Biblioteca Multimediale Marxista
Ringraziamo www.resistenze.org e le Edizioni La Città del Sole per aver messo a disposizione il seguente testo tratto da:
Stalin - Opere scelte Vol. 1- Laboratorio Politico
Premessa
Alla leva leninista dedico queste pagine. G. Stalin
I principi del leninismo: vasto argomento. Occorrerebbe un libro intero per
esaurirlo. Anzi, occorrerebbe una serie di libri. È naturale, quindi,
che le mie lezioni non potranno essere un’esposizione esauriente del
leninismo. Nel migliore dei casi, potranno essere soltanto un riassunto conciso
dei principi del leninismo. Ciononostante, ritengo utile fare questo riassunto
per fissare alcuni punti di partenza fondamentali, indispensabili per uno
studio proficuo del leninismo.
Esporre i principi del leninismo, non vuol ancora dire esporre i principi
della concezione del mondo di Lenin. La concezione del mondo di Lenin e i
principi del leninismo non sono, per ampiezza, la stessa cosa. Lenin è
un marxista e la base della sua concezione del mondo è, naturalmente,
il marxismo. Ma da questo non deriva affatto che una esposizione del leninismo
debba partire dall’esposizione dei principi del marxismo. Esporre il
leninismo significa esporre ciò che vi è di particolare e di
nuovo nell’opera di Lenin, ciò che Lenin ha apportato al tesoro
comune del marxismo e che naturalmente è legato al suo nome. Soltanto
in questo senso parlerò nelle mie lezioni dei principi del leninismo.
Dunque, che cosa è il leninismo?
Gli uni dicono che il leninismo è l’applicazione del marxismo
alle condizioni originali della situazione russa. In questa definizione vi
è una parte di verità, ma essa è ben lontana dal contenere
tutta la verità. Lenin ha effettivamente applicato il marxismo alla
situazione russa e l’ha applicato in modo magistrale. Ma se il leninismo
non fosse che l’applicazione del marxismo alla situazione originale
della Russia, sarebbe un fenomeno puramente nazionale e soltanto nazionale,
puramente russo e soltanto russo. Invece noi sappiamo che il leninismo è
un fenomenointernazionale, che ha le sue radici in tutta l’evoluzione
internazionale e non soltanto un fenomeno russo. Ecco perché penso
che questa definizione pecca di unilateralità.
Altri dicono che il leninismo è la rinascita degli elementi rivoluzionari
del marxismo del decennio 1840-1850, per distinguerlo dal marxismo degli anni
successivi, divenuto, a loro avviso, moderato, non più rivoluzionario.
A prescindere dalla sciocca e banale divisione della dottrina di Marx in due
parti, una rivoluzionaria e una moderata, bisogna riconoscere che anche questa
definizione, del tutto insufficiente e insoddisfacente, contiene una parte
di verità. Questa parte di verità consiste nel fatto che Lenin
ha effettivamente risuscitato il contenuto rivoluzionario del marxismo, ch’era
stato sotterrato dagli opportunisti della II Internazionale (14). Ma questa
non è che una parte della verità. La verità intera è
che il leninismo non solo ha risuscitato il marxismo, ma ha fatto ancora un
passo avanti, sviluppando ulteriormente il marxismo nelle nuove condizioni
del capitalismo e della lotta di classe del proletariato.
Che cosa è dunque, in ultima analisi, il leninismo?
Il leninismo è il marxismo dell’epoca dell’imperialismo
e della rivoluzione proletaria. Più esattamente: il leninismo è
la teoria e la tattica della rivoluzione proletaria in generale, la teoria
e la tattica della dittatura del proletariato in particolare. Marx ed Engels
militarono nel periodo prerivoluzionario (ci riferiamo alla rivoluzione proletaria),
quando l’imperialismo non si era ancora sviluppato, nel periodo di preparazione
dei proletari alla rivoluzione, nel periodo in cui la rivoluzione proletaria
non era ancora diventata una necessità pratica immediata. Lenin invece,
discepolo di Marx e di Engels, militò nel periodo di pieno sviluppo
dell’imperialismo, nel periodo dello scatenamento della rivoluzione
proletaria, quando la rivoluzione proletaria aveva già trionfato in
un paese, aveva distrutto la democrazia borghese e aperto l’èra
della democrazia proletaria, l’èra dei Soviet.
Ecco perché il leninismo è lo sviluppo ulteriore del marxismo.
Si mette spesso in rilievo il carattere straordinariamente combattivo, straordinariamente
rivoluzionario del leninismo. Ciò è del tutto giusto. Ma questa
caratteristica del leninismo si spiega con due motivi: in primo luogo col
fatto che il leninismo è sorto dalla rivoluzione proletaria, e non
può non portarne l’impronta; in secondo luogo, col fatto che
esso è cresciuto e si è rafforzato nella lotta contro l’opportunismo
della II Internazionale, lotta che fu ed è condizione necessaria preliminare
per il successo della lotta contro il capitalismo. Non bisogna dimenticare
che fra Marx ed Engels da una parte, e Lenin dall’altra, si stende un
intero periodo di dominio incontrastato dell’opportunismo della II Internazionale.
La lotta spietata contro l’opportunismo non poteva non essere uno dei
compiti più importanti del leninismo.
I. Le radici storiche del leninismo
Il leninismo sorse e si formò nelle condizioni esistenti nel periodo
dell’imperialismo, quando le contraddizioni del capitalismo erano giunte
al punto più alto, quando la rivoluzione proletaria era diventata un
problema pratico immediato, quando il precedente periodo di preparazione della
classe operaia alla rivoluzione si era chiuso, e si era entrati nel nuovo
periodo dell’assalto diretto al capitalismo.
Lenin chiamava l’imperialismo «capitalismo morente». Perché?
Perché l’imperialismo porta le contraddizioni del capitalismo
all’ultimo termine, ai limiti estremi, oltre i quali comincia la rivoluzione.
Di queste contraddizioni, tre devono essere considerate come le più
importanti.
La prima contraddizione è la contraddizione tra il lavoro e il capitale.
L’imperialismo è l’onnipotenza, nei paesi industriali,
dei trust e dei sindacati monopolisti, delle banche e dell’oligarchia
finanziaria. Nella lotta contro questa onnipotenza, i metodi abituali della
classe operaia - sindacati e cooperative, partiti parlamentari e lotta parlamentare
- si son rivelati assolutamente insufficienti. O abbandonarsi alla mercè
del capitale, vegetare all’antica e scendere sempre più in basso,
o impugnare una nuova arma: così l’imperialismo pone il problema
alle masse innumerevoli del proletariato. L’imperialismo avvicina la
classe operaia alla rivoluzione.
La seconda contraddizione è la contraddizione fra i diversi gruppi
finanziari e le diverse potenze imperialiste nella loro lotta per le fonti
di materie prime e per i territori altrui. L’imperialismo è esportazione
di capitale verso le fonti di materie prime, lotta accanita per il possesso
esclusivo di queste fonti, lotta per una nuova spartizione del mondo già
diviso, lotta che viene condotta con particolare asprezza, dai gruppi finanziari
nuovi e dalle potenze in cerca di un «posto al sole», contro i
vecchi gruppi e le potenze che non vogliono a nessun costo abbandonare il
bottino. Questa lotta accanita tra diversi gruppi di capitalisti è
degna di nota perché racchiude in sé, come elemento inevitabile,
le guerre imperialiste, le guerre per la conquista di territori altrui. Questa
circostanza, a sua volta, è degna di nota perché porta all’indebolimento
reciproco degli imperialisti, all’indebolimento delle posizioni del
capitalismo in generale, perché avvicina il momento della rivoluzione
proletaria, perché rende praticamente necessaria questa rivoluzione.
La terza contraddizione è la contraddizione tra un pugno di nazioni
«civili» dominanti e centinaia di milioni di uomini appartenenti
ai popoli coloniali e dipendenti del mondo. L’imperialismo è
lo sfruttamento più spudorato, l’oppressione più inumana
di centinaia di milioni di abitanti degli immensi paesi coloniali e dipendenti.
Spremere dei sopraprofitti: ecco lo scopo di questo sfruttamento e di questa
oppressione. Ma per sfruttare questi paesi l’imperialismo è costretto
a costruirvi delle ferrovie, delle fabbriche, delle officine, a crearvi dei
centri industriali e commerciali. L’apparire di una classe di proletari,
il sorgere di uno strato di intellettuali indigeni, il risveglio di una coscienza
nazionale, il rafforzarsi del movimento per l’indipendenza: tali sono
gli effetti inevitabili di questa “politica”. L’incremento
del movimento rivoluzionario in tutte le colonie e in tutti i paesi dipendenti,
senza eccezione, ne fornisce la prova evidente. Questa circostanza è
importante per il proletariato perché mina alle radici le posizioni
delcapitalismo, trasformando le colonie e i paesi dipendenti da riserve dell’imperialismo
in riserve della rivoluzione proletaria.
Tali sono, in generale, le principali contraddizioni dell’imperialismo,
che hanno trasformato il «florido» capitalismo di una volta in
capitalismo morente.
L’importanza della guerra imperialista, scatenatasi dieci anni fa, consiste,
tra l’altro, nel fatto che essa ha raccolto in un sol fascio tutte queste
contraddizioni e le ha gettate sul piatto della bilancia, accelerando e facilitando
le battaglie rivoluzionarie del proletariato.
L’imperialismo, in altri termini, non solo ha fatto sì che la
rivoluzione proletaria è diventata una necessità pratica, ma
ha pure creato le condizioni favorevoli per l’assalto diretto alle fortezze
del capitalismo.
Tale è la situazione internazionale che ha generato il leninismo.
Tutto ciò va benissimo, si dirà; ma che c’entra la Russia,
la quale certo non era e non poteva essere il paese classico dell’imperialismo?
Che c’entra Lenin, il quale ha lavorato soprattutto in Russia e per
la Russia? Perché mai proprio la Russia è diventata il focolaio
del leninismo, la patria della teoria e della pratica della rivoluzione proletaria?
Per il fatto che la Russia era il punto nodale di tutte queste contraddizioni
dell’imperialismo.
Per il fatto che la Russia era, più di qualsiasi altro paese, gravida
di rivoluzione, e perciò essa soltanto era in grado di risolvere queste
contraddizioni per via rivoluzionaria.
Innanzi tutto, la Russia zarista era un focolaio di ogni genere di oppressione
- e capitalistica e coloniale e militare - esercitata nella forma più
barbara e più inumana. Chi non sa che in Russia l’onnipotenza
del capitale si fondeva col potere dispotico dello zarismo, l’aggressività
del nazionalismo russo con la ferocia dello zarismo verso i popoli non russi,
lo sfruttamento di intiere regioni - della Turchia, della Persia, della Cina
- con la conquista di queste regioni da parte dello zarismo, con le guerre
volte a conquistarle? Lenin aveva ragione di dire che lo zarismo era un «imperialismo
feudale militare». Lo zarismo concentrava in sé i lati più
negativi dell’imperialismo, elevati al quadrato.
E non basta. La Russia zarista era un’immensa riserva dell’imperialismo
occidentale non soltanto nel senso che dava libero accesso al capitale straniero,
il quale teneva in pugno settori decisivi dell’economia russa, come
i combustibili e la metallurgia, ma anche nel senso che poteva mettere al
servizio degli imperialisti dell’Occidente milioni di soldati. Ricordate
l’esercito russo di dodici milioni di uomini, che ha versato il suo
sangue sui fronti della guerra imperialista per assicurare favolosi profitti
ai capitalisti anglo-francesi.
Ancora. Lo zarismo non era soltanto il cane da guardia dell’imperialismo
nell’Europa orientale, era anche un’agenzia dell’imperialismo
occidentale per estorcere alla popolazione centinaia di milioni per il pagamento
degli interessi dei prestiti che gli erano stati concessi a Parigi, a Londra,
a Berlino e a Bruxelles.
Infine, lo zarismo era l’alleato più fedele dell’imperialismo
occidentale nella spartizione della Turchia, della Persia, della Cina, ecc.
Chi non sa che la guerra imperialista è stata condotta dallo zarismo
in unione con gli imperialisti dell’Intesa, che la Russia è stata
un elemento essenziale di questa guerra?
Ecco perché gli interessi dello zarismo e dell’imperialismo occidentale
s’intrecciavano e si fondevano, in ultima analisi, nell’unico
gomitolo degli interessi dell’imperialismo. Poteva l’imperialismo
occidentale rassegnarsi alla perdita di un così potente appoggio in
Oriente e di un così ricco serbatoio di forze e di mezzi, quale era
la vecchia Russia zarista e borghese, senza impegnare tutte le proprieforzeper
condurre una lotta a morte contro la rivoluzione in Russia, allo scopo di
difendere e conservare lo zarismo? Evidentemente, non poteva!
Ma da questo deriva che chiunque voleva battere lo zarismo inevitabilmente
alzava la mano contro l’imperialismo, chiunque insorgeva contro lo zarismo
doveva insorgere anche contro l’imperialismo, poiché chi voleva
rovesciare lo zarismo doveva abbattere anche l’imperialismo, se voleva
realmente non solo vincere lo zarismo, ma debellarlo definitivamente. La rivoluzione
contro lo zarismo si collegava, perciò, alla rivoluzione contro l’imperialismo
e doveva trasformarsi in rivoluzione proletaria.
In Russia si scatenava pertanto la più grande rivoluzione popolare,
a capo della quale si trovava il proletariato più rivoluzionario del
mondo, che disponeva di un alleato dell’importanza dei contadini rivoluzionari
della Russia. Vi è bisogno di dimostrare che tale rivoluzione non poteva
fermarsi a mezza strada, che in caso di successo essa doveva procedere oltre,
innalzando la bandiera dell’insurrezione contro l’imperialismo?
Ecco perché la Russia doveva diventare il punto nodale delle contraddizioni
dell’imperialismo, non solo nel senso che queste contraddizioni si rivelavano
proprio in Russia più che in ogni altro paese, per il loro carattere
particolarmente scandaloso e particolarmente intollerabile, e non solo perché
la Russia era il punto d’appoggio principale dell’imperialismo
d’Occidente, costituendo un legame tra il capitale finanziario dell’Occidente
e le colonie dell’Oriente, ma anche perché solo in Russia esisteva
una forza reale, capace di risolvere le contraddizioni dell’imperialismo
per via rivoluzionaria.
Ma da questo deriva che la rivoluzione, in Russia, non poteva non diventare
proletaria, che essa non poteva non prendere fin dai primi giorni del suo
sviluppo un carattere internazionale, che essa non poteva quindi non scuotere
le basi stesse dell’imperialismo mondiale.
Potevano i comunisti russi, in questa situazione, contenere il loro lavoro
nel quadro strettamente nazionale della rivoluzione russa? Evidentemente no!
Al contrario, tutta la situazione, tanto interna (profonda crisi rivoluzionaria),
quanto esterna (guerra), li spingeva a uscire, nel corso del loro lavoro,
da questo quadro, a trasportare la lotta sull’arena internazionale,
a mettere a nudo le piaghe dell’imperialismo, a dimostrare l’ineluttabilità
della catastrofe del capitalismo, a battere il socialsciovinismo e il socialpacifismo
e, infine, ad abbattere il capitalismo nel proprio paese e a forgiare per
il proletariato una nuova arma di lotta, la teoria e la tattica della rivoluzione
proletaria, allo scopo di facilitare ai proletari di tutti i paesi il compito
dell’abbattimento del capitalismo. I comunisti russi non potevano, del
resto, agire in altro modo, poiché solo seguendo questa via si poteva
contare su alcune modificazioni della situazione internazionale, atte a garantire
la Russia dalla restaurazione del regime borghese.
Ecco perché la Russia è diventata il focolaio del leninismo,
e il capo dei comunisti russi, Lenin, ne è diventato il creatore.
Per la Russia e per Lenin “è avvenuto” qualche cosa di
simile a quel che, tra il 1840 e il 1850, “era avvenuto” per la
Germania e per Marx ed Engels. Come la Russia al principio del secolo XX,
la Germania era allora gravida della rivoluzione borghese. Nel Manifesto dei
Comunisti, Marx scriveva allora che:
Sulla Germania rivolgono i comunisti specialmente la loro attenzione, perché la Germania è alla vigilia della rivoluzione borghese, e perché essa compie tale rivoluzione in condizioni di civiltà generale europea più progredite e con un proletariato molto più sviluppato che non avessero l’Inghilterra nel secolo XVII e la Francia nel XVIII; per cui la rivoluzione borghese tedesca non può essere che l’immediato preludio di una rivoluzione proletaria.
In altri termini, il centro del movimento rivoluzionario si spostava verso
la Germania.
Non vi può esser dubbio che appunto questa circostanza, segnalata da
Marx nel passo sopra riportato, fu probabilmente la causa per cui appunto
la Germania fu la patria del socialismo scientifico e i capi del proletariato
tedesco - Marx ed Engels - ne furono i creatori.
Lo stesso, ma in misura ancora maggiore, si deve dire della Russia dell’inizio
del secolo XX. La Russia si trovava in quel periodo alla vigilia di una rivoluzione
borghese; ma doveva compiere questa rivoluzione quando le condizioni dell’Europa
erano più progredite, il proletariato più sviluppato che nel
caso della Germania (senza parlare dell’Inghilterra e della Francia)
e tutti i dati indicavano che questa rivoluzione sarebbe stata il lievito
e il preludio della rivoluzione proletaria. Non si può reputare accidentale
il fatto che già nel 1902, quando la rivoluzione russa era soltanto
all’inizio, Lenin scrivesse nel suo opuscolo Che fare? queste parole
profetiche:
La storia ci pone oggi (cioè ai marxisti russi. G. St.) un compito immediato, il più rivoluzionario di tutti i compiti immediati del proletariato di qualsiasi altro paese. L’adempimento di questo compito, la distruzione del baluardo più potente della reazione non soltanto europea, ma anche... asiatica, farebbe del proletariato russo l’avanguardia del proletariato rivoluzionario internazionale.
In altri termini, il centro del movimento rivoluzionario doveva spostarsi
verso la Russia.
È noto che il corso della rivoluzione in Russia ha più che confermato
questa predizione di Lenin.
C’è dunque da meravigliarsi che un paese, il quale ha fatto una
tale rivoluzione ed ha un tale proletariato, sia stato la patria della teoria
e della tattica della rivoluzione proletaria?
C’è da meravigliarsi che il capo di questo proletariato, Lenin,
sia diventato in pari tempo il creatore di questa teoria e di questa tattica
e il capo del proletariato internazionale?
II. Il metodo
Ho già detto che fra Marx ed Engels da una parte e Lenin dall’altra,
si stende tutto il periodo del dominio dell’opportunismo della II Internazionale.
Aggiungerò, per precisare, che non si tratta di un dominio formale
dell’opportunismo, bensì di un dominio di fatto. Formalmente,
a capo della II Internazionale vi erano dei marxisti «ortodossi»
come Kautsky (15) ed altri. In realtà, però, l’attività
fondamentale della II Internazionale si svolgeva sulla linea dell’opportunismo.
Gli opportunisti si adattavano alla borghesia in virtù della loro natura
adattabile, piccolo-borghese; gli «ortodossi», a loro volta, si
adattavano agli opportunisti nell’interesse del «mantenimento
dell’unità» con gli opportunisti, nell’interesse
della «pace nel partito». Il risultato era il dominio dell’opportunismo,
poiché si creava tra la politica della borghesia e la politica degli
«ortodossi» una catena ininterrotta.
Si era in un periodo di sviluppo relativamente pacifico del capitalismo, in
un periodo, per così dire, di anteguerra, in cui le contraddizioni
catastrofiche dell’imperialismo non erano ancora arrivate a manifestarsi
in tutta la loro evidenza, gli scioperi economici degli operai e i sindacati
si sviluppavano più o meno «normalmente», la lotta elettorale
e i gruppi parlamentari riportavano successi «da far girar la testa»,
le forme legali di lotta erano portate alle stelle e si pensava di poter «uccidere»
il capitalismo con la legalità, in un periodo, insomma, in cui i partiti
della II Internazionale s’imbastardivano e non si voleva pensare seriamente
alla rivoluzione, alla dittatura del proletariato, all’educazione rivoluzionaria
delle masse.
Invece di una teoria rivoluzionaria coerente, affermazioni teoriche contraddittorie
e frammenti di teoria, staccati dalla lotta rivoluzionaria vivente delle masse
e trasformatisi in dogmi rinsecchiti. Per salvare le apparenze, certo, ci
si richiamava alla teoria di Marx, ma per spogliarla del suo vivente spirito
rivoluzionario.
Invece di una politica rivoluzionaria, filisteismo smidollato e politicantismo
gretto, diplomazia parlamentare e combinazioni parlamentari. Per salvare le
apparenze, certo, si approvavano risoluzioni e parole d’ordine «rivoluzionarie»,
ma per passarle agli archivi.
Invece di educare e istruire il partito nella giusta tattica rivoluzionaria
sulla base dell’esperienza dei suoi propri errori, si eludevano accuratamente,
si mascheravano e si mettevano in disparte le questioni spinose. Per salvare
le apparenze, certo, non ci si esimeva dal parlarne, ma per concludere l’affare
con una qualsiasi risoluzione «di caucciù».
Tali erano la fisionomia, il metodo di lavoro e l’arsenale della II
Internazionale.
Frattanto si avvicinava un nuovo periodo di guerre imperialiste e di battaglie
rivoluzionarie del proletariato. I vecchi metodi di lotta si rivelavano manifestamente
insufficienti, impotenti, di fronte all’onnipotenza del capitale finanziario.
Era necessario rivedere tutto il lavoro della II Internazionale, tutto il
suo metodo di lavoro, dare il bando al filisteismo, alla grettezza mentale,
al politicantismo, al tradimento, al socialsciovinismo, al socialpacifismo.
Era necessario verificare tutto l’arsenale della II Internazionale,
buttare via tutto quel che vi era di arrugginito e di antiquato, forgiare
nuove sorta di armi. Senza questo lavoro preliminare era inutile partire in
guerra contro il capitalismo. Senza questo lavoro il proletariato rischiava
di trovarsi, di fronte alle nuove battaglie rivoluzionarie, insufficientemente
armato, o addirittura del tutto disarmato.
L’onore di questa revisione generale, di questa ripulitura generale
delle stalle d’Augia (16) della II Internazionale è toccato al
leninismo.
Ecco in quale situazione è sorto e si è forgiato il metodo del
leninismo.
A che cosa si riducono le esigenze di questo metodo?
Innanzi tutto, alla verifica dei dogmi teorici della II Internazionale nel
fuoco della lotta rivoluzionaria delle masse, nel fuoco della pratica vivente,
cioè al ristabilimento della perduta unità fra la teoria e la
pratica, alla eliminazione della rottura tra di esse, poiché solo così
si può formare un partito veramente proletario, armato di una teoria
rivoluzionaria.
In secondo luogo, alla verifica della politica dei partiti della II Internazionale,
partendo non dalle loro parole d’ordine e dalle loro risoluzioni (a
cui non si può prestar fede), bensì dai loro atti, dalle loro
azioni, poiché solo così si può conquistare e meritare
la fiducia delle masse proletarie.
In terzo luogo, alla riorganizzazione di tutto il lavoro del partito per dargli
una nuova impronta rivoluzionaria, nel senso dell’educazione e della
preparazione delle masse alla lotta rivoluzionaria, poiché solo così
si possono preparare le masse alla rivoluzione proletaria.
In quarto luogo, all’autocritica dei partiti proletari, alla loro educazione
e istruzione partendo dall’esperienza dei loro propri errori, poiché
solo così si possono formare dei veri quadri e dei veri dirigenti del
partito.
Queste sono le basi, questa è l’essenza del metodo del leninismo.
Come è stato applicato in pratica questo metodo?
Gli opportunisti della II Internazionale professano una serie di dogmi teorici,
che ripetono come il rosario. Vediamone alcuni.
Dogma primo: circa le condizioni della presa del potere da parte del proletariato.
Gli opportunisti asseriscono che il proletariato non può e non deve
prendere il potere se non è maggioranza nel paese. Prove non ne danno,
non essendo possibile, nè dal punto di vista teorico, nè dal
punto di vista pratico, giustificare questa tesi assurda. Ammettiamo che sia
vero, risponde Lenin a quei signori della II Internazionale. Ma ove si produca
una situazione storica (guerra, crisi agraria, ecc.) in cui il proletariato,
pur essendo la minoranza della popolazione, abbia la possibilità di
raggruppare attorno a sé l’enorme maggioranza delle masse lavoratrici,
perché esso non dovrebbe prendere il potere? Perché il proletariato
non dovrebbe approfittare della situazione internazionale e interna favorevole
per spezzare il fronte del capitale e affrettare il crollo generale? Non ha
forse detto Marx, sin dal 1850, che la rivoluzione proletaria tedesca si sarebbe
trovata in «eccellenti» condizioni, se fosse stato possibile assicurare
alla rivoluzione proletaria l’appoggio «per così dire,
di una seconda edizione della guerra dei contadini»? Non è forse
noto a tutti che a quell’epoca, in Germania, i proletari erano relativamente
meno numerosi che, per esempio, in Russia nel 1917? La pratica della rivoluzione
proletaria russa non ha forse dimostrato che questo dogma, caro agli eroi
della II Internazionale, è privo di ogni significato vitale per il
proletariato? Non è forse chiaro che l’esperienza della lotta
rivoluzionaria delle masse batte in breccia e fa a pezzi questo dogma rinsecchito?
Dogma secondo: il proletariato non può conservare il potere, se non
possiede una quantità sufficiente di quadri già pronti, di intellettuali
e di amministratori, capaci di assicurare la gestione del paese. Prima bisogna
formare questi quadri sotto il capitalismo e in seguito prendere il potere.
Ammettiamo che sia vero, risponde Lenin; ma perché non si può
procedere in senso opposto: incominciare a prendere il potere, creare le condizioni
favorevoli allo sviluppo del proletariato, e poi andare avanti, con gli stivali
delle sette leghe, per elevare il livello culturale delle masse lavoratrici,
per formare numerosi quadri di dirigenti e amministratori reclutati fra gli
operai? La pratica russa non ha forse dimostrato che i quadri dirigenti reclutati
fra gli operai crescono sotto il potere proletario cento volte più
rapidamente e meglio che sotto il potere del capitale? Non èforse chiaro
che la pratica della lotta rivoluzionaria delle masse manda spietatamente
in pezzi anche questo dogma teorico degli opportunisti?
Dogma terzo: il metodo dello sciopero generale politico non può essere
accettato dal proletariato, perché teoricamente è inconsistente
(si veda la critica di Engels), praticamente è pericoloso (può
turbare il corso normale della vita economica del paese, può vuotare
le casse dei sindacati) e non può sostituire le forme di lotta parlamentari,
che sono la forma principale della lotta di classe del proletariato. Bene,
rispondono i leninisti. Ma innanzi tutto Engels non ha criticato qualsiasi
sciopero generale, ma solo una specie determinata di sciopero generale, lo
sciopero generale economico degli anarchici, preconizzato dagli anarchici
in luogo della lotta politica del proletariato. Che c’entra il metodo
dello sciopero generale politico? In secondo luogo, da chi e dove è
stato provato che la lotta parlamentare sia la principale forma di lotta del
proletariato? La storia delmovimento rivoluzionario non dimostra forse che
la lotta parlamentare è soltanto una scuola, un ausilio per l’organizzazione
della lotta extraparlamentare del proletariato, che le questioni fondamentali
del movimento operaio in regime capitalistico si risolvono con la forza, con
la lotta diretta delle masse proletarie, con lo sciopero generale, con l’insurrezione?
In terzo luogo, dove è stata presa la questione della sostituzione
alla lotta parlamentare del metodo dello sciopero generale politico? Dove
e quando gli assertori dello sciopero generale politico hanno tentato di sostituire
alle forme parlamentari di lotta le forme di lotta extraparlamentari? In quarto
luogo, la rivoluzione russa non ha forse dimostrato che lo sciopero generale
politico è la più grande scuola della rivoluzione proletaria
e un mezzo insostituibile di mobilitazione e di organizzazione delle più
grandi masse del proletariato alla vigilia dell’assalto alle fortezze
del capitalismo? Cosa c’entrano i lamenti ipocriti sulla disorganizzazione
del corso normale della vita economica e sulle casse dei sindacati? Non è
forse chiaro che la pratica della lotta rivoluzionaria distrugge anche questo
dogma degli opportunisti?
Ecc. ecc.
Ecco perché Lenin diceva che «la teoria rivoluzionaria non è
un dogma», che «essa si forma definitivamente solo in stretto
rapporto con la pratica di un movimento veramente rivoluzionario e veramente
di massa» (La malattia infantile), perché la teoria deve servire
alla pratica, perché «la teoria deve rispondere alle questioni
poste dalla pratica» (Gli amici del popolo), perché essa deve
venir confermata dai dati della pratica.
Quanto alle parole d’ordine politiche e alle decisioni politiche dei
partiti della II Internazionale, basta ricordare ciò che è capitato
alla parola d’ordine «guerra alla guerra», per comprendere
tutta l’ipocrisia, tutto il putridume della pratica politica di questi
partiti, che ammantano la loro attività controrivoluzionaria di parole
d’ordine e di risoluzioni rivoluzionarie pompose. Tutti ricordano la
pomposa manifestazione della II Internazionale al Congresso di Basilea, in
cui gl’imperialisti furono minacciati di tutti gli orrori dell’insurrezione
se avessero osato scatenare la guerra, e venne formulata la minacciosa parola
d’ordine: «guerra alla guerra». Ma chi non ricorda che qualche
tempo dopo, allo scoppio della guerra, la risoluzione di Basilea fu passata
agli archivi e agli operai si dette una nuova parola d’ordine: massacrarsi
a vicenda per la gloria della patriacapitalista? Non è forse chiaro
che le parole d’ordine e le risoluzioni rivoluzionarie non valgono un
quattrino se non sono corroborate dall’azione? Basta paragonare la politica
leninista di trasformazione della guerra imperialista in guerra civile alla
politica di tradimento seguita dalla II Internazionale durante la guerra,
per comprendere tutta la trivialità dei politicanti dell’opportunismo,
tutta la grandezza del metodo leninista. Non posso fare a meno di riportare
qui un passo del libro di Lenin La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky,
in cui egli sferza duramente il tentativo opportunista del capo della II Internazionale
K. Kautsky di giudicare i partiti non dalle loro azioni, ma dalle loro parole
d’ordine e dai loro documenti di carta:
Kautsky fa una politica tipicamente piccolo-borghese, filistea, quando s’immagina... che il fatto di lanciare una parola d’ordine cambi la realtà. Tutta la storia della democrazia borghese mette a nudo questa illusione: per ingannare il popolo, i democratici borghesi hanno sempre lanciato e sempre lanciano ogni sorta di «parole d’ordine». Si tratta di controllare la loro sincerità, di mettere a confronto le parole con i fatti, di non appagarsi della frase idealistica o ciarlatanesca, ma di cercar di scoprire la realtà di classe.
