Biblioteca Multimediale Marxista
Le Brigate Rosse non sono un fenomeno isolato spuntato come un fungo agli inizi degli anni Settanta. Il dissenso politico che è alla base della nascita e dello sviluppo di formazioni armate di questo tipo trae origine dal convincimento, da parte di operai, studenti, lavoratori, di essere stati traditi dalla direzione politica che storicamente li rappresenta, dal bisogno di comunismo e di uguaglianza rimasto frustrato. Il fenomeno, chiamato "estremismo" oppure "massimalismo" oppure "avventurismo," merita un posto di riguardo nella tradizione storica del movimento operaio italiano, essendone sotto diverse forme una costante, a volte anche maggioritaria. È impossibile, pertanto, parlare delle BR, o di altre formazioni analoghe, precedenti o contemporanee, senza riandare a quelle che ne sono le radici storiche.
Volendo soffermarsi solo ai precedenti meno remoti, si può
osservare che fino dalla svolta di Salerno (1944) è presente e si esprime
nelle forme piú varie l'opposizione a quello che viene ritenuto un atteggiamento
di rinuncia. Imposta dall'URSS al PCI, nel quadro di un processo di suddivisione
del mondo in sfere di influenza, che vede nelle conferenze di Yalta e di Teheran
due importanti tappe, la nuova linea di alleanza con la monarchia Sabauda viene
pubblicizzata dalle Isvetsie prima ancora di essere conosciuta in Italia. Trova
avversari abbastanza morbidi nei piú alti responsabili del PCI interno.
Tranne qualche impennata di breve durata, come nel caso di Scoccimarro,[1] o
qualche distinguo di Longo, Secchia, Li Causi, Pajetta, viene accettata da tutti
gli altri dirigenti che pure (tranne pochissime eccezioni: Amendola, Novella,
Negarville e, naturalmente, Togliatti, peraltro non presente in Italia) non
la condividevano.[2]
Osteggiata anche da altre forze della Resistenza (Giustizia e Libertà
e socialisti), soprattutto non viene digerita dagli strati piú popolari
abituati a vedere nel re e in Badoglio due nemici e insofferenti a sopportarli
nel ruolo di "alleati."
Manifestazioni di dissenso nascono un po' dovunque: si esprimono larvatamente
con scritte sui muri o, piú spesso, con canzoni (per esempio La Badoglieide).
Non mancano tuttavia altre forme di opposizione piú radicali, seppellite
dalla storiografia ufficiale. Due sono particolarmente importanti. La prima
esprime il dissenso "organizzato," la seconda quello "spontaneo."
A Torino nel 1944 si pubblica "Stella Rossa" che si dichiara "organo del PCI di cui rappresenta la corrente critica dal punto di vista della classe" e che scrive: "Non basta [...] ricostruire lo stato borghese antifascista, ma occorre invece costituire la repubblica sovietica italiana." Con estrema durezza replica Pietro Secchia che, nell'articolo Sinistrismo maschera della Gestapo!, accusa senza mezzi termini i compagni di "Stella Rossa" di essere bordighisti al servizio della polizia fascista. Tuttavia, a dispetto delle incaute considerazioni di Secchia, l'intero movimento rientrerà a febbraio del 1945 nel PCI, dove sarà bene accetto, portando, se non altro, un notevole contributo di uomini: "Stella Rossa" contava nel 1944 a Torino 2.000 aderenti mentre il PCI ne contava 5.000.[3]
L'altro episodio rilevante accade a Ragusa nel 1945, quando
la popolazione scende in piazza per lottare contro il re, gli angloamericani,
e il servizio militare obbligatorio. In quest'occasione, alla guida della lotta
si pone la locale federazione del PCI, che in tal modo contravviene alle indicazioni
del partito trasmesse da Li Causi.
Per quattro giorni, dal 4 al 7 gennaio del 1945, la battaglia armata infuria.
Vengono occupati quasi tutti gli edifici pubblici. La rivolta, estesa alle vicine
Naro, Agrigento, Monterosso, Vittoria, Comiso e Giarratana, provoca 18 morti
tra soldati e carabinieri e 19 tra i manifestanti.
