mitologia è così naturalmente parte della vita degli uomini, che essa non viene quasi mai tematizzata: la grammatica culturale non è oggetto di discussione. E difficile pensare a un'alternativa alle gerarchie e ai rapporti di potere già contenuti nelle forme del rapporto quotidiano, perché la grammatica culturale non solo sottomette le persone ai rapporti dominanti, ma concede loro anche offerte di identificazione; accettarle porta alla possibilità di esercitare potere, almeno in dati momenti.

Piccolo excursus su potere, comando ed egemonia


Prima di occuparci di come possano essere disturbati i meccanismi della produzione e della riproduzione di potere e comando, bisogna dire ancora qualcosa sulla problematica di questo concetto, partendo dal fatto che rapporti come quello dominante-dominato hanno un senso preciso, anche se i rapporti sociali non si spiegano semplicemente attraverso uno schema verticale e non si lasciano per nulla "personalizzare".
In una società capitalistica complessa si integrano relazioni di potere palesi e forme quotidiane di esercizio di micropoteri, presenti dappertutto e a tutti i livelli della società. Esse dipendono l'una dall'altra e si stabilizzano reciprocamente. Il potere non funziona solo attraverso la coercizione, ma anche attraverso offerte di identificazione: in una cultura del dominio in cui i conflitti sociali vengono regolati soprattutto attraverso gerarchizzazioni, e di conseguenza appaiono risolvibili solo in questo modo, (quasi) tutti gli individui collaborano al mantenimento dei rapporti, cercando di costruire la propria posizione in contrapposizione a quanti si trovano in una condizione peggiore della loro. Non solo i conflitti tra classi, ma anche le gerarchie etniche e la disparità uomo-donna funzionano (sebbene in modo diverso) secondo i principi della sottomissione e dell'autocollocazione nell'ambito sociale prestabilito. Un esempio è l'autoetnicizzazione come conseguenza delle definizioni sociali. E vero che essa può avere un potenziale rivoluzionario, perché proprio gli stessi gruppi che vengono definiti dall'esterno in base a stereotipi e pregiudizi, rivendicano poi una propria identità e autodeterminazione... Ma allo stesso tempo l'etnicizzazione può agire come stabilizzatore sociale, poiché le stesse definizioni che giustificano l'oppressione, non fanno che riprodursi mediante l'assunzione del modello di identificazione razziale offerto dal potere.
Il modo in cui, nelle società borghesi avanzate, viene esercitato e mantenuto il comando senza bisogno di esercitare una violenza diretta, può essere illustrato col concetto di "egemonia" elaborato da Antonio Gramsci. Il dominio della classe borghese non si basa solamente sul suo accesso ai mezzi di produzione, ma si produce e riproduce a livello della sovrastruttura dell'ideologia. E' tuttavia inutile andare in cerca di una precisa "ideologia dominante" coercitiva, poiché la classe borghese stipula continuamente patti con le altre classi e con gli altri gruppi. In tal modo vengono integrati nell'ordine capitalistico dominante elementi di numerose altre ideologie. Il consenso che ne deriva rende complici dominante e dominato sul terreno delle idee e delle rappresentazioni. Tale consenso non è privo di contraddizioni: esso associa elementi eterogenei e non sincronici, e permette anche conflitti. Il modo in cui tali conflitti vengono "naturalmente" definiti è però definito dalla borghesia, in base a parametri sociali prestabiliti. Nella capacità di inserire nell'ordine della società borghese anche contraddizioni sociali e culturali, si manifesta quella che Gramsci chiama egemonia della classe dominante.
L'egemonia non si produce solo a livello verbale-discorsivo, ma anche nel modo in cui le norme sociali (borghesi) determinano la vita quotidiana degli uomini: essa nasce dall'imposizione e dall'applicazione di norme di relazione, simboli e modi di comunicazione; essa nasce dal campo della grammatica culturale. Le forme culturali sono così elementi determinanti della riproduzione dei rapporti sociali di dominio, esse sono, per la loro entità, almeno altrettanto importanti delle istituzioni dell'apparato statale.

Quale cultura?


