Biblioteca Multimediale Marxista
Il processo che oggi ci occupa riguarda fattispecie delittuose
molto particolari che incriminano sostanzialmente forme di dissenso politico
e recano quindi in sé il rischio di integrare veri e propri reati di
opinione e di concretare una lesione dell’articolo costituzionale relativo
alla libera manifestazione del pensiero.
Pertanto, al fine di recuperare per quanto possibile la dimensione costituzionale
di tali fattispecie e riportare l'area dell'incriminazione penale entro i limiti
della concreta offensività del fatto, stante lo stretto rapporto strutturale
tra le condotte contestate e la conclamata attività politico-rivoluzionaria
degli inquisiti, si rende necessaria un'indagine attenta e scrupolosa delle
regole interne e della stessa storia dell'organizzazione Brigate Rosse giacché,
senza questa indagine, la valutazione complessiva della vicenda risulterebbe
del tutto avulsa dalla realtà storica e ideologica che ne costituisce
contesto di riferimento.
La condotta posta in essere dagli imputati e contestata loro, non può
integrare la fattispecie criminosa oggetto dell’accusa, per due ordini
di ragioni: il primo aspetto che rende insussistente nel caso specifico il reato
contestato, si pone in relazione all'intendimento giurisprudenziale più
recente; infatti la giurisprudenza è concorde oramai nel ritenere che
per la sussistenza del reato in oggetto, non è sufficiente l'espressione
di un giudizio positivo su un fatto delittuoso, ma è necessario che le
forme di manifestazione del giudizio siano tali, per la forza di suggestione
o di persuasione, da stimolare nel pubblico la commissione di altri delitti
del genere di quello oggetto dell'apologia; vedi per tutte Cass., 23.06.1988.
(Nella specie, gli imputati all'udienza alzatisi in piedi, col braccio tesa
e la mano chiusa a pugno iniziavano a leggere un proclama, facendo pubblicamente
l'apologia dei delitti contro la personalità dello Stato); la corte in
virtù del principio sopra enunciato ha annullato la relativa sentenza
di condanna perché il fatto non sussiste. Non si può pertanto
in alcun modo prescindere dal costante orientamento formatosi alla luce della
sentenza della Corte Costituzionale n.65 del 1970, secondo la quale per aversi
apologia, è necessaria anche una certa carica istigativa nella condotta
dell'agente, precisando inoltre che la manifestazione del pensiero deve essere,
per le sue modalità, concretamente idonea a provocare la commissione
di delitti; sentenza d'altro canto, intervenuta qualche anno dopo la precedente
del 6 luglio 1966, n. 87, che pur ritenendo infondata l'eccezione con riferimento
al primo comma dell'art. 272 c.p., atteso che la sanzione riguarda la propaganda
in quanto volta a far ricorso alla violenza, sì da apparire in rapporto
diretto ed immediato con l'azione, ha nel contempo dichiarato costituzionalmente
illegittimo il secondo comma.
Lo stesso orientamento della Corte di Cassazione inizialmente restrittivo, giacché
interpretava le norme in questione come figure di reato con evento di pericolo
presunto, ha subito un radicale mutamento nel corso degli anni, sì da
interpretare tali forme di reato quali fattispecie di pericolo concreto e quindi
rimettendo al giudice di merito l’indagine sulla pericolosità attuale
e concreta della condotta in relazione al contesto spazio- temporale ed economico-sociale.
La dottrina d'altro canto, ritiene le norme in questione implicitamente abrogate
a seguito della promulgazione della costituzione repubblicana, giacché
non si può dimenticare, ed è bene ricordarlo anche in questa sede,
che la norma nacque sotto la spinta contingente di mettere al bando talune formazioni
politiche avverse al fascismo.
Conformemente a questo orientamento, nel caso di specie, al fine di accertare
la reale portata offensiva delle condotte, è necessario analizzare il
contenuto e il significato del documento anche alla luce delle regole interne,
e dell'esperienza maturata dalle Brigate Rosse in trent'anni di storia.
