Biblioteca Multimediale Marxista


Lettera di Engels a F.Mehring, 14 luglio 1893.
 


Caro signor Mehring,

Soltanto oggi vengo a ringraziarla per la "Lessing-Legende" così gentilmente inviatami. Non volevo mandarle un cenno meramente formale di ricevuta del volume, ma, nello stesso tempo, dirle qualcosa in merito al suo contenuto. Di qui il ritardo.

Comincio con la fine: l'appendice "Sul materialismo storico", in cui lei ha riassunto in modo egregio, e convincente per chiunque non abbia pregiudizi, le cose essenziali. Se ci trovo qualcosa da ridire, è che mi si attribuiscono più meriti di quanti me ne spettino, anche calcolando ciò che, col tempo, forse avrei potuto scoprire in modo autonomo, e che invece Marx, col suo piu rapido colpo d'occhio e la sua più ampia visione d'insieme, ha fatto molto più presto a percepire. Quando si ha avuto la fortuna di collaborare per quarant'anni con un uomo come Marx, di solito non si è riconosciuti da vivi come si pensa di meritare; se poi muore il più grande, è facile che si sopravvaluti il più piccolo , e questo, proprio ora, sembra essere il caso mio; la storia finirà per rimettere tutto in ordine, e allora si sarà felicemente andati all'altro mondo e non si saprà più nulla di nulla.

Per il resto, manca soltanto un punto, che negli scritti di Marx e miei non è mai stato messo abbastanza in rilievo, e in merito al quale abbiamo tutti eguale colpa. Abbiamo cioè, prima di tutto, fatto cadere l'accento principale sulla derivazione delle concezioni politiche, giuridiche e, in generale, ideologiche, e delle azioni da esse mediate, dai fatti economici di base. Così facendo, abbiamo trascurato il lato formale a favore di quello sostanziale: il modo in cui queste concezioni ecc. nascono. Ciò ha offerto agli avversari un comodo appiglio a malintesi o a travisamenti, di cui Paul Barth è un esempio clamoroso.

L'ideologia è un processo che il cosiddetto pensatore compie bensì con coscienza ma con falsa coscienza. Le vere forze agenti che lo muovono gli restano sconosciute; se così non fosse, non si tratterebbe di un processo, appunto, ideologico. Egli quindi si immagina delle false o, rispettivamente, illusorie forze agenti. Trattandosi di un processo raziocinante, egli ne deduce sia il contenuto sia la forma dal puro pensiero, il suo o quello dei suoi predecessori. Lavora con puro materiale intellettivo che, senza accorgersene, egli crede prodotto dal pensiero, non preoccupandosi di andare in cerca di un'origine più remota, indipendente dal pensiero; e tutto ciò gli riesce di per sé evidente, perché ogni azione in quanto mediata dal pensiero, gli appare anche fondata nel pensiero.

L'ideologo storico (qui, storico deve stare sinteticamente per politico, giuridico, filosofico, teologico, insomma per tutti i campi appartenenti alla società e non soltanto alla natura), l'ideologo storico, dunque, dispone in ogni campo scientifico di un materiale enucleatosi autonomamente dal pensiero di generazioni precedenti e che ha percorso nel cervello di queste successive generazioni una serie autonoma e tutta sua propria di sviluppi. Certo, fatti esterni, appartenenti al suo o ad altri campi, possono avere influito in modo codeterminante su tali sviluppi; ma questi fatti, secondo la tacita premessa, non sono a loro volta che semplici frutti di un processo intellettivo, e così continuiamo a muoverci nell'ambito del puro pensiero, il quale, a quanto sembra, ha felicemente digerito anche i fatti più duri.

È soprattutto quest'apparenza di una storia indipendente delle costituzioni statali, dei sistemi giuridici, delle concezioni ideologiche in ogni particolare campo, che acceca i più. Quando Lutero e Calvino "superano" la religione ufficiale cattolica, quando Hegel supera i Fichte e i Kant, e Rousseau con il suo repubblicano "Contrat social" supera il costituzionale Montesquieu, è questo un evento che resta nell'ambito della teologia, della filosofia, della scienza politica; che rappresenta una tappa nella storia di questi campi del pensiero, e da questi campi non c'è verso di farlo uscire. E da quando è sopravvenuta l'illusione borghese dell'eternità e definitività della produzione capitalistica, perfino il superamento dei mercantilisti ad opera dei fisiocratici e di A. Smith passa per una semplice vittoria del pensiero; non per il riflesso nel pensiero di fatti economici cambiati, ma per la giusta percezione infine raggiunta di condizioni materiali sempre ed ovunque esistenti; se Riccardo Cuor di Leone e Filippo Augusto avessero introdotto il libero scambio invece di impelagarsi in crociate, ci sarebbero stati risparmiati cinquecento anni di miseria e cretinismo.

Questo lato della cosa, che qui posso soltanto accennare, noi tutti l'abbiamo, credo, trascurato più di quanto meriti. È la vecchia storia: in principio si trascura sempre la forma a favore del contenuto. Come già detto, anch'io l'ho fatto, e l'errore mi è sempre apparso chiaro solo a cose fatte. Perciò non sono soltanto ben lontano dal farle dei rimproveri in materia (avendo da più tempo condiviso tale colpa, non vi sono affatto autorizzato; al contrario!), ma vorrei richiamare la sua attenzione su questo punto per l'avvenire.