Quando si parla di grammatica culturale, il concetto di "cultura" si estende ben oltre il canone borghese di arte figurativa, musica e letteratura, inclusa l'industria artistica a esso collegata, e si estende anche oltre l'inclusione di forme sottoculturali. L'idea che la cultura si formi in segmenti sociali circoscritti è tipica dell'ideologia borghese. In un senso più ampio, la cultura comprende tutte le forme di espressione umana, le attribuzioni di significato, le azioni e i prodotti del quotidiano. Il concetto giunge a definire il modo preciso in cui gli uomini trasformano, utilizzano e interpretano i propri punti di riferimento, le loro esigenze e possibilità all'interno dell'ambito sociale. Essi non fanno questo come individui qualunque: al contrario, il loro rapporto con la condizione sociale è impregnato, oltre che dall'immagine di sé, anche dalle imposizioni sociali.
Quando la cultura pervade l'intera società, cultura e politica non possono essere viste come ambiti separati. Un cambiamento delle forme culturali ha anche implicazioni politiche. D'altra parte, ogni azione politica si articola in forme culturali. La politica è quindi più della sola arte dell'amministrare lo Stato: essa ha luogo soprattutto dove si dibatte di riproduzione e stabilizzazione di rapporti di dominio. Ogni qualvolta il ministro non riesce a prendere la parola, ogni qualvolta un lavoratore chiede con tono grave al proprio superiore il motivo del ritardo, ogni qualvolta finti decreti ordinano ai cittadini di gettare via i loro moduli del censimento, allora la grammatica culturale viene spostata e tali spostamenti sono non solo culturalmente, ma anche politicamente sovversivi.

Quale sovversione?

Quando nella comunicazione il ministro non si limita ad applicare inconsapevolmente le regole della grammatica culturale, bensì le usa in maniera creativa, egli può utilizzarle, strumentalizzarle o rivoltarle per i propri scopi pratici, riempiendole di contenuti contrastanti, indossando vesti rituali, arrogandosi ruoli altrui e se si dà il caso parlando con il linguaggio del potere (infra Il Ministro parla al popolo). Ma c'è forse qualcuno che possa comprendere i messaggi politici di tali azioni se non viene fornita in modo esplicito una spiegazione chiara? Chi vorrà riconoscere in un divertente spettacolo di comunicazione-guerriglia una critica ai rapporti dominanti?
Questa è in sostanza la domanda sulla trasmissione di contenuti critici che ci si pone anche nella propaganda e nella divulgazione tradizionale attraverso testi e discorsi. Né nel corso di un azione di comunicazione-guerriglia né in quello di una campagna di controinformazione si parte dall'ipotesi che il pubblico voglia lasciarsi convincere, o semplicemente essere informato. Ogni azione necessita di punti di connessione con i destinatari, si tratti di un comune punto di vista politico (che spesso non è dato), o di un sapere del quotidiano nell'accezione gramsciana, che si nutre delle esperienze quotidiane dei singoli - una sensibile comprensione del potere e della sottomissione a esso. Questo sapere del quotidiano talvolta si esprime, più che in discussioni, analisi, teorie e pedagogie, in una spontanea risata.
Ciò non significa in alcun modo che i guerriglieri della comunicazione non abbiano bisogno di una critica teorica della società. Per criticare, o meglio, attaccare la dimensione politica della grammatica culturale dominante, quest'ultima deve essere in primo luogo decifrata. Anche le azioni di comunicazione-guerriglia funzionano solo se sono precedute da una comprensione delle strutture di potere. Per esempio, solo un punto di vista critico può svelare la funzione di manifestazioni governative, come ad esempio quella contro la xenofobia dell'8 novembre 1992, momenti in cui viene rappresentato un consenso tra popolo e potere costituito, e solo lo strumentario concettuale della grammatica culturale permette di accedere a tale significato nascosto.
Noi puntiamo su azioni che decostruiscano i momenti estetici del potere e confondano le regole della grammatica culturale, talvolta anche il luogo comune secondo cui gli interventi hanno valore politico solo in presenza di un discorso esplicito. E' vero che tali azioni possono scadere nel puro e semplice spettacolo, ma noi crediamo che una buona conoscenza della grammatica culturale possa proteggerci dal rischio di derive qualunquiste. Le azioni della comunicazione-guerriglia si rivolgono a temi (e in occasione di avvenimenti) di grande rilevanza sociale. Lo spazio pubblico in cui si svolgono è già predisposto a determinate rappresentazioni e aspettative. Questa struttura della normalità può essere confusa, spiazzata o superata mediante un'azione inattesa. Ogni avvenimento pubblico è anche un rituale di forme e convenzioni, che da sole ci parlano del contesto generale in cui si svolgono e dell'autorappresentazione della società. Un intervento che tenga conto di tutto questo può trasmettere e far comprendere contenuti anche senza esprimerli chiaramente.