A tal proposito appare evidente, come il pronunciamento contenuto nel documento
depositato dall’imputato Marini agli atti dell’udienza dinanzi all’allora
Pretore di Trani, sottoscritto dallo stesso e recante i nominativi degli altri
imputati, sia relativo al carattere proprio delle prese di posizione che contraddistinguono
gli atti pubblici dei prigionieri politici nella tipica e ben più articolata
analisi critica, storica e politica che i detenuti politici sempre compiono
in relazione ad eventi di tale portata quale l’attentato al prof. D’Antona.
Questo aspetto, rileva il secondo ordine di ragioni accennato sopra, che spiega
la strumentalizzazione insita nell'attuale processo, a fronte del fatto che
i prigionieri politici, da ben trent'anni utilizzano simili, anzi identiche
espressioni nei documenti che pubblicizzano nei modi che vengono loro concessi.
E quindi l'attuale incriminazione, e ancor prima l'aver aperto un procedimento
a carico degli imputati da parte della Procura di Trani, si pone in contrasto
con la giurisprudenza degli ultimi trent'anni; il contrasto giurisprudenziale
si deduce in negativo, e consiste nel non aver, nel corso dell'ultimo trentennio,
perseguito penalmente tali forme di manifestazione del pensiero, reputandole
quindi forme legittime e conformi al nostro ordinamento giuridico.
Da un'attenta analisi del documento emerge come lo stesso consista in una ricostruzione
politica sia del momento storico che il paese viveva in quel momento, sia dei
principi, degli obiettivi e del percorso complessivo della medesima Organizzazione.
Tale documento come qualsiasi altro documento proveniente dai detenuti e quindi
prigionieri politici, ha sempre e solo una validità politica generale
e non è mai, perché non vuole esserlo, atto di direzione, e quindi
mai ha funzione direttiva intesa come costruzione concreta dei termini teorici,
politici e organizzativi che rendono attiva e fanno vivere e operare qualsivoglia
organizzazione politica; all’interno della ricostruzione contenuta in
esso, si inserisce un giudizio di adesione a quella iniziativa, che non può
essere slegato da quella ricostruzione che ne costituisce il contesto. L’espressione
di quel giudizio, non può venire estrapolato sì da integrare da
solo le fattispecie contestate, tanto la propaganda quanto l’apologia
dei reati.
Del resto da un'analisi comparata fra il documento oggetto dell'attuale processo
e tutti gli altri comunicati provenienti dai medesimi prigionieri e da quelli
degli anni precedenti, risulta come l'unico elemento di differenziazione sia
dato dalla diversa contestualizzazione storica: se infatti si esclude l'analisi
di volta in volta riferita al particolare momento storico del paese, si rileva
come non esista alcun'altra differenza di sostanza.
Tutti i contenuti dei documenti, da quello allegato agli atti del processo relativo
ai reati per armi del settembre 1988, all'ultimo depositato nel fascicolo relativo
all’udienza preliminare di cui è processo, in data 17/12/2004 e
a quelli seguenti allegati o letti in questo stesso procedimento (e per memoria
storica a partire dai documenti presentati da tutti i detenuti politici delle
B.R. a partire dal 1974), riflettono la medesima concezione ideologica e il
medesimo intendimento, e presentano la medesima finalità che è
quella di aggiornare l’analisi della situazione reale in relazione all’attività
svolta dalle Brigate Rosse e di ribadire i tratti fondamentali della strategia
e della linea della medesima.
In sostanza, per poter ritenere l'effettiva sussistenza nel caso di specie degli
elementi oggettivi e soggettivi che incarnano il disvalore penale della condotta
apologetica, occorrerebbe preliminarmente accertare il contenuto programmatico
e direttivo e la direzione finalistica istigatrice del documento in questione,
anche in relazione al ruolo politico dei detenuti.
Orbene se si utilizza questa chiave di lettura, ne discende l’impossibilità
logica, nonché l'erroneità storica dell'interpretazione che attribuisce
un ruolo direttivo alle esternazioni dei detenuti politici, essendo storicamente
dimostrato, perché risulta dai documenti originali provenienti dai medesimi
detenuti e allegati a tutti i processi che li hanno riguardati, che tale ruolo
è da sempre affidato all’organizzazione in attività.