E non parlo della paura dell’autocritica, che è propria dei partiti della II Internazionale, della loro abitudine di nascondere i propri errori, di mettere a tacere le questioni spinose, di nascondere le proprie deficienze, dando falsamente ad intendere che tutto va per il meglio, il che soffoca il pensiero vivo e intralcia l’educazione rivoluzionaria del partito sulla base dell’esperienza dei suoi propri errori. Lenin ha posto in ridicolo e messo alla gogna questa abitudine. Ecco che cosa scriveva Lenin nel suo opuscolo La malattia infantile a proposito dell’autocritica dei partiti proletari:
L’atteggiamento di un partito politico verso i suoi errori è uno dei criteri più importanti e più sicuri per giudicare se un partito è serio, se adempie di fatto i suoi doveri verso la propria classe e verso le masse lavoratrici. Riconoscere apertamente un errore, scoprirne le cause, analizzare la situazione che lo ha generato, studiare attentamente i mezzi per correggerlo: questo è indizio della serietà di un partito, questo si chiama adempiere il proprio dovere, educare e istruire la classe, e quindi le masse.
Taluni dicono che lo svelare i propri errori e l’autocritica sono cose
pericolose per il partito, perché possono essere utilizzate dall’avversario
contro il partito del proletariato. Lenin considerava prive di serietà
e completamente sbagliate simili obiezioni. Ecco che cosa egli diceva a questo
proposito, già nel 1904, nell’opuscolo Un passo avanti, quando
il nostro partito era ancora debole e poco numeroso:
Essi (cioè gli avversari dei marxisti. G. St.) si agitano e manifestano
una gioia maligna quando osservano le nostre discussioni; essi tenteranno
certamente di servirsi, pei loro fini, di passi staccati dell’opuscolo
dove tratto delle deficienze e delle lacune del nostro partito. I socialdemocratici
russi sono già sufficientemente temprati alle battaglie per non lasciarsi
commuovere da questi colpi di spillo, per continuare, malgrado ciò,
il loro lavoro di autocritica e di smascheramento spietato dei propri difetti,
che saranno sicuramente e inevitabilmente superati con lo sviluppo del movimento
operaio.
Sono questi, in generale, i tratti caratteristici del metodo del leninismo.
Ciò che si trova nel metodo di Lenin, si trovava già, sostanzialmente,
nella dottrina di Marx che, secondo le parole di Marx stesso, è «critica
e rivoluzionaria nella sua essenza». È proprio questo spirito
critico e rivoluzionario che penetra da cima a fondo il metodo di Lenin. Ma
non sarebbe giusto pensare che il metodo di Lenin sia una semplice restaurazione
di ciò che ha dato Marx. In realtà, il metodo di Lenin non è
soltanto la restaurazione, ma è anche la concretizzazione e lo sviluppo
ulteriore del metodo critico e rivoluzionario di Marx, della sua dialettica
materialistica.
III. La teoria
Di questo tema tratterò tre questioni: a) l’importanza della
teoria per il movimento proletario; b) la critica della «teoria»
della spontaneità e c) la teoria della rivoluzione proletaria.
1) Importanza della teoria. Alcuni credono che il leninismo sia il prevalere
della pratica sulla teoria, nel senso che l’essenziale in esso sia la
traduzione in atto delle tesi marxiste, l’«applicazione»
di queste tesi e che, nei riguardi della teoria, il leninismo sia, secondo
loro, abbastanza noncurante. È noto che Plekhanov (17) schernì
più volte la «noncuranza» di Lenin per la teoria e specialmente
per la filosofia. È noto, d’altra parte, che la teoria non è
molto nelle grazie di molti leninisti pratici d’oggigiorno, a causa
soprattutto dell’enorme quantità di lavoro pratico cui la situazione
li costringe a sobbarcarsi. Devo dichiarare che questa opinione più
che strana su Lenin e sul leninismo è completamente falsa e non corrisponde
per niente alla realtà, che la tendenza dei pratici a infischiarsi
della teoria contraddice a tutto lo spirito del leninismo ed è gravida
di seri pericoli per la nostra causa.
La teoria è l’esperienza del movimento operaio di tutti i paesi,
considerata sotto l’aspetto generale. Naturalmente la teoria diventa
priva di oggetto se non viene collegata con la pratica rivoluzionaria, esattamente
allo stesso modo che la pratica diventa cieca se non si rischiara la strada
con la teoria rivoluzionaria. Ma la teoria può diventare un’enorme
forza del movimento operaio se viene elaborata in unione indissolubile con
la pratica rivoluzionaria, poiché essa e soltanto essa può dare
al movimento sicurezza, capacità di orientamento e comprensione del
legame intimo degli avvenimenti circostanti, poiché essa e soltanto
essa può aiutare la pratica a comprendere non soltanto come e in qual
direzione si muovono le classi nel momento presente, ma anche come e in quale
direzione esse devono muoversi nel prossimo avvenire. È stato proprio
Lenin che ha detto e ripetuto decine di volte la nota tesi che:
«Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario»*
(Che fare?).
Più d’ogni altro, Lenin comprendeva la grande importanza della
teoria, specialmente per un partito come il nostro, in considerazione della
funzione che gli è toccata, di combattente d’avanguardia del
proletariato internazionale, in considerazione della complicata situazione
interna e internazionale che lo circonda. Prevedendo questa funzione particolare
del nostro partito sin dal 1902, egli riteneva necessario, sin d’allora,
ricordare che:
«Solo un partito guidato da una teoria d’avanguardia può
adempiere la funzione di combattente d’avanguardia» (Ibid.).
Non occorre dimostrare che oggi, la predizione di Lenin sulla funzione del
nostro partito essendosi già realizzata, questa tesi di Lenin acquista
una particolare forza e un’importanza particolare.
Forse la prova più lampante della grande importanza che Lenin attribuiva
alla teoria dovrebbe essere cercata nel fatto che Lenin stesso si assunse
il compito estremamente importante di generalizzare, secondo la filosofia
materialistica, tutte le conquiste più importanti fatte dalla scienza
nel periodo da Engels a Lenin, e di criticare a fondo le correnti antimaterialistiche
fra i marxisti. Engels diceva che «il materialismo deve prendere un
nuovo aspetto a ogni nuova grande scoperta». È noto che per la
sua epoca questo compito fu assolto proprio da Lenin con la sua opera poderosa
Materialismo ed empiriocriticismo. È noto che Plekhanov, pur tanto
incline a schernire la «noncuranza» di Lenin per la filosofia,
non ebbe l’animo di accingersi seriamente all’adempimento di questo
compito.
2) Critica della «teoria» della spontaneità, ossia della
funzione dell’avanguardia nel movimento. La «teoria» della
spontaneità è la teoria dell’opportunismo, la teoria del
culto della spontaneità del movimento operaio, la teoria della negazione
di fatto della funzione dirigente dell’avanguardia della classe operaia,
del partito della classe operaia.
La teoria del culto della spontaneità è decisamente ostile al
carattere rivoluzionario del movimento operaio, non vuole che il movimento
si diriga secondo la linea della lotta contro le basi del capitalismo, vuole
che il movimento segua esclusivamente la linea delle rivendicazioni che possono
essere «attuate», «accettate» dal capitalismo, è
totalmente favorevole alla «linea della minore resistenza». La
teoria della spontaneità è l’ideologia del tradunionismo.
La teoria del culto della spontaneità è decisamente ostile a
che venga dato al movimento spontaneo un carattere cosciente, metodico, non
vuole che il partito marci davanti alla classe operaia, che il partito elevi
le masse sino a renderle coscienti, non vuole che il partito prenda la direzione
del movimento; essa ritiene che gli elementi coscienti non debbano impedire
al movimento di andare per la sua strada, essa vuole che il partito si limiti
a registrare il movimento spontaneo e a trascinarsi alla sua coda. La teoria
della spontaneità è la teoria della sottovalutazione della funzione
dell’elemento cosciente nel movimento, l’ideologia del «codismo»,
la base logica dell’opportunismo di ogni sorta.
Praticamente questa teoria, apparsa sulla scena prima ancora della prima rivoluzione
russa, aveva come conseguenza che i suoi seguaci, i cosiddetti «economisti»,
negavano la necessità di un partito operaio indipendente in Russia,
prendevano posizione contro la lotta rivoluzionaria della classe operaia per
l’abbattimento dello zarismo, predicavano nel movimento una politica
tradunionista e mettevano, in generale, il movimento operaio sotto l’egemonia
della borghesia liberale.
La lotta della vecchia “Iskra” e la brillante critica della teoria
del «codismo», che venne fatta nell’opuscolo di Lenin Che
fare?, non solo sconfissero il cosiddetto «economismo», ma crearono
pure le basi teoriche di un movimento veramente rivoluzionario della classe
operaia russa.
Senza questa lotta non sarebbe neanche stato possibile pensare alla creazione
in Russia di un partito operaio indipendente e a una sua funzione dirigente
nella rivoluzione.
Ma la teoria del culto della spontaneità non è un fenomeno unicamente
russo. Essa ha la più larga diffusione, è vero, in forma alquanto
diversa, in tutti i partiti della II Internazionale, senza eccezione. Alludo
alla cosiddetta teoria «delle forze produttive», ridotta a una
banalità dai capi della II Internazionale, teoria che, com’essi
l’hanno ridotta, giustifica tutto e concilia tutti, constata i fatti
e li spiega quando tutti ne hanno già fin sopra i capelli, ma, dopo
averli constatati, non va più in là. Marx ha detto che la dottrina
materialistica non può limitarsi a spiegare il mondo, che essa deve
anche trasformarlo. Ma Kautsky e C. non arrivano sino a questo, preferiscono
fermarsi alla prima parte della formula di Marx. Ecco un esempio, fra i tanti,
dell’applicazione di questa «teoria». Dicono che, prima
della guerra imperialista, i partiti della II Internazionale avevano minacciato
di dichiarare «guerra alla guerra» se gli imperialisti avessero
scatenato la guerra. Dicono che, allo scoppio della guerra, questi stessi
partiti passarono agli archivi la parola d’ordine «guerra alla
guerra» e applicarono la parola d’ordine opposta di «guerra
per la patria imperialista». Dicono che il risultato di questo cambiamento
di parole d’ordine fu il massacro di milioni di operai. Ma sarebbe un
errore pensare che ci siano dei colpevoli di questo fatto, che qualcuno abbia
tradito o venduto la classe operaia. Niente affatto! Tutto è accaduto
come doveva accadere. Prima di tutto perché l’Internazionale
è uno «strumento di pace» e non di guerra. In secondo luogo
perché, dato il «livello delle forze produttive» esistente
in quel tempo, non era possibile fare niente di diverso. La «colpa»
è delle «forze produttive». La «teoria delle forze
produttive» del signor Kautsky «ce» lo spiega con precisione.
E chi non crede a questa «teoria» non è marxista. La funzione
dei partiti? La loro importanza nel movimento? Ma che può mai fare
il partito contro un fattore decisivo come il «livello delle forze produttive»?...
Di cosiffatti esempi di falsificazioni del marxismo se ne potrebbero citare
a iosa.
Non occorre dimostrare che questo «marxismo» falsificato, destinato
a coprire le vergogne dell’opportunismo, non è che una varietà
europea di quella stessa teoria del «codismo» contro la quale
Lenin combatteva già nel periodo anteriore alla prima rivoluzione russa.
Non occorre dimostrare che la distruzione di questa falsificazione teorica
è condizione preliminare per la creazione di partiti veramente rivoluzionari
in Occidente.
3) La teoria della rivoluzione proletaria. La teoria leninista della rivoluzione
proletaria ha come punto di partenza tre tesi fondamentali.
Tesi prima. Il dominio del capitale finanziario nei paesi capitalisti progrediti;
l’emissione di titoli, che è una delle principali operazioni
del capitale finanziario; l’esportazione di capitali verso le sorgenti
di materie prime, che è una delle basi dell’imperialismo; l’onnipotenza
dell’oligarchia finanziaria, conseguenza del dominio del capitale finanziario:
tutto ciò mette a nudo il carattere brutalmente parassitario del capitalismo
monopolistico, rende cento volte più sensibile il giogo dei trust e
dei sindacati capitalistici, accresce la collera della classe operaia contro
le basi del capitalismo, conduce le masse alla rivoluzione proletaria come
unica via di salvezza (Lenin, L’imperialismo).
Da ciò una prima conclusione: acutizzazione della crisi rivoluzionaria
nei singoli paesi capitalistici, sviluppo nelle «metropoli» degli
elementi di una esplosione sul fronte interno, sul fronte proletario.
Tesi seconda. L’accresciuta esportazione di capitali nei paesi coloniali
e dipendenti; l’estensione delle «sfere d’influenza»
e dei possedimenti coloniali fino a comprendere tutto il globo; la trasformazione
del capitalismo in un sistema mondiale di asservimento finanziario e di oppressione
coloniale dell’immensa maggioranza della popolazione del globo ad opera
di un gruppo di paesi «progrediti»: tutto ciò, da una parte,
ha fatto delle economie nazionali singole e dei singoli territori nazionali
gli anelli di una catena unica, chiamata economia mondiale, d’altra
parte ha diviso la popolazione del globo in due campi: un pugno di paesi capitalistici
«progrediti» che sfruttano e opprimono vasti paesi coloniali e
dipendenti e un’enorme maggioranza di paesi coloniali e dipendenti,
costretti alla lotta per liberarsi dal giogo dell’imperialismo (cfr.
L’imperialismo).
Da ciò una seconda conclusione: acutizzazione della crisi rivoluzionaria
nei paesi coloniali, sviluppo dello spirito di rivolta contro l’imperialismo
sul fronte esterno, coloniale.
Tesi terza. Il monopolio delle «sfere d’influenza» e delle
colonie, lo sviluppo ineguale dei diversi paesi capitalistici, che determina
una lotta accanita per una nuova spartizione del mondo tra i paesi che si
sono già impossessati dei territori e i paesi che vogliono ricevere
la «parte» loro, le guerre imperialiste, unico mezzo per ristabilire
«l’equilibrio» spezzato: tutto ciò porta a un inasprimento
della lotta su di un terzo fronte, un fronte intercapitalistico, il che indebolisce
l’imperialismo e agevola l’unione contro l’imperialismo
dei due fronti precedenti, del fronte rivoluzionario proletario e del fronte
della lotta per la liberazione delle colonie (cfr. L’imperialismo).
Da ciò una terza conclusione: ineluttabilità delle guerre nell’epoca
dell’imperialismo, inevitabilità della coalizione della rivoluzione
proletaria in Europa con la rivoluzione coloniale in Oriente in un unico fronte
mondiale della rivoluzione contro il fronte mondiale dell’imperialismo.
Tutte queste conclusioni vengono raccolte da Lenin in una sola conclusione
generale, secondo cui «L’imperialismo è la vigilia della
rivoluzione socialista» (L’imperialismo)*.
Di conseguenza cambia il modo stesso di affrontare il problema della rivoluzione
proletaria, del suo carattere, della sua ampiezza, della sua profondità,
cambia lo schema della rivoluzione in generale.
Prima si analizzavano di solito le premesse della rivoluzione proletaria partendo
dall’esame della situazione economica di questo o di quel paese singolo.
Oggi questo metodo non basta più. Oggi bisogna trattare la questione
partendo dall’esame della situazione economica di tutti o della maggior
parte dei paesi, dall’esame dello stato dell’economia mondiale,
perché i paesi singoli e le singole economie nazionali hanno cessato
di essere delle unità sufficienti a se stesse, sono diventati anelli
di una catena unica che si chiama economia mondiale, perché il vecchio
capitalismo «civile» si è trasformato nell’imperialismo,
e l’imperialismo è il sistema mondiale dell’asservimento
finanziario e dell’oppressione coloniale dell’enorme maggioranza
della popolazione del globo da parte di un pugno di paesi «progrediti».
Prima si era soliti parlare dell’esistenza o della mancanza delle condizioni
oggettive per la rivoluzione proletaria in paesi singoli o, più esattamente,
in questo o in quel paese sviluppato. Oggi questo punto di vista non è
più sufficiente. Oggi si deve parlare dell’esistenza delle condizioni
oggettive per la rivoluzione in tutto il sistema dell’economia imperialista
mondiale, considerato come un unico assieme. L’esistenza, in seno a
questo sistema, di alcuni paesi non abbastanza sviluppati industrialmente
non può costituire un ostacolo insormontabile alla rivoluzione, se
il sistema, nel suo assieme,o meglio in quanto sistema complessivo, è
già maturo per la rivoluzione.
Prima si era soliti parlare della rivoluzione proletaria in questo o in quel
paese progredito come di una entità singola, sufficiente a se stessa,opposta
a un fronte nazionale singolo del capitale, come al proprio antipodo. Oggi
questo punto di vista non è più sufficiente. Oggi si deve parlare
di rivoluzione proletaria mondiale, perchè i differenti fronti nazionali
del capitale sono divenuti gli anelli di una catena unica, che si chiama fronte
mondiale dell’imperialismo, a cui deve essere opposto il fronte generale
del movimento rivoluzionario di tutti i paesi.
Prima si considerava la rivoluzione proletaria come il risultato del solo
sviluppo interno di un dato paese. Oggi questo punto di vista non è
più sufficiente. Oggi bisogna considerare la rivoluzione proletaria
innazitutto come il risultato dello sviluppo delle contriddizioni nel sistama
mondiale dell’imperialismo, come il risultato delle rottura della catena
del fronte mondiale imperialistico in questo o in quel paese.
Dove incomincerà la rivoluzione? Dove può essere spezzato prima
il fronte del capitale? In quale paese?
Là dove l’industria è più sviluppata, dove il proletariato
costituisce la maggioranza, dove c’è più civiltà,
dove c’è più democrazia, si rispondeva di solito una volta.
No - obietta la teoria leninista della rivoluzione - non obbligatoriamente
là dove l’industria è più sviluppata, ecc. Il fronte
del capitale si spezzerà là dove la catena dell’imperialismo
è più debole, perché la rivoluzione proletaria è
il risultato della rottura della catena del fronte imperialistico mondiale
nel suo punto più debole, e può quindi avvenire che il paese
che ha incominciato la rivoluzione, il paese che ha spezzato il fronte del
capitale, sia capitalisticamente meno sviluppato di altri paesi, più
sviluppati, rimasti, però, nel quadro del capitalismo.
Nel 1917 la catena del fronte imperialistico mondiale era più debole
in Russia che in altri paesi. E là essa si è spezzata, aprendo
la via alla rivoluzione proletaria. Perché? Perché in Russia
si scatenava una grandiosa rivoluzione popolare, alla testa della quale marciava
un proletariato rivoluzionario, che aveva per sé un alleato così
serio come i milioni e milioni di contadini oppressi e sfruttati dai grandi
proprietari fondiari. Perché in Russia la rivoluzione aveva per avversario
un rappresentante così ripugnante dell’imperialismo, quale era
lo zarismo, privo di ogni autorità morale, giustamente odiato da tutta
la popolazione. La catena era più debole in Russia, sebbene la Russia
fosse capitalisticamente meno sviluppata che, per esempio, la Francia o la
Germania, l’Inghilterra o l’America.
Dove si spezzerà la catena nel prossimo avvenire? Ancora una volta,
là dove essa è più debole. Non è escluso che la
catena si possa spezzare, per esempio, in India. Perché? Perché
ivi esiste un giovane proletariato rivoluzionario, combattivo, che ha un alleato
come il movimento di liberazione nazionale, alleato incontestabilmente potente
e incontestabilmente serio. Perché ivi la rivoluzione ha contro di
sé un avversario, a tutti noto, quale l’imperialismo straniero,
privo di autorità morale e giustamente odiato da tutte le masse sfruttate
e oppresse dell’India.
È anche del tutto possibile che la catena si spezzi in Germania. Perché?
Perché i fattori che agiscono, per esempio, in India, incominciano
ad agire anche in Germania, pur essendo evidente che l’immensa differenza
esistente tra il livello di sviluppo dell’India e quello della Germania
non potrà non dare la propria impronta al corso e all’esito della
rivoluzione in quest’ultimo paese.
Ecco perché Lenin dice che:
I paesi capitalistici dell’Europa occidentale compiranno la loro evoluzione verso il socialismo... non attraverso una “maturazione” uniforme del socialismo in essi, ma attraverso lo sfruttamento di alcuni stati da parte di altri, attraverso lo sfruttamento del primo stato vinto nella guerra imperialista, unito allo sfruttamento di tutto l’Oriente. L’Oriente, d’altra parte, è entrato definitivamente nel movimento rivoluzionario appunto in seguito a questa prima guerra imperialista, ed è stato trascinato definitivamente nel turbine generale del movimento rivoluzionario mondiale» (Meglio meno, ma meglio.).
In breve: la catena del fronte imperialistico, di regola, si deve spezzare
là dove gli anelli della catena sono più deboli e, in ogni caso,
non obbligatoriamente là dove il capitalismo è più sviluppato,
dove i proletari sono il tanto per cento, i contadini il tanto per cento e
così via.
Ecco perché i calcoli statistici sulla percentuale del proletariato
nella popolazione di questo o di quel paese singolo perdono, relativamente
alla soluzione del problema della rivoluzione proletaria, quell’importanza
eccezionale che loro attribuivano volentieri i bacchettoni della II Internazionale,
che non hanno capito l’imperialismo e temono la rivoluzione come la
peste.
Proseguiamo. Gli eroi della II Internazionale affermavano (e continuano ad
affermare) che, tra la rivoluzione democratica borghese da una parte e la
rivoluzione proletaria dall’altra, c’è un abisso, o per
lo meno una muraglia cinese, per cui l’una è separata dall’altra
da un intervallo più o meno lungo, durante il quale la borghesia, arrivata
al potere, sviluppa il capitalismo, mentre il proletariato raccoglie le forze
e si prepara alla «lotta decisiva» contro il capitalismo. Quest’intervallo
viene di solito valutato a molti decenni, se non di più. Non occorre
dimostrare che questa «teoria» della muraglia cinese è,
nel periodo dell’imperialismo, priva di ogni valore scientifico, che
essa non è e non può essere altro che un mezzo per coprire e
mascherare le brame controrivoluzionarie della borghesia. Non occorre dimostrare
che, nelle condizioni esistenti nel periodo dell’imperialismo, gravido
di collisioni e di guerre, alla «vigilia della rivoluzione socialista»,
quando il capitalismo «fiorente» si trasformava in capitalismo
«morente» (Lenin) e il movimento rivoluzionario si sviluppa in
tutti i paesi del mondo, quando l’imperialismo si allea con tutte le
forze reazionarie, senza eccezione, persino con lo zarismo e con il regime
feudale, rendendo così inevitabile la coalizione di tutte le forze
rivoluzionarie, dal movimento proletario in Occidente fino al movimento di
liberazione nazionale in Oriente, quando la distruzione delle sopravvivenze
del regime feudale diventa impossibile senza una lotta rivoluzionaria contro
l’imperialismo, non occorre dimostrare che la rivoluzione democratica
borghese, in un paese più o meno sviluppato, deve, in queste condizioni,
avvicinarsi alla rivoluzione proletaria, che la prima deve trasformarsi nella
seconda. La storia della rivoluzione in Russia ha dimostrato con evidenza
che questa affermazione è giusta e incontestabile. Non a caso Lenin,
fin dal 1905, alla vigilia della prima rivoluzione russa, presentava, nel
suo opuscolo Due tattiche, la rivoluzione democratica borghese e la rivoluzione
socialista come due anelli di una sola catena, come un quadro unico, un quadro
d’assieme del processo della rivoluzione russa:
Il proletariato deve condurre a termine la rivoluzione democratica legando
a sé la massa dei contadini, per schiacciare con la forza la resistenza
dell’autocrazia e paralizzare l’instabilità della borghesia.
Il proletariato deve fare la rivoluzione socialista legando a sé la
massa degli elementi semiproletari della popolazione, per spezzare con la
forza la resistenza della borghesia e paralizzare l’instabilità
dei contadini e della piccola borghesia. Tali sono i compiti del proletariato,
compiti che i seguaci della nuova “Iskra” presentano in modo cosi
ristretto in tutti i loro ragionamenti e risoluzioni sull’ampiezza della
rivoluzione (vedi Lenin, vol.VIII, p. 86).
E non parlo di altri lavori, più recenti, di Lenin, in cui l’idea
della trasformazione della rivoluzione borghese in rivoluzione proletaria
appare, con maggior rilievo che in Due tattiche, come una delle pietre angolari
della teoria leninista della rivoluzione.
Certi compagni, a quanto pare, credono che Lenin sia giunto a quest’idea
soltanto nel 1916 e che fino ad allora avesse pensato che la rivoluzione in
Russia sarebbe rimasta nel quadro borghese, che il potere, quindi, sarebbe
passato dalle mani dell’organo della dittatura del proletariato e dei
contadini nelle mani della borghesia e non del proletariato. Dicono che questa
affermazione sia penetrata persino nella nostra stampa comunista. Debbo dire
che quest’affermazione è assolutamente falsa, che essa non corrisponde
per niente alla realtà.
Potrei riferirmi al noto discorso di Lenin al III Congresso del partito (1905)
nel quale egli qualificava la dittatura del proletariato e dei contadini,
la vittoria cioè della rivoluzione democratica, non come «l’organizzazione
dell’ordine», ma come «l’organizzazione della guerra»
(Sulla partecipazione della socialdemocrazia al governo rivoluzionario provvisorio).
Potrei riferirmi, inoltre, ai noti articoli di Lenin Sul governo provvisorio
(1905) dove Lenin, tracciando le prospettive dello sviluppo della rivoluzione
russa, pone davanti al partito il compito di «fare in modo che la rivoluzione
russa non sia un movimento di alcuni mesi, ma un movimento di molti anni.
che essa non metta capo soltanto ad alcune piccole concessioni da parte di
coloro che detengono il potere, ma al rovesciamento completo di costoro»,
e dove egli, sviluppando questa prospettiva e collegandola con la rivoluzione
in Europa, continua:
E se questo ci riuscirà, allora... allora le fiamme della rivoluzione incendieranno l’Europa: l’operaio europeo. che langue nella reazione borghese. si solleverà a sua volta e ci farà vedere “come si fa”; allora lo slancio rivoluzionario dell’Europa si ripercuoterà sulla Russia e trasformerà un’epoca di alcuni decenni rivoluzionari... (ivi).
Potrei riferirmi ancora al noto articolo di Lenin, pubblicato nel novembre 1915, in cui egli scrive:
Il proletariato lotta e lotterà con abnegazione per la conquista del potere, per la repubblica, per la confisca delle terre..., per la partecipazione delle “masse popolari non proletarie” alla liberazione della Russia borghese dall’“imperialismo” feudale militare (= zarismo). E di questa liberazione della Russia borghese dallo zarismo, dal potere dei proprietari fondiari sulla terra, il proletariato approfitterà immediatamente* (il corsivo è mio. G. St.) non per aiutare i contadini agiati nella loro lotta contro gli operai agricoli, ma per condurre a termine la rivoluzione socialista in unione coi proletari d’Europa (vedi vol. XVIII, p. 318).
Potrei riferirmi, infine, a un noto passo dell’opuscolo di Lenin La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, in cui egli, riferendosi al passo sopra citato delle Due tattiche, relativo all’ampiezza della rivoluzione russa, giunge a questa conclusione:
È avvenuto proprio così come avevamo detto. Il corso della rivoluzione ha confermato la giustezza del nostro ragionamento. Dapprincipio, insieme a “tutti” i contadini, contro la monarchia, contro i proprietari fondiari, contro il regime medioevale (e pertanto la rivoluzione resta borghese, democratica borghese). In seguito, insieme ai contadini poveri, insieme ai semiproletari, insieme a tutti gli sfruttati, contro il capitalismo, compresi i contadini ricchi, i kulak, gli speculatori, e pertanto la rivoluzione diventa socialista. Tentare di innalzare artificialmente una muraglia cinese tra l’una e l’altra, di separarle l’una dall’altra con qualche cosa che non sia il grado di preparazione del proletariato e il grado della sua unione con i contadini poveri, è il peggiore pervertimento del marxismo, la riduzione del marxismo a una banalità, la sostituzione ad esso del liberalismo (vedi vol. XXIII, p.391).
E mi pare che basti.
Va bene, ci si dirà, ma se è così, perché Lenin
ha combattuto l’idea della «rivoluzione permanente»?
Perché Lenin proponeva di «esaurire» le capacità
rivoluzionarie dei contadini e utilizzare sino all’ultimo la loro energia
rivoluzionaria per la liquidazione completa dello zarismo, per il passaggio
alla rivoluzione proletaria, mentre i sostenitori della «rivoluzione
permanente» non comprendevano l’importanza della funzione dei
contadini nella rivoluzione russa, sottovalutavano la potenza dell’energia
rivoluzionaria dei contadini, sottovalutavano la forza e la capacità
del proletariato russo di trarre dietro a sé i contadini, e rendevano
difficile la liberazione dei contadini dall’influenza della borghesia
e il loro raggruppamento attorno al proletariato.
Perché Lenin proponeva di coronare l’opera della rivoluzione
col passaggio del potere al proletariato, mentre i partigiani della rivoluzione
«permanente» pensavano di cominciare direttamente col potere del
proletariato, non comprendendo che in questo modo essi chiudevano gli occhi
su un’«inezia» del genere delle sopravvivenze feudali e
non tenevano conto di una forza seria come i contadini russi, non comprendendo
che una tale politica non poteva che ostacolare la conquista dei contadini
da parte del proletariato.
Lenin combatteva, dunque, i partigiani dellarivoluzione «permanente»
non perché essi sostenessero la continuità della rivoluzione,
giacché Lenin stesso sosteneva il punto di vista della rivoluzione
ininterrotta, ma perché sottovalutavano la funzione dei contadini,
che sono la più grande riserva del proletariato, e perché non
comprendevano l’idea dell’egemonia del proletariato.
L’idea della rivoluzione «permanente» non è un’idea
nuova. La espose per la prima volta Marx verso il 1850, nel suo noto Indirizzo
alla Lega dei Comunisti. Da questo documento i nostri «permanentisti»
presero l’idea della rivoluzione ininterrotta. Bisogna però osservare
che i nostri «permanentisti», nel prenderla da Marx, l’hanno
alquanto modificata, e modificandola l’hanno «rovinata»
e resa inadatta all’uso pratico. C’è voluta la mano esperta
di Lenin per correggere questo errore, prendere l’idea della rivoluzione
ininterrotta di Marx nella sua forma pura e farne una delle pietre angolari
della sua teoria della rivoluzione.