"Prassi politica" non significa solo cercare di imporre una ideologia migliore. Quando ci chiediamo per quale motivo, nella nostra società, la gente accetta le strutture di potere, dobbiamo porci la domanda anche al livello della grammatica culturale. Riflettendo su ciò e partendo da concrete azioni politico-culturali, tentiamo di rompere e superare la grammatica culturale dominante. In questo senso, la battaglia politica e sociale deve essere una battaglia "per una realtà altra, nel corso della quale diveniamo consapevoli di ciò per cui varrà ancora la pena lottare" (Autonome L. U .P. U .S. Gruppe).

Strategia e tattica


La grammatica culturale permea e regola tutti gli ambiti sociali e l'intera vita quotidiana. Quali possibilità di azione esistono dentro tale normalizzazione, e come è possibile non farsi condizionare dalle regole imposte? Non basta nominare e criticare le strutture dell'esercizio sociale del potere per stimolare azioni volte alla trasformazione sociale. Da sola, la disponibilità al cambiamento serve a ben poco. Occorre trovare il modo di trasformare la disponibilità in azioni reali.
Alla base delle riflessioni sulla grammatica culturale c'è un'idea di politica che non si basa sull'operato di un'avanguardia che addestri e guidi le masse, bensì sulla convinzione che il cambiamento sociale abbia origine dall'azione di tutti. I punti di partenza per l'azione politica, secondo questa concezione, vanno cercati nella prassi quotidiana delle persone: "Quali pratiche popolari, ma anche infinitamente piccole, quotidiane, si prendono gioco dei meccanismi del disciplinamento e vi si conformano solo per rivoltarli contro se stessi, e quali comportamenti si affermano tra i consumatori (o tra i dominati?) come contrappeso alle mute procedure che fondano e riproducono l'ordine sociale e politico?" (M. de Certau, Arts de faire).
Diviene indispensabile, al di là delle norme e delle istituzioni sociali (e vanno intese come tali i partiti, le associazioni, le imprese e le istituzioni dello Stato, ma anche la famiglia ecc.), porsi anche un'altra domanda: in che modo le singole soggettività eludono le imposizioni sociali? Il rapporto tra società e individuo è stato ricondotto ai concetti di "strategia" e "tattica" dal filosofo francese Michel de Certau, che analizzando i rapporti di potere è ricorso a un'"analisi militare della cultura", vista come un campo di tensione e spesso di violenza, in cui viene regolato e legittimato il diritto del più forte. Accanto alle strategie del potere, de Certeau esamina la libertà di movimento sociale, ossia i margini di manovra ricavati dagli individui per mezzo di piccole astuzie. Tali comportamenti formano una "rete di antidisciplina" che si sottrae alle strategie del comando.
Strategia del potere significa guidare i rapporti di forza per determinare e occupare gli spazi sociali. Ciò presuppone un luogo sociale e un'istituzione dotata di potere. In questo luogo proprio, con azioni strategiche, si organizza e garantisce la riproduzione delle relazioni sociali.
Al contrario, si può definire tattico un calcolo che non può fare affidamento su alcuna base solida né su alcun luogo proprio, ed è costretto a muoversi sul terreno del nemico. Mentre il proprio, il fondamento dell'azione strategica, segna una vittoria del luogo sul tempo, la tattica non ha un luogo e resta dipendente dal tempo, deve cavarsela sul terreno imposto dalla violenza altrui, cercando di cogliere "occasioni favorevoli" nell'ambito delle strutture imposte. Alla tattica tocca giocare con le forze del potere. De Certeau parla di "colpi riusciti, begli espedienti, stratagemmi di caccia, molteplici simulazioni, scoperte fortunate di natura poetica o militare". Il détoumement-ridefinizione delle disposizioni strategiche per mezzo di azioni tattiche quotidiane è un principio fondamentale della comunicazione-guerriglia.