Cito per tutti alcuni documenti allegati agli atti dei processi, dove testualmente
gli stessi affermano che: " La prima lezione che impara l'Organizzazione,
e per primi i suoi militanti in prigione, è che essi non possono mantenere
le medesime prerogative che avevano in attività, relative a contribuire
alla definizione delle linee politico-programmatiche all'interno di una strutturazione
gerarchica ricalcante quella dell'Organizzazione in attività, e questo
perché nella condizione di prigionia la mancanza della prassi favorisce
la teorizzazione soggettivistica, che porta a linearizzare tendenze e contraddizioni.
Un dato valido in generale ma soprattutto per la guerriglia che agisce nell'unità
del politico e del militare, le cui linee politico-programmatiche sono il prodotto
della prassi-teoria-prassi, la sola che consente di verificarne giustezza e
adeguatezza." (documento allegato alla Iª Corte di Assise di appello
di Roma il 09/10/2003)
"In questa logica essere prigionieri, indica solo il luogo fisico e politico
in cui i militanti si possono trovare, e che impone il ruolo disciplinato che
è loro proprio nel quadro della condizione generale dello scontro".
(Comunicato allegato al Tribunale di Cuneo il 18/12/1990)
"I militanti nelle mani del nemico non possono che essere sempre, nel conflitto
generale, il fianco materialmente più debole del movimento rivoluzionario:
lo sviluppo del processo rivoluzionario non può che decidersi sempre
fuori, nel centro dello scontro reale, al livello imposto dallo sviluppo storico."
(Comunicato allegato al Tribunale di Cuneo il 18/12/1990)
"E, soprattutto, misurarsi con il processo di riqualificazione della militanza
è necessario per la funzione politica che i prigionieri ricoprono nello
scontro. Una funzione politica che se in generale è legata all’attestazione
del processo rivoluzionario nello scontro, in particolare è maturata
nel quadro dell’esperienza storica fatta su questo piano dalle BR, da
cui è emerso che i prigionieri possono avere un ruolo positivo nello
scontro nella misura in cui questo ruolo è funzionale e subordinato alle
priorità che vivono di volta in volta nel percorso rivoluzionario. Un
principio generale questo che si è affermato in base alla conoscenza
delle dinamiche che investono i prigionieri a causa del loro essere ostaggi
in mano al nemico di classe e separati dalla prassi rivoluzionaria, una verifica
da cui le BR hanno definito criteri e prerogative che sostanziano il ruolo dei
propri militanti in prigione relativamente al vincolo di Partito, e che hanno
costituito punto di riferimento anche per i militanti rivoluzionari prigionieri.
(comunicato allegato alla IIª Corte di Assise di Roma il 24/09/2002)
La condizione peculiare del prigioniero scaturisce dalla sua duplice essenza:
sia di parte caduta che di fianco debole della guerriglia; una condizione di
intrinseca debolezza data dal fatto che il militante prigioniero deve fronteggiare
l'azione dello Stato privo della dimensione organizzata come quando è
in attività. (documento allegato alla Iª Corte di Assise di appello
di Roma il 09/10/2003)
Esiste quindi un vero e proprio vincolo per i detenuti, di
attenersi a quanto deciso dall'organizzazione in attività, e correlativamente
un divieto di teorizzare e divulgare tesi, proposte, iniziative politico-direttive,
e si tratta di un vincolo che si è posto a partire dalla valutazione
dei danni politici conseguenti alle elaborazioni dei prigionieri, in particolar
modo dopo la pubblicazione nell'80 del famoso testo "L'Ape e il Comunista"
e delle tesi in esso contenute.