Ecco che cosa dice Marx a proposito della rivoluzione ininterrotta nel suo
Indirizzo, dopo aver enumerato una serie di rivendicazioni democratiche rivoluzionarie,
alla realizzazione delle quali egli chiama i comunisti:
Mentre i piccoli borghesi democratici vogliono portare al più presto
possibile la rivoluzione alla conclusione, e realizzando tutt’al più
le rivendicazioni di cui sopra, è nostro interesse e nostro compito
render permanente la rivoluzione sino a che tutte le classi più o meno
possidenti non siano scacciate dal potere, sino a che il proletariato non
abbia conquistato il potere dello stato, sino a che l’associazione dei
proletari, non solo in un paese ma in tutti i paesi dominanti del mondo, si
sia sviluppata al punto che venga meno la concorrenza tra i proletari di questi
paesi, e fino a che almeno le forze produttive decisive non siano concentrate
nelle mani dei proletari.
In altri termini:
a) Marx, contrariamente ai piani dei nostri «permanentisti» russi,
non proponeva affatto di incominciare la rivoluzione, nella Germania del 1850-1860,
direttamente col potere proletario;
b) Marx proponeva solamente di coronare la rivoluzione con il potere proletario
di stato, sbalzando, passo a passo, una frazione della borghesia dopo l’altra
dalle vette del potere, per scatenare, dopo l’avvento del proletariato
al potere, la rivoluzione in tutti i paesi. Ciò corrisponde perfettamente
a tutto ciò che Lenin ha insegnato e a tutto ciò che Lenin ha
realizzato, nel corso della nostra rivoluzione, seguendo la propria teoria
della rivoluzione proletaria nelle condizioni esistenti nel periodo dell’imperialismo.
Ne risulta che i nostri «permanentisti» russi non solo hanno sottovalutato
la funzione dei contadini nella rivoluzione russa e l’importanza dell’idea
dell’egemonia del proletariato, ma hanno anche modificato (in peggio)
l’idea della rivoluzione «permanente» di Marx, rendendola
inadatta all’uso pratico.
Ecco perché Lenin scherniva la teoria dei nostri «permanentisti»
chiamandola «originale» e «magnifica», e accusandoli
di non voler «riflettere sulle ragioni per le quali la vita, per un
intiero decennio, era passata oltre questa magnifica teoria senza tenerne
conto» (articolo di Lenin scritto nel 1915, dieci anni dopo l’apparizione
in Russia della teoria dei «permanentisti»: Due linee della rivoluzione).
Ecco perché Lenin considerava questa teoria come semimenscevica, dicendo
che essa «prende dai bolscevichi l’appello alla lotta rivoluzionaria
decisiva del proletariato e alla conquista del potere politico da parte di
esso, e dai menscevichi (18) la “negazione” della funzione dei
contadini» (cfr. l’articolo di Lenin Due linee della rivoluzione).
Ecco qual è il pensiero di Lenin circa la trasformazione della rivoluzione
democratica borghese in rivoluzione proletaria, circa l’utilizzazione
della rivoluzione borghese per il passaggio “immediato” alla rivoluzione
proletaria.
Proseguiamo. Prima si considerava impossibile la vittoria della rivoluzione
in un solo paese, perché si riteneva che per vincere la borghesia fosse
necessaria l’azione comune del proletariato di tutti i paesi avanzati
o almeno della maggior parte di essi. Oggi questo punto di vista non corrisponde
più alla realtà. Oggi bisogna ammettere la possibilità
di una tale vittoria, perché il carattere ineguale, a sbalzi, dellosviluppo
dei diversi paesi capitalistici nel periodo dell’imperialismo, lo sviluppo
delle catastrofiche contraddizioni interne dell’imperialismo, che generano
delle guerre inevitabili, lo sviluppo del movimento rivoluzionario in tutti
i paesi del mondo, tutto ciò determina non solo la possibilità,
ma l’inevitabilità della vittoria del proletariato in singoli
paesi. La storia della rivoluzione in Russia ne fornisce una prova diretta.
Bisogna soltanto ricordare che l’abbattimento della borghesia può
essere realizzato con successo soltanto nel caso in cui esistano certe condizioni
assolutamente indispensabili, mancando le quali non si può neanche
pensare alla presa del potere da parte del proletariato.
Ecco che cosa dice Lenin a proposito di queste condizioni nel suo opuscolo
La malattia infantile:
La legge fondamentale della rivoluzione, confermata da tutte le rivoluzioni e particolarmente da tutte e tre le rivoluzioni russe del secolo ventesimo, consiste in questo: per la rivoluzione non è sufficiente che le masse sfruttate e oppresse siano coscienti dell’impossibilità di vivere come per il passato e reclamino dei cambiamenti; per la rivoluzione è necessario che gli sfruttatori non possano più vivere e governare come per l’innanzi. Soltanto quando gli “strati inferiori”non vogliono più vivere come per il passato e gli “strati superiori” non possono più andare avanti come prima, soltanto allora la rivoluzione può vincere. In altri termini, questa verità si esprime così: la rivoluzione non è possibile senza una crisi di tutta la nazione (che coinvolga cioè sfruttati e sfruttatori)* (il corsivo è mio. G.St.). Per la rivoluzione bisogna, dunque, in primo luogo, che la maggioranza degli operai (o per lo meno la maggioranza degli operai coscienti, pensanti, politicamente attivi) comprenda pienamente la necessità della rivoluzione e sia pronta ad affrontare la morte per essa; in secondo luogo, che le classi dirigenti attraversino una crisi di governo che trascini nella politica anche le masse più arretrate..., indebolisca il governo e renda possibile ai rivoluzionari il rapido rovesciamento di esso (vedi vol.XXV, p. 222).
Ma abbattere il potere della borghesia e instaurare il potere del proletariato
in un solo paese non vuol ancora dire assicurare la vittoria completa del
socialismo. Consolidato il proprio potere e tratti dietro a sé i contadini,
il proletariato del paese vittorioso può e deve edificare la società
socialista. Ma significa forse che con ciò esso arriverà alla
vittoria completa, definitiva del socialismo, cioè che esso può,
con le forze di un solo paese, consolidare definitivamente il socialismo e
garantire completamente il paese dall’intervento straniero e, quindi,
dalla restaurazione? No, non significa questo. Per questo è necessaria
la vittoria della rivoluzione almeno in alcuni paesi. Perciò lo sviluppo
e l’appoggio della rivoluzione negli altri paesi è un compito
essenziale della rivoluzione vittoriosa. Perciò la rivoluzionedel paese
vittorioso deve considerarsi non come una entità sufficiente a sé
stessa, ma come un ausilio, come un mezzo atto ad accelerare la vittoria del
proletariato negli altri paesi.
Lenin espresse questo pensiero in due parole, dicendo che il compito della
rivoluzione vittoriosa consiste nel realizzare «il massimo del realizzabile
in un solo paese per sviluppare, appoggiare, svegliare, la rivoluzione in
tutti i paesi» (La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky).
Questi sono, a grandi linee, i tratti caratteristici della teoria leninista
della rivoluzione proletaria.
IV. La dittatura del proletariato
Di questo tema tratterò tre questioni fondamentali: a) la dittatura
del proletariato, strumento della rivoluzione proletaria; b) la dittatura
del proletariato, dominio del proletariato sulla borghesia; c) il potere dei
Soviet, forma statale della dittatura del proletariato.
1) La dittatura del proletariato, strumento della rivoluzione proletaria.
La questione della dittatura proletaria è anzitutto la questione del
contenuto essenziale della rivoluzione proletaria. La rivoluzione proletaria,
il suo movimento, la sua estensione, le sue conquiste, prendono carne ed ossa
solo attraverso la dittatura del proletariato. La dittatura del proletariato
è lo strumento della rivoluzione proletaria, il suo organo, il suo
punto di appoggio più importante, creato allo scopo, in primo luogo,
di schiacciare la resistenza degli sfruttatori abbattuti e di consolidare
le conquiste della rivoluzione e, in secondo luogo, di condurre a termine
la rivoluzione proletaria, di condurre la rivoluzione fino alla vittoria completa
del socialismo. La rivoluzione può vincere la borghesia, abbatterne
il potere, anche senza la dittatura del proletariato, ma la rivoluzione non
può schiacciare la resistenza borghese, salvaguardare la vittoria e
procedere oltre verso la vittoria definitiva del socialismo se a un certo
momento del suo sviluppo non crea un organo speciale: la dittatura del proletariato,
suo appoggio fondamentale.
«La questione fondamentale della rivoluzione è la questione del
potere» (Lenin). Ciò vuol forse dire che tutto si riduce alla
presa del potere, alla conquista del potere? No, non vuol dir questo. La presa
del potere è solo l’inizio dell’opera. La borghesia rovesciata
in un paese, resta ancora a lungo, per molte ragioni, più forte del
proletariato che l’ha rovesciata. Quindi tutto sta nel conservare il
potere, nel consolidarlo, nel renderlo invincibile. Che cosa occorre per raggiungere
questo scopo? È necessario adempiere per lo meno tre compiti principali,
che si presentano alla dittatura del proletariato «il giorno dopo»
la vittoria:
a) spezzare la resistenza dei proprietari fondiari e dei capitalisti rovesciati
ed espropriati dalla rivoluzione, liquidare i loro tentativi d’ogni
sorta di restaurare il potere del capitale;
b) organizzare il lavoro costruttivo raccogliendo tutti i lavoratori attorno
al proletariato e svolgere questo lavoro in modo da preparare la liquidazione,
la soppressione delle classi;
c) armare la rivoluzione, organizzare l’esercito della rivoluzione per
la lotta contro i nemici esterni, per la lotta contro l’imperialismo.
La dittatura del proletariato è necessaria per risolvere, per adempiere
questi compiti.
Il passaggio dal capitalismo al comunismo abbraccia - dice Lenin - un’intiera epoca storica. Finché essa non sia terminata, gli sfruttatori conservano inevitabilmente la speranza in una restaurazione, e questa speranza si traduce in tentativi di restaurazione. Anche dopo la prima disfatta seria, gli sfruttatori rovesciati, che non si aspettavano di esserlo, che non ci credevano, che non ne ammettevano neanche l’idea, si scagliano nella battaglia con energia decuplicata, con furiosa passione, con odio cento volte più intenso, per riconquistare il “paradiso” perduto alle loro famiglie, che vivevano una vita così dolce e che la “canaglia popolare” condanna ora alla rovina e alla miseria (o a un lavoro “ordinario”...). E a rimorchio dei capitalisti sfruttatori si trascina la grande massa della piccola borghesia la quale, come attestano decenni di esperienza storica di tutti i paesi, oscilla ed esita, oggi marcia al seguito del proletariato, domani si spaventa delle difficoltà della rivoluzione, è presa dal panico alla prima sconfitta o al primo scacco degli operai, cade in preda al nervosismo, non sa dove batter la testa, piagnucola, passa da un campo all’altro (vedi vol. XXIII, p. 355).
E la borghesia ha le sue ragioni per fare dei tentativi di restaurazione, perché, dopo esser stata rovesciata, essa resta ancora a lungo più forte del proletariato che l’ha rovesciata.
Se gli sfruttatori - dice Lenin - sono battuti soltanto in un paese, ed è questa naturalmente la regola, poiché una rivoluzione simultanea in parecchi paesi è una rara eccezione, essi restano tuttavia più forti degli sfruttati (ivi, p. 354).
In che cosa consiste la forza della borghesia rovesciata?
In primo luogo, «nella forza del capitale internazionale, nella forza
e nella solidità dei legami internazionali della borghesia» (vedi
vol. XXV, p. 173).
In secondo luogo, nel fatto che «ancora per lungo tempo dopo la rivoluzione
gli sfruttatori conservano inevitabilmente una serie di enormi vantaggi di
fatto: rimangono loro il denaro (che non si può sopprimere immediatamente),
una certa quantità di beni mobili, spesso considerevoli; rimangono
loro le relazioni, la pratica organizzativa e amministrativa, la conoscenza
di tutti i “segreti” dell’amministrazione (consuetudini,
procedimenti, mezzi, possibilità), rimangono loro un’istruzione
più elevata, strette relazioni con l’alto personale tecnico (che
vive e pensa da borghese), rimane loro una conoscenza infinitamente superiore
dell’arte militare (il che è molto importante), ecc. ecc.»
(vedi vol. XXIII, p. 354).
In terzo luogo, «nella forza dell’abitudine, nella forza della
piccola produzione; poiché, per disgrazia, la piccola produzione esiste
tuttora in misura molto, molto grande, e la piccola produzione genera il capitalismo
e la borghesia, ogni giorno, ogni ora, in modo spontaneo e in vaste proporzioni»...
poiché «sopprimere le classi non significa soltanto cacciare
i proprietari fondiari e i capitalisti - ciò che noi abbiamo fatto
con relativa facilità - ma vuol dire eliminare i piccoli produttori
di merci che è impossibile cacciare, impossibile schiacciare, con i
quali bisogna trovare un’intesa, che si possono (e si devono) trasformare,
rieducare solo con un lavoro di organizzazione molto lungo, molto lento e
molto prudente» (vedi vol. XXV, pp. 173 e 189).
Ecco perché Lenin dice che:
la dittatura del proletariato è la guerra più eroica e più
implacabile della classe nuova contro un nemico più potente, contro
la borghesia, la cui resistenza è decuplicata dal fatto di essere stata
rovesciata;
che «la dittatura del proletariato è una lotta tenace, cruenta
e incruenta, violenta e pacifica, militare ed economica, pedagogica e amministrativa,
contro le forze e le tradizioni della vecchia società» (ivi,
pp. 173 e 190.
Non occorre dimostrare che adempiere tali compiti in breve volger di tempo, che realizzare tutto questo in alcuni anni, è cosa assolutamente impossibile. Perciò bisogna considerare la dittatura del proletariato, il passaggio dal capitalismo al comunismo, non come un breve periodo di atti e decreti “ultra rivoluzionari”, ma come un’intiera epoca storica, piena di guerre civili e di conflitti esterni, di tenace lavoro organizzativo e di edificazione economica, di avanzate e di ritirate, di vittorie e di sconfitte. Quest’epoca storica è necessaria non soltanto per creare le premesse economiche e culturali della vittoria completa del socialismo, ma anche per dare al proletariato la possibilità, in primo luogo, di educare e temprare sé stesso come forza capace di dirigere il paese e, in secondo luogo, di rieducare e trasformare gli strati piccolo-borghesi in modo da assicurare l’organizzazione della produzione socialista.
Voi dovete - diceva Marx agli operai - passare attraverso quindici, venti, cinquant’anni di guerre civili e di battaglie internazionali, non solo per trasformare i rapporti esistenti, ma anche per trasformarvi voi stessi e rendervi atti al dominio politico (vedi K. Marx - F. Engels, Opere complete, vol.VIII, p. 506).
Continuando e sviluppando il pensiero di Marx, Lenin scrive:
Durante la dittatura del proletariato... bisognerà rieducare milioni di contadini e di piccoli proprietari, centinaia di migliaia di impiegati, di funzionari, di intellettuali borghesi, subordinarli tutti allo stato proletario e alla direzione proletaria, vincere le loro abitudini e tradizioni borghesi», così come sarà necessario «... rieducare, nel corso di una lunga lotta, sul terreno della dittatura del proletariato, i proletari stessi, che dei loro propri pregiudizi piccolo-borghesi non si liberano di punto in bianco, per miracolo, per ingiunzione della madonna e neppure per ingiunzione di una parola d’ordine, di una risoluzione, di un decreto, ma soltanto nel corso di una lotta di massa lunga e difficile contro le influenze piccolo-borghesi di massa (vedi vol. XXV, pp. 248 e 247).
2) La dittatura del proletariato, potere del proletariato sulla borghesia.
Da quanto abbiamo detto appare ormai che la dittatura del proletariato non
è un semplice cambiamento di uomini al governo, un mutamento di “gabinetto”,
ecc., che lasci intatto il vecchio ordinamento economico e politico. I menscevichi
e gli opportunisti di tutti i paesi, che temono la dittatura come il fuoco
e che, per paura, sostituiscono al concetto di dittatura il concetto di “presa
del potere”, riducono di solito la “presa del potere” a
un cambiamento di “gabinetto”, all’apparizione al potere
di un nuovo ministero composto di uomini del tipo di Scheidemann e Noske,
MacDonald e Henderson (19). Non occorre spiegare che siffatti e analoghi cambiamenti
di gabinetto non hanno niente di comune con la dittatura del proletariato,
con la conquista del vero potere da parte del vero proletariato. Quando i
MacDonald e gli Scheidemann sono al potere, ma rimane intatto il vecchio ordine
borghese, i cosiddetti loro governi non possono essere nient’altro che
un apparato al servizio della borghesia, nient’altro che una copertura
delle piaghe dell’imperialismo, nient’altro che uno strumento
nelle mani della borghesia contro il movimento rivoluzionario delle masse
oppresse e sfruttate. Questi governi sono necessari al capitale come un paravento,
nel momento in cui gli è scomodo, svantaggioso, difficile sfruttare
e opprimere le masse senza servirsi di un paravento. Certo, l’apparizione
di tali governi è un sintomo che «a casa loro» (cioè
a casa dei capitalisti), «sullo Scipca» non regna la calma (20),
ma i governi di tal genere, malgrado ciò, non cessano di essere, pur
sotto mentite spoglie, governi del capitale. Dal governo di MacDonald o di
Scheidemann alla conquista del potere da parte del proletariato, la distanza
è grande come dalla terra al cielo. La dittatura del proletariato non
è un cambiamento di governo, ma un nuovo stato, con nuovi organi del
potere al centro e alla base, è lo stato del proletariato, sorto sulle
rovine del vecchio stato, dello stato della borghesia.
La dittatura del proletariato sorge non sulla base dell’ordine borghese,
bensì nel corso della sua demolizione, dopo il rovesciamento della
borghesia, nel corso dell’espropriazione dei proprietari fondiari e
dei capitalisti, nel corso della socializzazione dei mezzi e degli strumenti
essenziali della produzione, nel corso della rivoluzione proletaria violenta.
La dittatura del proletariato è un potere rivoluzionario che si appoggia
sulla violenza contro la borghesia.
Lo stato è una macchina nelle mani della classe dominante per lo schiacciamento
della resistenza dei suoi nemici di classe. Sotto questo aspetto, la dittatura
del proletariato non differisce per nulla, in sostanza, dalla dittatura di
qualsiasi altra classe, poiché lo stato proletario è una macchina
per lo schiacciamento della borghesia. C’è però una differenza
sostanziale. Essa consiste nel fatto che tutti gli stati di classe esistenti
fino ad oggi erano la dittatura di una minoranza sfruttatrice sulla maggioranza
sfruttata, mentre la dittatura del proletariato è la dittatura della
maggioranza sfruttata sulla minoranza sfruttatrice.
In poche parole: la dittatura del proletariato è il potere del proletariato
sulla borghesia, potere che non è limitato dalla legge, poggia sulla
violenza e gode la simpatia e l’appoggio delle masse lavoratrici e sfruttate
(Stato e rivoluzione).
Di qui scaturiscono due deduzioni fondamentali:
Prima deduzione. La dittatura del proletariato non può essere una democrazia
“integrale”, una democrazia per tutti, e per i ricchi e per i
poveri; la dittatura del proletariato «deve essere uno stato democratico
in modo nuovo per* i proletari e i non possidenti in generale, e dittatoriale
in modo nuovo, contro la borghesia...» (Stato e rivoluzione) 1. I discorsi
di Kautsky e C. sull’eguaglianza universale, sulla democrazia «pura»,
sulla democrazia «perfetta» ecc. sono una copertura borghese del
fatto incontestabile che l’eguaglianza tra sfruttati e sfruttatori è
impossibile. La teoria della democrazia «pura» è la teoria
dell’aristocrazia operaia addomesticata e mantenuta dai briganti imperialisti.
Essa è stata creata per coprire le piaghe del capitalismo, per abbellire
l’imperialismo e dargli una forza morale nella lotta contro le masse
sfruttate. Non vi sono e non vi possono essere, in regime capitalista, vere
«libertà» per gli sfruttati, non fosse altro per il solo
fatto che i locali, le tipografie, i depositi di carta, ecc., necessari per
l’utilizzazione delle «libertà», sono un privilegio
degli sfruttatori. Non c’è nè vi può essere, in
regime capitalista, un’effettiva partecipazione delle masse sfruttate
alla direzione del paese, non fosse altro per il solo fatto che anche nei
regimi più democratici, in regime capitalista, i governi non ricevono
il potere dal popolo, ma dai Rothschild e dagli Stinnes, dai Rockefeller e
dai Morgan. La democrazia, in regime capitalista, è una democrazia
capitalista, è la democrazia della minoranza sfruttatrice, si basa
sulla limitazione dei diritti della maggioranza sfruttata ed è diretta
contro questa maggioranza. Soltanto sotto la dittatura del proletariato sono
possibili vere «libertà» per gli sfruttati e una vera partecipazione
dei proletari e dei contadini al governo del paese. La democrazia, sotto la
dittatura del proletariato, è una democrazia proletaria, è la
democrazia della maggioranza sfruttata, si basa sulla limitazione dei diritti
della minoranza sfruttatrice ed è diretta contro questa minoranza.
Seconda deduzione. La dittatura del proletariato non può sorgere come
risultato di uno sviluppo pacifico della società borghese e della democrazia
borghese; essa può sorgere soltanto come risultato della demolizione
della macchina statale borghese, dell’esercito borghese, dell’apparato
amministrativo borghese, della polizia borghese.
La classe operaia non può impossessarsi puramente e semplicemente
di una macchina statale già pronta e metterla in moto per i suoi propri
fini» scrivono Marx ed Engels nella prefazione al Manifesto del Partito
comunista.
La rivoluzione proletaria non deve consistere nel «... trasferire da
una mano ad un’altra la macchina militare e burocratica, come è
avvenuto fino ad ora, ma nello spezzarla...: tale è la condizione previa
di ogni rivoluzione veramente popolare sul Continente», dice Marx nella
sua lettera a Kugelmann (21) del 1871.
La frase restrittiva di Marx relativa al Continente ha fornito agli opportunisti e ai menscevichi di tutti i paesi un pretesto per strillare che Marx ammetteva, dunque, la possibilità della trasformazione pacifica della democrazia borghese in democrazia proletaria, almeno per certi paesi che non fanno parte del Continente europeo (Inghilterra, America). Effettivamente Marx ammetteva questa possibilità, e aveva delle ragioni per ammetterla per l’Inghilterra e l’America del 1870-1880, quando non esisteva ancora il capitalismo monopolistico, non esisteva l’imperialismo e non esistevano ancora, in quei paesi, per le condizioni speciali del loro sviluppo, nè una burocrazia, nè un militarismo sviluppati. Così stavano le cose prima dell’apparizione di un imperialismo sviluppato. Ma in seguito, trenta o quaranta anni dopo, quando la situazione in questi paesi cambiò radicalmente, quando l’imperialismo si sviluppò e abbraccio tutti i paesi capitalistici senza eccezione, quando il militarismo e la burocrazia apparvero anche in Inghilterra e in America, quando le condizioni particolari che consentivano un’evoluzione pacifica dell’Inghilterra e dell’America furono scomparse, la riserva formulata per questi paesi doveva cadere da sé.
Attualmente - scrive Lenin - nel 1917, nell’epoca della prima grande guerra imperialista, questa riserva di Marx cade: l’Inghilterra e l’America che erano - in tutto il mondo - le maggiori e le ultime rappresentanti della “libertà” anglosassone per quanto riguarda l’assenza di militarismo e di burocrazia, sono precipitate interamente nel lurido, sanguinoso pantano comune a tutta Europa, delle istituzioni militari e burocratiche che tutto sottomettono a sé e tutto comprimono. Oggi, in Inghilterra e in America, la “condizione previa di ogni rivoluzione veramente popolare” è la demolizione, la distruzione della “macchina statale già pronta” (portata in questi paesi nel 1914-1917 a una perfezione “europea”, imperialistica) (vedi vol. XXI, p. 395).
In altri termini, la legge della rivoluzione violenta del proletariato, la
legge della demolizione della macchina statale della borghesia come condizione
previa di questa rivoluzione, è legge ineluttabile del movimento rivoluzionario
dei paesi imperialisti di tutto il mondo.
Certo, in un avvenire lontano, se il proletariato vincerà nei principali
paesi capitalistici e se l’attuale accerchiamento capitalistico sarà
sostituito da un accerchiamento socialista, una via pacifica di sviluppo sarà
del tutto possibile per alcuni paesi capitalistici, in cui i capitalisti,
di fronte a una situazione internazionale «sfavorevole», giudicheranno
opportuno fare essi stessi «volontariamente» delle concessioni
serie al proletariato. Ma questa supposizione riguarda solo un futuro lontano
ed eventuale. Per il futuro prossimo questa supposizione non ha nessuno, assolutamente
nessun fondamento.
Per questo Lenin ha ragione quando dice:
La rivoluzione proletaria è impossibile senza la distruzione violenta della macchina statale borghese e la sua sostituzione con una nuova (vedi vol. XXIII, p. 342).
3) Il potere dei Soviet, forma statale della dittatura del proletariato.
La vittoria della dittatura del proletariato significa lo schiacciamento della
borghesia, la demolizione della macchina statale borghese, la sostituzione
alla democrazia borghese della democrazia proletaria. Questo è chiaro.
Ma quali sono le organizzazioni per mezzo delle quali può essere compiuta
questa opera immensa? Che le vecchie forme di organizzazione del proletariato,
sorte sulla base del parlamentarismo borghese, non sono sufficienti per questo
lavoro, è cosa fuori dubbio. Quali sono dunque le nuove forme di organizzazione
del proletariato, capaci di adempiere la funzione di affossatori della macchina
statale borghese, capaci non solo di demolire questa macchina e non solo di
sostituire la democrazia borghese con la democrazia proletaria, ma anche di
costituire la base del potere statale proletario?
Questa nuova forma di organizzazione del proletariato sono i Soviet.
In che cosa consiste la forza dei Soviet rispetto alle vecchie forme di organizzazione?
Nel fatto che i Soviet sono le più larghe organizzazioni di massa del
proletariato, in quanto essi e soltanto essi abbracciano tutti gli operai,
senza eccezione.
Nel fatto che i Soviet sono le sole organizzazioni di massa che abbracciano
tutti gli oppressi e gli sfruttati, operai e contadini, soldati e marinai,
e nelle quali, perciò, la direzione politica della lotta delle masse
da parte della loro avanguardia, da parte del proletariato, si può
realizzare più facilmente e nel modo più completo.
Nel fatto che i Soviet sono gli organi più potenti della lotta rivoluzionaria
delle masse, dei movimenti politici delle masse, dell’insurrezione delle
masse, gli organi capaci di spezzare l’onnipotenza del capitale finanziario
e dei suoi satelliti politici.
Nel fatto che i Soviet sono organizzazioni dirette delle masse stesse, cioè
le più democratiche e, quindi, quelle che hanno la più grande
autorità tra le masse, a cui agevolano al massimo grado la partecipazione
all’organizzazione e al governo del nuovo stato, quelle che sviluppano
al massimo grado l’energia rivoluzionaria, l’iniziativa, le facoltà
creatrici delle masse nella lotta per la distruzione del vecchio regime, nella
lotta per un regime nuovo, proletario.
Il potere sovietico è l’unificazione e l’integrazione dei
Soviet locali in una sola organizzazione statale generale, in una organizzazione
statale del proletariato come avanguardia delle masse sfruttate e oppresse
e come classe dominante, è la loro unificazione nella Repubblica dei
Soviet.
L’essenza del potere sovietico consiste nel fatto che le organizzazioni
più vaste e più rivoluzionarie proprio di quelle classi che
erano oppresse dai capitalisti e dai proprietari fondiari, sono ora «la
base permanente e unica di tutto il potere statale, di tutto l’apparato
dello stato»; che «proprio quelle masse che anche nelle repubbliche
borghesi più democratiche», pur essendo uguali davanti alla legge,
«di fatto venivano escluse, con mille espedienti e sotterfugi, dalla
partecipazione alla vita politica e dal godimento dei diritti e delle libertà
democratiche, sono chiamate a partecipare in modo permanente e sicuro e, per
di più, in modo decisivo, alla gestione democratica dello stato»*
(Lenin, Tesi e rapporto sulla democrazia borghese e sulla dittatura proletaria).
Ecco perché il potere sovietico è una forma nuova di organizzazione
statale, diversa in linea di principio dalla vecchia forma democratica borghese
e parlamentare, è un tipo nuovo di stato, adatto non ai fini dello
sfruttamento e dell’oppressione delle masse lavoratrici, ma ai fini
della loro completa liberazione da qualsiasi oppressione e sfruttamento, ai
fini della dittatura del proletariato.
Lenin ha ragione quando dice che con l’avvento del potere sovietico
«l’epoca del parlamentarismo democratico borghese è finita,
è incominciato un nuovo capitolo della storia mondiale: l’epoca
della dittatura proletaria».
In che cosa consistono i tratti caratteristici del potere sovietico?
Nel fatto che il potere sovietico è, fra tutte le organizzazioni statali
possibili finche esisteranno le classi, quella che ha il più spiccato
carattere di massa, la più democratica, perché, essendo l’arena
dell’alleanza e della collaborazione degli operai e dei contadini sfruttati
nella loro lotta contro gli sfruttatori, e appoggiandosi nel suo lavoro su
questa alleanza e su questa collaborazione, esso è, per questo fatto
stesso, il potere della maggioranza della popolazione sulla minoranza, lo
stato di questa maggioranza, l’espressione della sua dittatura.
Nel fatto che il potere sovietico è, in una società divisa in
classi, la più internazionalista fra tutte le organizzazioni statali
perché, distruggendo ogni oppressione nazionale e appoggiandosi sulla
collaborazione delle masse lavoratrici delle diverse nazionalità, esso
agevola, per questo fatto stesso, l’unificazione di queste masse in
un’unica unione statale.
Nel fatto che il potere sovietico, per la sua struttura stessa, agevola la
direzione delle masse oppresse e sfruttate da parte dell’avanguardia
di queste masse, da parte del proletariato, che è il nucleo più
coeso e più cosciente dei Soviet.