Il 9 gennaio 1945 "l'Unità" sconfessa gli stessi militanti
della locale federazione del PCI: "Rigurgiti della reazione fascista. I
latifondisti siciliani contro il popolo e contro l'Italia."[4]
Finita la guerra la Resistenza continua, a dispetto del decreto
sullo scioglimento dei corpi partigiani e sulla restituzione delle armi. La
mancata epurazione provoca profonda delusione tra gli antifascisti, anche i
piú moderati: "Il bilancio dell'epurazione, non è il caso
di dissimularcelo, lascia tutti insoddisfatti," scrive Silone sull`Avanti!"[5]
Non solo, ma i pochi fascisti incarcerati vengono via via liberati. A Schio,
una zona del vicentino nella quale era stata particolarmente cruenta la lotta
ed alto il prezzo pagato dai partigiani,[6] i fascisti continuano ad avere,
dopo il 25 aprile, la vita facile: "I tribunali del luogo e di Vicenza,
le autorità di polizia sono [...] straordinariamente indulgenti verso
i fascisti [...]. Ne avevano già scarcerati 300 e promettevano ai rimanenti
che presto sarebbe giunto il loro turno.”[7]
È a questo punto che alcuni partigiani ritengono sia il momento di praticare
in prima persona la "giustizia popolare."
La notte del 6 luglio 1945 alcuni compagni penetrano nel carcere di Schio. Dopo
aver separato i prigionieri comuni dai politici e istruito un sommario processo
ai detenuti fascisti, giustiziano a raffiche di mitra quelli ritenuti piú
colpevoli. Il risultato: 53 morti e 20 feriti. Anche se l'azione viene salutata
con un certo sollievo da molti partigiani, "l'Unità" la bolla
come "un gesto di pochi irresponsabili, trascinati da un impeto di bestiale
furore.”[8]
Lo stesso giornale non esita a denunciare e a screditare agli occhi dei lettori,
come presunto responsabile, un partigiano che in passato aveva conosciuto la
milizia clandestina, il carcere, l'esilio e la Resistenza: "Da qualche
settimana ci dicono i nostri compagni, alcuni rappresentanti di un sedicente
partito internazionalista [...] stanno svolgendo tra le masse operaie e tra
i partigiani una attiva propaganda di tipo trotskista-bordighista [...] Sembra
che il principale propagandista sia un certo Salvatori. Salvatori fino al 1929
fu membro del nostro partito. Arrestato ebbe un contegno pavido che gli valse
il disprezzo dei nostri compagni. Durante gli anni di carcere fu tenuto a distanza.
Scontata la pena conservò un sordo rancore contro il nostro partito,
e fece parte in Francia di gruppi trotskisti [...] Rientrato a Schio, Salvatori
è penetrato in alcuni ambienti partigiani [...] ha sfruttato il loro
stato d'animo per istigarli alla violenza."[9]
Ben diverso è l'atteggiamento del Partito socialista, che prende la difesa
dei tre partigiani condannati a morte per l'eccidio: "'Fate giustizia dei
tedeschi e dei fascisti' diceva radio Londra 'e presto verrà la vostra
liberazione.' I partigiani non sanno troppo di leggi, di codici e di doppi giochi
[...] Tre uomini attendono che il loro destino si compia. L'anno scorso, di
questi giorni, erano sulle montagne a fare le fucilate contro i tedeschi. Ora
le fucilate le aspettano dagli inglesi. Ma questa volta non ci sono piú
le meravigliose bugie di radio Londra."[10]
La popolazione del luogo si schiera in massa, con scioperi e manifestazioni,
a favore dei tre partigiani, tanto da preoccupare gli stessi giornali inglesi:
"A Schio si dice senza troppe reticenze che se i condannati verranno fucilati,
l'imminente inverno da quelle parti sarà alquanto brutto."[11]
Il linguaggio del PCI, cosí spietato nel denunciare
i presunti provocatori, si fa "bucolico" quando si tratta di chiedere
ulteriori sacrifici e rinunce ai reduci. Scrive "Ulisse" (Davide Lajolo):
Molti compagni partigiani sono senza lavoro [...] pensa il partigiano. Allora?
Come dopo le altre guerre? E' perplesso [...] Ritorna a lavorare, e lavora sodo.
S'accorge che nel lavoro ritrova Vigore e Speranza. È in contatto con
gli operai che si lamentano, ma lavorano, che soffrono la fame ma lavorano.