Si legge infatti in un documento allegato agli atti dei processi, che:
"L'influenza negativa sull'attività rivoluzionaria delle tesi elaborate
in prigione, esemplificata nell'80 con "L'ape e il comunista", ha
comportato la drastica misura di esonerare i prigionieri da queste prerogative
e conseguentemente farne decadere il livello organizzato. Una misura necessaria
per sanare il problema della ricaduta dell'elaborazione dei prigionieri sulla
Linea Politica d'Organizzazione, ma che non va a fondo delle ragioni della tendenza
alla teorizzazione soggettiva, in quanto la separatezza del prigioniero dalla
prassi, se è all'origine della sua parzialità politica, si è
dimostrata essere solo un aspetto fenomenico della contraddizione. Infatti il
vincolo ai militanti prigionieri di attenersi a quanto espresso dall'Organizzazione
non ha evitato il riproporsi della contraddizione, che si ripresenta nel quadro
della RS con ben altro portato dirompente, a fronte del mutamento della contraddizione
rivoluzione/controrivoluzione a sfavore del campo rivoluzionario, per come questo
mutamento ha investito in termini di contraddizioni l'Organizzazione in attività
e i prigionieri." (documento allegato alla Iª Corte di Assise di appello
di Roma il 09/10/2003)
Da qui emergono alcune ulteriori considerazioni a partire da un’analisi
attenta di questi scritti: 1) che i prigionieri politici in ogni sede, anche
quelle processuali, non hanno fatto mai dissimulazione del loro pensiero e della
natura dei propri atti, quindi dare a questi atti un significato diverso da
quello che loro stessi attribuiscono sarebbe una manipolazione funzionalistica
del loro pensiero ma non rispondente alla realtà delle cose; 2) la stessa
analisi attenta delle loro proposizioni mette in luce i vincoli, i ruoli e il
senso dell’atteggiamento che spetta ai militanti politici prigionieri,
per cui, al di fuori di questi limiti, vengono a decadere i caratteri propri
che definiscono il comportamento del prigioniero politico; 3) se veramente il
documento in questione avesse avuto la portata e la valenza direttiva che la
tesi accusatoria gli attribuisce, di questo se ne sarebbe trovato sicuramente
traccia nei documenti interni delle BR. Invece nei documenti recentemente decrittati
dai computer delle BR emergono evidenze di tutt’altra direzione come,
ad esempio, una frase tratta da: “Analisi del documento dei prigionieri
Br del 12 . 12. 2001 processo Hunt – Esproprio” (documento decrittato
dal computer di Morandi) che afferma, in riferimento proprio al documento oggetto
di questo procedimento: “L’impostazione del precedente documento
(giugno ‘99) di rivendicazione dell’iniziativa, era analoga a quella
dei precedenti documenti, avveniva però senza previa lettura del doc.
del ‘99.[volantino D’Antona]” (documento B67.DOC); 4) così
come, d’altra parte nello stesso documento interno le BR usano il termine
di credenza nel senso ricostruzione pensata e fatta veicolare ad arte dagli
organi dello Stato sui contatti e sul contributo fattivo dei prigionieri d’O
con le BR in attività per la selezione dell’obiettivo (“Con
questa credenza diventa possibile sia sminuire la valenza del rilancio che quella
dei suoi riferimenti strategici e politici e quindi il proprio rapporto politico
con le proprie valutazioni, scelte etc.”). (documento B67.DOC)
E ancora, sempre dai documenti precedenti dei prigionieri BR, altro scritto
di rilievo è questo: "come fanno testo le contraddizioni che abbiamo
espresso nel misurarci con le problematiche del terreno rivoluzionario, che
hanno avuto il loro apice nel rivendicare un'iniziativa rivoluzionaria, quella
alla base USA di Aviano, estranea alla prassi e concezioni d'Organizzazione.