Si può obiettare che tali riappropriazioni tattiche sono solo piccole, individuali, temporanee, e che se da un lato modificano il sistema, dall'altro ne riproducono la stabilità. Sarebbe a dire: i luoghi sono temporaneamente sottratti e spiazzati, le strategie del potere temporaneamente invalidate, il che contribuisce a rendere sopportabili i rapporti di potere e un po' più tollerabile la vita quotidiana.
Le tattiche quotidiane sono quindi sovversive in quanto modificano, ridefiniscono e riutilizzano i punti saldi del potere, ma non si deve pensare che esse sfocino naturalmente in azioni che cambiano la società. In tal senso, le azioni sono efficaci solo se scivolano attraverso le refi delle strategie, non più isolate, individualizzate, ignare l'una dell'altra, ma connesse da un modo di procedere consapevole e collettivo. Sta qui una potenziale "strategia delle tattiche": si tratta di spostare in situazioni concrete e collettive il superamento tattico messo quotidianamente in pratica dagli individui, e rendere questi ultimi consapevoli di esprimersi politicamente in modo efficace.

Luoghi e spazi


In linea di massima, in tutti gli spazi sociali si trovano terreni adatti alla comunicazione-guerriglia. Ma il nostro assunto di partenza è che gli spazi fisici sono al contempo spazi sociali, in ognuno dei quali prendono forma i rapporti sociali. Viceversa, i significati che assegniamo agli spazi sono sempre condizionati socialmente. A rendere possibili azioni di comunicazione-guerriglia è il fatto che gli edifici e le istituzioni non hanno solo un significato concreto a seconda del loro utilizzo, ma anche una funzione simbolica nell'ambito della grammatica culturale.
Traiamo un esempio dallo spazio pubblico della città, dall'urbanistica: la vista è dominata da edifici di rappresentanza, come i municipi, che simboleggiano il potere politico, o come i musei e le gallerie d'arte, che fungono da simboli pietrificati di valori culturali e sociali. Con maggior forza, l'aspetto della città viene determinato anche dalle costruzioni e dai cartelloni pubblicitari di grosse ditte, negozi, banche e assicurazioni. La Daimler Benz, collocando la stella emblema della Mercedes sulla torre della stazione centrale di Stoccarda o sull'Europacenter di Berlino, fa del proprio logo il simbolo ufficiale della città.
Il carattere architettonico degli edifici di rappresentanza si basa sul principio dell'estetizzazione del potere politico. L'architettura moderna, fatta di cemento, acciaio e vetro, emana, con la sua gelida funzionalità, un'estetica elitaria dell'intimidazione. Con il Postmodernismo si aggiunge un altro elemento: le imponenti costruzioni rappresentano ancora il potere, dominando la vista dalle strade con le loro grandi dimensioni; ma lo fanno "abbellendo" il tutto con rivestimenti in pietra viva leggermente colorati, o con intonaco irregolare di gusto mediterraneo intervallato da oblò o da piccoli bovindi, da contrafforti di metallo colorati e alti accessori. Mentre l'architettura "moderna" segue la logica di occupare e dominare lo spazio, con il postmodernismo ha luogo anche un'armonizzazione apparente che, combinando elementi giocosi e svariati reperti dei tempi passati, camuffa il dominio del potere.
Che gli edifici di rappresentanza siano occupazioni simboliche dello spazio pubblico e che vengano anche percepiti come tali, lo dimostra la regolarità con cui le manifestazioni lasciano la loro "firma" sulle vetrine delle grandi banche, ossia gli edifici caricati simbolicamente come rappresentanti visibili del potere economico e politico, bersagli privilegiati del lancio di pezzi di selciato. La sequenza "case-vetrina-casa-facciata" traccia un confine socialmente santificato, ciò che sta dietro la facciata ha un valore monetizzabile: dagli spazi che servono da semplice ornamento alle merci, come quelli di supermercati e negozi, a quelli - per esempio i musei - che sono essi stessi merce (L. Bredlow). La comunicazione-guerriglia vuole interrompere l'estetizzazione dei luoghi pubblici e ripoliticizzare spazi sociali e culturali rendendo più manifesta questa estetizzazione e attaccandola sul piano della forma esteriore. La strategia del potere mira a estetizzare il politico e con ciò a naturalizzare ed eclissare i rapporti di potere. Al contrario, la comunicazione-guerriglia vuole contribuire a rendere visibili e intelligibili proprio queste strategie di mantenimento del potere.