Allora pensa e si convince [...] che vi deve essere questa differenza tra le
altre guerre e questa: che allora si combatteva per qualche cosa di personale,
si portava il conto alla Patria. Oggi no. Abbandonato il mitra, lasciata la
collina, la lotta ha l'arma della nostra onestà e della nostra dirittura
morale."[12]
Sei mesi piú tardi Togliatti potrà vantarsi alla Costituente che
l'Italia "è il paese dove si fanno meno scioperi." Nel gennaio
1946 viene stipulato l'accordo sullo sblocco dei licenziamenti. L'articolo 2
colpisce i lavoratori "inosservanti dei doveri di disciplina e di normale
produttività."[13]
Un bollettino della federazione milanese del PCI incita ad un maggior impegno
nel lavoro: "Le cellule di fabbrica ed i compagni responsabili si devono
[...] mobilitare, essi devono con l'esempio incitare al lavoro, alla disciplina.
Molti non hanno voglia di lavorare, perché dicono che in fondo nulla
è cambiato, sono ancora e sempre degli 'sfruttati' che lavorano per il
padrone."[14]
Nel gennaio 1946, quando un gruppo di operai bastona alcuni
dirigenti della Breda, "l'Unità" parla ancora una volta di
provocazione e di "elementi dichiaratamente trotskisti" e ammonisce
che i compagni "sono disposti a fare di tutto perché i fascisti
ed i trotskisti responsabili di queste provocazioni siano scoperti e deferiti
all'autorità giudiziaria."[15]
È in questo quadro che alcuni partigiani risalgono sulle montagne dando
vita a nuove formazioni armate che attaccano obiettivi fascisti e padronali.
"L'Unità," nell'articolo Provocazione e maschera rossa parla
di "gruppi reazionari e conservatori, che provvedono ad adescare qualche
giovane esaltato, si preoccupano di stampare volantini piú o meno rossi
usurpando il nome glorioso dei GAP, lanciano programmi di nuove formazioni pseudo-partigiane
dall'immancabile denominazione di `Guardia rossa,' creano false organizzazioni
sportive, prendendo lo spunto dal fatto che noi comunisti nel periodo clandestino
indicavamo come 'lavoro sportivo' il lavoro militare."[16]
Di particolare rilievo le nuove formazioni partigiane sviluppatesi nel Biellese
(Movimento di Resistenza popolare) e in Emilia, soprattutto a Bologna, Modena
e Reggio. Per "l'Unità" si tratta di una "sola rete di
provocazione"[17]: il collegamento sarebbe provato da un delegato del MRP,
che è di origine modenese. Non deve meravigliare se, in questo ordine
di idee, il PCI collabora attivamente con i carabinieri nella ricerca dei provocatori,
per assicurare "ordine e tranquillità" al paese.
"L'Unità" non lo nasconde affatto, anzi ne va addirittura fiera,
al punto di pubblicare con orgoglio una lettera, scritta dal segretario della
federazione di Modena, la quale prova questi collegamenti: "Il capitano
Cappelli Aldo, comandante della compagnia interna carabinieri di Modena, nel
mese di giugno c.a., si recò dal segretario Roncagli [...] per chiedergli
la collaborazione di elementi del partito [...]. Il Roncagli in linea di massima
si mostrò favorevole alla richiesta e giunse ad assicurargli il nostro
appoggio e collaborazione poiché i primi e piú interessati all'ordine
e tranquillità della nostra provincia eravamo proprio noi."[18]
Nell'ottobre 1946 viene arrestato Carlo Andreoni, ritenuto il capo del MRP.
Ancora una volta si nota una profonda diversità di atteggiamento tra
il PCI e i socialisti. Questi ultimi, pur dissociandosi dalle azioni partigiane,
ne riconoscono l'identità politica degli autori, di cui chiedono la liberazione.