Ciò per le caratteristiche della prigionia politica, soggetta alle dinamiche
difensivistiche e di logoramento intrinseche alla condizione di ostaggio di
lunga durata, problematica su cui grava il consolidamento del dato controrivoluzionario
nelle relazioni generali tra le classi. Ragioni di fondo per cui il mantenimento
di un profilo politico della militanza adeguato al reale evolvere del rapporto
rivoluzione/controrivoluzione non è un dato lineare né scontato,
nemmeno in un contesto dello scontro rivoluzionario come quello attuale caratterizzato
favorevolmente dalle iniziative offensive interne al rilancio della strategia
della LA. In particolare il rilancio ha posto ai militanti d'Organizzazione
la necessità di riqualificare il proprio ruolo politico come terreno
per ristabilire un rapporto sostanziale con i contenuti posti dall'Organizzazione
nello scontro che, nel quadro della prigionia che abbiamo analizzato, è
tutt'altro che risolvibile come una acquisizione dei termini aggiornati della
linea politico-programmatica d'Organizzazione, fuori cioè dal rapportare
questo obbiettivo alla materialità della condizione dei prigionieri,
investita com'è dalle spinte difensivistiche che tendono inevitabilmente
a ripresentarsi e ad alimentare la "tenuta resistenziale" la cui intrinseca
limitatezza si oppone a questa riqualificazione portandola su un terreno idealistico
di mera assunzione teorica. (documento allegato alla Iª Corte di Assise
di appello di Roma il 09/10/2003)
"E' precisa responsabilità del militante prigioniero saper essere
espressione della soggettività rivoluzionaria per com'è attestata
nello scontro per rappresentare e sostenere adeguatamente le posizioni d'Organizzazione,
nonché per stabilire una disposizione cosciente sugli effettivi termini
della contraddizione rivoluzione/controrivoluzione in cui obiettivamente siano
inseriti, per far fronte alle sue problematiche che inevitabilmente investono
anche i prigionieri, un posizionamento presupposto per la riqualificazione sostanziale
sui contenuti d'Organizzazione. (documento allegato alla Iª Corte di Assise
di appello di Roma il 09/10/2003)
Allego agli atti del processo diversi documenti che sintetizzano e rendono chiaro il ruolo proprio dei detenuti politici.
Si può affermare con assoluta certezza tale ultimo aspetto,
se solo ci si sofferma e ci si deve soffermare, sul contenuto identico che presentano
tali documenti rispetto al documento incriminato; da una attenta equiparazione,
emerge la medesima linea di analisi e di costruzione di un pensiero, che accompagna
da sempre la modalità di redazione di tali scritti prodotti dai detenuti
politici. Bisogna dire che nel corso del dibattimento per dimostrare il fine
direttivo-istigativo del comunicato del giugno 1999 si è portata l’attenzione
sull’accertamento relativo al momento della sua redazione, ovvero se antecedente
o successiva all’attentato al prof. D’Antona al fine di definire
gli intendimenti oggettivi e soggettivi degli autori del comunicato in rapporto
a quell’evento e quindi la sua finalità concreta. Il cuore di questa
tesi è praticamente quello di stabilire un legame diretto e concreto
fra le Brigate Rosse in attività, i prigionieri politici e il momento
e le finalità di redazione del comunicato. Questo è il cardine
che nel corso del dibattimento ha impegnato la ricerca della prova concreta
per dimostrare il carattere direttivo e istigativo dell’apologia.
In merito a queste tesi vanno fatte due ordini di considerazioni: La prima è
di ordine storico e politico che, come abbiamo già visto in precedenza,
ci ha permesso di esaminare e contestualizzare in termini concreti il ruolo
dei prigionieri politici rispetto all’organizzazione in attività
e, quindi, di converso anche il senso reale delle loro espressioni; adesso,
più in particolare, ci permette anche di collocare questa tesi accusatoria
certamente non nuova che ha caratterizzato l’operato degli inquirenti
verso i più “vecchi” prigionieri politici fin nell’immediatezza
dell’attentato al prof. Massimo D’Antona. Sono ancora una volta
i prigionieri politici ad inquadrare il senso e la natura di queste tesi accusatorie;
già a suo tempo nel documento già citato del 12/12/01 e allegato
agli atti della corte di Assise di Roma nel processo Hunt-Prati di Papa, si
afferma quanto segue: “E' in questa condizione politica che trova ragione
anche l'intervento di criminalizzazione dei prigionieri. Un tentativo ridicolo
quest'ultimo di presentare i prigionieri come gli "ispiratori" del
rilancio e ciò con un duplice scopo: il primo e principale è quello
di sminuire l'enorme qualità di una avanguardia comunista combattente
in grado di produrre un avanzamento del patrimonio d'Organizzazione, ricollocandolo
offensivamente nello scontro, nella dialettica continuità-critica-sviluppo,
quale terreno che ha dato sostanza all'unitarietà e continuità
politica ai suoi assi strategici e teorici, questione che ha una valenza senza
precedenti nell'ambito dei processi rivoluzionari sviluppati dalla guerriglia
nei centri imperialisti; in secondo luogo quello di incrinare la determinazione
dei militanti BR e rivoluzionari prigionieri che hanno comunque svolto un ruolo
funzionale a rappresentare le acquisizioni delle BR-PCC, in specifico quelle
definite nella R.S., quale termine più avanzato di sviluppo del processo
rivoluzionario e ancorando la propria disposizione sulla centralità della
fase di ricostruzione. Una linea antiguerriglia sui prigionieri tesa a ricercare
un risultato purchessia, da un lato premendo con una criminalizzazione che prevalentemente
fa leva sulla costruzione di un "terreno giuridico" di incriminazione
dei comportamenti politici che sostanziano "la identità di Partito",
a partire dall'atto politico della rivendicazione; dall'altro e contestualmente
tentando di aprirsi un varco riutilizzando le logore trame dei servizi segreti,
con la velleità di "contrattare" una qualsiasi forma di dissociazione,
tentativo quest'ultimo che manifesta una volta in più le difficoltà
politiche poste allo stato dall'iniziativa delle BR-PCC”.