A tutto ciò si collega la sciocca concezione degli ideologi, secondo cui, poiché neghiamo alle diverse sfere ideologiche che recitano una parte nella storia uno sviluppo storico indipendente, negheremmo loro anche ogni efficacia storica. Alla base di ciò è la volgare concezione antidialettica di causa e di effetto come poli rigidamente contrapposti, l'assoluta dimenticanza dell'azione e reazione reciproca. Che un fattore storico, una volta dato alla luce da altre cause, in definitiva economiche, possa a sua volta reagire sul mondo circostante perfino sulle sue stesse cause, quei signori lo dimenticano, spesso, quasi di proposito. Così per es. Barth a proposito del clero e della religione, pag. 475 nel Suo libro. Della sua liquidazione di questo individuo, piatto e banale oltre ogni aspettativa, mi sono molto rallegrato. E dire che lo fanno professore di storia a Lipsia! In confronto, il vecchio Wachsmuth, che pure di scatola cranica era piuttosto angusto, ma aveva un senso vivissimo dei fatti, era tutt'altro tipo.

Quanto al resto, del libro posso soltanto ripetere ciò che ho già detto più volte sugli articoli apparsi nella "Neue Zeit": è la rappresentazione di gran lunga migliore che esista della genesi dello Stato prussiano; posso anzi dire l'unica buona, e che quasi sempre sviluppa correttamente, fin nei particolari, i nessi effettivi. Si rimpiange soltanto che lei non abbia potuto abbracciare allo stesso modo l'evoluzione successiva fino a Bismarck, e si spera, sotto sotto, che in seguito lei lo faccia e riesca a dipingere l'intero quadro dal principe elettore Federico Guglielmo fino al vecchio Guglielmo. Gli studi preliminari a questo scopo li ha già compiuti e ha praticamente liquidato la faccenda almeno nelle linee dorsali. E, presto o tardi, la cosa va fatta prima che il baraccone crolli; la distruzione della leggenda monarchico-patriottica è se non proprio una premessa necessaria dell'eliminazione della monarchia che nasconde sotto il suo manto la dominazione di classe (giacché in Germania una repubblica borghese pura è superata prima ancora di nascere), tuttavia una delle leve più efficaci a tale scopo.

Così lei avrà più spazio ed occasione per raffigurare la storia locale prussiana come parte della generale miseria tedesca. È questo il punto in cui qua e là dissento, almeno in parte, dalla sua concezione, il modo cioè di interpretare i presupposti della frammentazione della Germania e del fallimento della rivoluzione borghese tedesca del XVI secolo. Se riuscirò a rielaborare l'introduzione storica alla mia "Guerra dei contadini", cosa che avverrà, spero, nel prossimo inverno, potrò sviluppare i punti che vi si riferiscono. Non che giudichi inesatti quelli da lei indicati, ma ne aggiungerò altri e li raggrupperò in modo un po' diverso.

Nello studiare la storia tedesca, che mostra un'unica, persistente miseria, ho sempre trovato che il solo confronto con le corrispondenti epoche della Francia dà il giusto metro di giudizio, perché là accade l'esatto opposto che da noi. Là, la nascita dello Stato nazionale dalle membra sparse dello Stato feudale; e invece, da noi, la catastrofe. Là una rara logica obiettiva in tutto il corso del processo; da noi, grigio e sempre più grigio smarrimento. Là, il conquistatore inglese nel Medioevo rappresenta, nella sua intromissione a favore della nazionalità provenzale contro quella francese-settentrionale, l'ingerenza estera; le guerre con l'Inghilterra prefigurano, per così dire, la guerra dei trent'anni, che però finisce con la cacciata dello straniero e la sottomissione del Sud al Nord. Viene poi la lotta del potere centrale con il vassallo di Borgogna, che si appoggia a possedimenti esteri recitando la parte del Brandeburgo-Prussia; lotta che però termina definitivamente con la vittoria del potere centrale e la creazione dello Stato nazionale. Esattamente nello stesso periodo, da noi lo Stato nazionale (nei limiti in cui il "regno tedesco" entro i confini del Sacro Romano Impero può essere chiamato uno Stato nazionale) crolla totalmente e comincia il saccheggio su vasta scala del territorio germanico. Un confronto in altissimo grado umiliante per i tedeschi, ma appunto perciò tanto più istruttivo, e, da quando i nostri operai hanno rimesso la Germania in prima fila nel movimento storico, ci riesce un po' più facile inghiottire l'onta del passato.

Particolarmente significativo per lo sviluppo tedesco è inoltre che i due frammenti di Stato che, alla fine, si sono divisi la Germania non siano, né l'uno né l'altro, Stati puramente tedeschi, ma colonie su territorio slavo conquistato: l'Austria una colonia bavarese, il Brandeburgo una colonia sassone; e che si siano creati una potenza in Germania alla sola condizione di appoggiarsi su possedimenti stranieri, non tedeschi: l'Austria sull'Ungheria (per tacere della Boemia), il Brandeburgo sulla Prussia. Nulla di simile è avvenuto alla frontiera più minacciata, quella occidentale; alla frontiera nord, si è lasciato ai danesi il compito di proteggere la Germania contro i danesi, e a sud c'era così poco da proteggere, che le guardie confinarie, gli svizzeri, si sono potuti addirittura svincolare dalla Germania.

Ma io mi perdo in ogni sorta di divagazioni, accetti almeno questo discorso come prova di come il suo lavoro agisca in modo stimolante su di me.

Ancora molti ringraziamenti e saluti dal Suo

 

F. Engels