Nell'articolo Agire con giustizia, Pertini ammonisce: "I comunicati governativi
parlano di squadrismo [...]; non possiamo accettare nel modo piú assoluto
simili raffronti a danno di uomini che furono al nostro fianco [...] al di sopra
di ogni sospetto sia dal punto di vista politico, come dal punto di vista morale
[...] Ci domandiamo per quale ragione gli arresti fatti siano ancora mantenuti
[...] essi debbono al piú presto essere rimessi in libertà. Altrimenti
si avrà ragione di pensare che il governo agisca solo perché si
tratta di uomini che lo contrastano."[19]
Sarà ancora Pertini a scrivere in Soprattutto la verità: "insorgiamo
contro l'insinuazione adombrata dall"Unità,' a carico di Carlo Andreoni,
e cioè che egli avrebbe fatto parte dell'OVRA. "[20]
"L'Unità" aveva due giorni prima parlato di "neofascisti,"
"provocatori," "banditi da strada," integrando questi epiteti
con un censimento delle "bande" completo del nome dei capi e dei relativi
addebiti. Alcuni sono accusati, inspiegabilmente, e senza ombra di prove, di
essere ex partigiani "agenti della monarchia," altri spie e collaborazionisti
intrufolatisi nella Resistenza, altri infine "tiratori scelti." Non
mancano accuse piú specifiche, come quella involontariamente ironica
di "ladro di formaggio."[21]
Infine "l'Unità," per dimostrare l'assoluta estraneità
del partito, riguardo a un elenco di nominativi di arrestati per "bande
armate" pubblicato dalla stampa borghese fornisce alcune utili indicazioni
sui 135 incriminati: 50 non sono mai stati iscritti al PCI; 51 espulsi; 6 iscritti
al PCI ma estranei alla formazione; 2 iscritti al PCI scomparsi senza lasciar
traccia; 13 sconosciuti; 5 fermati ma poi rilasciati; 2 partigiani già
fucilati; 2 nominativi duplicati.[22]
La lista, che vuole dimostrare l'estraneità del PCI ai nuovi movimenti
di Resistenza, prova tuttavia, senza alcun dubbio, la matrice di sinistra dei
componenti dell'MRP.
Tanta severità e tanto zelo nella denuncia dei partigiani
che non hanno deposto le armi, non trova riscontro in un uguale atteggiamento
del PCI verso i criminali fascisti. La famigerata amnistia Togliatti del 1946
apre a molti "politici" le porte della galera: avviene cosí
che le prigioni svuotate dei fascisti si vanno riempiendo di ex partigiani.
Ancora una voltà è Pertini a prendere le difese dei compagni,
con una interrogazione rivolta il 22 luglio 1946 al ministro della Giustizia
Gullo, da poco subentrato a Togliatti, circa "le interpretazioni giurisprudenziali
estensive nei confronti dei fascisti e restrittive nei confronti dei combattenti
della libertà, del decreto di larga amnistia 1946.”[23] Nella sua
qualità di ministro guardasigilli del governo che aveva emanato il decreto,
risponde Togliatti, senza riuscire, malgrado la sua riconosciuta abilità
dialettica, a mascherare il proprio profondo imbarazzo.[24]
Piú tardi lo stesso Togliatti, nella seduta dell'Assemblea Costituente
del 20 giugno 1947, presenta invano il conto alla DC dopo che questa, in obbedienza
alle direttive degli Stati Uniti, aveva scacciato i comunisti dal governo: "Gli
operai hanno fatto di piú [...] hanno moderato il loro movimento, l'hanno
frenato [...] hanno accettato la tregua salariale, cioè una sospensione
degli aumenti salariali senza che vi fosse la corrispondente sospensione degli
aumenti dei prezzi. Hanno trattato recentemente la proroga di questa tregua,
cioè hanno dimostrato capacità di direzione politica ed economica
nella vita del paese. Nulla si può rimproverare agli operai, ai lavoratori,
e quei partiti dei lavoratori che meglio li rappresentano non possono essere
oggetto della manovra di cui sono fatti oggetto."[25]
Ma è ormai troppo tardi: la DC, al "colmo dell'ingratitudine,"
non pagherà il conto delle rinunce e dei sacrifici presentato da Togliatti:
si sta ormai entrando negli anni bui del medioevo democristiano. Ci vorrà
piú di un decennio prima che il movimento operaio possa risollevarsi
e tornare all'offensiva.
Dopo l'attentato a Togliatti (14 luglio 1948 ), lo sciopero
generale e il moto di insurrezione popolare vengono frena ti dalla direzione
del PCI che mobilita i propri dirigenti attraverso l'intera penisola per convincere
i ribelli a desistere. I fatti sono abbastanza noti. Vale solo la pena di sottolineare
il carattere spontaneo, sia dello sciopero, sia del moto insurrezionale, mentre
non interessa, in questa sede, dare un giudizio sulle concrete possibilità
di sbocchi rivoluzionari di una siffatta rivolta. Il risultato è una
repressione spietata, con migliaia di anni di galera per coloro i quali, credendo
di agire secondo la propria coscienza comunista, avevano deciso di ribellarsi
con le armi.
Incominciano gli anni piú neri della repressione in fabbrica, con il
terrorismo bianco: esemplare la FIAT di Valletta.