«L’esperienza di tutte le rivoluzioni e di tutti i movimenti delle
classi oppresse, l’esperienza del movimento socialista mondiale c’insegna
- dice Lenin - che soltanto il proletariato è in grado di unificare
e condurre al suo seguito gli strati arretrati e dispersi della popolazione
lavoratrice e sfruttata». La struttura del potere sovietico facilita
la realizzazione degli insegnamenti di quest’esperienza.
Nel fatto che il potere sovietico, riunendo il potere legislativo e il potere
esecutivo in una sola organizzazione statale e sostituendo alle circoscrizioni
elettorali a base territoriale le unità produttive, le officine e le
fabbriche, collega in maniera diretta gli operai e le masse lavoratrici in
generale agli apparati amministrativi dello stato, insegna loro a governare
il paese.
Nel fatto che soltanto il potere sovietico è capace di sottrarre l’esercito
alla sottomissione al comando borghese e di trasformarlo, da strumento di
oppressione del popolo com’esso è in regime borghese, in uno
strumento di liberazione del popolo dal giogo della borghesia nazionale e
straniera.
Nel fatto che «solo l’organizzazione sovietica dello stato è
in grado di spezzare realmente d’un colpo e di distruggere definitivamente
il vecchio apparato, cioè l’apparato amministrativo e giudiziario
borghese».
Nel fatto che solo la forma sovietica di stato, facendo partecipare in modo
continuo e incondizionato le organizzazioni di massa dei lavoratori e degli
sfruttati al governo dello stato, è in grado di preparare quella estinzione
dello stato, che è uno degli elementi essenziali della futura società
senza stato, della società comunista.
La Repubblica dei Soviet è, dunque, la forma politica cercata e finalmente
trovata, nel quadro della quale deve essere condotta a termine l’emancipazione
economica del proletariato, deve essere ottenuta la vittoria completa sul
capitalismo.
La Comune di Parigi fu l’embrione di questa forma. Il potere sovietico
ne è lo sviluppo e il coronamento.
Ecco perché Lenin dice che:
La repubblica dei Soviet dei deputati operai, soldati e contadini non soltanto è una forma di istituzione democratica di tipo più elevato, ... ma e anche l’unica l forma capace di assicurare il passaggio al socialismo nel modo meno doloroso (vedi vol. XXII, p. 131).
V. La questione contadina
Di questo tema tratterò quattro questioni: a) la impostazione del problema; b) i contadini durante la rivoluzione democratica borghese; c) i contadini durante la rivoluzione proletaria; d) i contadini dopo il consolidamento del potere sovietico.
1) Impostazione del problema. Alcuni pensano che l’essenziale del leninismo
sia la questione contadina, che il punto di partenza del leninismo sia la
questione dei contadini, della loro funzione, del loro peso specifico. Ciò
è assolutamente falso. La questione essenziale del leninismo, il suo
punto di partenza, non è la questione contadina, ma quella della dittatura
del proletariato, delle condizioni della conquista e del consolidamento di
questa dittatura. La questione contadina, come questione di un alleato del
proletariato nella sua lotta per il potere, è una questione derivata.
Questa circostanza, però, non le toglie nulla della grande importanza,
della palpitante attualità che essa ha, senza dubbio, per la rivoluzione
proletaria. È noto che una seria elaborazione della questione contadina
nelle file dei marxisti russi incominciò precisamente alla vigilia
della prima rivoluzione (1905), quando il problema dell’abbattimento
dello zarismo e della realizzazione dell’egemonia del proletariato si
poneva davanti al partito in tutta la sua ampiezza, e il problema di stabilire
chi sarebbe stato alleato del proletariato nell’imminente rivoluzione
borghese aveva assunto un carattere di palpitante attualità. È
pure noto che la questione contadina in Russia assunse un carattere ancor
più attuale durante la rivoluzione proletaria, allorché, partendo
dal problema della dittatura del proletariato, della conquista e del mantenimento
di essa, si arrivò a porre il problema degli alleati del proletariato
nell’imminente rivoluzione proletaria. E la cosa si capisce: chi marcia
e si prepara a prendere il potere, non può non interessarsi della questione
dei propri alleati effettivi.
In questo senso, la questione contadina è una parte della questione
generale della dittatura del proletariato ed è, come tale, una delle
questioni più palpitanti del leninismo.
L’atteggiamento indifferente e persino apertamente negativo dei partiti
della II Internazionale verso la questione contadina non si spiega soltanto
con le speciali condizioni di sviluppo dell’Occidente. Esso si spiega
soprattutto col fatto che questi partiti non hanno fiducia nella dittatura
del proletariato, hanno paura della rivoluzione e non pensano a portare il
proletariato al potere. E chi ha paura della rivoluzione, chi non vuole portare
i proletari al potere, non può interessarsi del problema degli alleati
del proletariato nella rivoluzione; per lui il problema degli alleati è
privo d’interesse, privo di attualità. L’atteggiamento
ironico degli eroi della II Internazionale verso la questione contadina è
considerato da loro come indice di belle maniere, indice di marxismo «genuino».
In realtà, in tale atteggiamento non c’è ombra di marxismo,
perché l’indifferenza, alla vigilia della rivoluzione proletaria,
per una questione di tanta importanza qual è la questione contadina,
è il correlativo della negazione della dittatura del proletariato,
è un indice innegabile di tradimento aperto del marxismo.
La questione si pone così: sono già esaurite, oppure no, le
possibilità rivoluzionarie che si nascondono in seno alla massa contadina
in conseguenza di determinate condizioni della sua esistenza, e se non sono
esaurite, esiste una speranza, una ragione di utilizzare queste possibilità
per la rivoluzione proletaria, di fare dei contadini, della loro maggioranza
sfruttata, non più una riserva della borghesia, come furono durante
le rivoluzioni borghesi dell’Occidente e come continuano a essere tutt’ora,
ma una riserva del proletariato, un suo alleato?
Il leninismo risponde a questa domanda affermativamente, cioè nel senso
di riconoscere l’esistenza di capacità rivoluzionarie nella maggioranza
dei contadini, e nel senso di ritenere possibile utilizzare queste capacità
nell’interesse della dittatura proletaria. La storia di tre rivoluzioni
in Russia conferma pienamente le conclusioni del leninismo a questo proposito.
Di qui la conclusione pratica circa la necessità di sostenere, disostenere
obbligatoriamente le masse lavoratrici dei contadini nella loro lotta control’asservimento
e lo sfruttamento, nella loro lotta per sbarazzarsi dell’oppressione
e della miseria. Ciò non vuol dire, naturalmente che il proletariato
debba appoggiare qualsiasi movimento contadino. Si tratta di appoggiare quel
movimento e quella lotta dei contadini che, direttamente o indirettamente,
agevolino il movimento di emancipazione del proletariato, che in una maniera
o in un’altra portino acqua al mulino della rivoluzione proletaria,
che contribuiscano a fare dei contadini una riserva e un alleato della classe
operaia.
2) I contadini durante la rivoluzione democratica borghese. Questo periodo
abbraccia l’intervallo di tempo che va dalla prima rivoluzione russa
(1905) alla seconda (febbraio 1917) inclusa. Tratto caratteristico di questo
periodo è la liberazione dei contadini dall’influenza della borghesia
liberale, il distacco dei contadini dai cadetti, la svolta dei contadini verso
il proletariato, verso il partito bolscevico. La storia di questo periodo
è la storia della lotta tra i cadetti (borghesia liberale) e i bolscevichi
(proletariato) per i contadini. Il periodo delle Dume decise dell’esito
di questa lotta, poiché il periodo delle quattro Dume fu una lezione
di cose per i contadini, e questa lezione mostrò loro all’evidenza
che essi non avrebbero ricevuto dalle mani dei cadetti nè la terra,
nè la libertà, che lo zar era interamente ligio ai grandi proprietari
fondiari e i cadetti sostenevano lo zar, che la sola forza sull’appoggio
della quale i contadini potevano contare erano gli operai delle città,
il proletariato. La guerra imperialista non fece che confermare gl’insegnamenti
di questo periodo delle Dume, rese completo il distacco dei contadini dalla
borghesia, perché gli anni della guerra dimostrarono quanto fosse vana,
illusoria, la speranza di ottenere la pace dallo zar e dai suoi alleati borghesi.
Senza le lezioni politiche del periodo della Duma, l’egemonia del proletariato
sarebbe stata impossibile.
Così si creò l’alleanza degli operai e dei contadini nella
rivoluzione democratica borghese. Così si realizzò l’egemonia
(direzione) del proletariato nella lotta comune per l’abbattimento dello
zarismo, egemonia che portò alla Rivoluzione di febbraio del 1917.
Le rivoluzioni borghesi d’Occidente (Inghilterra, Francia, Germania,
Austria) seguirono, com’è noto, un’altra via. In queste
rivoluzioni l’egemonia non appartenne al proletariato, che per la sua
debolezza non rappresentava e non poteva rappresentare una forza politica
indipendente, ma alla borghesia liberale. Ivi i contadini non ricevettero
la liberazione dal regime feudale dalle mani del proletariato, che era poco
numeroso e disorganizzato, ma dalle mani della borghesia. Ivi i contadini
marciarono contro il vecchio regime insieme alla borghesia liberale. Ivi i
contadini costituivano una riserva della borghesia e la rivoluzione portò,
in conseguenza di ciò, a un enorme aumento del peso politico della
borghesia.
In Russia, al contrario, la rivoluzione borghese dette risultati diametralmente
opposti. La rivoluzione, in Russia, non portò a un rafforzamento, ma
ad un indebolimento della borghesia come forza politica, non ad un aumento
delle sue riserve politiche, ma alla perdita della sua riserva fondamentale,
alla perdita dei contadini. La rivoluzione borghese in Russia spinse in primo
piano non la borghesia liberale, ma il proletariato rivoluzionario, raccogliendo
attorno ad esso milioni e milioni di contadini.
Questo spiega, tra l’altro, il fatto che la rivoluzione borghese in
Russia si è trasformata in rivoluzione proletaria in un periodo di
tempo relativamente breve. L’egemonia del proletariato fu il germe della
dittatura del proletariato, costituì il passaggio alla dittatura proletaria.
Come si spiega questo fenomeno originale della rivoluzione russa, il quale
non ha precedenti nella storia delle rivoluzioni borghesi in Occidente? Da
che proviene questa originalità?
Essa si spiega col fatto che la rivoluzione borghese si sviluppò in
Russia in un momento in cui le condizioni della lotta di classe erano più
sviluppate che in Occidente, col fatto che il proletariato russo era già
riuscito, in quel momento, a costituirsi in forza politica indipendente, mentre
la borghesia liberale, spaventata dallo spirito rivoluzionario del proletariato,
aveva perduto ogni parvenza di spirito rivoluzionario (soprattutto dopo gli
insegnamenti del 1905) e si era alleata con lo zar e coi grandi proprietari
fondiari contro la rivoluzione, contro gli operai e i contadini.
Occorre tener conto delle seguenti circostanze che hanno determinato l’originalità
della rivoluzione borghese russa:
a) La concentrazione inaudita dell’industria russa alla vigilia della
rivoluzione. È noto, per esempio, che nelle aziende con più
di 500 operai lavorava in Russia il 54 per cento del totale degli operai,
mentre, in un paese sviluppato come l’America settentrionale, nelle
aziende di grandezza analoga non lavorava che il 33 per cento del totale degli
operai. Non occorre dimostrare che questa sola circostanza, data l’esistenza
di un partito rivoluzionario come il partito dei bolscevichi, aveva fatto
della classe operaia russa la più grande forza della vita politica
del paese;
b) Le forme scandalose di sfruttamento nelle officine, unite all’intollerabile
regime poliziesco degli aguzzini dello zar: circostanza che trasformava ogni
sciopero serio degli operai in un atto politico di enorme importanza e temprava
la classe operaia come forza rivoluzionaria fino all’ultimo;
c) La fiacchezza politica della borghesia russa, diventata, dopo la rivoluzione
del 1905, servilismo verso il regime zarista e aperto atteggiamento controrivoluzionario,
il che si spiega non solo con lo spirito rivoluzionario del proletariato russo
che aveva respinto la borghesia russa nelle braccia dello zarismo, ma anche
con la dipendenza diretta di questa borghesia dalle ordinazioni dello stato;
d) L’esistenza delle più scandalose e intollerabili sopravvivenze
del regime feudale nella campagna, a cui si aggiungeva la onnipotenza del
proprietario fondiario: circostanza che spinse i contadini nelle braccia della
rivoluzione;
e) Lo zarismo, che comprimeva tutte le forze vive ed esasperava, col suo arbitrio,
il giogo del capitalista e del proprietario fondiario: circostanza che faceva
confluire in un’unica fiumana rivoluzionaria la lotta degli operai e
dei contadini;
f) La guerra imperialista, che fuse tutte queste contraddizioni della vita
politica della Russia in una profonda crisi rivoluzionaria e dette alla rivoluzione
una formidabile forza propulsiva.
Dove potevano batter la testa i contadini in queste condizioni? Presso chi
cercare un appoggio contro la onnipotenza del proprietario fondiario, contro
il potere arbitrario dello zar, contro la guerra funesta che li rovinava economicamente?
Presso la borghesia liberale? Ma questa era loro nemica: la lunga esperienza
di tutte e quattro le Dume lo dimostrava. Presso i socialisti-rivoluzionari?
I socialisti-rivoluzionari, certo, sono «migliori» dei cadetti,
e hanno un programma più «conveniente», quasi contadino,
ma che cosa possono dare i socialisti-rivoluzionari, dal momento che pensano
di appoggiarsi solo sui contadini e sono deboli nella città, donde
innanzi tutto l’avversario attinge le sue forze? Dov’è
la nuova forza che non si arresterà davanti a nessun ostacolo, nè
nella campagna, nè nella città, che marcerà arditamente
in prima fila nella lotta contro lo zar e il proprietario fondiario, che aiuterà
i contadini a liberarsi dall’asservimento, dalla fame di terra, dall’oppressione,
dalla guerra? Esisteva in Russia, in generale, una forza simile? Sì,
esisteva. Questa forza era il proletariato russo, che già nel 1905
aveva mostrato la sua potenza, la sua capacità di condurre la lotta
sino all’ultimo, il suo coraggio, il suo spirito rivoluzionario.
In ogni caso, un’altra forza simile non esisteva e non si sarebbe potuto
trovarla da nessuna parte.
Ecco perché i contadini, dopo essersi scostati dai cadetti e accostati
ai socialisti-rivoluzionari, finirono per comprendere la necessità
di mettersi sotto la direzione di un capo rivoluzionario così valoroso,
quale era il proletariato russo.
Queste sono le circostanze che determinarono la originalità della rivoluzione
borghese russa.
3) I contadini durante la rivoluzione proletaria. Questo periodo abbraccia
l’intervallo di tempo che corre dalla Rivoluzione di Febbraio (1917)
a quella di Ottobre (1917). Questo periodo è relativamente breve, otto
mesi in tutto, ma questi otto mesi, dal punto di vista della formazione politica
e dell’educazione rivoluzionaria delle masse, possono bene esserparagonati
a interi decenni di sviluppo costituzionale normale, perché sono otto
mesi di rivoluzione.Il tratto caratteristico di questo periodo è l’aumento
dello spirito rivoluzionario dei contadini, il crollo delle loro illusioni
sui socialisti-rivoluzionari, il loro distacco dai socialisti-rivoluzionari,
la nuova svolta dei contadini, che tendono a stringersi direttamente attorno
al proletariato, unica forza rivoluzionaria sino all’ultimo, capace
di portare il Paese alla pace. La storia di questo periodo è la storia
della lotta tra i socialisti-rivoluzionari (democrazia piccolo-borghese) e
i bolscevichi (democrazia proletaria) per i contadini, per la conquista della
maggioranza dei contadini. La sorte di questa lotta fu decisa dal periodo
della coalizione, dal periodo del governo di Kerenski (22), dal rifiuto dei
socialisti-rivoluzionari e dei menscevichi di confiscare la terra dei grandi
proprietari fondiari, dalla lotta dei socialisti-rivoluzionari e dei menscevichi
per continuare la guerra, dall’offensiva di giugno al fronte, dalla
pena di morte per i soldati, dalla rivolta di Kornilov (23).
Se prima, nel periodo precedente, la questione essenziale della rivoluzione
era stata quella del rovesciamento dello zar e del potere dei grandi proprietari
fondiari, ora, nel periodo successivo alla Rivoluzione di Febbraio, quando
non v’era più zar, ma la guerra interminabile stremava l’economia
nazionale dopo aver rovinato completamente i contadini, la liquidazione della
guerra diventava il problema fondamentale della rivoluzione. Il centro di
gravità si era spostato in modo manifesto dalle questioni di carattere
puramente interno a una questione fondamentale, quella della guerra. «Finire
la guerra», «uscire dalla guerra», era il grido generale
del paese esausto e, soprattutto, dei contadini.
Ma per uscire dalla guerra era necessario rovesciare il governo provvisorio,
era necessario rovesciare il potere della borghesia, era necessario rovesciare
il potere dei socialisti-rivoluzionari e dei menscevichi, perché essi,
ed essi soltanto, si sforzavano di far durare la guerra fino alla «vittoria
finale». Altra via di uscita dalla guerra all’infuori del rovesciamento
della borghesia, in pratica, non esisteva.
Si ebbe una rivoluzione nuova, una rivoluzione proletaria, perché precipitò
dal potere l’ultima frazione della borghesia imperialista, la frazione
di estrema sinistra, il partito dei socialisti-rivoluzionari e dei menscevichi,
per creare un potere nuovo, proletario, il potere dei Soviet, per portare
al potere il partito del proletariato rivoluzionario, il partito dei bolscevichi,
il partito della lotta rivoluzionaria contro la guerra imperialista, per una
pace democratica. La maggioranza dei contadini appoggiò la lotta degli
operai per la pace, per il potere dei Soviet.
Altra via di uscita per i contadini non esisteva. Altra via di uscita non
poteva esistere.
Il periodo del governo di Kerenski, fu in tal modo, una grandiosa lezione
di cose per le masse lavoratrici contadine, poiché dimostrò
all’evidenza che, finche il potere fosse rimasto nelle mani dei socialisti-rivoluzionari
e dei menscevichi, il paese non sarebbe uscito dalla guerra e i contadini
non avrebbero ricevuto nè terra, nè libertà; dimostrò
che i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari differivano dai cadetti solo
per i loro discorsi dolciastri e per le loro promesse ipocrite, ma di fatto
perseguivano la stessa politica imperialista, la politica dei cadetti; dimostrò
che il solo potere capace di rimettere il paese in carreggiata non poteva
essere che il potere dei Soviet. L’ulteriore prolungarsi della guerra
non fece che confermare la giustezza di questa lezione, stimolò la
rivoluzione e spinse le masse di milioni di contadini e di soldati a stringersi
direttamente attorno alla rivoluzione proletaria. L’isolamento dei socialisti-rivoluzionari
e dei menscevichi divenne un fatto irrevocabile. Senza le lezioni pratiche
del periodo della coalizione la dittatura del proletariato sarebbe stata impossibile.
Queste sono le circostanze che hanno agevolato il processo di trasformazione
della rivoluzione borghese in rivoluzione proletaria.
Così si venne formando la dittatura del proletariato in Russia.
4) I contadini dopo il consolidamento del potere sovietico. Se prima, nel
primo periodo della rivoluzione, si era trattato principalmente di rovesciare
lo zarismo, e in seguito, dopo la Rivoluzione di Febbraio, si era trattato,
prima di tutto, di uscire dalla guerra imperialista mediante l’abbattimento
della borghesia, ora invece, liquidata la guerra civile e consolidato il potere
sovietico, passavano in primo piano i problemi dell’edificazione economica.
Rafforzare e sviluppare l’industria nazionalizzata, collegare a tal
fine l’industria con l’economia contadina attraverso il commercio
regolato dallo stato, sostituire al prelevamento delle derrate eccedenti l’imposta
in natura, allo scopo di arrivare in seguito, diminuendo progressivamente
l’imposta in natura, allo scambio dei prodotti dell’industria
coi prodotti dell’agricoltura; rianimare il commercio e sviluppare la
cooperazione facendo partecipare a quest’ultima milioni di contadini:
ecco come Lenin tracciava i compiti della edificazione economica per la costruzione
delle basi dell’economia socialista.
Si dice che questi compiti possono rivelarsi superiori alle forze di un paese
contadino come la Russia. Alcuni scettici dicono persino che essi sono puramente
utopistici, irrealizzabili, perché i contadini sono contadini, cioè
piccoli produttori, e non possono perciò essere utilizzati per organizzare
le fondamenta della produzione socialista.
Ma gli scettici s’ingannano, perché non tengono conto di alcune
circostanze che hanno, nel caso in questione, un’importanza decisiva.
Vediamo le principali di queste circostanze.
In primo luogo. Non si possono confondere i contadini dell’Unione Sovietica
con i contadini dell’Occidente. I contadini che sono passati attraverso
la scuola di tre rivoluzioni, che hanno lottato contro lo zar e il potere
della borghesia insieme al proletariato e sotto la direzione del proletariato,
i contadini che hanno ottenuto la terra e la pace dalla rivoluzione proletaria
e sono diventati, per questo, una riserva del proletariato, questi contadini
non possono non essere diversi dai contadini che hanno combattuto durante
la rivoluzione borghese sotto la direzione della borghesia liberale, che hanno
ricevuto la terra dalle mani di questa borghesia e sono diventati, per questo,
una riserva della borghesia. Non occorre dimostrare che i contadini sovietici,
abituati ad apprezzare l’amicizia politica e la collaborazione politica
del proletariato, debitori della loro libertà a questa amicizia e a
questa collaborazione, non possono non costituire un materiale straordinariamente
favorevole per la collaborazione economica col proletariato.
Engels diceva che «la conquista del potere politico da parte del partito
socialista è diventata un compito del prossimo avvenire», che
«allo scopo di conquistarlo, il partito deve incominciare ad andare
dalla città alla campagna e diventare una forza nella campagna»
(Engels, La questione contadina). Egli scriveva queste parole nell’ultimo
decennio del secolo scorso a proposito dei contadini occidentali. È
forse necessario dimostrare che i comunisti russi, i quali hanno svolto a
questo proposito un lavoro colossale nel corso di tre rivoluzioni, son già
riusciti a crearsi nelle campagne un’influenza e un appoggio quale i
nostri compagni d’Occidente non osano neanche sognare? Come si può
negare che questa circostanza non può non facilitare in modo radicale
la collaborazione economica fra la classe operaia e i contadini della Russia?
Gli scettici continuano a parlare dei piccoli contadini come di un elemento
incompatibile con l’edificazione socialista. Ma ascoltate che cosa dice
Engels a proposito dei piccoli contadini di Occidente:
Noi siamo decisamente per il piccolo contadino; faremo tutto il possibile per rendergli la vita più tollerabile, per facilitargli il passaggio alla associazione se egli vi si deciderà. Anzi, nel caso che egli non sia ancora in grado di prendere questa decisione, ci sforzeremo di dargli quanto più tempo sarà possibile perché egli rifletta sul suo palmo di terra. Agiremo così non solo perché riteniamo possibile il passaggio dalla nostra parte del piccolo contadino che lavora per conto suo, ma anche per interesse diretto di partito. Quanto maggiore sarà il numero dei contadini che non lasceremo discendere sino al livello del proletarie che attireremo a noi mentre sono ancora contadini, tanto più rapida e facile sarà la trasformazione sociale. Per questa trasformazione non abbiamo nessun bisogno di attendere che la produzione capitalistica si sia dappertutto sviluppata sino alle sue ultime conseguenze, sino a che l’ultimo piccolo artigiano e l’ultimo piccolo contadino non siano caduti vittimedella grande produzione capitalistica. I sacrifici materiali che si dovranno consentire sui fondi pubblici nell’interesse dei contadini possono sembrare, dal punto di vista dell’economia capitalistica, uno sperpero; ma costituiranno invece un eccellente impiego di capitale, perché faranno risparmiare somme forse dieci volte superiori nelle spese necessarie per la trasformazione della società nel suo assieme. In questo senso noi possiamo, quindi, essere molto generosi coi contadini (Ivi).
Così parlava Engels a proposito dei contadini dell’Occidente.
Ma non è forse chiaro che quanto diceva Engels non può in nessun
altro luogo essere realizzato in modo così facile e completo come nel
paese della dittatura del proletariato? Non è chiaro che solo nella
Russia sovietica possono sin d’ora e completamente essere realizzati
e «il passaggio dalla nostra parte del piccolo contadino che lavora
per conto proprio» e i «sacrifici materiali» indispensabili
a questo scopo, e la «generosità verso i contadini» necessaria
a questo fine? Non è chiaro che queste e altre misure analoghe a favore
dei contadini già vengono applicate in Russia? Com’è possibile
negare che questa circostanza, a sua volta, deve facilitare e far avanzare
l’edificazione economica del paese dei Soviet?
In secondo luogo. Non si può confondere l’economia agricola della
Russia con l’economia agricola dell’Occidente. Quivi lo sviluppo
dell’economia agricola segue la linea abituale del capitalismo, che
provoca una profonda differenziazione dei contadini, con grandi proprietà
e latifondi capitalistici privati a un estremo e col pauperismo, la miseria
e la schiavitù del salariato all’estremo opposto. Quivi la disgregazione
e la decomposizione, in conseguenza di ciò, sono del tutto naturali.
Non così in Russia. Da noi lo sviluppo dell’economia agricola
non può seguire questa via, non foss’altro perché l’esistenza
del potere sovietico e la nazionalizzazione dei principali mezzi e strumenti
di produzione non permettono tale sviluppo. In Russia lo sviluppo della economia
agricola deve seguire un’altra via, la via dell’ingresso di milioni
di contadini piccoli e medi nelle cooperative, la via dello sviluppo, nelle
campagne, di un movimento cooperativo di massa, appoggiato dallo stato per
mezzo di crediti a condizioni di favore. Lenin indicava giustamente, negli
articoli sulla cooperazione, che lo sviluppo dell’economia agricola
doveva battere da noi una strada nuova, la strada della partecipazione della
maggioranza dei contadini all’edificazione socialista per mezzo della
cooperazione, la strada dell’introduzione graduale del principio del
collettivismo nell’agricoltura, prima nel campo della vendita e poi
nel campo della produzione dei prodotti agricoli.
Estremamente interessanti a questo proposito sono alcuni fatti nuovi che si
costatano nelle campagne, in relazione col lavoro della cooperazione agricola.
È noto che in seno all’Unione delle cooperative agricole si sono
create nuove grandi organizzazioni secondo i rami dell’economia agricola,
per il lino, per le patate, per il burro, ecc., e che esse hanno un grande
avvenire. Il Centro cooperativo del lino, per esempio, comprende tutta una
rete di cooperative di produzione di contadini coltivatori di lino. Esso s’interessa
di fornire ai contadini semi e strumenti di produzione, in seguito acquista
dagli stessi contadini tutta la produzione del lino e la vende all’ingrosso
sul mercato; assicura ai contadini la partecipazione ai profitti e in questo
modo per mezzo dell’Unione delle cooperative agricole, collega l’economia
contadina all’industria di stato. Come chiamare questa forma di organizzazione
della produzione? Secondo me, essa è un sistema di grande produzione
socialista di stato a domicilio, nel campo dell’agricoltura. Parlo qui
di sistema di produzione socialista di stato a domicilio, per analogia col
sistema capitalistico del lavoro a domicilio, nel campo, per esempio, della
produzione tessile, dove gli artigiani, che ricevevano dal capitalista le
materie prime e gli strumenti di produzione e gli vendevano tutta la loro
produzione, erano, di fatto, degli operai semisalariati a domicilio. Questo
è uno dei molti indizi che mostrano per quale via deve svilupparsi
da noi l’economia agricola. E non parlo di altri indizi dello stesso
genere negli altri rami dell’agricoltura.
Non occorre dimostrare che l’enorme maggioranza dei contadini si metterà
volentieri su questa nuova via di sviluppo, respingendo quella dei latifondi
capitalistici privati e della schiavitù del salariato, che è
la via della miseria e della rovina.
Ecco che cosa dice Lenin circa le vie di sviluppodella nostra economia agricola:
Il potere dello stato su tutti i grandi mezzi di produzione, il potere dello stato nelle mani del proletariato, l’alleanza di questo proletariato con milioni e milioni di contadini poveri e poverissimi, la garanzia della direzione dei contadini da parte del proletariato, ecc., non è forse questo tutto ciò che occorre per potere, con la cooperazione, con la sola cooperazione, che noi una volta consideravamo dall’alto in basso come affare da bottegai e che ora, durante la Nep, abbiamo ancora il diritto, in un certo senso, di considerare allo stesso modo, non è forse questo tutto ciò che è necessario per condurre a termine la costruzione di una società socialista integrale? Questo non è ancora la costruzione della società socialista, ma è tutto ciò che e necessario e sufficiente per condurne a termine la costruzione (vedi vol. XXVII, p. 392).
Parlando poi della necessità di appoggiare finanziariamente e in altro modo la cooperazione, come «nuovo principio di organizzazione della popolazione» e nuovo «regime sociale» sotto la dittatura del proletariato, Lenin prosegue:
Ogni regime sociale sorge solo con l’appoggio finanziario di una classe determinata. È inutile ricordare quante centinaia e centinaia di milioni di rubli sia costato il sorgere del capitalismo “libero”. Ora dobbiamo comprendere e mettere in pratica questa verità: che attualmente il regime sociale che dobbiamo appoggiare più d’ogni altro è il regime cooperativo. Ma dobbiamo appoggiarlo nel vero senso della parola, cioè questo appoggio non è sufficiente intenderlo come appoggio di una forma qualsiasi di cooperazione; quest’appoggio dev’essere inteso come appoggio di quella cooperazione, alla quale partecipano veramente le vere masse della popolazione (ivi, p. 393).
Che cosa dicono tutti questi fatti?
Che gli scettici hanno torto.
Che ha ragione il leninismo, il quale considera le masse lavoratrici dei contadini
come una riserva del proletariato.
Che il proletariato al potere può e deve utilizzare questa riserva
per saldare l’industria con l’agricoltura, far progredire l’edificazione
socialista e assicurare alla dittatura del proletariato quella base indispensabile,
senza la quale non è possibile passare all’economia socialista.
VI. La questione nazionale
Di questo tema tratterò due questioni principali:
a) l’impostazione del problema;
b) il movimento di liberazione dei popoli oppressi e la rivoluzione proletaria.
1) Impostazione del problema. Nel corso degli ultimi due decenni, la questione
nazionale ha subìto una serie di modificazioni della più grande
importanza. La questione nazionale nel periodo della II Internazionale e la
questione nazionale nel periodo del leninismo sono ben lontane dall’essere
la stessa cosa. Esse differiscono profondamente l’una dall’altra,
non solo per l’ampiezza, ma anche per il loro carattere intrinseco.