Facciamo l'esempio dei Graffiti (sniping), considerando la valenza politica di queste pratiche: il danneggiamento, passibile di pena, non è altro che la distruzione dell'azione architettonica - intimidatoria o, per mezzo dell'estetizzazione, consolatoria - moderna e postmoderna. Jean Baudrillard arriva al punto di interpretare i graffiti come un progresso nella teoria e nella pratica, anche e soprattutto nel caso siano "solo" tags, firme prive di qualsivoglia contenuto esplicitamente politico: "Questo deriva da una specie d'intuizione rivoluzionaria - e cioè che l'ideologia profonda non funziona più al livello dei significati politici, ma al livello dei significanti - e che là il sistema è vulnerabile e dev'essere smantellato" (J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte). La marcatura di un muro o di una parete con un nome, con uno stenogramma abbreviato o con un dipinto, rappresenta un'appropriazione di questa superficie, con cui si ignora e si mette in discussione la pretesa del potere di controllare e determinare lo spazio anche dal punto di vista visivo, e in casi più specifici vengono comunicate vere e proprie pretese di dominio. Bisogna tuttavia chiedersi se l'esasperazione di Baudrillard corrisponde all'idea della grammatica culturale "che l'offensiva totale sulla forma s'accompagna a una recessione dei contenuti": non è proprio indifferente se una tag dice solo "io sono stato qui", oppure se con essa le gangs manifestano pretese di controllo su un territorio. E però appropriato che anche i graffiti apolitici vengano intesi come veri e propri attacchi al sistema. Questo ci fa capire perché i graffitisti vanno spesso incontro a drastiche punizioni.
Non solo gli edifici sono essi stessi portatori di significato, ma strutturano anche lo spazio in modo che la loro disposizione determini la grandezza, la forma e la valenza delle aree libere. Inoltre, il valore di strade e piazze è determinato anche dall'allestimento di queste superfici: se esse sono semplicemente asfaltate o dotate di uno splendido e costoso rivestimento, se erba, cespugli e alberi vengono piantati e curati o crescono in maniera selvaggia. Il significato di uno spazio pubblico, determinato da tutti questi elementi, ha concrete ripercussioni sulle possibilità delle persone di muoversi al loro interno: dove possono stazionare senzatetto e tossici? Dove pattugliano i vigilantes? Dove posso sedermi per terra senza fare assolutamente niente per mezz'ora?
L'Internazionale Situazionista concepì l'azione politica come sottrazione ai modelli di movimento imposti. Attraverso la pratica della deriva, i situazionisti tentano di appropriarsi nuovamente dello spazio urbano e di associarlo a nuovi legami e significati. Michel de Certeau considera il camminare una scrittura invisibile che, a seconda della strada e dell'andatura, produce testi momentanei dei soggetti nello spazio. Provvedimenti urbanistici (la sistemazione e la strutturazione di edifici, piazze e strade) possono anche essere pianificati e introdotti allo scopo di controllare i movimenti delle persone. Mike Davis analizza questo tipo di provvedimenti nel caso di Los Angeles. Qui, in seguito a un processo di "militarizzazione della città", è diventato impossibile per gli abitanti meno privilegiati recarsi nel centro della città. Allo stesso tempo il design architettonico riflette il programma politico: mentre gli edifici amministrativi sembrano prigioni o fortezze, e li si sorveglia come se lo fossero, la tecnica di costruzione della galera riprende elementi dei sontuosi edifici di rappresentanza ed esalta l'orgoglio della città tramite la carcerazione, fenomeno che a Los Angeles ha raggiunto una dimensione unica tra gli Stati industriali tardocapitalisti (M. Davis, Città di quarzo).