Nel febbraio 1949 sale alla ribalta della cronaca la Volante
Rossa, una formazione che già da due anni operava nel milanese, ed in
particolare a Sesto San Giovanni. Il nome deriva da un'altra Volante Rossa che
era stata attiva durante la Resistenza in due reparti distinti, nell'Ossola
e nell'Oltrepò pavese. Le azioni sono essenzialmente di "giustizia
popolare" e tendono a colpire fascisti e dirigenti d'azienda: le pene inflitte
vanno dal pestaggio alla gogna, fino all'uccisione. Una "sentenza di morte"
viene pronunciata ed eseguita a Milano a carico del fascista Felice Ghisalberti,
ritenuto responsabile dell'uccisione di Eugenio Curiel e assolto da un tribunale.
La Volante Rossa non firma le proprie azioni. Tale sigla sarà infatti
scoperta molto tardi, nel gennaio 1949, quando in seguito ad una perquisizione
personale viene trovata nelle tasche di un membro dell'organizzazione un foglietto
con l'inno della "Volante Rossa."
L'unica loro firma, a quanto si sa, era stata lasciata, in modo beffardo e singolare,
in occasione della gogna inflitta all'ingegner Tofanello, dirigente d'industria,
abbandonato in mutande in piazza del Duomo a Milano, cui vennero restituiti
gli indumenti ed i valori accompagnati dal biglietto. "È stata data
una lezione. Un gruppo di bravi ragazzi." Secondo il "Corriere della
Sera" questi "spietati esecutori di sentenze misteriose" portano
immancabilmente giacconi di pelle. Il capo, secondo lo stesso giornale, è
identificato dall'immancabile cane lupo che ovunque lo segue come fosse San
Rocco.
È accertata l'appartenenza al PCI della totalità o quasi dei militanti
della Volante Rossa. Il loro luogo di ritrovo piú frequente è
la Casa del popolo di Lambrate.
Il capo "Alvaro" si chiamava in realtà Giulio Paggio, ed era
stato al tempo della Resistenza giovanissimo comandante di formazioni garibaldine
nell'Ossola, nel Gallaratese ed anche a Milano.
Il PCI tiene un atteggiamento che, nel corso di un mese, va via via mutando.
All'inizio grida alla montatura. Saverio Tutino sull"'Unità"
definisce tutto quanto "una indegna campagna della stampa anticomunista
istigata dalla polizia per gettare fango sui partigiani e sulla Resistenza."
Piú tardi, quando i fatti cominciano a mostrare la loro evidenza, il
PCI corregge il tiro e distingue quelli che per antica milizia comunista e popolarità
sono inattaccabili, dai restanti componenti della formazione armata.
1 primi vengono comunque scaricati ed abbandonati al loro destino: "Il
partigiano Giulio Paggio, detto Alvaro, risulta essere effettivamente iscritto
al partito ma non ha mai avuto incarichi dirigenti [...] la federazione del
PCI non intende dare un giudizio sulla posizione giuridica del partigiano Giulio
Paggio, essendo questo di esclusiva competenza della magistratura."[26]
I secondi vengono attaccati con le piú infamanti insinuazioni. Cosí
scrive sull"'Unità" Saverio Tutino riferendosi ad un partigiano
che aveva già conosciuto l'amara esperienza del confino: "Fu a Ventotene
come confinato politico nel periodo fascista. Chi gli fu vicino tra i veri antifascisti
lo ricorda come sospettato di appartenere all'OVRA e unito ai confinati per
spionaggio e attività di provocazione."[27]
Nello stesso periodo la reazione democristiana fa incarcerare centinaia e centinaia
di partigiani. Viceversa, spie e collaboratori fascisti giustiziati durante
la Resistenza ricevono il martirologio dell'eroe.
Nel mese di febbraio 1949 Valerio Borghese viene messo in libertà; la
stessa sorte si prospetta per il maresciallo Graziani, capo dell'esercito repubblichino
e massacratore di popolazioni civili.
Appare chiaro ormai, anche al PCI, che da parte democristiana si tende a far
passare per delinquenti tutti i partigiani per accelerare i tempi della restaurazione.