Prima, la questione nazionale si riduceva di solito a un gruppo ristretto
di problemi che riguardavano, per lo più, le nazioni «civili».
Irlandesi, ungheresi, polacchi, finlandesi, serbi e alcune altre nazionalità
dell’Europa: questo era il gruppo di popoli, privati dell’eguaglianza
di diritti, delle cui sorti s’interessavano gli eroi della II Internazionale.
Decine e centinaia di milioni di uomini appartenenti ai popoli dell’Asia
e dell’Africa, che subivano il giogo nazionale nelle sue forme più
brutali e più feroci, di solito non venivano presi in considerazione.
Non ci si decideva a mettere sullo stesso piano bianchi e negri, «civili»
e «non civili». Due o tre risoluzioni agrodolci e vuote, che si
sforzavano con cura di eludere il problema della liberazione delle colonie,
ecco tutto quello di cui potevano vantarsi gli uomini della II Internazionale.
Oggi, questa doppiezza e queste mezze misure, nella questione nazionale, si
debbono considerare come liquidate. Il leninismo ha smascherato questa disparità
scandalosa; ha abbattuto la barriera che separava bianchi e negri, europei
e asiatici, schiavi dell’imperialismo «civili» e «non
civili», collegando, in questo modo, il problema nazionale al problema
delle colonie. Così la questione nazionale si è trasformata,
da questione particolare interna di uno stato singolo, in questione generale
e internazionale, è diventata il problema mondiale della liberazione
dal giogo dell’imperialismo dei popoli oppressi dei paesi dipendenti
e delle colonie.
Prima, il principio dell’autodecisione delle nazioni di solito veniva
interpretato in modo erroneo, venendo ridotto non di rado al diritto delle
nazioni all’autonomia. Alcuni capi della II Internazionale erano persino
giunti a trasformare il diritto all’autodecisione nel diritto all’autonomia
culturale, cioè nel diritto delle nazioni oppresse di avere le loro
proprie istituzioni culturali, lasciando tutto il potere politico nelle mani
della nazione dominante. Questo fatto aveva come conseguenza che l’idea
dell’autodecisione correva il rischio di cambiarsi da strumento di lotta
contro le annessioni in un mezzo per giustificare le annessioni. Oggi, questa
confusione si deve considerare come superata.
Il leninismo ha ampliato il concetto dell’autodecisione, interpretandolo
come diritto dei popoli oppressi dei paesi dipendenti e delle colonie alla
separazione completa, diritto delle nazioni a esistere come stato indipendente.
In questo modo è stata esclusa la possibilità di giustificare
le annessioni interpretando il diritto all’autodecisione come diritto
all’autonomia. Quanto al principio dell’autodecisione, esso è
stato trasformato, in questo modo, da strumento per ingannare le masse, quale
fu senza dubbio nelle mani dei socialsciovinisti durante la guerra imperialista
mondiale, in strumento per smascherare tutte le bramosie imperialistiche e
le macchinazioni sciovinistiche di ogni genere, in uno strumento di educazione
politica delle masse nello spirito dell’internazionalismo.
Prima, il problema delle nazioni oppresse veniva considerato, di solito, come
un problema puramente giuridico. Proclamazione solenne dell’«eguaglianza
nazionale» dichiarazioni innumerevoli sull’eguaglianza delle nazioni»:
ecco di che cosa si accontentavano i partiti della II Internazionale, mentre
tenevano nascosto il fatto che, sotto l’imperialismo, quando un gruppo
di nazioni (la minoranza) vive dello sfruttamento di un altro gruppo di nazioni,
l’«eguaglianza delle nazioni» non è che una presa
in giro dei popoli oppressi. Oggi questa concezione giuridico-borghese della
questione nazionale si deve considerare come smascherata. Dalle altezze delle
dichiarazioni pompose il leninismo ha fatto scendere la questione nazionale
sulla terra, affermando che le dichiarazioni sull’«eguaglianza
delle nazioni», non corroborate con l’appoggio diretto da parte
dei partiti proletari della lotta di liberazione dei popoli oppressi, sono
soltanto delle dichiarazioni vuote e menzognere. In questo modo il problema
delle nazioni oppresse è diventato il problema dell’appoggio,
dell’aiuto effettivo e continuo alle nazioni oppresse nella loro lotta
contro l’imperialismo, per l’eguaglianza reale delle nazioni,
per la loro esistenza come stato indipendente.
Prima, la questione nazionale veniva considerata, in modo riformista, come
una questione a sé stante, indipendente, senza rapporto con la questione
generale del potere del capitale, dell’abbattimento dell’imperialismo,
della rivoluzione proletaria. Si ammetteva tacitamente che la vittoria del
proletariato in Europa fosse possibile senza un’alleanza diretta con
il movimento di liberazione nelle colonie, che la questione nazionale e coloniale
potesse venir risolta in sordina, «automaticamente» all’infuori
della grande via della rivoluzione proletaria, senza una lotta rivoluzionaria
contro l’imperialismo. Oggi questo punto di vista controrivoluzionario
si deve considerare come smascherato. Il leninismo ha provato, e la guerra
imperialista e la rivoluzione in Russia hanno confermato, che la questione
nazionale può essere risolta soltanto in legame con la rivoluzione
proletaria e sul suo terreno, che la via della vittoria della rivoluzione
in Occidente passa attraverso l’alleanza rivoluzionaria col movimento
antimperialistico di liberazione delle colonie e dei paesi dipendenti. La
questione nazionale è parte della questione generale della rivoluzione
proletaria, parte della questione della dittatura del proletariato.
Il problema si pone così: sono già esaurite, oppure no, le possibilità
rivoluzionarie esistenti in seno al movimento rivoluzionario di liberazione
dei paesi oppressi, e se non sono esaurite, esiste una speranza, una ragione
di utilizzare queste possibilità per la rivoluzione proletaria, di
fare dei paesi dipendenti e coloniali non più una riserva della borghesia
imperialista, ma una riserva del proletariato rivoluzionario, un suo alleato?
Il leninismo risponde a questa domanda affermativamente, cioè nel senso
di riconoscere l’esistenza di capacità rivoluzionarie in seno
al movimento di liberazione nazionale dei paesi oppressi e nel senso di ritenere
possibile utilizzarle nell’interesse del rovesciamento del nemico comune,
l’imperialismo. Il meccanismo di sviluppo dell’imperialismo, la
guerra imperialista e la rivoluzione in Russia confermano pienamente le conclusioni
del leninismo a questo proposito.
Di qui la necessità dell’appoggio, dell’appoggio deciso
e attivo, da parte del proletariato, al movimento di liberazione nazionale
dei popoli oppressi e dipendenti.
Ciò non vuol dire, naturalmente, che il proletariato debba appoggiare
qualsiasi movimento nazionale, sempre e dappertutto, in tutti i singoli casi
concreti. Si tratta di appoggiare quei movimenti nazionali che tendono a indebolire,
ad abbattere l’imperialismo e non a consolidarlo e a conservarlo. Vi
sono dei casi in cui i movimenti nazionali di singoli paesi oppressi cozzano
con gli interessi dello sviluppo del movimento proletario. Si capisce che
in questi casi non si può parlare di appoggio. La questione dei diritti
delle nazioni non è una questione isolata e a sé stante, ma
è una parte della questione generale della rivoluzione proletaria,
è una parte subordinata al tutto ed esige di essere considerata da
un punto di vista d’assieme. Marx, tra il 1840 e il 1850, era favorevole
al movimento nazionale dei polacchi e degli ungheresi, e contrario al movimento
nazionale dei cechi e degli slavi del sud. Perché? Perché i
cechi e gli slavi del sud erano allora «popoli reazionari», «avamposti
russi» in Europa, avamposti dell’assolutismo, mentre polacchi
e ungheresi erano «popoli rivoluzionari» in lotta contro l’assolutismo.
Perché l’appoggio del movimento nazionale dei cechi e degli slavi
del sud avrebbe significato allora appoggio indiretto dello zarismo, il più
pericoloso nemico del movimento rivoluzionario in Europa.
Le singole rivendicazioni della democrazia - dice Lenin - compresa l’autodecisione, non sono un assoluto, ma una particella dell’assieme del movimento democratico (e oggi: dell’assieme del movimento socialista) mondiale. È possibile che in singoli casi determinati la particella sia in contraddizione col tutto, e allora bisogna respingerla (vedi vol. XIX, pp. 257-258).
Così si presenta la questione dei movimenti nazionali singoli e dell’eventuale
carattere reazionario di questi movimenti se, naturalmente, non si considerano
questi movimenti da un punto di vista formale, dal punto di vista dei diritti
astratti, ma concretamente, dal punto di vista degl’interessi del movimento
rivoluzionario.
Lo stesso si deve dire circa il carattere rivoluzionario dei movimenti nazionali
in generale. Il carattere incontestabilmente rivoluzionario dell’immensa
maggioranza dei movimenti nazionali è altrettanto relativo e originale,
quanto è relativo e originale l’eventuale carattere reazionario
di alcuni movimenti nazionali singoli. Nelle condizioni dell’oppressione
imperialistica, il carattere rivoluzionario del movimento nazionale non implica
affatto obbligatoriamente l’esistenza di elementi proletari nel movimento,
l’esistenza di un programma rivoluzionario o repubblicano del movimento,
l’esistenza di una base democratica del movimento. La lotta dell’emiro
afghano per l’indipendenza dell’Afghanistan è oggettivamente
una lotta rivoluzionaria, malgrado il carattere monarchico delle concezioni
dell’emiro e dei suoi seguaci, poiché essa indebolisce, disgrega,
scalza l’imperialismo, mentre la lotta di certi «ultra»
democratici e «socialisti», «rivoluzionari» e repubblicani
dello stampo, ad esempio, di Kerenski e Tsereteli (24), Renaudel (25) e Scheidemann,
Cernov (26) e Dan (27), Henderson e Clynes (28) durante la guerra imperialista,
era una lotta reazionaria, perché aveva come risultato di abbellire
artificialmente, di consolidare, di far trionfare l’imperialismo. La
lotta dei mercanti e degli intellettuali borghesi egiziani per l’indipendenza
dell’Egitto è, per le stesse ragioni, una lotta oggettivamente
rivoluzionaria, quantunque i capi del movimento nazionale egiziano siano borghesi
per origine e appartenenza sociale e quantunque essi siano contro il socialismo,
mentre la lotta del governo operaio inglese per mantenere la situazione di
dipendenza dell’Egitto è, per le stesse ragioni, una lotta reazionaria,
quantunque i membri di questo governo siano proletari per origine e appartenenza
sociale e quantunque essi siano «per» il socialismo. E non parlo
del movimento nazionale degli altri paesi coloniali e dipendenti, più
grandi, come l’India e la Cina, ogni passo dei quali sulla via della
loro liberazione, anche se contravviene alle esigenze della democrazia formale,
è un colpo di maglio assestato all’imperialismo, ed è
perciò incontestabilmente un passo rivoluzionario.
Lenin ha ragione quando afferma che il movimento nazionale dei paesi oppressi
si deve considerare non dal punto di vista della democrazia formale, ma dal
punto di vista dei risultati effettivi nel bilancio generale della lotta contro
l’imperialismo, cioè «non isolatamente, ma su scala mondiale»*.
2) Il movimento di liberazione dei popoli oppressi e la rivoluzione proletaria.
Nel risolvere la questione nazionale, il leninismo parte dalle tesi seguenti:
a) il mondo è diviso in due campi: da una parte un pugno di nazioni
civili, che detengono il capitale finanziario e sfruttano l’enorme maggioranza
della popolazione del globo; dall’altra i popoli oppressi e sfruttati
delle colonie e dei paesi dipendenti, che costituiscono questa maggioranza;
b) le colonie e i paesi dipendenti, oppressi e sfruttati dal capitale finanziario,
costituiscono un’immensa riserva e la più cospicua sorgente di
forze dell’imperialismo;
c) la lotta rivoluzionaria dei popoli oppressi dei paesi dipendenti e coloniali
contro l’imperialismo è l’unica via della loro liberazione
dall’oppressione e dallo sfruttamento;
d) i principali paesi coloniali e dipendenti si sono già messi sulla
via del movimento di liberazione nazionale, il quale non può non condurre
alla crisi del capitalismo mondiale;
e) gl’interessi del movimento proletario nei paesi avanzati e del movimento
di liberazione nazionale nelle colonie esigono l’unione di questi due
aspetti del movimento rivoluzionario in un fronte comune di lotta contro il
nemico comune, contro l’imperialismo;
f) la vittoria della classe operaia nei paesi avanzati e la liberazione dei
popoli oppressi dal giogo dell’imperialismo non sono possibili senza
la formazione e il consolidamento di un fronte rivoluzionario comune;
g) la formazione di un fronte rivoluzionario comune non è possibile
senza l’appoggio diretto e deciso, da parte del proletariato dei paesi
oppressori, del movimento di liberazione dei popoli oppressi, contro il «patrio»
imperialismo, perché «non può esser libero un popolo che
opprime altri popoli» (Marx);
h) questo appoggio consiste nel difendere, sostenere, applicare la parola
d’ordine del diritto delle nazioni alla separazione, all’esistenza
come stato indipendente;
i) senza l’applicazione di questa parola d’ordine è impossibile
organizzare l’unione e la collaborazione delle nazioni in un’economia
mondiale unica, base materiale della vittoria del socialismo;
l) quest’unione non può essere che volontaria, non può
sorgere che sulla base della fiducia reciproca e di reciproci rapporti fraterni
fra i popoli.
Di qui due aspetti, due tendenze nella questione nazionale: la tendenza alla
liberazione politica dai ceppi dell’imperialismo e alla creazione di
stati nazionali indipendenti, tendenza generata dall’oppressione imperialistica
e dallo sfruttamento coloniale, e la tendenza all’avvicinamento economico
delle nazioni, che sorge con la formazione di un mercato mondiale e di una
economia mondiale.
Nel corso del suo sviluppo il capitalismo - dice Lenin - conosce nella questione nazionale due tendenze storiche. La prima consiste nel risveglio della vita nazionale e dei movimenti nazionali, nella lotta contro ogni oppressione nazionale, nella creazione di stati nazionali. La seconda consiste nello sviluppo e nella moltiplicazione di ogni sorta di relazioni fra le nazioni, nella demolizione delle barriere nazionali, nella creazione dell’unità internazionale del capitale, della vita economica in generale, della politica, della scienza, ecc. Entrambe queste tendenze sono una legge universale del capitalismo. La prima prevale all’inizio del suo sviluppo, la seconda caratterizza ilcapitalismo maturo, in marcia verso la sua trasformazione in società socialista (vedi vol. XVII, pp. 139-140).
Per l’imperialismo queste due tendenze rappresentano una contraddizione
insuperabile perché l’imperialismo non può vivere senza
sfruttare e mantenere con la forza le colonie nel quadro di un tutto «unico»,
perché l’imperialismo può avvicinare le nazioni soltanto
seguendo la via delle annessioni e delle conquiste coloniali, senza le quali
generalmente parlando, esso è inconcepibile.
Per il comunismo, invece, queste tendenze non sono che due aspetti di una
causa unica, la causa dell’emancipazione dei popoli oppressi dal giogo
dell’imperialismo, perché il comunismo sa che l’unione
dei popoli in un’economia mondiale unica non è possibile che
sulla base della fiducia reciproca e di un accordo liberamente consentito,
che il processo di formazione di un’unione volontaria dei popoli passa
attraverso la separazione delle colonie dal «tutto unico» imperialistico,
attraverso la loro trasformazione in stati indipendenti.
Di qui la necessità di una lotta tenace, incessante, decisa, contro
lo sciovinismo da grande potenza che è proprio dei «socialisti»
delle nazioni dominanti (Inghilterra, Francia, America, Italia, Giappone,
ecc.), i quali non vogliono combattere contro i propri governi imperialisti,
non vogliono appoggiare la lotta che i popoli oppressi delle «loro»
colonie conducono per liberarsi dall’oppressione e costituirsi in stati
indipendenti.
Senza questa lotta non è concepibile educare la classe operaia delle
nazioni dominanti nello spirito di un reale internazionalismo, nello spirito
di un avvicinamento alle masse lavoratrici dei paesi dipendenti e delle colonie,
nello spirito di una preparazione reale della rivoluzione proletaria. La rivoluzione
in Russia non avrebbe vinto, e Kolciak (29) e Denikin (30) non sarebbero stati
battuti, se il proletariato russo non avesse goduto della simpatia e dell’appoggio
dei popoli oppressi dell’ex impero russo. Ma per conquistare la simpatia
e l’appoggio di questi popoli, esso dovette, prima di tutto, spezzare
le catene dell’imperialismo russo e liberare questi popoli dall’oppressione
nazionale, senza di che sarebbe stato impossibile consolidare il potere sovietico,
dare vita a un vero internazionalismo, creare quella mirabile organizzazione
di collaborazione dei popoli che si chiama Unione delle Repubbliche Socialiste
Sovietiche e che è il prototipo vivente della futura unione dei popoli
in una economia mondiale unica.
Di qui la necessità della lotta contro l’isolamento, la grettezza,
il particolarismo nazionale dei socialisti dei paesi oppressi, che non vogliono
vedere più in là del loro campanile nazionale e non comprendono
il legame che unisce il movimento di emancipazione del loro paese al movimento
proletario dei paesi dominanti.
Senza questa lotta non si può difendere la politica indipendente del
proletariato delle nazioni oppresse, non si può difendere la sua solidarietà
di classe col proletariato dei paesi dominanti nella lotta per abbattere il
nemico comune, per abbattere l’imperialismo; senza questa lotta non
sarebbe possibile l’internazionalismo.
Questa è la via che si deve seguire per educare le masse lavoratrici
delle nazioni dominanti e delle nazioni oppresse nello spirito dell’internazionalismo
rivoluzionario.
Ecco ciò che dice Lenin a proposito di questo duplice aspetto del lavoro
dei comunisti per educare gli operai nello spirito dell’internazionalismo:
Può questa educazione... essere concretamente la stessa per le grandi
nazioni che ne opprimono altre e per le nazioni piccole e oppresse? Per le
nazioni che ne annettono altre e per le nazioni annesse?
Evidentemente, no. La marcia verso un fine unico: verso l’eguaglianza
completa, l’avvicinamento più stretto e l’ulteriore fusione
di tutte le nazioni, procede qui, evidentemente, per differenti vie concrete,
allo stesso modo, per esempio, che il tragitto per arrivare a un punto situato
al centro di una pagina va verso sinistra se si parte da uno dei margini e
verso destra se si parte dal margine opposto. Se il socialista di una grande
nazione che ne opprime e ne annette delle altre, predicando la fusione delle
nazioni in generale, dimenticherà anche solo per un istante che il
«suo» Nicola II (31), il «suo» Guglielmo, Giorgio,
Poincaré (32) e compagnia sono essi pure per la fusione con le piccole
nazioni (mediante l’annessione), che Nicola II è per la «fusione»
con la Galizia, Guglielmo II per la «fusione» col Belgio, ecc.,
un tal socialista finirà per essere, in teoria, un dottrinario ridicolo
e, in pratica, un manutengolo dell’imperialismo.
Il centro di gravità dell’educazione internazionalista degli
operai nei paesi oppressori deve risiedere immancabilmente nella propaganda
e nella difesa da parte loro della libertà dei paesi oppressi di separarsi.
Senza questo non v’è internazionalismo. Noi abbiamo il diritto
e l’obbligo di trattare da imperialista e da furfante ogni socialista
di un paese oppressore che non faccia questa propaganda. Si tratta di una
rivendicazione incondizionata. quantunque fino all’avvento del socialismo
la separazione sia possibile e «realizzabile» in un caso su mille...
Al contrario. il socialista di una piccola nazione deve porre il centro di
gravità dell’agitazione sulla seconda parola della nostra formula
generale: «volontaria unione» delle nazioni. Egli può,
senza trasgredire i suoi doveri di internazionalista, essere e per l’indipendenza
politica della sua nazione, e per l’inclusione di essa in un vicino
stato X, Y, Z, ecc. Ma in ogni caso egli deve lottare contro la grettezza
delle piccole nazioni, il loro isolamento, il loro particolarismo, lottare
perché si tenga conto del tutto, dell’assieme del movimento,
perché l’interesse particolare venga subordinato all’interesse
generale.
Coloro che non hanno approfondito la questione trovano «contraddittorio»
che i socialisti dei paesi oppressori insistano sulla «libertà
di separazione» e i socialisti delle nazioni oppresse sulla «libertà
di unione». Ma se si riflette un poco si vede che un’altra via
per arrivare all’internazionalismo e alla fusione delle nazioni, un’altra
via per raggiungere questo scopo partendo dalla situazione attuale, non c’è
e non può esserci (vedi vol. XIX, pp. 261-262).
VII. Strategia e tattica
Di questo tema tratterò sei questioni:
a) la strategia e la tattica, scienza della direzione della lotta di classe
del proletariato;
b) le tappe della rivoluzione e la strategia;
c) i flussi e riflussi del movimento e la tattica;
d) la direzione strategica;
e) la direzione tattica;
f) riformismo e rivoluzionarismo.
1) La strategia e la tattica, scienza della direzione della lotta di classe
del proletariato. Il periodo del dominio della II Internazionale fu in prevalenza
il periodo della formazione e della istruzione degli eserciti proletari, in
una situazione di sviluppo più o meno pacifico. Fu il periodo in cui
il parlamentarismo era la forma prevalente della lotta di classe. I problemi
relativi ai grandi conflitti di classe, alla preparazione del proletariato
alle battaglie rivoluzionarie, ai mezzi per conquistare la dittatura del proletariato,
non erano allora, a quanto sembrava, all’ordine del giorno. Il compito
si riduceva a utilizzare tutte le vie di sviluppo legale per la formazione
e l’istruzione degli eserciti proletari, a utilizzare il parlamentarismo
tenendo conto di una situazione in cui il proletariato rimaneva e, a quanto
sembrava, doveva rimanere all’opposizione. Non occorre dimostrare che
in un simile periodo e con una tale concezione dei compiti del proletariato
non poteva esistere nè una strategia completa, nè una tattica
approfondita. Esistevano dei frammenti, delle idee staccate sulla tattica
e sulla strategia; ma una tattica e una strategia non esistevano.
Il peccato mortale della II Internazionale non consiste nell’aver applicato
a suo tempo la tattica dell’utilizzazione delle forme parlamentari di
lotta, ma nell’aver sopravvalutato l’importanza di queste forme,
fino a considerarle quasi come le sole esistenti, cosicché, quando
sopraggiunse il periodo delle battaglie rivoluzionarie aperte e la questione
delle forme di lotta extraparlamentari diventò la più importante,
i partiti della II Internazionale si sottrassero ai nuovi compiti, non li
riconobbero.
Soltanto nel periodo successivo, periodo di azioni aperte del proletariato,
periodo della rivoluzione proletaria, quando il problema del rovesciamento
della borghesia diventò un problema pratico immediato, quando la questione
delle riserve del proletariato (strategia) diventò una delle questioni
più palpitanti, quando tutte le forme di lotta e d’organizzazione
- parlamentari ed extraparlamentari (tattica) - si manifestarono nel modo
più netto, soltanto in questo periodo poterono esser elaborate una
strategia completa e una tattica approfondita della lotta del proletariato.
Le idee geniali di Marx e di Engels sulla tattica e sulla strategia, che gli
opportunisti della II Internazionale avevano sotterrato, furono riportate
alla luce del sole da Lenin proprio in questo periodo. Ma Lenin non si limitò
a restaurare le singole tesi tattiche di Marx e di Engels. Egli le sviluppò
e le completò con idee e tesi nuove, raccogliendo il tutto in un sistema
di regole e di principi direttivi atti a guidare la lotta di classe del proletariato.
Degli scritti di Lenin come Che fare?, Due tattiche, L’imperialismo,
Stato e rivoluzione, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, La
malattia infantile, costituiscono, incontestabilmente, un apporto preziosissimo
al tesoro comune del marxismo, al suo arsenale rivoluzionario. La strategia
e la tattica del leninismo sono la scienza della direzione della lotta rivoluzionaria
del proletariato.
2) Le tappe della rivoluzione e la strategia. La strategia ha per oggetto
di fissare, in una determinata tappa della rivoluzione, la direzione del colpo
principale del proletariato, di elaborare un corrispondente piano di disposizione
delle forze rivoluzionarie (riserve principali e secondarie) e di lottare
per la attuazione di questo piano durante tutto il corso di quella tappa della
rivoluzione.
La nostra rivoluzione ha già percorso due tappe e dopo la Rivoluzione
d’Ottobre è entrata nella terza. Conformemente a ciò si
è modificata la strategia.
Prima tappa. 1903-febbraio 1917. Scopo: rovesciare lo zarismo, liquidare completamente
le sopravvivenze medioevali. Forza fondamentale della rivoluzione: il proletariato.
Riserva immediata: i contadini. Direzione del colpo principale: isolamento
della borghesia monarchica liberale, che si sforza di attrarre a sé
i contadini e di liquidare la rivoluzione per mezzo di un’intesa con
lo zarismo. Piano di disposizione delle forze: alleanza della classe operaia
con i contadini. «Il proletariato deve condurre a termine la rivoluzione
democratica legando a sé la massa dei contadini per schiacciare con
la forza la resistenza dell’autocrazia e paralizzare l’instabilità
della borghesia»*.
Seconda tappa. Marzo 1917-ottobre 1917. Scopo: abbattere l’imperialismo
in Russia e uscire dalla guerra imperialista. Forza fondamentale della rivoluzione:
il proletariato. Riserva immediata: i contadini poveri. Il proletariato dei
paesi vicini come riserva probabile. Il prolungarsi della guerra e la crisi
dell’imperialismo come circostanza favorevole. Direzione del colpo principale:
isolare la democrazia piccolo-borghese (menscevichi, socialisti-rivoluzionari),
che si sforza di attrarre a sé le masse lavoratrici dei contadini e
di finire la rivoluzione per mezzo di una intesa con l’imperialismo.
Piano di disposizione delle forze: alleanza del proletariato con i contadini
poveri. «Il proletariato deve fare la rivoluzione socialista legando
a sé la massa degli elementi semiproletari della popolazione, per spezzare
con la forza la resistenza della borghesia e paralizzare l’instabilità
dei contadini e della piccola borghesia»**.
Terza tappa. È incominciata dopo la Rivoluzione d’Ottobre. Scopo:
consolidare la dittatura del proletariato in un solo paese e servirsene come
punto di appoggio per abbattere l’imperialismo in tutti i paesi. La
rivoluzione esce dai limiti di un solo paese; l’epoca della rivoluzione
mondiale è incominciata. Forze fondamentali della rivoluzione: la dittatura
del proletariato in un paese, il movimento rivoluzionario del proletariato
in tuttii paesi. Riserve principali: le masse di semiproletari e di piccoli
contadini nei paesi progrediti, il movimento di liberazione nelle colonie
e nei paesi dipendenti. Direzione del colpo principale: isolare la democrazia
piccolo-borghese, isolare i partiti della II Internazionale, che sono il principale
punto di appoggio della politica dell’intesa con l’imperialismo.
Piano di disposizione delle forze: alleanza della rivoluzione proletaria con
il movimento di liberazione delle colonie e dei paesi dipendenti.
La strategia si occupa delle forze fondamentali della rivoluzione e delle
loro riserve. Essa cambia col passare della rivoluzione da una tappa a un’altra
e rimane sostanzialmente immutata per tutto il corso di una tappa determinata.
3) I flussi e i riflussi del movimento e la tattica. La tattica ha per oggetto
di fissare la linea di condotta del proletariato per un periodo relativamente
breve di flusso o di riflusso del movimento, di slancio o di depressione della
rivoluzione, di lottare per la applicazione di questa linea sostituendo forme
nuove alle vecchie forme di lotta e di organizzazione, nuove parole d’ordine
alle vecchie, coordinando queste forme, ecc. Se la strategia si propone lo
scopo, per esempio, di vincere la guerra contro lo zarismo o contro la borghesia,
di condurre a termine la lotta contro lo zarismo o la borghesia, la tattica
si prefigge degli scopi meno essenziali, poiché si sforza di vincere
non la guerra nel suo insieme, ma queste o quelle battaglie, questi o quei
combattimenti, di condurre con successo queste o quelle campagne, queste o
quelle azioni, corrispondenti alla situazione concreta di un determinato periodo
di slancio o di depressione della rivoluzione. La tattica è una parte
della strategia, le è subordinata e la serve.
La tattica cambia secondo i flussi e i riflussi. Mentre durante la prima tappa
della rivoluzione (1903-febbraio 1917) il piano strategico rimaneva immutato,
la tattica, durante questo periodo, cambiò parecchie volte. Nel periodo
1903-1905 la tattica del partito era offensiva, perché esisteva un
flusso rivoluzionario, il movimento rivoluzionario seguiva una linea ascendente
e la tattica doveva basarsi su questo fatto. In relazione a ciò, anche
le forme di lotta erano rivoluzionarie, rispondenti alle esigenze del flusso
della rivoluzione. Scioperi politici locali, manifestazioni politiche, sciopero
politico generale, boicottaggio della Duma, insurrezione, parole d’ordine
rivoluzionarie di lotta: tali furono le forme di lotta che si succedettero
le une alle altre in quel periodo. In legame con le forme di lotta cambiarono
allora anche le forme di organizzazione. Comitati di fabbrica e d’officina,
comitati rivoluzionari di contadini, comitati di sciopero, Soviet di deputati
operai, partito operaio più o meno legale: tali erano le forme di organizzazione
in quel periodo.
Nel periodo 1907-1912 il partito fu costretto a passare a una tattica di ritirata,
perché ci trovavamo di fronte a una depressione del movimento rivoluzionario,
a un riflusso della rivoluzione, e la tattica non poteva non tener conto di
questo fatto. In relazione a ciò cambiarono tanto le forme di lotta
quanto le forme di organizzazione. Invece del boicottaggio della Duma, partecipazione
alla Duma; invece delle azioni rivoluzionarie aperte extraparlamentari, discorsi
e lavoro alla Duma; invece degli scioperi generali politici, scioperi economici
parziali o anche semplicemente la calma. È chiaro che il partito dovette,
in quel periodo passare all’attività clandestina, mentre le organizzazioni
rivoluzionarie di massa vennero sostituite da organizzazioni legali culturali,
di educazione, cooperative, di mutuo soccorso, ecc.
Lo stesso si deve dire circa la seconda e la terza tappa della rivoluzione,
nel corso delle quali la tattica cambiò decine di volte mentre i piani
strategici rimanevano immutati.