In ogni società esistono anche luoghi che trasmettono affermazioni esplicitamente formulate. I monumenti sono l'esempio più evidente: non solo essi incorporano e trasmettono rapporti di potere attraverso il dominio materiale e visivo dello spazio, ma fanno affermazioni concrete per mezzo delle iscrizioni e della forma, formulano inviti o fungono da sostituti di un'istituzione o di un ideale socialmente propagandato; un esempio di ciò è la glorificazione della guerra attraverso i monumenti ai caduti (sniping). Tali luoghi sono, in senso più esteso, occupati ritualmente: essi sono ornati con epigrammi e spesso ci sono deposizioni annuali di corone o cerimonie affini, atte a rinnovare il significato e la carica simbolica dei luoghi.
Per compiere azioni di comunicazione-guerriglia è necessario analizzare l'effetto di potere, simbolico e reale, delle strutture spaziali, poiché la riuscita delle azioni dipende fortemente dai luoghi in cui si svolgono. Per concludere, non si tratta soltanto di propagare concetti attraverso interventi nello spazio pubblico: è altrettanto importante cambiare lo spazio in cui si svolge l'azione, e riempirlo con nuove concatenazioni di senso. Quando si riesce a, rivalorizzare uno spazio pubblico (ad esempio una piazza centrale) reso inaccessibile dal blocco poliziesco, usando le superfici liberate come palcoscenico, oppure quando un gruppo approfitta per i propri obiettivi politici della diretta di una partita di calcio nel nome dell'amicizia tra i popoli, assistiamo a uno straniamento (détournement) dello spazio.
D'altra parte, campagne come Nolympics (4) (infra figure di merda) possono mirare a sporcare gli spazi di rappresentazione pubblica, attaccando così l'autorappresentazione del potere.

Tutti o nessuno?
Nomi multipli, persone immaginarie e miti collettivi


Un nome multiplo è "un nome adottabile da chiunque": i suoi inventori, noti o ignoti, singoli o gruppi che siano, non ne hanno preteso l'utilizzo esclusivo, né vi hanno apposto alcun copyright. Il nome multiplo può essere molto più di un semplice desiderio di restare anonimi: come espressione di anonimato, il nome multiplo non è che uno spazio vuoto, un segno senza un proprio significato, può dunque trasformarsi in un significante pieno di forza qualora lo si colleghi a una prassi determinata e riconoscibile. Esso non si limita a indicare una prassi - artistica, politica o religiosa - ma allo stesso tempo la collega alla figura di una persona immaginaria. Rendendo riconoscibile la prassi e riempiendola di vita, anche la persona prende vita. La sua figura assume dei contorni, se ne narra la storia, le si fa rivestire una funzione mitica. Uomini e donne entrano in questa storia, partecipano alle azioni collegate ai nomi multipli, diventando essi stessi parte del personaggio immaginario collettivo: la pratica dei singoli acquista forza grazie al mito collettivo, e allo stesso tempo lo riproduce. All'inverso, quando la pratica perde contorni e forza significativa, muore anche la persona collettiva dalla quale è stata incarnata.
Il nome multiplo annulla la distinzione tra individuo e collettività. Come per magia, esso inizia i singoli alla vita collettiva del personaggio immaginario, nella quale si identifica il movimento e la forza di una moltitudine invisibile. La moltitudine prende forma, e diviene soggetto agente nella forma della persona immaginaria. Proprio i più soggiogati, privati anche del peso del proprio nome, sono spesso ricorsi a tale stratagemma. Si guardi, ad esempio, alla storia delle sollevazioni contadine: nel 1514 i contadini del sud della Germania entrarono in guerra con il nome di armen Konrad.
Il nome non indicava alcun capo rivoluzionario: ogni membro di quella folla era il povero Konrad, in rivolta contro la propria oppressione. Agli inizi del XIX secolo, in Inghilterra, Il nome multiplo General Ludd ebbe un analogo utilizzo da parte degli spossessati. Leader immaginario di quanti prendevano d'assalto le nuove macchine, Ludd rivolse le sue minacce, raramente prive di conseguenze, contro i padroni della forma moderna di sfruttamento, quella capitalistica. Benché il movimento del generale Ludd non avesse alcuna forma organizzativa fissa, o forse proprio per questo, per anni fu in grado di terrorizzare gli sfruttatori.