In questo quadro, la politica del puro difensivismo, del prendere le distanze,
rischia di coinvolgere ancora di piú l'intero movimento partigiano. È
lo stesso Togliatti, pertanto, che prende in mano la situazione, superando tutte
le incertezze del suo partito, per assumere una netta posizione con un editoriale
sull"`Unità" in cui, mentre si difendono i partigiani, si denunciano
i veri responsabili degli squilibri politici e sociali da cui le ultime azioni
armate sono maturate: "Erano dunque dei malfattori attuali o potenziali
gli uomini, i giovani che per due anni [...] combatterono come volontari della
libertà? Condanniamo e respingiamo nel modo piú energico gli atti
di terrore, veicolo, tra l'altro, di delinquenza comune e di provocazione, ma
in pari tempo vogliamo capire su quale terreno questi atti maturano perché
essi sono sintomo, sempre o quasi sempre, di situazioni gravi, di squilibri
politici e sociali su cui a lungo non ci si regge."[28]
Alla fine degli anni Cinquanta dall'Algeria e da Cuba arrivano
notizie esaltanti: i rivoluzionari, combinando la lotta di liberazione nazionale
a quella per il socialismo, danno duri colpi all'imperialismo. Il carattere
eretico della rivoluzione cubana, cosí come l'atteggiamento debole ed
incerto di molti partiti comunisti rispetto alla lotta del popolo algerino,
mette in crisi molte coscienze di rivoluzionari. Una testimonianza esemplare
perché esplicativa di uno stato d'animo comune a non pochi militanti
ce la dà Sante Notarnicola: "... ci ricordò come stessero
crollando intorno a noi tante speranze, sogni, miti, come invece in lontani
paesi, eroici combattenti tenessero alta la bandiera della guerriglia. In Italia
invece la rivoluzione era rinviata, a Torino scioperavano in certi stabilimenti
100 operai su 10.000. Il SIDA imperversava nella sua opera di corruzione e di
crumiraggio. Danilo [...] pensava alla costituzione di una specie di GAP, con
compiti molto vaghi, per i primi tempi; rimise anzi sul tappeto la questione
delle armi: il primo obiettivo avrebbe dovuto essere quello di reperire armi,
di rimetterle in efficienza, o di accumularne una certa quantità; fatto
questo si sarebbe visto in che modo usarle."[29]
Avviene cosí che molti militanti del PCI, sfiduciati nella direzione
politica, restano disorientati finendo col prendere delle autentiche sbandate.
Si sa come è finita l'avventura di Sante Notarnicola, i cui limiti sono
stati messi in luce dallo stesso interessato: "La nostra è stata
una risposta ad una situazione di vita intollerabile per la dignità umana
[...] il responsabile di questa situazione e. il sistema borghese, è
questo il nemico, il provocatore del crimine, la causa di ogni violenza e di
ogni ingiustizia [...]. Ciò nonostante abbiamo sbagliato perché
non siamo riusciti a spiegare per tempo queste cose alla classe operaia, non
siamo riusciti a trovare forze e capacità necessarie a creare nuclei
di guerriglia organizzata che nei cupi anni Sessanta avrebbero potuto scuotere
la classe operaia da una situazione di confusione ed inerzia. "[30]
Con il luglio 1960 il proletariato dà la misura della propria forza;
ma l'autonomia espressa rimane ingabbiata nella logica della lotta per il cambio
di governo.
La repressione padronale in fabbrica continua divenendo galoppante.
La debolezza del sindacato tocca livelli impressionanti: nella FIAT, i due sindacati
"gialli" UIL e SIDA arrivano ad ottenere da soli il 63% dei voti all'elezione
per le commissioni interne. La notte tra il 6 ed il 7 luglio 1962, nel corso
delle trattative per il rinnovo del contratto, UIL e SIDA firmano col padrone
un accordo separato, ed invitano i loro aderenti a non partecipare allo sciopero
proclamato da CGIL e CISL per il giorno successivo. Inaspettata giunge la risposta
operaia: lo sciopero si rivela un grosso successo. Vi partecipa, secondo il
quotidiano "Il Giorno," il 92% dei lavoratori. È cosí
sancita dopo tanti anni l'esplicita sconfessione dei sindacati padronali o capitolardi:
si stracciano centinaia di tessere UIL e, spontaneamente, gli operai danno l'assedio
alla sede di questo sindacato. Scoppia una violenta manifestazione con lancio
di pietre e scontri con la polizia. Il bilancio è pesante: una trentina
di fermi, molti contusi.