La tattica si occupa delle forme di lotta e delle forme di organizzazione
del proletariato, della loro successione, della loro coordinazione. In una
determinata tappa della rivoluzione, la tattica può cambiare parecchie
volte, a seconda dei flussi o dei riflussi, dello slancio o della depressione
della rivoluzione.
4) La direzione strategica. Le riserve della rivoluzione possono essere:
dirette: a) i contadini e, in generale, gli strati intermedi della popolazione
del proprio paese; b) proletariato dei paesi vicini; c) il movimento rivoluzionario
nelle colonie e nei paesi dipendenti; d) le conquiste e le acquisizioni della
dittatura del proletariato, a una parte delle quali il proletariato può
temporaneamente rinunciare, conservando però la superiorità
nelle forze, allo scopo di ottenere, a prezzo di questa rinuncia, una tregua
da un avversario potente;
indirette: a) le contraddizioni e i conflitti fra le classi non proletarie
del proprio paese, suscettibili di essere utilizzati dal proletariato per
indebolire l’avversario e rafforzare le proprie riserve; b) le contraddizioni,
i conflitti e le guerre (per esempio la guerra imperialista) fra gli stati
borghesi ostili allo stato proletario, conflitti e guerre suscettibili di
essere utilizzati dal proletariato nel corso di una sua offensiva o di una
manovra in caso di ritirata forzata.
Sulle riserve del primo genere non è necessario soffermarsi, perché
la loro importanza è nota a tutti, senza eccezione. Per quanto riguarda
le riserve del secondo genere, la cui importanza non è sempre chiara,
si deve dire che esse hanno talora un’importanza di prim’ordine
per la marcia della rivoluzione. Mal si potrebbe, ad esempio, negare l’importanza
enorme del conflitto tra la democrazia piccolo-borghese (socialisti-rivoluzionari)
e la borghesia monarchica liberale (cadetti) durante la prima rivoluzione
e dopo di essa, conflitto che, senza dubbio, contribuì a sottrarre
i contadini all’influenza della borghesia, Sarebbe ancora meno fondato
negare l’importanza enorme che ebbe la guerra a morte tra i gruppi fondamentali
degli imperialisti nel periodo della Rivoluzione d’Ottobre, allorché
gli imperialisti, occupati a farsi la guerra, non ebbero la possibilità
di concentrare le forze contro il giovane potere sovietico, e il proletariato,
appunto per questo, ebbe la possibilità di accingersi seriamente all’organizzazione
delle proprie forze e al consolidamento del proprio potere, la possibilità
di preparare lo schiacciamento di Kolciak e di Denikin. È da supporre
che adesso, mentre gli antagonismi tra i gruppi imperialisti si approfondiscono
sempre più e una nuova guerra tra di loro diventa inevitabile, le riserve
di questo genere avrannoper il proletariato un’importanza sempre maggiore.
Il compito della direzione strategica consiste nell’utilizzare giustamente
tutte queste riserve per raggiungere lo scopo essenziale della rivoluzione
in una determinata tappa del suo sviluppo.
In che cosa consiste la giusta utilizzazione delle riserve?
Nell’adempimento di alcune condizioni indispensabili, di cui le seguenti
devono essere considerate capitali.
In primo luogo. Concentramento del grosso delle forze della rivoluzione nel
punto più vulnerabile dell’avversario nel momento decisivo, quando
la rivoluzione è già matura, quando l’offensiva marcia
a tutto vapore, quando l’insurrezione batte alle porte e quando l’adunata
delle riserve attorno all’avanguardia è condizione decisiva per
il successo. La strategia del partito nel periodo aprile-ottobre 1917 può
essere considerata come un esempio di utilizzazione delle riserve in questo
modo. È fuori dubbio che, punto più vulnerabile dell’avversario,
in quel periodo, era la guerra. È fuori dubbio che proprio in questa
questione, considerata come questione fondamentale, il partito radunò
attorno all’avanguardia proletaria le più grandi masse della
popolazione. La strategia del partito, in quel periodo, consistette in questo:
addestrare l’avanguardia alle azioni di strada per mezzo di manifestazioni
e dimostrazioni, e in pari tempo radunare attorno all’avanguardia le
riserve per mezzo dei Soviet nell’interno del paese e dei comitati di
soldati al fronte. L’esito della rivoluzione dimostrò che questa
utilizzazione delle riserve eragiusta.
Ecco cosa dice Lenin, parafrasando le note tesi di Marx e di Engels sull’insurrezione,
a proposito di questa condizione dell’utilizzazione strategica delle
forze della rivoluzione:
1) Non giocare mai con l’insurrezione, ma, quando la si inizia, mettersi
bene in testa che bisogna andare sino in fondo.
2) È necessario raccogliere nel punto decisivo, nel momento decisivo,
forze molto superiori a quelle del nemico, perché altrimenti questo,
meglio preparato e meglio organizzato, annienterà gl’insorti.
3) Una volta iniziata l’insurrezione, bisogna agire con la più
grande decisione e passare assolutamente, a qualunque costo all’offensiva.
“La difensiva è la morte dell’insurrezione armata”.
4) Bisogna sforzarsi di prendere il nemico alla sprovvista, di cogliere il
momento in cui le sue truppe sono disperse.
5) Bisogna riportare ogni giorno (si potrebbe anche dire “ogni ora”
se si tratta di una sola città) dei successi, sia pure di poca entità,
conservando ad ogni costo la “superiorità morale (vedi vol. XXI,
pp. 319-320).
In secondo luogo. Scelta del momento del colpo decisivo, del momento per scatenare l’insurrezione, che deve essere quello in cui la crisi è giunta al punto più alto, l’avanguardia è pronta a battersi sino all’ultimo, le riserve sono pronte ad appoggiare l’avanguardia e nel campo del nemico esiste il massimo dello scompiglio.
«Si può considerare completamente matura la battaglia decisiva - dice Lenin - se «tutte le forze di classe che ci sono ostili si siano sufficientemente imbrogliate, si siano sufficientemente azzuffate tra di loro, si siano sufficientemente indebolite in una lotta superiore alle loro forze»; se «tutti gli elementi intermedi, a differenza della borghesia, esitanti, vacillanti, instabili, e cioè la piccola borghesia, la democrazia piccolo-borghese, si siano sufficientemente smascherati di fronte al popolo, si siano sufficientemente screditati col loro fallimento all’atto pratico»; se «nel proletariato sia sorta e si sia potentemente affermata una tendenza di massa ad appoggiare le azioni rivoluzionarie più decise, più ardite e coraggiose contro la borghesia. Allora la rivoluzione è davvero matura, allora, se abbiamo tenuto nel debito conto tutte le condizioni sopra enunciate e se abbiamo scelto bene il momento, la nostra vittoria è sicura» (vedi vol. XXV, p. 229).
Modello di questa strategia può essere considerata l’organizzazione
dell’insurrezione d’ottobre.
Se non si tiene conto di questa condizione, si cade in un errore pericoloso,
chiamato «perdita del ritmo», che si ha quando il partito ritarda
sulla marcia del movimento o corre troppo avanti, creando il pericolo di un
insuccesso. Un esempio di questa «perdita del ritmo», un esempio
del modo come non bisogna scegliere il momento dell’insurrezione, dev’essere
considerato il tentativo di una parte dei compagni di cominciare l’insurrezione
con l’arresto dei membri della Conferenza democratica nel settembre
1917, quando si sentiva ancora della esitazione nei Soviet, quando il fronte
era ancora incerto del suo cammino e le riserve non si erano ancora adunate
attorno all’avanguardia.
In terzo luogo. Applicare fermamente la linea adottata, malgrado tutte le
difficoltà e le complicazioni che possono sorgere sulla via che conduce
alla meta, acciocché l’avanguardia non perda di vista la meta
essenziale della lotta, e le masse non si disperdano mentre marciano verso
questa meta e si sforzano di raggrupparsi attorno all’avanguardia. Se
non si tiene conto di questa condizione, si cade in un grave errore, ben noto
ai marinai col nome di «perdita della rotta». Un esempio di questa
«perdita della rotta» dev’essere considerata l’errata
posizione del nostro partito, subito dopo la Conferenza democratica, quando
esso decise di partecipare al preparlamento. In quel momento il partito sembrò
aver dimenticato che il preparlamento era un tentativo della borghesia di
sviare il paese dalla via dei Soviet e incanalarlo in quella del parlamentarismo
borghese, ché la partecipazione del partito a una simile istituzione
poteva imbrogliare tutte le carte e disorientare gli operai e i contadini,
che conducevano la lotta rivoluzionaria con la parola d’ordine: «Tutto
il potere ai Soviet». Quest’errore fu corretto mediante l’uscita
dei bolscevichi dal preparlamento.
In quarto luogo. Manovrare con le riserve in modo da potersi ritirare in buon
ordine quando il nemico è forte, quando la ritirata è inevitabile,
quando è visibilmente dannoso accettare la battaglia che il nemico
vuole imporre e quando la ritirata, dato il rapporto delle forze in presenza,
è l’unico mezzo per sottrarre l’avanguardia al colpo che
la minaccia e conservare le riserve.
I partiti rivoluzionari - dice Lenin - debbono completare la loro istruzione. Essi hanno imparato a condurre l’offensiva. Ora bisogna comprendere la necessità di completare questa scienza con la scienza della ritirata in buon ordine. Bisogna comprendere - e la classe rivoluzionaria impara a comprendere dalla propria amara esperienza - che non si può vincere senz’aver appreso la scienza dell’offensiva e la scienza della ritirata (vedi vol. XXV, p. 177).
Scopo di questa strategia è di guadagnar tempo, disgregare l’avversario
e accumular forze per passar poi all’offensiva.
Modello di questa strategia può essere considerata la conclusione della
pace di Brest, che permise al partito di guadagnar tempo, di sfruttare i conflitti
nel campo dell’imperialismo, di disgregare le forze dell’avversario,
di mantenere i legami coi contadini e accumulare le forze per preparare l’offensiva
contro Kolciak e Denikin.
Concludendo una pace separata - diceva Lenin allora - ci sbarazziamo, per
quanto è possibile nel momento attuale, dei due gruppi imperialisti
nemici, approfittando della loro ostilità e della loro guerra che impedisce
loro di mettersi d’accordo contro di noi; ne approfittiamo, ottenendo
così di avere, per un certo periodo, le mani libere per continuare
e consolidare la rivoluzione socialista (vedi vol. XXII, p. 198).
Ora - scriveva Lenin tre anni dopo la pace di Brest-Litovsk - anche l’ultimo
degl’imbecilli vede che la «pace di Brest» fu una concessione
che ha accresciuto le nostre forze e ha frazionato quelle dell’imperialismo
internazionale (vedi vol. XXVII, p. 7) .
Queste sono le condizioni principali che assicurano una giusta direzione strategica.
5) La direzione tattica. La direzione tattica è parte della direzione
strategica, alle esigenze e ai compiti della quale è subordinata. Il
compito della direzione tattica consiste nell’esser padroni di tutte
le forme di lotta e di organizzazione del proletariato e nell’assicurare
una loro giusta utilizzazione, allo scopo di raggiungere, dato il rapporto
di forze esistente, il massimo dei risultati necessario alla preparazione
del successo strategico.
In che cosa consiste la giusta utilizzazione delle forme di lotta e di organizzazione
del proletariato?
Nell’adempimento di alcune condizioni indispensabili, di cui le seguenti
debbono essere considerate capitali.
In primo luogo. Mettere al primo piano precisamente quelle forme di lotta
e di organizzazione che, meglio corrispondendo alle condizioni del flusso
o del riflusso del movimento, sono atte a facilitare e assicurare lo spostamento
delle masse verso posizioni rivoluzionarie, lo spostamento di masse di milioni
di uomini verso il fronte della rivoluzione, il loro schieramento sul fronte
della rivoluzione.
Ciò che importa non è che l’avanguardia sia cosciente
della impossibilità di mantenere l’antico ordine di cose e della
ineluttabilità del suo rovesciamento. Ciò che importa è
che le masse, masse di milioni di uomini, comprendano questa necessità
e si mostrino pronte ad appoggiare l’avanguardia. Ma questo le masse
possono comprenderlo solo attraverso la loro propria esperienza. Dare a masse
di milioni di uomini la possibilità di constatare, in base alla loro
esperienza, l’ineluttabilità del rovesciamento del vecchio potere,
impiegare mezzi di lotta e forme di organizzazione che permettano alle masse
di constatare in base all’esperienza la giustezza delle parole d’ordine
rivoluzionarie: questo è il compito da assolvere.
L’avanguardia si sarebbe staccata dalla classe operaia, e la classe
operaia avrebbe perduto il contatto con le masse se, a suo tempo, il partito
non avesse deciso di partecipare alla Duma, se non avesse deciso di concentrare
le forze nel lavoro parlamentare e di sviluppare la lotta sulla base di questo
lavoro, al fine di permettere alle masse di constatare, per loro propria esperienza,
la nullità della Duma, la fallacia delle promesse dei cadetti, l’impossibilità
di un accordo con lo zarismo, l’inevitabilità dell’alleanza
dei contadini con la classe operaia. Senza l’esperienza fatta dalle
masse nel periodo della Duma, lo smascheramento dei cadetti e l’egemonia
del proletariato sarebbero stati impossibili.
Il pericolo della tattica dell’otzovismo* consisteva nel fatto ch’essa
minacciava di creare un distacco tra l’avanguardia e le sue riserve
di milioni di uomini.
Il partito si sarebbe staccato dalla classe operaia e la classe operaia avrebbe
perduto la sua influenza tra le grandi masse dei contadini e dei soldati se
il proletariato avesse seguito i comunisti di sinistra che lanciavano l’appello
all’insurrezione nell’aprile del 1917, quando i menscevichi e
i socialisti-rivoluzionari non avevano ancora avuto il tempo di smascherarsi
quali partigiani della guerra e dell’imperialismo, quando le masse non
avevano ancora avuto il tempo di constatare, per loro propria esperienza,
la fallacia dei discorsi dei menscevichi e dei socialisti-rivoluzionari sulla
pace, sulla terra, sulla libertà. Senza l’esperienza fatta dalle
masse nel periodo del governo di Kerenski, i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari
non avrebbero potuto essere isolati e la dittatura del proletariato sarebbe
stata impossibile. Perciò la tattica della «spiegazione paziente»
degli errori dei partiti piccolo-borghesi e della lotta aperta in seno ai
Soviet era la sola tattica giusta.
Il pericolo della tattica dei comunisti di sinistra consisteva nel fatto ch’essa
minacciava di fare del partito non più il capo della rivoluzione proletaria,
ma un gruppo di cospiratori vuoti e inconsistenti.
Con la sola avanguardia - dice Lenin - non si può vincere. Gettare la sola avanguardia nella battaglia decisiva, prima che tutta la classe, prima che le grandi masse abbiano preso una posizione o di appoggio diretto dell’avanguardia o, almeno, di benevola neutralità verso di essa... non sarebbe soltanto una sciocchezza, ma anche un delitto. Ma affinché effettivamente tutta la classe, affinché effettivamente le grandi masse dei lavoratori e degli oppressi dal capitale giungano a prendere tale posizione, la sola propaganda, la sola agitazione non bastano. Per questo è necessaria l’esperienza politica delle masse stesse. Tale è la legge fondamentale di tutte le grandi rivoluzioni, confermata oggi con una forza e un rilievo sorprendenti non solo dalla Russia, ma anche dalla Germania. Non soltanto le masse russe incolte, spesso analfabete, ma anche le masse tedesche, fornite di un alto grado di cultura e fra cui non vi sono analfabeti, per volgersi risolutamente verso il comunismo hanno dovuto constatare a loro spese tutta l’impotenza, tutta la mancanza di carattere, tutta l’incapacità, tutto il servilismo davanti alla borghesia, tutta l’abbiezione del governo dei paladini della II Internazionale, tutta l’inevitabilità della dittatura dei reazionari estremi (Kornilov in Russia, Kapp (33) e C. in Germania) come unica alternativa alla dittatura del proletariato (vedi vol. XXV, p. 228).
In secondo luogo. Trovare, in ogni momento determinato, nella catena degli
avvenimenti, quell’anello particolare, aggrappandosi al quale sarà
possibile reggere tutta la catena e preparar le condizioni del successo strategico.
Occorre scegliere, fra i vari compiti che si pongono al partito, precisamente
quel compito immediato, la soluzione del quale è il punto centrale
e l’adempimento del quale assicura una felice soluzione di tutti gli
altri compiti immediati.
L’importanza di questa tesi si potrebbe dimostrare con due esempi, di
cui l’uno potrebbe esser preso dal passato lontano (periodo della formazione
del partito) e l’altro da un passato più recente (periodo della
Nep).
Nel periodo della formazione del partito, quando esisteva una quantità
innumerevole di circoli e di organizzazioni non ancora collegate tra di loro,
quando il primitivismo e questa moltitudine di circoli corrodevano il partito
da cima a fondo, quando la confusione ideologica era il tratto caratteristico
della vita interna del partito, in quel periodo l’anello essenziale,
il compito fondamentale nella catena degli anelli e nella catena dei compiti
che stavano allora davanti al partito, era la creazione di un giornale illegale
per tutta la Russia. Perché? Perché soltanto per mezzo di un
giornale illegale per tutta la Russia era possibile, nelle condizioni d’allora,
creare un nucleo coeso di partito, capace di raccogliere in un tutto unico
i circoli e le organizzazioni innumerevoli, di preparare le condizioni dell’unità
ideologica e tattica e porre così le basi per la formazione di un vero
partito.
Nel periodo del passaggio dalla guerra all’edificazione economica, quando
l’industria vegetava in preda alla disorganizzazione e l’agricoltura
soffriva della mancanza di prodotti industriali, quando la saldatura dell’industria
di stato con l’economia contadina era diventata la condizione essenziale
del successo dell’edificazione socialista, in quel periodo l’anello
essenziale della catena dello sviluppo, il compito fondamentale fra tutti
gli altri era lo sviluppo del commercio. Perché? Perché durante
la Nep (Nuova politica economica) la saldatura dell’industria con l’economia
contadina non era possibile altrimenti che attraverso il commercio, perché
durante le Nep la produzione senza smercio era la morte dell’industria;
perché l’industria poteva estendersi solo attraverso una estensione
dello smercio dovuta allo sviluppo del commercio, perché solo dopo
essersi consolidati nel campo del commercio, solo dopo essere diventati padroni
di quest’anello, si poteva sperare di saldare l’industria col
mercato contadino e di risolvere felicemente gli altri compiti immediati,
allo scopo di creare le condizioni per la costruzione delle fondamenta dell’economia
socialista.
Non basta - dice Lenin - essere rivoluzionario e partigiano del socialismo,
o comunista in generale... Bisogna saper trovare in ogni momento, quell’anello
particolare della catena a cui aggrapparsi con tutte le forze per reggere
tutta la catena e preparare solidamente il passaggio all’anello successivo...
Nel momento attuale... questo anello è la rianimazione del commercio
interno, a condizione che esso sia ben regolato (diretto) da parte dello stato.
Il commercio: ecco 1’“anello” nella catena storica degli
avvenimenti, delle forme transitorie della nostra edificazione socialista
negli anni 1921-1922, “al quale ci si deve aggrappare con tutte le forze”...
(vedi vol. XXVII, p. 82).
Queste sono le condizioni principali che assicurano una giusta direzione tattica.
6) Riformismo e rivoluzionarismo. In che cosa la tattica rivoluzionaria si
distingue dalla tattica riformista?
Alcuni pensano che il leninismo è contro le riforme, contro i compromessi
e gli accordi, in generale. Ciò è assolutamente falso. I bolscevichi
sanno, non meno di chicchessia, che, in un certo senso, «ogni cosa che
ti danno è buona», sanno che, in determinate circostanze, le
riforme in generale, i compromessi e gli accordi in particolare, sono necessari
e utili.
Condurre la guerra - dice Lenin - per il rovesciamento della borghesia internazionale, guerra cento volte più difficile, più lunga e più complicata della più accanita delle guerre abituali fra gli stati, e rinunziare in anticipo a destreggiarsi, a sfruttare gli antagonismi di interessi (sia pure temporanei) tra i propri nemici, rinunziare agli accordi e ai compromessi con dei possibili alleati (sia pure temporanei, poco sicuri, esitanti, condizionali), non è cosa sommamente ridicola? Non è come se, nell’ardua scalata di un monte ancora inesplorato e inaccessibile, si rinunziasse preventivamente a fare talora degli zig-zag, a ritornare qualche volta sui propri passi, a lasciare la direzione presa all’inizio per tentare direzioni diverse? (vedi vol. XXV, p. 210).
Quel che conta, evidentemente, non sono le riforme o i compromessi e gli
accordi, ma è l’uso che si fa delle riforme e degli accordi.
Per il riformista, la riforma è tutto; il lavoro rivoluzionario, invece,
serve così, tanto per parlarne, per gettare polvere negli occhi. Perciò
con la tattica riformista, sino a che esiste il potere borghese, una riforma
si converte inevitabilmente in uno strumento di rafforzamento di questo potere,
in uno strumento di disgregazione della rivoluzione.
Per il rivoluzionario, invece, l’essenziale è il lavoro rivoluzionario,
non la riforma; per lui la riforma è soltanto un prodotto accessorio
della rivoluzione. Perciò con la tattica rivoluzionaria, sino a che
esiste il potere borghese, una riforma si converte naturalmente in uno strumento
di disgregazione di questo potere, in uno strumento di rafforzamento della
rivoluzione, in un punto di appoggio per l’ulteriore sviluppo del movimento
rivoluzionario.
Il rivoluzionario accetta la riforma al fine di utilizzarla come un appiglio
per combinare il lavoro legale con il lavoro illegale, al fine di servirsene
come una copertura per il rafforzamento del lavoro illegale che ha per oggetto
la preparazione rivoluzionaria delle masse al rovesciamento della borghesia.
Questa è l’essenza dell’utilizzazione rivoluzionaria delle
riforme e degli accordi nelle condizioni esistenti nel periodo dell’imperialismo.
Il riformista, al contrario, accetta le riforme per rinunciare a ogni lavoro
illegale, sabotare la preparazione delle masse alla rivoluzione e riposare
all’ombra della riforma «concessa».
Questa è l’essenza della tattica riformista.
Così si presenta il problema delle riforme e degli accordi nelle condizioni
esistenti nel periodo dell’imperialismo.
Le cose cambiano però alquanto dopo l’abbattimento dell’imperialismo,
durante la dittatura del proletariato. In certi casi, in certe condizioni,
il potere proletario può trovarsi costretto ad abbandonare provvisoriamente
la via della riedificazione rivoluzionaria dell’ordine di cose esistente
e a prender la via della sua trasformazione graduale, «la via riformista»,
come dice Lenin nel suo articolo L’importanza dell’oro, la via
dei movimenti aggiranti, la via delle riforme e delle concessioni alle classi
non proletarie, allo scopo di disgregare queste classi e concedere alla rivoluzione
una tregua, allo scopo di raccogliere le proprie forze e preparare le condizioni
di una nuova offensiva. Non si può negare che questa via è,
in un certo senso, una via riformista. Bisogna però ricordare che ci
troviamo qui di fronte a una particolarità fondamentale, la quale consiste
nel fatto che la riforma emana in questo caso dal potere proletario, ch’essa
rafforza il potere proletario, ch’essa gli procura la tregua necessaria,
ch’essa è destinata a disgregare non la rivoluzione ma le classi
non proletarie.
La riforma, in queste condizioni, si trasforma quindi nel suo opposto.
L’adozione di una tale politica da parte del potere proletario diventa
possibile perché e soltanto perché l’ampiezza della rivoluzione
è stata, nel periodo precedente, abbastanza grande e ha quindi lasciato
uno spazio sufficiente per poter battere in ritirata, per sostituire alla
tattica dell’offensiva la tattica di una ritirata temporanea, la tattica
dei movimenti aggiranti.
Se prima, dunque, sotto il potere borghese, le riforme erano un prodotto accessorio
della rivoluzione, ora, durante la dittatura del proletariato, la sorgente
delle riforme sta nelle conquiste rivoluzionarie del proletariato, nelle riserve
accumulate nelle mani del proletariato e costituite da queste conquiste.
Soltanto il marxismo - dice Lenin - ha determinato esattamente e giustamente il rapporto tra le riforme e la rivoluzione. Marx poteva vedere questo rapporto soltanto sotto uno dei suoi aspetti, cioè nella situazione precedente una prima vittoria del proletariato, sia pure di scarsa solidità e di scarsa durata, sia pure in un solo paese. In quella situazione la base di un giusto rapporto tra le riforme e la rivoluzione era questa: la riforma è un prodotto accessorio della lotta di classe rivoluzionaria del proletariato... Dopo la vittoria del proletariato almeno in un solo paese, appare qualche cosa di nuovo nel rapporto tra le riforme e la rivoluzione. In linea di principio le cose stanno come prima, nella forma però sopravviene una modificazione che Marx personalmente non poteva prevedere, ma di cui ci si può render conto soltanto sulla base della filosofia e della politica del marxismo... Dopo la vittoria, esse (vale a dire le riforme. G. St.), (pur continuando ad essere su scala internazionale lo stesso “prodotto accessorio”), costituiscono inoltre, per il paese in cui il proletariato ha vinto, una tregua necessaria e legittima nei casi in cui le forze,dopo una tensione estrema, sono manifestamente insufficienti per superare in modo rivoluzionario l’una o l’altra tappa. La vittoria crea una tale “riserva di forze”, che permette di tener duro anche nel caso di una ritirata forzata, di tener duro materialmente e moralmente (vedi vol. XXVII, pp. 84-85).
VIII. Il partito
Nel periodo prerivoluzionario, nel periodo di sviluppo più o meno
pacifico, quando i partiti della II Internazionale erano la forza dominante
nel movimento operaio e le forme parlamentari di lotta erano considerate le
principali, in quelle condizioni il partito non aveva, nè poteva avere,
l’importanza seria e decisiva che ha acquistato in seguito, in un periodo
di grandi battaglie rivoluzionarie. Difendendo la II Internazionale dagli
attacchi cui è fatta segno, Kautsky dice che i partiti della II Internazionale
sono strumenti di pace e non di guerra, che appunto per questo essi non furono
in grado di intraprendere alcunché di serio durante la guerra, nel
periodo delle azioni rivoluzionarie del proletariato. Questo è perfettamente
vero. Ma che significa questo? Questo significa che i partiti della II Internazionale
non sono atti alla lotta rivoluzionaria del proletariato, che essi non sono
dei partiti di lotta del proletariato, i quali conducano gli operai alla conquista
del potere, ma un apparato elettorale, adatto alle elezioni parlamentari e
alla lotta parlamentare. Così si spiega del resto il fatto che nel
periodo del prevalere degli opportunisti della II Internazionale, l’organizzazione
politica fondamentale del proletariato non fosse il partito ma il gruppo parlamentare.
È noto che in quel periodo il partito era praticamente un’appendice,
un elemento al servizio del gruppo parlamentare. Non occorre dimostrare che
in tali condizioni e sotto la guida di un tal partito, non si poteva nemmeno
parlare di preparazione del proletariato alla rivoluzione.
Si ebbe, tuttavia, un mutamento radicale con l’aprirsi del nuovo periodo.
Il nuovo periodo è quello dei conflitti di classe aperti, è
il periodo delle azioni rivoluzionarie del proletariato, il periodo della
rivoluzione proletaria, il periodo della preparazione immediata delle forze
all’abbattimento dell’imperialismo, alla presa del potere da parte
del proletariato. Questo periodo pone di fronte al proletariato compiti nuovi:
la riorganizzazione di tutto il lavoro del partito su una nuova base, su una
base rivoluzionaria, l’educazione degli operai nello spirito della lotta
rivoluzionaria per il potere, la preparazione e la mobilitazione delle riserve,
l’alleanza coi proletari dei paesi vicini, la creazione di saldi legami
con il movimento di liberazione delle colonie e dei paesi dipendenti, ecc.
ecc. Pensare che questi nuovi compiti possano essere risolti con le forze
dei vecchi partiti socialdemocratici, educati nelle pacifiche condizioni del
parlamentarismo, significa condannarsi irrimediabilmente alla disperazione,
a una sconfitta sicura. Restare, quando si hanno tali compiti sulle spalle,
sotto la direzione dei vecchi partiti, vuol dire ridursi a uno stato di disarmo
completo. Non occorre dimostrare che il proletariato non poteva rassegnarsi
a tale situazione.
Di qui la necessità di un nuovo partito, di un partito combattivo,
di un partito rivoluzionario, abbastanza audace per condurre i proletari alla
lotta per il potere, abbastanza ricco di esperienza per sapersi orientare
nelle intricate condizioni di una situazione rivoluzionaria, e abbastanza
agile per evitare ogni sorta di scogli subacquei sulla via che conduce alla
meta.
Senza un tale partito, non si può nemmeno pensare ad abbattere l’imperialismo,
a conquistare la dittatura del proletariato.
Questo nuovo partito è il partito del leninismo.
Quali sono le particolarità di questo nuovo partito?
1) Il partito, reparto di avanguardia della classe operaia. Il partito deve
essere, prima di tutto, il reparto di avanguardia della classe operaia. Il
partito deve assorbire tutti i migliori elementi della classe operaia, la
loro esperienza, il loro spirito rivoluzionario, la loro devozione sconfinata
alla causa del proletariato. Ma per essere effettivamente il reparto di avanguardia,
il partito deve essere armato d’una teoria rivoluzionaria, deve conoscere
le leggi del movimento, deve conoscere le leggi della rivoluzione. Se no,
non è in grado di dirigere la lotta del proletariato, di condurre dietro
a sé il proletariato. Il partito non può essere un vero partito
se si limita a registrare quel che la massa della classe operaia sente e pensa,
se si trascina alla coda del movimento spontaneo, se non sa superare l’inerzia
e l’indifferenza politica del movimento spontaneo, se non sa elevarsi
al disopra degl’interessi momentanei del proletariato, se non sa elevare
le masse al livello degli interessi di classe del proletariato. Il partito
deve porsi alla testa della classe operaia, deve vedere più lontano
della classe operaia, deve condurre dietro a sé il proletariato e non
trascinarsi alla coda del movimento spontaneo. I partiti della II Internazionale,
che predicano il «codismo», sono agenti della politica borghese,
che condanna il proletariato alla funzione di strumento nelle mani della borghesia.
Soltanto un partito che si consideri come reparto di avanguardia del proletariato
e sia capace di elevare le masse al livello degli interessi di classe del
proletariato, soltanto un tale partito è in grado di distogliere la
classe operaia dalla via del tradunionismo e di trasformarla in forza politica
indipendente. Il partito è il capo politico della classe operaia.