Mentre General Ludd non era una persona reale né rappresentava alcuna precisa organizzazione, successive forme di organizzazione dei lavoratori si adeguarono alla separazione borghese tra individuo e azione collettiva. Il collettivo (il proletariato ecc.) divenne una materia astratta e gerarchicamente amministrata. La sua forza simbolica non si manifestava più direttamente nella pratica di ogni singolo. Rappresentanti di tale forza erano semmai i pochi individui capaci di distinguersi, i capi, gli eroi e i modelli. In tempi recenti, non è un caso che l'idea di nome multiplo si sia ripresentata dove il culto borghese dell'individuo è più marcato, cioè in campo artistico. Quando un nome multiplo viene adottato come nome d'arte, l'attribuzione di un'opera esclude un autore individuale. I Neoisti hanno utilizzato questo principio in modo coerente: nomi d'arte come Harry Kipper si sono trasformati in nomi multipli, altri nomi di questo genere come Monty Cantsin, assieme ai relativi miti, sono prodotti consapevoli della pratica artistica neoista. Infine è da citare la più significativa opera d'arte post-situazionista, la creazione del mito collettivo di Luther Blissett, per il quale, come già per Karen Eliot, si è ricorsi al nome di una persona esistente.
Anche nell'attuale contesto politico è comparso un nome multiplo. Una delle geniali trovate strategiche della guerriglia zapatista in Chiapas è stata trasformare il nome del loro portavoce Subcomandante Marcos in un nome collettivo ("Siamo tutti Marcos").
Con ciò, non solo si è proseguito nella decostruzione del mito del leader rivoluzionario o guerrigliero, già implicita nella carica di Subcomandante, ma si è allo stesso tempo creata una nuova forma del mito collettivo: la persona reale del guerrigliero rimane senza una storia determinata. Gli attributi conoscibili, come il passamontagna e l'uniforme, non attenuano la sua vera funzione di segno vuoto, semmai l'accentuano. Proprio perché la persona reale rimane indistinta, lo spazio vuoto può essere riempito da innumerevoli racconti e leggende. E' così che il mito collettivo Marcos è divenuto un ubiquo portatore dei più diversi significati, espressione e punto di identificazione sovversivo, addirittura fantasia sessuale (questo esprime meglio di qualunque altro esempio la potenza simbolica della persona collettiva: nonostante nessuno avesse mai visto il suo viso o il suo corpo, "Marcos" è stato votato l'uomo "più attraente" del Messico). Dunque, in decine di migliaia hanno potuto sfilare per le strade di Città del Messico al grido di "Anche noi siamo Marcos", esprimendosi politicamente con forza.
Il mito di El Sub si differenzia inoltre chiaramente da quello di un eroe individuale come Che Guevara: un'affermazione del tipo "Anch'io sono Che Guevara" suonerebbe davvero insensata. Del resto, in Messico, i potenti hanno ben chiaro come funzionano il mito collettivo e le pratiche misteriose a esso collegate; stanno a dimostrarlo i disperati (e vani) tentativi di scovare l'individuo che si nasconde realmente dietro il nome di Marcos, di mostrarne il volto e ridurlo così da mito collettivo a individuo borghese.
L'origine dei nomi multipli si perde nella notte della storia, essi rimandano ad antichissime pratiche religiose ed esoteriche. Il più longevo di tali nomi definisce il principio in tutta chiarezza: tutti sono sempre e per natura Buddha. La partecipazione a una persona collettiva è mediata dall'esperienza: "Nel momento in cui realizzate la pratica del Buddha, voi siete il Buddha. Vedete con gli stessi occhi, sentite con le stesse orecchie, parlate con la stessa bocca. Non esiste la minima differenza".
Attraverso l'utilizzo di nomi collettivi vengono dunque riprese, con modi più immediati, forme arcaiche che mettono in discussione la separazione tra individuo e collettivo: i nomi multipli non valgono principalmente come garanzia di anonimato (per quello andrebbe bene qualunque pseudonimo); in realtà, essi costituiscono l'attacco più incisivo ai moderni concetti di soggettività e identità borghese, dimostrano chiaramente la natura illusoria di tali concetti, e fanno riemergere antiche immagini, verità senza tempo: l'identità non è che articolazione e punto d'intersezione di pratiche collettive, oltre le quali non esiste alcuna "essenza umana". Tale potenza sovversiva del nome multiplo si dispiega solo nella prassi concreta. Diventa anche tu Luther Blissett!