Una testimonianza diretta la fornisce, ancora una volta, Sante Notarnicola:
"Nell'estate del '62, per la prima volta la base rivoluzionaria scavalca
apertamente il partito [...] La battaglia durò tre giorni e 'l'Unità'
ci chiamò teppisti allineandosi con i borghesi. Fu il crollo per molti
compagni delle ultime illusioni di ravvedimento rivoluzionario del PCI. Mi ricordo
di Pajetta, era con noi, non sapeva cosa fare; il grande dirigente non era piú
davanti a una folla entusiasta, ma in mezzo a gente esaltata che gli stava mangiando
il piedistallo eretto in tanti anni sul suo passato di combattente. Quando gli
arrivò una pietrata, allora si risvegliò mettendosi a sbraitare
contro i padroni e gli sbirri, spingendoci all'attacco. Il suo passato riemergeva
dall'inconscio. Poi, a mente fredda, il giorno dopo, su 'l'Unità' ci
chiamò fascisti."[31]
La CGIL si allinea con il PCI e denuncia "la presenza di provocatori che
operano sul piano del teppismo del tutto estraneo e anzi respinto dalla gran
massa dei lavoratori in sciopero."[32]
Viene addirittura fatta circolare la voce, rivelatasi falsa, di "individui
scesi nelle strade vicine da lussuose auto targate Cuneo, Torino, Ferrara."
"E furono poi questi 200 o 300 ragazzi a buttarsi verso le 22,30 all'assalto
della polizia con la cieca furia dei kamikaze."[33]
Ma le bugie del "Giorno" e dei sindacati hanno le gambe corte. Al
processo si verifica che "due terzi degli imputati sono meridionali, giovani
ma non giovanissimi, non mancano gli operai iscritti ai sindacati, alcuni dei
quali avevano addirittura la tessera della UIL, l'organizzazione contestata."[34]
Nove anni dopo, finalmente, il sindacato fa l'autocritica. Giorgio Benvenuto,
segretario nazionale della stessa organizzazione allora contestata, cogliendo
il significato unitario della manifestazione, definirà il luglio 1962
"una data significativa che costituisce una svolta nella storia sindacale
del nostro paese. È infatti il principio della fine degli accordi separati,
e la fine della discriminazione tra sindacati 'democratici' e sindacati 'social-comunisti.'
"[35]
Un anno dopo, nel 1963, sono gli edili che a Roma danno luogo, in piazza SS.
Apostoli, ad una manifestazione violenta e spontanea: il centro-sinistra, se
da un lato crea un terreno piú favorevole per le lotte operaie, dall'altro
radicalizza sempre piú le frange estremiste e di opposizione alla linea
ufficiale dei partiti di sinistra.
Nel 1961, promossa da un gruppo di "eretici" di sinistra
tra cui Raniero Panzieri, nasce la rivista "Quaderni Rossi," di fondamentale
importanza per la formazione della nuova sinistra. Nei suoi pochi anni di vita,
vi sono trattate praticamente tutte le principali questioni di grande interesse
politico, ma gli interventi piú importanti sono quelli relativi alla
lotta di classe in fabbrica ed alla organizzazione capitalistica del lavoro:
temi che, inquadrati nelle nuove condizioni venutesi a creare con la formazione
del governo di centro-sinistra, vengono sviluppati in un'ottica diversa e alternativa
a quella del sindacato.
Vi appaiono, probabilmente per la prima volta, geniali intuizioni come quella
in cui di fronte al disegno di ammodernamento neocapitalistico si configura
la necessità degli scioperi selvaggi (1963):
E' chiaro che la lotta operaia costituisce il pericolo piú grosso per
i capitalisti. Ma è chiaro che essi non si illudono di poterla eliminare;
per questo non tentano di reprimerla totalmente, adottando dovunque metodi fascisti,
né si illudono di raggiungere una concordia generale. Il loro obiettivo
diviene allora quello di far svolgere la lotta operaia in certe forme ed entro
certi limiti. Non si elimineranno gli scioperi purché si svolgano - per
cosí dire - "a date fisse" e quindi siano prevedibili, e soprattutto,
purché, insomma, la classe operaia non metta in discussione chi deve
decidere, purché essa collabori a uno sviluppo deciso dai capitalisti."[36]
Appaiono alcune prime considerazioni che saranno la base per una successiva
definizione dell'autonomia operaia. Riferendosi ad uno sciopero ad oltranza
attuato da parte degli edili di 25 fabbriche nonostante il parere contrario
delle organizzazioni sindacali, Vittorio Foa osserva:
La differenza tra la richiesta sindacale e l'offerta operaia si riduce a 9.000
lire l'anno. Non è per questa somma che gli operai hanno deciso, in dissenso
coi loro rappresentanti, la forma estrema della lotta; è per qualcosa
d'altro che può sembrare confuso ed opaco, ma che invece è limpido
e chiaro: è per essere finalmente qualcuno, e non oggetto passivo della
disponibilità padronale, è per sentirsi come classe, per conquistare
un potere, sia pure generico, di fronte al padrone ed al sistema del padrone.[37]
Tra il 1961 ed il 1967 nascono anche altre riviste, alcune delle quali di notevole
importanza, altre molto meno. Ricordiamo: "Quaderni piacentini," "Classe
Operaia," "Giovane Critica," "Falce e Martello," "Classe
e Stato," "la Sinistra," "La Voce Operaia," "La
classe," "Nuovo Impegno."