Ho già parlato delle difficoltà della lotta della classe operaia,
delle complessità delle condizioni della lotta, della strategia e della
tattica, delle riserve e delle manovre, dell’offensiva e della ritirata.
Queste condizioni non sono meno complesse, se pur non sono più complesse
delle condizioni di una guerra. Chi può orientarsi in queste condizioni,
chi può dare un giusto orientamento a una massa di milioni di proletari?
Non v’è esercito in guerra che possa fare a meno di uno stato
maggiore sperimentato, se non vuole condannarsi alla disfatta. Non è
chiaro che a maggior ragione non può fare a meno di un tale stato maggiore
il proletariato, se non vuol darsi in pasto al suo nemico giurato? Ma dove
è questo stato maggiore? Questo stato maggiore può essere soltanto
il partito rivoluzionario del proletariato. La classe operaia, senza un partito
rivoluzionario, è un esercito senza stato maggiore. Il partito è
lo stato maggiore di lotta del proletariato.
Ma il partito non può essere solo un reparto di avanguardia. Esso deve
essere in pari tempo, un reparto, una parte della classe operaia, parte intimamente
legata ad essa con tutte le fibre della sua esistenza. La distinzione fra
l’avanguardia e la restante massa della classe operaia, fra i membri
del partito e i senza partito, non può scomparire fino a che non saranno
scomparse le classi, fino a che il proletariato si accrescerà di elementi
provenienti da altre classi, fino a che la classe operaia, nel suo insieme,
sarà privata della possibilità di elevarsi al livello del reparto
d’avanguardia. Ma il partito cesserebbe di essere il partito se questa
distinzione si trasformasse in rottura, se esso si racchiudesse in se stesso
e si distaccasse dalle masse senza partito. Il partito non può dirigere
la classe se non è legato con le masse senza partito, se non esiste
una saldatura tra il partito e le masse senza partito, se queste masse non
accettano la sua direzione, se il partito non gode tra le masse di un credito
morale e politico. Recentemente sono stati ammessi nel nostro partito duecentomila
nuovi membri operai. Ed è degno di nota che non sono entrati nel partito
da sé, ma, piuttosto, vi sono stati inviati da tutta la rimanente massa
senza partito, che ha partecipato attivamente all’ammissione dei nuovi
membri e senza l’approvazione della quale non sono stati ammessi, in
generale, dei nuovi membri. Questo fatto prova che le grandi masse degli operai
senza partito considerano il nostro partito come il loro partito, il partito
che è loro vicino e familiare, allo sviluppo e al rafforzamento del
quale sono legati i loro interessi vitali e alla direzione del quale essi
affidano volontariamente la loro sorte. Non occorre dimostrare che senza questi
vincoli morali inafferrabili che legano il partito alle masse senza partito,
il partito non potrebbe diventare la forza decisiva della propria classe.
Il partito è parte inseparabile della classe operaia.
Noi siamo - dice Lenin - il partito della classe, e perciò quasi tutta la classe (e, in tempo di guerra, nell’epoca della guerra civile, la classe tutt’intiera) deve agire sotto la direzione del nostro partito, deve stringersi il più saldamente che è possibile attorno al nostro partito. Ma sarebbe “manilovismo” e “codismo” pensare che, in regime capitalista, quasi tutta o tutta la classe possa mai elevarsi alla coscienza e all’attività della propria avanguardia, del proprio partito socialista. Nessun socialista ragionevole ha mai posto in dubbio che, in regime capitalista, neanche l’organizzazione sindacale (più primitiva, più accessibile alla coscienza degli strati arretrati) è in grado di abbracciare quasi tutta o tutta la classe operaia. Dimenticare la distinzione che passa tra il reparto di avanguardia e tutte le masse che gravitano verso di esso, dimenticare il costante dovere del reparto di avanguardia di elevare degli strati sempre più larghi fino a questo livello dell’avanguardia, vorrebbe dire ingannar se stessi, chiudere gli occhi di fronte alla grandiosità dei nostri compiti, restringere questi compiti (vedi vol. VI, pp. 205-206).
2) Il partito, reparto organizzato della classe operaia. Il partito non è
soltanto il reparto diavanguardia della classe operaia. Se vuole effettivamente
dirigerne la lotta, esso dev’essere in pari tempo anche il reparto organizzato
della propria classe. In regime capitalista i compiti del partito sono straordinariamente
grandi e vari. Il partito deve dirigere la lotta del proletariato in condizioni
straordinariamente difficili di sviluppo interno ed esterno, deve condurre
il proletariato all’offensiva quando la situazione esige l’offensiva,
deve sottrarre il proletariato ai colpi di un avversario potente quando la
situazione esige la ritirata, deve infondere in masse di milioni di operai
senza partito, disorganizzati, lo spirito di disciplina e di metodo nella
lotta, lo spirito d’organizzazione e la fermezza. Ma il partito può
adempiere questi compiti soltanto se esso stesso è la personificazione
della disciplina e dell’organizzazione, se esso stesso è un repartoorganizzato
del proletariato. Senza queste condizioni, non si può nemmeno parlare
di una vera direzione, da parte del partito, di milioni di proletari. Il partito
è il reparto organizzato della classe operaia.
Il concetto del partito, come di un tutto organizzato, è stato fissato
nella nota formulazione data da Lenin al primo articolo dello statuto del
nostro partito, dove il partito viene considerato come lasomma delle sue organizzazioni
e membri di partito vengono considerati i membri di una delle organizzazioni
del partito. I menscevichi, che già nel 1903 si opponevano a questa
formula, proponevano in cambio di essa un «sistema» di autoadesione
al partito, un «sistema» di estensione dell’«appellativo»
di membro del partito a ogni «professore» e «studente»,
a ogni a simpatizzante» e «scioperante», che sostenesse
il partito in un modo o nell’altro, pur senza aderire e senza voler
aderire ad alcuna delle organizzazioni del partito. Non occorre dimostrare
che questo «sistema» originale, se fosse prevalso nel nostro partito,
avrebbe inevitabilmente portato a un’invasione del partito da parte
di professori e di studenti, lo avrebbe fatto degenerare in una «entità»
mal definita, amorfa, disorganizzata, sommersa dalla marea dei «simpatizzanti»,
che avrebbe cancellato ogni frontiera tra il partito e la classe e sarebbe
venuta meno al compito di elevare le masse disorganizzate al livello dell’avanguardia.
Nè occorre dire che, con un tale «sistema» opportunista,
il nostro partito non avrebbe potuto adempiere la sua funzione di nucleo organizzatore
della classe operaia nel corso della nostra rivoluzione.
Secondo il punto di vista di Martov (34) - dice Lenin - le frontiere del partito
restano assolutamente indeterminate, poiché «ogni scioperante»
può «dichiararsi membro del partito». Quale utilità
presenta questo amorfismo? La larga diffusione di un «appellativo».
Il danno ch’essa reca è di dar corso all’idea disorganizzatrice
della confusione della classe col partito (vedi vol. VI, p. 211).
Ma il partito non è solo lasomma delle organizzazioni di partito. Il partito è in pari tempo ilsistema unico di queste organizzazioni, la loro unione formale in un tutto unico, nel quale esistono organi di direzione superiori e inferiori, nel quale esiste una sottomissione della minoranza alla maggioranza, nel quale esistono delle decisioni pratiche, obbligatorie per tutti i membri del partito. Senza questa condizione, il partito non è in grado di essere un tutto unico organizzato, capace di assicurare una direzione organizzata e sistematica della lotta della classe operaia.
Prima - dice Lenin - il nostro partito non era un tutto formalmente organizzato, ma soltanto una somma di gruppi particolari, e perciò tra questi gruppi non potevano esservi altri rapporti che di influenza ideologica. Oggi siamo diventati un partito organizzato, e questo significa creazione di un potere, trasformazione del prestigio delle idee nell’autorità del potere, sottomissione delle istanze inferiori del partito alle istanze superiori (vedi vol. VI, p. 291).
Il principio della sottomissione della minoranza alla maggioranza, il principio
della direzione del lavoro del partito da parte del centro provoca non di
rado attacchi da parte degli elementi instabili, accuse di «burocratismo»,
di «formalismo», ecc. Non occorre dimostrare che, se non venissero
applicati questi princìpi, il partito, come un tutto unico, non potrebbe
lavorare sistematicamente, nè dirigere la lotta della classe operaia.
Nel campo dell’organizzazione, il leninismo è l’applicazione
inflessibile di questi princìpi. La lotta contro questi princìpi
Lenin la chiama «nichilismo russo» e «anarchismo da gran
signore», degno di esser deriso e respinto.
Ecco che cosa dice Lenin di questi elementi instabili nel suo libro Un passo
avanti:
Quest’anarchismo da gran signore è caratteristico del nichilista russo. L’organizzazione del partito sembra a costui una «fabbrica» mostruosa; la sottomissione della parte al tutto e della minoranza alla maggioranza gli appare come una «servitù»... la divisione del lavoro, sotto la direzione di un centro, gli fa lanciare degli strilli tragicomici contro la trasformazione degli uomini in «viti e rotelle»..., la sola menzione dello statuto di organizzazione del partito suscita in lui una smorfia sdegnosa e la sprezzante... osservazione che si potrebbe benissimo anche fare a meno dello statuto.... È chiaro, mi pare, che gli strilli contro il famoso burocratismo non servono ad altro che a mascherare il malcontento per la composizione personale degli organismi centrali, non sono che una foglia di fico... Tu sei un burocrate, perché sei stato nominato dal Congresso non con il mio consenso, ma contro di esso; tu sei un formalista perché ti appoggi sulle decisioni formali del congresso e non sul mio consenso; tu agisci in modo brutale e meccanico, perché. ti richiami alla maggioranza «meccanica» del congresso del partito e non tieni conto del mio desiderio di essere cooptato; tu sei un autocrate, perché non vuoi rimettere il potere nelle mani della vecchia cricca* (vedi vol. VI, pp. 310 e 287).
3) Il partito, forma suprema dell’organizzazione di classe del proletariato.
Il partito è il reparto organizzato della classe operaia. Ma il partito
non è l’unica organizzazione della classe operaia. Il proletariato
ha tutta una serie di altre organizzazioni, senza le quali non può
lottare con successo contro il capitale: sindacati, cooperative, organizzazioni
di fabbrica e di officina, gruppi parlamentari, associazioni di donne senza
partito, stampa, organizzazioni culturali, educative, federazioni giovanili,
organizzazioni rivoluzionarie di combattimento (durante le grandi battaglie
rivoluzionarie), Soviet dei deputati come forma di organizzazione statale
(se il proletariato è al potere), ecc. L’enorme maggioranza di
queste organizzazioni non sono organizzazioni di partito e soltanto una parte
di esse aderiscono direttamente al partito o ne sono una ramificazione. Tutte
queste organizzazioni sono, in condizioni determinate, assolutamente necessarie
alla classe operaia, perché senza di esse è impossibile consolidare
le posizioni di classe del proletariato nei diversi campi della lotta, perché
senza di esse è impossibile temprare il proletariato come forza chiamata
a sostituire all’ordine borghese l’ordine socialista. Ma come
organizzare una unità di direzione, data una tale abbondanza di organizzazioni?
Dov’è la garanzia che l’esistenza di una molteplicità
di organizzazioni non renderà la direzione incoerente? Si potrebbe
rispondere che ognuna di queste organizzazioni fa il suo lavoro nel campo
che le è proprio e che, per conseguenza, esse non possono disturbarsi
a vicenda. Questo naturalmente, è vero. Ma è anche vero che
tutte queste organizzazioni devono lavorare in una sola direzione, perché
esse servono una sola classe, la classe dei proletari. Si domanda: chi determina
la linea, la direzione comune, secondo la quale tutte queste organizzazioni
debbono svolgere il loro lavoro? Qual è l’organizzazione centrale
che non solo è capace, possedendo la necessaria esperienza, di elaborare
questa linea comune, ma ha anche la possibilità, possedendo il prestigio
sufficiente per farlo, di stimolare tutte queste organizzazioni e mettere
in pratica questa linea allo scopo di realizzare l’unità di direzione
e di escludere la possibilità di incoerenze?
Quest’organizzazione è il partito del proletariato. Il partito
ha tutti i requisiti per questa funzione, perché in primo luogo, il
partito è il punto attorno al quale si raccolgono i migliori elementi
della classe operaia, che hanno legami diretti con le organizzazioni proletarie
senza partito e molto spesso le dirigono; perché, in secondo luogo,
il partito. come punto attorno al quale si raccolgono i migliori elementi
della classe operaia, è la scuola migliore per la formazione di capi
della classe operaia capaci di dirigere tutte le forme di organizzazione della
loro classe: perché in terzo luogo, il partito, in quanto è
la scuola migliore dei capi della classe operaia, è per la sua esperienza
e per il suo prestigio l’unica organizzazione capace di centralizzare
la direzione della lotta del proletariato e di trasformare quindi le organizzazioni
operaie senza partito, di qualsiasi genere esse siano, in organi ausiliari
e in cinghie di trasmissione che lo colleghino con la classe. Il partito è
la forma suprema dell’organizzazione di classe del proletariato.
Questo non significa, s’intende, che le organizzazioni senza partito,
i sindacati, le cooperative, ecc., debbano essere formalmente subordinate
alla direzione del partito. La sola cosa che importa è che i membri
del partito che fanno parte di queste organizzazioni e vi esercitano, senza
dubbio, un’influenza, prendano tutte le misure di persuasione affinché
le organizzazioni senza partito si avvicinino nel loro lavoro al partito del
proletariato e accettino di buon grado la sua direzione politica.
Ecco perché Lenin dice che il partito è «la forma suprema
dell’unione di classe dei proletari» e che la sua direzione politica
deve estendersi a tutte le altre forme di organizzazione del proletariato
(vedi vol. XXV, p. 194).
Ecco perché la teoria opportunista dell’«indipendenza»
e «neutralità» delle organizzazioni senza partito, teoria
che genera i parlamentari indipendenti e i giornalisti distaccati dal partito,
i militanti sindacali gretti e i cooperatori imborghesiti, è assolutamente
incompatibile con la teoria e con la pratica del leninismo.
4) Il partito, strumento della dittatura del proletariato. Il partito è
la forma suprema di organizzazione del proletariato. Il partito è il
fattore essenziale di direzione in seno alla classe dei proletari etra le
organizzazioni di questa classe. Ma da questo non deriva affatto che il partito
si possa considerare come fine a sé, come forza sufficiente a se stessa.
Il partito non è solo la forma suprema dell’unione di classe
dei proletari, esso è, in pari tempo, unostrumento nelle mani del proletariato
per la conquistadella dittatura, quando questa non è ancora stata conquistata,
per il consolidamento e l’estensione della dittatura, quando questa
è già stata conquistata. Il partito non avrebbe potuto acquistare
un’importanza così grande, nè prevalere su tutte le altre
forme di organizzazione del proletariato, se il proletariato non si fosse
trovato davanti al problema del potere, se le condizioni esistenti nel periodo
dell’imperialismo, l’inevitabilità delle guerre, l’esistenza
della crisi, non avessero richiesto la concentrazione di tutte le forze del
proletariato in un sol punto, l’accentramento in un sol punto di tutti
i fili del movimento rivoluzionario, allo scopo di rovesciare la borghesia
e conquistare la dittatura del proletariato. Il partito è necessario
al proletariato prima di tutto come stato maggiore di combattimento indispensabile
per la conquista vittoriosa del potere. È superfluo dimostrare che
senza un partito capace di raccogliere attorno a sé le organizzazioni
di massa del proletariato e di centralizzare nel corso della lotta la direzione
dell’assieme del movimento, il proletariato in Russia non avrebbe potuto
instaurare la sua dittatura rivoluzionaria.
Ma il partito è necessario al proletariato non solo per la conquista
della dittatura; ancor più esso gli è necessario per mantenere
la dittatura, per consolidarla ed estenderla, nell’interesse della vittoria
completa del socialismo.
È certo - dice Lenin - che ormai quasi tutti vedono che i bolscevichi non si sarebbero mantenuti al potere, non dico due anni e mezzo, ma nemmeno due mesi e mezzo, se non fosse esistita una disciplina severissima, veramente ferrea, nel nostro partito, se il partito non avesse avuto l’appoggio totale e pieno di abnegazione di tutta la massa della classe operaia, cioè di tutto quanto vi è in essa di pensante, di onesto, di devoto sino all’abnegazione, di influente e capace di condurre dietro a sé o attirare gli strati arretrati (vedi vol. XXV, p. 173).
Ma che cosa significa «mantenere» ed «estendere»
la dittatura? Significa infondere in masse di milioni di proletari lo spirito
di disciplina e di organizzazione proletaria; significa creare nelle masse
proletarie una coesione, una barriera contro le influenze deleterie del carattere
piccolo-borghese e delle abitudini piccolo-borghesi; significa rafforzare
il lavoro di organizzazione dei proletari per la rieducazione e la trasformazione
degli strati piccolo-borghesi, significa aiutare le masse proletarie a educare
se stesse come forza capace di sopprimere le classi e di preparar le condizioni
per l’organizzazione della produzione socialista. Ma realizzare tutto
questo non è possibile senza un partito forte per la sua coesione e
la sua disciplina.
La dittatura del proletariato - dice Lenin - è una lotta tenace, cruenta
e incruenta, violenta e pacifica, militare ed economica, pedagogica e amministrativa,
contro le forze e le tradizioni della vecchia società. La forza dell’abitudine
di milioni e decine di milioni di uomini è la più terribile
delle forze. Senza un partito di ferro, temprato nella lotta, senza un partito
che goda la fiducia di tutto quanto vi è di onesto nella sua classe,
senza un partito che sappia osservare lo stato d’animo delle masse e
influenzarlo, è impossibile condurre con successo una lotta simile
(vedi vol. XXV, p. 90).
Il partito è necessario al proletariato per conquistare e mantenere
la dittatura. Il partito è lo strumento della dittatura del proletariato.
Da questo deriva che, con la scomparsa della classi, con l’estinguersi
della dittatura del proletariato, deve estinguersi anche il partito.
5) Il partito, unità di volontà, incompatibile con l’esistenza di frazioni. La conquista e il mantenimento della dittatura del proletariato non sono possibili senza un partito forte per la sua coesione e la sua disciplina di ferro. Ma una disciplina ferrea nel partito non è concepibile senza unità di volontà, senza una completa e assoluta unità di azione di tutti i membri del partito. Ciò non significa, naturalmente, che in questo modo si escluda la possibilità di una lotta di opinioni in seno al partito. Al contrario, la disciplina ferrea non esclude, anzi presuppone la critica e la lotta di opinioni in seno al partito. A maggior ragione ciò non significa che la disciplina debba esser «cieca». Al contrario, la disciplina ferrea non esclude, anzi presuppone la coscienza e la volontarietà della sottomissione, perché solo una disciplina cosciente può essere effettivamente una disciplina ferrea. Ma finita la lotta di opinioni, esaurita la critica, presa una decisione, l’unità di volontà e l’unità di azione di tutti i membri del partito sono una condizione indispensabile, senza la quale non sono concepibili nè un partito unito, nè una disciplina ferrea nel partito.
Nell’epoca attuale di guerra civile acuta - dice Lenin - il partito comunista potrà adempiere il suo dovere soltanto se sarà organizzato nel modo più centralizzato, se vi regnerà una disciplina ferrea, confinante con la disciplina militare, e se il centro del partito sarà un organo autorevole di potere, fornito di ampi poteri che goda la fiducia generale dei membri del partito (Condizioni d’ammissione nell’internazionale Comunista, vedi vol. XXV, pp. 282-283).
Così va intesa la disciplina del partito nelle condizioni di lotta
anteriori alla conquista della dittatura.
Lo stesso si deve dire, ma in grado ancora maggiore, della disciplina del
partito dopo la conquista della dittatura.
Chi indebolisce, sia pur di poco - dice Lenin - la disciplina ferrea del partito del proletariato (soprattutto durante la dittatura del proletariato) aiuta in realtà la borghesia contro il proletariato (vedi vol. XXV, p. 190).
Ne consegue che l’esistenza di frazioni non è compatibile nè
con l’unità del partito, nè con la sua disciplina ferrea.
Non occorre dimostrare che l’esistenza di frazioni porta all’esistenza
di parecchi centri, che l’esistenza di parecchi centri significa la
mancanza di un centro comune a tutto il partito, la rottura della volontà
unica, il rilassamento e la disgregazione della disciplina, l’indebolimento
e la decomposizione della dittatura. Certo, i partiti della II Internazionale,
che lottano contro la dittatura del proletariato e non vogliono condurre i
proletari al potere, possono permettersi un liberalismo come quello di dare
libertà alle frazioni, perché essi non hanno affatto bisogno
di una disciplina ferrea. Ma i partiti dell’Internazionale Comunista,
che organizzano il loro lavoro in considerazione dei compiti della conquista
e del rafforzamento della dittatura del proletariato, non possono accettare
nè «liberalismo», nè libertà di frazioni.
Il partito è un’unità di volontà che esclude ogni
frazionismo, ogni divisione di poteri nel partito.
Di qui i chiarimenti di Lenin circa il «pericolo del frazionismo dal
punto di vista dell’unità del partito e della realizzazione dell’unità
di volontà dell’avanguardia del proletariato, come condizione
essenziale del successo della dittatura del proletariato», chiarimenti
fissati in una risoluzione speciale del X Congresso del nostro partito: Sull’unità
del partito.
Di qui l’esigenza di Lenin circa «la soppressione completa di
ogni frazionismo», e «lo scioglimento immediato di tutti, senza
eccezione, i gruppi formatisi sulla base di questa o di quella piattaforma»,
sotto pena «d’immediata e incondizionata espulsione dal partito»
(Si veda la risoluzione: Sull’unità del partito).
6) Il partito si rafforza, epurandosi dagli elementi opportunisti. Fonte
del frazionismo nel partito sono i suoi elementi opportunisti. Il proletariato
non è una classe chiusa in sé. Affluiscono verso di esso continuamente
degli elementi, proletarizzati dallo sviluppo del capitalismo, provenienti
dai contadini, dai piccoli borghesi, dagli intellettuali. Nello stesso tempo
si svolge un processo di decomposizione degli strati superiori del proletariato,
composti principalmente di funzionari sindacali e di parlamentari che la borghesia
corrompe, servendosi dei soprapprofitti coloniali. «Questo strato di
operai imborghesiti - diceva Lenin -questa “aristocrazia operaia”
completamente piccolo-borghese, per il suo genere di vita, per l’entità
dei suoi guadagni, per tutta la sua concezione del mondo, è l’appoggio
principale della II Internazionale e oggi costituisce il principale sostegno
sociale (non militare) della borghesia. Si tratta infatti di veri agenti della
borghesia nel movimento operaio, di commessi operai della classe dei capitalisti,
di veri e propri veicoli del riformismo e dello sciovinismo»*.
Tutti questi gruppi piccolo-borghesi penetrano in un modo o nell’altro
nel partito, portandovi lo spirito dell’esitazione e dell’opportunismo,
lo spirito della disgregazione e dell’incertezza. Essi sono pure la
fonte principale del frazionismo e della disgregazione, la fonte della disorganizzazione
e della demolizione del partito dall’interno. Fare la guerra all’imperialismo
avendo alle spalle simili «alleati», significa trovarsi nella
posizione di gente che è presa a fucilate da due parti: di fronte e
alle spalle. Perciò la lotta spietata contro questi elementi, la loro
espulsione dal partito, è condizione pregiudiziale del successo della
lotta contro l’imperialismo.
La teoria del «superamento» degli elementi opportunisti mediante
la lotta ideologica all’interno del partito, la teoria della «liquidazione
» di questi elementi nel quadro di un unico partito, è una teoria
putrida e pericolosa, che minaccia di condannare il partito alla paralisi
e a un’infermità cronica, che minaccia di dare il partito in
pasto all’opportunismo, che minaccia di lasciare il proletariato senza
partito rivoluzionario, che minaccia di privare il proletariato dell’arma
principale nella lotta contro l’imperialismo. Il nostro partito non
avrebbe potuto prender la strada giusta, non avrebbe potuto conquistare il
potere e organizzare la dittatura del proletariato, non sarebbe potuto uscir
vittorioso dalla guerra civile, se avesse avuto nelle sue file dei Martov
e dei Dan, dei Potresov (35) e degli Axelrod (36). Se il nostro partito è
riuscito a creare un’unità interna e una coesione senza pari
delle proprie file, questo dipende prima di tutto dal fatto che ha saputo
liberarsi a tempo del putridume opportunista, che ha saputo cacciare dal proprio
seno i liquidatori e i menscevichi. La via dello sviluppo e del consolidamento
dei partiti proletari passa attraverso la loro epurazione dagli opportunisti
e dai riformisti, dai socialimperialisti e dai socialsciovinisti, dai socialpatrioti
e dai socialpacifisti. Il partito si rafforza epurandosi dagli elementi opportunisti.
Avendo nelle proprie file dei riformisti, dei menscevichi - dice Lenin - non si può far trionfare la rivoluzione proletaria, non si può difenderla. Questo è evidente dal punto di vista di principio. Questo è stato confermato luminosamente dall’esperienza della Russia e dell’Ungheria. In Russia, molte volte vi sono state delle situazioni difficili, nelle quali il regime sovietico sarebbe stato rovesciato di certo, se dei menscevichi, dei riformisti, dei democratici piccolo-borghesi fossero rimasti in seno al nostro partito; ... in Italia, per riconoscimento generale, si avvicinano battaglie decisive del proletariato contro la borghesia, per la conquista del potere statale. In un momento simile, non solo è assolutamente indispensabile allontanare dal partito i menscevichi, i riformisti, i turatiani, ma può esser utile persino allontanare da tutti i posti di responsabilità anche degli eccellenti comunisti, che sono suscettibili di tentennare e manifestano delle esitazioni nel senso dell’ “unità” coi riformisti... Alla vigilia della rivoluzione e nei momenti della lotta più accanita per la vittoria di essa, le minime esitazioni in seno al partito possono perdere tutto, possono far fallire la rivoluzione, strappare il potere dalle mani del proletariato, perché questo potere non è ancora solido, perché l’attacco contro di esso è ancora troppo forte. Se in un momento simile i capi tentennanti si tirano in disparte, questo non indebolisce, ma rafforza e il partito e il movimento operaio, e la rivoluzione (vedi vol. XXV, pp. 462-464).
IX. Lo stile nel lavoro
Non si tratta dello stile letterario. Voglio parlare dello stile nel lavoro,
di quell’elemento particolare e originale nella pratica del leninismo,
che crea il tipo speciale del militante leninista. Il leninismo è una
scuola teorica e pratica, la quale forma un tipo speciale di militante del
partito e dello stato la quale crea uno stile speciale di lavoro, uno stile
leninista. In che cosa consistono i tratti caratteristici di questo stile?
Quali sono le sue particolarità?
Queste particolarità sono due:
a) lo slancio rivoluzionario russo e
b) lo spirito pratico americano. Lo stile del leninismo consiste nell’unione
di queste due particolarità nel lavoro di partito e di stato.
Lo slancio rivoluzionario russo è un antidoto contro l’inerzia,
lo spirito abitudinario e di conservazione, la stagnazione del pensiero, la
sottomissione servile alle tradizioni degli avi. Lo slancio rivoluzionario
russo è una forza vivificatrice che sprona il pensiero, che spinge
in avanti, che distrugge il passato, che dà una prospettiva. Senza
di esso non è possibile nessun movimento in avanti. Ma v’è
ogni probabilità che esso degeneri, all’atto pratico, in un vuoto
manilovismo «rivoluzionario», se non lo si unisce, nel lavoro,
con lo spirito pratico americano. Esempi di una degenerazione simile ce ne
sono a bizzeffe. Chi non conosce la malattia del miracolismo «rivoluzionario»,
della pianomania «rivoluzionaria», che traggono origine dalla
fede cieca nella forza di un decreto, capace di tutto disporre, di tutto trasformare?
Uno scrittore russo, I. Ehrenburg (37), ha descritto, nel suo racconto Uscomcel,
il tipo di un «bolscevico» che, preso da questa malattia, si è
posto il compito di fare lo schema dell’uomo idealmente perfetto e...
s’è «annegato» in questo «lavoro». Nel
racconto v’è molto di esagerato, ma non v’è dubbio
che la malattia vi è ben colta. Mi pare però che nessuno abbia
saputo schernire questo genere di malattia in modo così crudele e implacabile
come Lenin. «Presunzione comunista»: così egli bollava
questa fede morbosa nei progetti miracolosi e nella fabbrica di decreti.
La presunzione comunista - dice Lenin - significa che un individuo che si trova nel partito comunista e non ne è ancora stato espulso immagina di poter assolvere tutti i suoi compiti a colpi di decreti comunisti (vedi vol. XXVII, pp. 50-51).
Alle chiacchiere «rivoluzionarie», Lenin era solito contrapporre cose semplici e di ogni giorno, sottolineando in questo modo che il miracolismo «rivoluzionario» è contrario allo spirito e alla lettera del vero leninismo.
Meno frasi pompose - dice Lenin - più lavoro concreto, quotidiano... Meno cicaleccio politico, più attenzione ai fatti più semplici, ma vivi... dell’edificazione comunista... (vedi vol. XXIV, pp. 343 e 335).
Lo spirito pratico americano è invece l’antidoto contro il manilovismo
«rivoluzionario» e contro il miracolismo fantastico. Lo spirito
pratico americano è una forza indomabile, che non sa e non riconosce
nessuna barriera, che rimuove con la sua tenacia pratica ogni sorta di ostacoli
che, una volta incominciato un lavoro, anche piccolo, non può non portarlo
a termine, una forza senza la quale è inconcepibile un serio lavoro
costruttivo. Ma lo spirito pratico americano ha tutte le probabilità
di degenerare in un affarismo gretto e senza principi se non lo si unisce
con lo slancio rivoluzionario russo. Chi non conosce la malattia del praticismo
ristretto e dell’affarismo senza principi, che porta non di rado certi
«bolscevichi» alla degenerazione e all’abbandono della causa
della rivoluzione? Questa malattia particolare è stata descritta in
un racconto di Pilniak (38), La fame, in cui sono rappresentati dei tipi di
«bolscevichi» russi pieni di volontà e di decisione pratica,
che «funzionano» molto «energicamente», ma non hanno
prospettive, ignorano «il perché e il come» e perciò
smarriscono la via del lavoro rivoluzionario. Nessuno ha schernito in modo
così caustico come Lenin questa malattia dell’affarismo. «Praticismo
gretto» e «affarismo senza testa»: così Lenin bollava
questa malattia. Egli le contrapponeva di solito l’attività rivoluzionaria
vivente e la necessità di avere delle prospettive rivoluzionarie in
tutte le cose del nostro lavoro quotidiano, sottolineando in questo modo che
l’affarismo senza principi è altrettanto contrario al vero leninismo,
quanto lo è il miracolismo «rivoluzionario».
Unione dello slancio rivoluzionario russo con lo spirito pratico americano:
tale è l’essenza del leninismo nel lavoro di partito e di stato.
Solo quest’unione ci dà il tipo completo del militante leninista,
lo stile del leninismo nel lavoro.
Pubblicato per la prima volta nella Pravda nell’aprile-maggio 1924 e, contemporaneamente, nel volume Lenin e il leninismo.
Note:
14. Seconda Internazionale. L'esperienza della Comune di Parigi (1871 e la
dissoluzione della I Internazionale aprirono nella storia del movimento operaio
una fase nuova, che vide il sorgere - fra il 1875 e il 1898 - di numerosi
partiti socialisti: il Partito socialdemocratico tedesco (1875), il Partito
socialista operaio spagnolo (1879), il Partito operaio francese (1880), il
Partito operaio belga (1885), il Partito socialista bulgaro (1891), il Partito
socialista italiano (1892), l'Indipendent Labour Party inglese (1893), il
Partito operaio socialdemocratico russo (1898), e altri.
La necessità di coordinare le varie organizzazioni nazionali al fine
di condurre nel modo più efficace la lotta comune per l'abbattimento
del capitalismo e l'emancipazione della classe operaia portò alla convocazione
del congresso costitutivo della II Internazionale, che si tenne a Parigi il
14 luglio 1889 per iniziativa di Jules Guesde e Paul Lafargue, dirigenti del
partito francese. il successivo congresso, tenutosi a Bruxelles nel 1891,
fu celebrato come la vittoria del marxismo nel movimento operaio dell'epoca,
contro le tendenze proudhoniane ed anarcosindacaliste.
Allo scoppio della prima guerra mondiale la II Internazionale entrò
in crisi, rivelando l'ormai netta prevalenza - al suo interno - delle posizioni
revisioniste e socialscioviniste, che tradirono apertamente l'internazionalismo
proletario e si schierarono in difesa delle varie borghesie imperialiste.
In seguito allo sfacelo della II Internazionale, fu fondata a Mosca il 2/6
marzo 1919 - per iniziativa di Lenin e dei nuovi gruppi e partiti comunisti
- la III Internazionale, che prese il nome di Internazionale Comunista.
15. Karl Kautsky (1854-1938). Compiuti a Vienna i primi studi iniziò
nel 1875 la sua attività di militante socialdemocratico, collaborando
al "Volkstaat" di Wilhelm Liebknecht. Si avvicinò al marxismo
nel 1880, e l'anno dopo conobbe a Londra Marx ed Engels. Fondò nel
1883 a Stoccarda, e diresse fino al 1917, "Die Neue Zeit", la principale
rivista teorico-politica della socialdemocrazia tedesca. Fra il 1885 e il
1890 soggiornò nuovamente a Londra, dove diventò segretario
di Federico Engels.
Rientrato a Stoccarda nel 1890, ebbe l'incarico dalla direzione del Partito
socialdemocratico di redigere la parte teorica del nuovo programma del partito,
approvato nel 1891 dal congresso di Erfurt (e criticato da Engels), che rimase
valido per la socialdemocrazia tedesca fino al 1921 e servì di modello
ad altri partiti della II Internazionale.
Nel corso del grande dibattito sul revisionismo di Bernstein, difese le posizioni
"ortodosse" del marxismo, ma si oppose all'espulsione di Bernstein
dal partito, chiesta da Rosa Luxemburg.
Fino alla prima guerra mondiale fu il maggiore esponente, all'inter- no del
Partito socialdemocratico tedesco, della tendenza centrista, affermando che
la rivoluzione proletaria era storicamente "inarrestabile", ma sostenendo
che l'avvento al potere del proletariato sarebbe avvenuto attraverso la progressiva
democratizzazione del regime borghese. Funzionale a tale scopo sarebbe stata,
secondo Kautsky, la cosiddetta "strategia del logoramento", che
egli contrappose alle posizioni rivoluzionarie della sinistra del partito,
rappresentata da Rosa Luxemburg, Franz Mehring e altri.
Importante fu la sua opera di curatore di varie opere di Marx ed Engels; in
particolare Kautsky curò, dopo la morte di Engels, la pubblicazione
dei manoscritti di Marx noti col nome di Teorie sul plusvalore o Storia delle
teorie economiche (il cosiddetto "Libro IV del Capitale").
Allo scoppio della prima guerra mondiale assunse posizioni socialpacifiste
e nel 1917 avversò con accanimento la Rivoluzione d'Ottobre, la presa
del potere da parte dei bolscevichi e l'esercizio della dittatura proletaria
in Russia, coprendo dietro un formale ossequio all"'ortodossia"
marxista la sua reale rottura con il marxismo. Lenin bollò queste posizioni
kautskiane nel suo celebre opuscolo La rivoluzione proletaria e il rinnegato
Kautsky (1918).
Nel 1917 Kautsky fu uno dei fondatori in Germania, del nuovo Partito Socialdemocratico
Indipendente (USPD), di tendenza centrista. Dopo l'avvento della Repubblica
di Weimar, collaborò nel 1918 con il nuovo ministero degli Esteri tedesco,
presiedendo all'edizione ufficiale dei documenti relativi allo scoppio della
prima guerra mondiale.
Negli ultimi venti anni della sua vita si riconciliò con Bernstein
e diventò il teorico riconosciuto del riformismo socialista europeo;
nel 1923 si ritirò in Austria, dove pubblicò le sue ultime opere.
Fra i suoi scritti principali si ricordano: Karl Marx' okonomische Lehren
(Le dottrine economiche di Karl Marx) , 1887; Vie Agrarfrage (La questione
agraria), 1890; Das Erfurter Programm in seinen grundsatzlichen Teil erlautert
(Il programma di Erfurt spiegato nelle sue parti fondamenentali), 1892; Bernstein
und das sozialdemokratische Programm (Bernstein e il programma socialdemocratico),
1899; Die soziale Revolution (La rivoluzione socIale), 1903; Der Weg zur Macht
(La via al potere), 1909; Die Diktatur des Proletaliats (La dittatura del
proletariato), 1918; Demokratie und Diktatur (Democrazia edittatura), 1918;
Die Internationale und Sowjetrussland (L'Internazionale e la Russia sovietica),
1925; Die materialistische Geschichtsauffassung (La concezione materialistica
della storia), 2 voll., 1927.
16. Augìa. Re dell’Elide. La ripulitura delle stalle di Augia fu celebrata nel mito greco, come la sesta delle dodici fatiche di Ercole, il quale eseguì in un solo giorno il compito affidatogli, deviando il corso del fiume Alfeo e facendone passare le acque attraverso le stalle.
17.Georgi Valentinovic Plekhanov (1856-1918). Nato da una famiglia di piccoli
proprietari terrieri, fu avviato alla carriera militare, che ben presto abbandonò
per dedicarsi all'attività rivoluzionaria. Aderì al movimento
populista, ma quando in questo prevalsero le tendenze favorevoli al terrorismo
individuale, si orientò verso le posizioni dei sostenitori di una rivoluzione
sociale da realizzarsi attraverso lo sviluppo di organizzazioni operaie e
fondò, nel 1887, la Lega dei lavoratori della Russia settentrionale.
Nel 1880 lasciò la Russia per sottrarsi alla repressione zarista e
si stabilì in Svizzera, dove entrò in contatto col movimento
operaio occidentale, maturando la sua definitiva adesione al marxismo teorico.
Nel 1882 fu il primo traduttore in russo del Manifesto del Partito comunista
di Marx ed Engels. Nel 1883 fondò a Ginevra, insieme a Pavel Akselrod
e Vera Zasulic, il "Gruppo per l'emancipazione del lavoro" (la prima
organizzazione socialdemocratica russa), traducendo altre importanti opere
di Marx ed Engels, svolgendo un imponente lavoro di analisi e di divulgazione
della teoria marxista polemizzando con i populisti e con i "marxisti
legali" russi, col neokantismo, col revisionismo di Bernstein, con l'empiriocriticismo
di Bogdanov, e intervenendo attivamente sulla stampa dei partiti socialisti
di Germania, Francia, Belgio, Inghilterra, Italia e Svizzera.
Dopo la costituzione, nel 1898, del Partito Operaio Socialdemocratico russo,
si incontrò nel 1900 a Ginevra con Lenin e fondò- insieme a
lui e a Martov - l'''Iskra'' e la "Zarià" . Nel 1903, al
secondo congresso della socialdemocrazia russa in cui si profilò per
la prima volta la divisione fra bolscevichi e menscevichi, stette dalla parte
di Lenin nella lotta contro gli economicisti, ma si oppose alla concezione
leninista del partito basata su un rigoroso centralismo democratico.
Di lì a poco avvenne il distacco di Plekhanov da Lenin e il suo passaggio
alle posizione mensceviche: sui fondamentali problemi della strategia e della
tattica della rivoluzione russa, Plekhanov sostenne la necessità -
per il proletariato - di allearsi, nell'imminente rivoluzione democratica,
con la borghesia liberale e non con le masse contadine sfruttate e oppresse.
Dopo l'insurrezione di Mosca del dicembre 1905, repressa sanguinosamente dallo
zar, affermò opportunisticamente che "non bisognava prendere le
armi"; non seguì il gruppo dei "liquidatori", ma continuò
a ritenere il proletariato russo non ancora sufficientemente evoluto e maturo
per assumere la direzione di una rivoluzione socialista. Nel 1908 fondò
a Ginevra, con Akselrod, Martov e altri dirigenti menscevichi, il "Golos
Sotsialdemokrata" ("La voce del socialdemocratico").
Allo scoppio della prima guerra mondiale assunse posizioni socialscioviniste
di "difesa della patria" e, dopo la rivoluzione di febbraio del
1917, sostenne la politica di Kerenskij mirante a proseguire la guerra contro
la Germania. Fu contrario alla presa del potere da parte dei bolscevichi,
considerando la Rivoluzione d'Ottobre un gravissimo errore e ironizzando sul
programma leninista, così il pioniere del marxismo in Russia si trovò,
al termine della sua vita, nel campo dei nemici della rivoluzione proletaria.
Morì il 31 maggio 1918 in un sanatorio finlandese. Fra le sue opere
principali: Il socialismo e la lotta politica (1883): Le nostre divergenze
(1885); Anarchismo e socialismo (1894); Sulla questione dello sviluppo della
concezione monistica della storia (1895); Le questioni fondamentali del marxismo
(1908), Il materialismo militante (1908-10); La funzione della personalità
nella storia (1898); Saggio sulla storia del materialismo (1896); Il movimento
proletario e l'arte borghese (1908); L'arte e la vita sociale (1912); Storia
del pensiero sociale in Russia, 3 volI. (1914-17).
18. Col nome di "menscevichi" (in russo menscevìk=minoritario)
furono chiamati gli appartenenti alla corrente opportunistica piccolo- borghese
della socialdemocrazia russa. Essi furono così denominati perché,
nel II Congresso del Partito Operaio Socialdemocratico russo (che si tenne
a Bruxelles e a Londra nel luglio-agosto 1903), rimasero in minoranza (in
russo menscinstvò) nell'elezione degli organi centrali del partito,
mentre la maggioranza (in russo bolscinstvò) dei voti fu riportata
da Lenin e dai compagni che ne sostenevano le posizioni rivoluzionarie, i
quali - da quel momento - furono chiamati" bolscevichi" (in russo
bolscevìk maggioritario).
Quando, dopo l'effimera unificazione del 1906 fra le due frazioni del POSDR,
avvenne - nel 1912 - la rottura definitiva fra bolscevichi e menscevichi,
e questi ultimi, alla Conferenza di Praga, furono espulsi dal partito, il
termine "bolscevico" fu aggiunto, fra parentesi, al nome del partito
leninista, che da allora si chiamò Partito Operaio Socialdemocratico
russo (bolscevico). L'attributo rimase anche quando, nel 1918, il partito
- su proposta di Lenin - assunse il nuovo nome di Partito Comunista (bolscevico)
di Russia e, successivamente, quello di Partito Comunista (bolscevico) dell'URSS;
fu mantenuto fino al XIX Congresso del 1952, nel quale fu presa la decisione
di non aggiungere più il termine "bolscevico" al nome del
partito.
I principali esponenti del menscevismo russo furono Plekhanov, Akselrod, Martov,
Potresov e Dan.
All'epoca della rivoluzione del 1905, i menscevichi si pronunciarono contro
l'egemonia del proletariato e per l'intesa con la borghesia liberale. Negli
anni della reazione che fece sèguito alla sconfitta della rivoluzione
democratica, molti di loro diventarono dei liquidatori. Dopo la rivoluzione
di febbraio del 1917 entrarono a far parte del governo provvisorio borghese,
ne sostennero la politica imperialista e lottarono contro la rivoluzione proletaria
in sviluppo.
Dopo la Rivoluzione d'Ottobre, che considerarono "prematura", presero
posizione contro il potere sovietico.
19. Noske Gustav (1868-1946), dirigente opportunista del Partito Socialdemocratico
tedesco. Ministro della guerra nel 1919-20, organizzò la repressione
dell'insurrezione di Berlino e l'assassinio dei capi spartachisti Rosa Luxemburg
e Karl Liebknecht.
Scheidemann Philippe (1865-1939), presidente del governo della Repubblica
tedesca di Weimar. Soffocò nel sangue i moti operai spartachisti nel
suo paese. Socialdemocratico di destra.
Mac Donald James R. (1866-1937), dirigente laburista, socialsciovinista.
Henderson Arthur (1863-1935), dirigente laburista e sindacalista, socialsciovinista
all'epoca della I guerra mondiale.
20. "Sulla Scipca regna la calma", espressione russa che allude ad episodi della guerra russo-turca del 1877-1878 e cerca di nascondere le perdite subite. Usata nei comunicati dello stato maggiore del- l'esercito zarista.
21. Ludwig Kugelmann (1828-1902), medico di Hannover, amico di Marx e membro della I Internazionale. Le lettere di Marx a Kugelmann furono pubblicate per la prima volta nel 1902, a cura di Karl Kautsky, su "Die Neue Zeit" (la rivista teorica della socialdemocrazia tedesca), ma non integralmente. Furono omesse 13 lettere su 59, e molte altre vennero pubblicate con tagli di maggiore o minore importanza. Lenin ne sollecitò la traduzione in russo, che uscì nel 1907 a Pietroburgo con una sua prefazione. L'edizione integrale, in lingua tedesca, delle lettere di Marx a Kugelmann fu pubblicata soltanto nel 1940 a Mosca, a cura dell'Istituto di marxismo- leninismo. La lettera di Marx a cui si riferisce Stalin fu inviata da Londra a Kugelmann il 12 aprile 1871, dopo la caduta della Comune di Parigi.
22. Alexandr Fedorovic Kerenskij (1881-1970). Aderì nel 1905 al Partito
socialista-rivoluzionario, schierandosi con la sua ala destra di tendenza
piccolo-borghese. Eletto alla IV Duma nel 1912, guidò il gruppo parlamentare
dei trudoviki ("gruppo del lavoro"), che oscillò continuamente
fra i socialisti-rivoluzionari e i costituzionali-demo- cratici. Dopo la rivoluzione
del febbraio 1917, assunse le cariche di vicepresidente del Soviet di Pietrogrado
e di ministro della giustizia nel governo provvisorio presieduto dal principe
Lvov. Dopo il rimpasto del maggio 1917, nel quale furono esclusi dalla compagine
ministeriale i costituzionali-democratici, fu nominato ministro della guerra
e della marina e diventò la personalità dominante del governo.
Fautore della continuazione della guerra imperialista, impose nel luglio all'esercito
russo (già in pieno disfacimento) una nuova offensiva contro la Germania
e l'Austria-Ungheria, la cosiddetta "offensiva Kerenskij", che finì
in modo disastroso. Il fallimento del- l'operazione provocò l'ammutinamento
della guarnigione di Pietrogrado, che Kerenskij represse sanguinosamente,
mettendo fuori legge il Partito bolscevico e assumendo la presidenza di un
nuovo governo provvisorio.
Con la sua politica opportunista e velleitaria, deluse le speranze delle masse
popolari, rinviando ogni riforma a dopo la convocazione dell' Assemblea Costituente
(che peraltro non convocò mai); minacciò anche di soffocare
"col ferro e col fuoco" ogni movimento rivoluzionario delle masse,
compresi i tentativi dei contadini di impadronirsi delle terre dei grandi
proprietari fondiari.
Dopo il fallimento del tentato colpo di Stato del generale Kornilov, che aveva
coalizzato contro il governo le forze reazionarie di estrema destra, Kerenskij
assunse anche il comando supremo dell'esercito, ma fu travolto - nell'ottobre
1917 - dalla rivoluzione proletaria guidata dal partito di Lenin. Tentò
di riconquistare Pietrogrado alla testa di un contingente di truppe cosacche,
ma fu sconfitto a Gatcina. Completamente screditato, abbandonò la Russia
e si rifugiò dapprima a Parigi e a Londra, poi (nel 1922) negli Stati
Uniti.
Fra i suoi scritti, violentemente anticomunisti, si ricordano: Preludio al
bolscevismo (1919), La rivoluzione russa del 1917 (1928), Memorie: la Russia
alla svolta del secolo (trad. it. 1967).
23. Lavr Georgievic Kornilov (1870-1918). Nato da una famiglia di militari
cosacchi, partecipò nel 1904-05 alla guerra russo-giapponese. Nella
prima guerra mondiale fu prima generale di divisione, poi generale di corpo
d'armata. Nel 1917, dopo la rivoluzione di febbraio e la caduta dello zar
Nicola II, salì ai più alti gradi dell'esercito e nel luglio
1917 ebbe il comando di tutto il fronte occidentale. Entrato in contrasto
con Kerenski, fu destituito.
Preparò allora un colpo di mano controrivoluzionario, si mise a capo
di una piccola armata (la cosiddetta "divisione selvaggia") e marciò
su Pietroburgo. il Partito bolscevico mobilitò le masse popolari e
i reparti armati delle guardie rosse contro il tentativo di colpo di Stato
del generale, senza per questo cessare la lotta contro il governo Kerenskij.
Abbandonato dalle sue truppe a 20 km. dalla capitale, Kornilov fu arrestato
e incarcerato, ma riuscì a fuggire e si rifugiò fra i cosacchi
del Don, organizzò un esercito controrivoluzionario e combatté
contro l'Armata Rossa. Fu ucciso nel 1918 in un attacco condotto contro la
città di Ekaterinodar.
24. Iraklij Georgevic Tsereteli (1882-1959). Menscevico georgiano, fu deputato
alla Duma nel 1907. Deportato in Siberia, ritornò alla vita politica
durante la rivoluzione di febbraio del 1917. Membro del Comitato Esecutivo
del Soviet di Pietrogrado, nel maggio 1917 entrò a far parte del governo
provvisorio borghese, prima come ministro
delle Poste e poi come ministro dell'Interno, organizzando - in tale veste
-la persecuzione nei confronti dei bolscevichi. Dopo la Rivoluzione d'Ottobre
si rifugiò in Georgia, dove presiedette il governo menscevico controrivoluzionario
di quella repubblica fino al dicembre 1920. Nel 1921 emigrò a Parigi.
25. Renaudel PieTre (1871-1935), uno dei capi riformisti del Partito socialista francese. All'epoca della seconda guerra mondiale, socialsciovinista.
26. Victor Michajlovic Cernov (1876-1952). Fu uno dei fondatori, in Russia,
del Partito socialista-rivoluzionario (SR), nel quale rappresentò l'ala
destra.
Durante la prima guerra mondiale fece parte della delegazione russa alla conferenza
di Zimmerwald (1915), sostenendovi posizioni socialpacifiste.
Caduto lo zarismo nel febbraio 1917, fu per alcuni mesi ministro dell'Agricoltura
nel governo provvisorio, dal quale si dimise per non essere riuscito a far
approvare un suo progetto di riforma agraria; nel periodo della sua permanenza
al governo, condusse una politica di dura repressione contro i contadini che
si impadronivano delle terre dei grandi proprietari fondiari.
Dopo la Rivoluzione d'Ottobre, presiedette l'Assemblea Costituente russa nei
due giorni della sua effimera esistenza (18 e 19 gennaio 1918), difendendo
la legalità borghese contro la democrazia rivoluzionaria dei Soviet.
Dopo il decreto di scioglimento della Costituente, emigrò prima a Parigi
e poi (nel 1940) a New York.
27. Fiodor I. Dan (1871-1947). Fu, insieme a Martov, uno dei principali dirigenti menscevichi. Dopo la sconfitta della rivoluzione del 1905, fu il capo dei liquidatori all'estero, dove diresse il giornale "Golos Sotsial-Dernokrata" ("La voce del socialdemocratico").
28. Clynes Jobn Robert (1869-1949), dirigente del Partito laburista inglese.
29. Aleksandr VasiljevicKolciak (1873-1920). Ammiraglio russo. Partecipò
nel 1905 alla guerra russo-giapponese e comandò, nella prima guerra
mondiale, la flotta del Mar Nero. Dopo la Rivoluzione d'Ottobre espatriò
in Giappone, da dove raggiunse Omsk, in Siberia, sede di un governo provvisorio
antibolscevico. Qui, il 18 novembre 1917, con un colpo di Stato si proclamò
comandante supremo di tutte le forze armate bianche.
Forte di un esercito di 150.000 uomini, messo insieme con l'aiuto delle potenze
imperialiste occidentali (e, in particolar modo, della Francia), riuscì
in breve tempo a impadronirsi di tutto il territorio siberiano, minacciando
Samara e Kazan.
Si pose apertamente l'obbiettivo di restaurare il regime zarista e di restituire
le terre agli agrari, attirandosi l'odio della popolazione, che fu da lui
sottoposta a durissimi provvedimenti repressivi. Sconfitto da Frunze a Samara
nell'aprile 1919 e rifugiatosi a Irkutsk, fu fatto prigioniero dalle truppe
sovietiche e fucilato.
30. Anton Ivanovic Denikin (1872-1947). Generale russo che, dopo la rivoluzione
di febbraio del 1917, fu posto a capo del fronte nordoccidentale. Avendo preso
parte al tentativo di colpo di Stato del generale Kornilov, venne arrestato,
ma - dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi - riuscì a fuggire
e a raggiungere Kornilov nel bacino del Don, dove il generale Alekseev stava
organizzando un esercito bianco.
Ne assunse il comando dopo la morte di Kornilov e, con l'appoggio dei cosacchi
del Kuban, invase l'Ucraina, impadronendosi di Charkov, Kiev, Odessa, Orel
e Rostov, dove pose la sede del suo governo controrivoluzionario, aiutato
con denaro e materiale bellico dall'Inghilterra e dalla Francia.
Sconfitto nel novembre 1917 dall'"armata a cavallo" del generale
Budienny, Denikin - mentre il suo esercito cominciava a disgregarsi cedette
il comando a Wrangel e si rifugiò prima a Costantinopoli, poi in Inghilterra
e in Francia. Nel 1945 emigrò negli Stati Uniti.
31. Nicola II Romanov (1868-1918). Zar di Russia, figlio primogenito di Alessandro
III. Fu incoronato a Mosca nel 1896, con fastosi festeggiamenti che non si
degnò di interrompere quando, nel corso di essi, centinaia di persone
persero la vita in seguito a un incidente avvenuto nei giardini del Palazzo
Imperiale.
Fu fautore di una politica di intesa con le potenze imperialiste occidentali
(Austria e Francia in particolare) per poter sviluppare una politica di espansione
imperialista russa nelle regioni dell'Estremo Oriente (occupazione militare
della Manciuria, costruzioni ferroviarie in Cina). Scontratosi l'imperialismo
russo con quello giapponese, la Russia di Nicola II riportò, nella
guerra del 1904-05, una serie di umilianti sconfitte (a Mukden, a Porth Arthur
e nella battaglia navale di Tsushima).
In politica interna Nicola II represse violentemente i moti popolari con le
fucilazioni in massa e i pogrom antisemiti. Durante la rivoluzione del 1905
- nella tristemente famosa "domenica di sangue" - le autorità
zariste fecero sparare sugli operai che manifestavano pacificamente dinanzi
al palazzo imperiale chiedendo la giornata di otto ore e una Costituzione.
Durante il regno di Nicola II avvenne il decollo industriale della Russia:
Pietroburgo e Mosca diventarono importanti centri produttivi e in Ucraina
si sviluppò la siderurgia. La riforma agraria di Stolypin non migliorò
la condizione della grande massa dei contadini, che divennero sempre più
poveri; si ebbe un vasto esodo dalle campagne verso le città, con un
grande incremento della popolazione urbana, che - fra il 1863 e il 1914 -
passò da 6 milioni a 18 milioni di abitanti. Venne cosi a formarsi
un proletariato urbano fortemente concentrato e combattivo.
L'entrata della Russia nella prima guerra mondiale e le disfatte subite dall'esercito
russo determinarono il crollo del regime zarista, odiato dalla grande maggioranza
della popolazione e profondamento minato al suo interno, fin dal 1912, da
una vigorosa ripresa delle agitazioni operaie.
Nicola II, detto "il sanguinario", fu costretto ad abdicare nel
febbraio 1917. Arrestato nel marzo, fu trasportato con la famiglia imperiale
prima a Tsarskoe Selo e poi a Tobolsk. Dopo la Rivoluzione d'Ottobre fu confinato
a Ekaterinburg, dove il soviet locale, preoccupato per l'avvicinarsi delle
truppe controrivoluzionarie cecoslovacche che avrebbero potuto liberare l'ex
zar e la sua famiglia, ne decretò la condanna a morte, che fu eseguita
nella notte fra il 15 e il 16 luglio 1918.
32. Guglielmo II Hohenzollern (1859-1941), imperatore della Germania.
Giorgio V (1865-1936), re di Gran Bretagna e Irlanda dal 1910. Poincaré
Raimond (1860-1934), presidente del Consiglio e presidente della Repubblica
di Francia (1913-1920).
33. Kapp Wolfgang (1858-1922), nel 1920 diresse un putsch controrivoluzionario per rovesciare la repubblica di Weimar e restaurare la monarchia.
34. Martov. Pseudonimo di Julij Osipovic Cederbaum (1873-1923). Nel 1891
entrò in un circolo rivoluzionario studentesco e nel 1892 fu arrestato
per la prima volta dalla polizia zarista. Dopo aver militato nelle file del
Bund, nell'ottobre-novembre 1895 organizzò insieme a Lenin e ad altri
dirigenti marxisti, l' "Unione di lotta per l'emancipazione della classe
operaia" di Pietroburgo. All'inizio del 1896 fu nuovamente arrestato
e, dopo un periodo di detenzione, confinato per tre anni a Turuchansk. Nd
1901 si trasferì a Monaco di Baviera, dove partecipò attivamente
alla redazione dell"'Iskra" e della "Zarià".
Al IICongresso del POSDR, nel 1903, combatté - alla testa del gruppo
menscevico - la concezione leninista del partito come reparto organizzato
della classe operaia, contrapponendole un modello di partito mal definito
e amorfo, che spalancava le porte agli elementi non disposti a sottomettersi
alla più rigorosa disciplina. Da allora in poi, Martov fu il maggior
ideologo del menscevismo russo. Nella Conferenza menscevica del 1905 sostenne
che, nell'imminente rivoluzione democratica, solo la borghesia liberale avrebbe
potuto esserne l'egemone, e negò la necessità dell'egemonia
del proletariato.
Durante la rivoluzione del 1905 lavorò nel Soviet dei deputati operai
e nella redazione della rivista menscevica "Nacialo" ("Il principio").
Arrestato dalla polizia zarista dopo la sconfitta della rivoluzione ed espulso
dalla Russia, diresse il "Golos Sotsialdemokrata" ("La voce
del socialdemocratico"), sostenendo le posizioni dei liquidatori. Alla
fine del 1913 tornò in Russia e guidò l'ala destra della socialdemocrazia
russa contro i bolscevichi. Durante la prima guerra mondiale capeggiò
il gruppo dei menscevichi-internazionalisti, si oppose alla guerra e partecipò
alle conferenze di Zimmerwald (1915) e di Kienthal (1916).
Dopo la Rivoluzione socialista d'Ottobre prese posizione contro il potere
sovietico. Nel 1920 emigrò in Germania, dove pubblicò il periodico
"Sotsialisticeskij Vestnik" ("Il messaggero socialista")
e fu tra gli animatori della cosiddetta "Internazionale due e mezzo",
di tendenza centrista.
Fra i suoi scritti principali: La lotta proletaria in Russia (1903); Storia
della socialdemocrazia russa (1923); Bolscevismo mondiale (1923).
35. Aleksandr Nikolaevic Potresov (1869-1934). Negli anni novanta del- l'Ottocento aderì al marxismo e nel 1898 fu confinato nel governatorato di Vjatka per aver partecipato all' "Unione di lotta per l'emancipazione della classe operaia" di Pietroburgo. Nel 1900 emigrò all'estero e contribuì, con Plekhanov e Lenin, all'organizzazione dell"'lskra" e della "Zarià". Al II Congresso del POSDR, nel 1903, aderì subito al gruppo menscevico, di cui diventò uno dei maggiori dirigenti. Dopo la sconfitta della rivoluzione del 1905 fu uno dei capi dei "liquidatori" e, durante la prima guerra mondiale, un esponente dei socialsciovinisti. Nel 1925 lasciò la Russia, continuando - fra gli emigrati bianchi -la sua politica di ostilità al bolscevismo.
36. Pavel Borisovic Akselrod (1850-1928). Uno dei maggiori teorici e dirigenti del menscevismo. Dopo essere stato un seguace dell'anarchismo di Bakunin, nel 1879 - in seguito alla scissione dell'organizzazione populista "Zemlja i Volja" ("Terra e libertà") - aderì al gruppo "Cernyi peredel" ("Distribuzione generale"). Nel 1883 fondò in Svizzera, con Plekhanov e Vera Zasulic, il "Gruppo per l'emancipazione del lavoro". Nel 1903, al II Congresso del POSDR, si schierò con la minoranza menscevica, avversò le posizioni di Lenin e fu sempre un accanito avversario del bolscevismo. Dopo la Rivoluzione socialista d'Ottobre, propagandò - dall'estero - l'idea di un intervento armato contro la Russia sovietica.
37. Ehrenburg Ilja (1891-1967), scrittore sovietico di indirizzo realistico.
38. Pilniàk Boris (1894-1938), scrittore Russo.