Vengono trattati e divulgati, spesso con linee alternative ed in polemica con
la linea ufficiale dei partiti e dei sindacati, tutti i grossi temi del movimento
operaio, nazionale ed internazionale, come la rottura URSS-Cina, la Rivoluzione
culturale proletaria, la guerriglia in America latina, la lotta di popolo in
Vietnam, il movimento delle pantere nere, la nuova sinistra americana, ecc.
Saranno queste riviste a preparare la base teorica per l'esplosione studentesca
del '68 e quella operaia dell'autunno '69.
1 "Quando diedi l'annuncio del telegramma, Scoccimarro,
teso e pallido, reagí dicendo: 'Questa politica la farete voli' Cominciò
cosí un altro periodo di aspre discussioni nel partito e nel CNL,"
G. Amendola, Lettere a Milano, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 300.
2 P. SFCCHIA, Il Partito comunista italiano e la guerra di liberazione 1943-1945,
Feltrinelli, Milano 1973.
3 La stima è di Renzo del Carria (Proletari senza rivoluzione, Ed. Oriente,
Milano 1968). Per completezza, si deve dire che in "Stella Rossa"
si era infiltrato Luigi Cavallo, agente dell'OVRA prima e della CIA poi, al
servizio particolare della FIAT. Per una decina d'anni infiltrato anche nel
PCI, addirittura con incarico di corrispondente da Parigi dell'"Unità"
negli anni della guerra fredda.
4 "l'Unità," 9 gennaio 1945
5 "Avanti!," 8 febbraio 1946.
6 153 caduti in azione, 33 fucilati, 10 internati a Mauthausen, innumerevoli
prigionieri secondo l"Avanti!" del 21 settembre 1945
7 "l'Unità" (Milano), 12 luglio 1945.
8 Ibidem.
9 Ibidem.
10 "Avanti!," 21 settembre 1945.
11 "Cosmopolitan," settembre 1945.
12 "Rinascita," n. 1/2, 1946.
13 Vedi, in proposito, "Quaderni piacentini," n. 56, luglio 1975,
p. 69.
14 "Bollettino della federazione milanese del PCI," a. 1, n. 2, luglio
1945, p. 24.
15 "l'Unità" (Milano), 12 gennaio 1946.
16 "l'Unità" (Milano), 21 febbraio 1946.
17 "l'Unità," 2 novembre 1946.
18 "l'Unità," 29 novembre 1946.
19 "Avanti!," 31 ottobre 1946.
20 "Avanti!," 31 ottobre 1946.
21 "l'Unità," 29 ottobre 1946.
22 Ibidem.
23 P. Togliatti, Discorsi alla Costituente, Editori Riuniti, Roma 1973.
24 Ibidem.
25 Ibidem.
26 "l'Unità," 27 febbraio 1949.
27 Ibidem.
28 "l'Unità," 20 febbraio 1949.
29 S. Notarnicola, L'evasione impossibile, Feltrinelli, Milano 1972.
30 "Re Nudo," n. 8, 25 ottobre 1971.
31 S. Notarnicola, L'evasione impossibile, cit.
32 "Il Giorno," 9 luglio 1962
33 Ibidem..
34 S. TURONE, Storia del sindacato in Italia 1943-1969, Laterza, Bari 1973.
35 G. BENVENUTO, Le tappe di sviluppo del processo unitario tra i metallurgici,
in "Rassegna Sindacale," quaderno n. 29, marzo-aprile 1971.
36 "Quaderni Rossi," n. 3, giugno 1963.
37 V. Fon, in "Quaderni Rossi," n. 1, settembre 1961.