Il corso degli eventi ha solo in parte modificato il tipo d’uso che di
questa tesi hanno fatto gli organi inquirenti, adattandolo al modificarsi della
situazione soprattutto dopo le operazioni di polizia del 2002-2003, ma la sua
filosofia è rimasta il filo a piombo entro cui istruire e mandare avanti
anche questo processo
Su questa tesi accusatoria si innesta la seconda considerazione di ordine più
prettamente giuridico, ovvero si fa riferimento al fatto che, per sostenere
l’accusa in questo dibattimento nella ricerca finalistica della prova
concreta del fine direttivo e istigativo, si sono utilizzate e ribaltate in
questa sede parti di risultanze dibattimentali proprie di altre sedi e che quindi
esulano da questo processo, in particolare, in relazione all’accertamento
relativo al momento della redazione del documento di rivendicazione dell’attentato
al prof D’Antona, questo non solo è estraneo ai capi di imputazione,
ma oggetto di altro procedimento presso la competente Corte di Assise di Roma
e che tra l’atro vede imputati alcuni di quelli qui presenti.
Occorre quindi a questo punto, valutare, perché il giudice la tenga ben
presente al momento della redazione della sentenza, la soggettività degli
imputati, tutti già condannati per banda armata, e per i quali tutti
i processi che li riguardano rappresentano gli unici momenti in cui per loro
è possibile esternare il proprio pensiero, e imputarli per tale esternazione,
significherebbe condannarli per tali fattispecie tutti le volte in cui vengono
tradotti nelle aule di giustizia, e fin'ora non si era mai verificato, così
a suffragare la tesi della difesa che afferma che il contenuto degli scritti
sia soltanto una manifestazione del proprio pensiero.
Non solo questi costituiscono gli unici momenti di espressione, ma di libera
espressione del pensiero, in quanto solo in questi momenti il loro pensiero
non viene e non può venire censurato, come invece avviene normalmente
e regolarmente con tutti i loro scritti provenienti dal carcere; anche perché
chiunque pubblicasse scritti di detenuti delle B.R. in carcere, potrebbe essere
incriminato per qualche forma di concorso, mentre invece i documenti presentati
ai processi sono documenti pubblici e pertanto non è incriminabile la
loro pubblicazione. La loro conclamata attività politica rivoluzionaria
prima dell'arresto rende il loro pensiero di per sé privo di ogni possibilità
di incriminazione, giacché è ancor prima, frutto di incriminazione,
l'appartenenza stessa a quella organizzazione che racchiude quindi il loro modo
di essere, di porsi di fronte agli organi dello Stato e quindi anche agli organi
della giustizia, di pensare e di esternare il loro pensiero e risulterebbe paradossale
incriminarli anche per le singole forme e modalità di appartenenza, appartenenza
che inevitabilmente attribuisce ai suoi componenti una specifica identità
politica.
Ricondurre quindi il comunicato del giugno 1999 ad ipotesi di reato, significa
tentare di separare, sul piano giuridico-formale e sul piano di gestione processuale,
l'atto politico del comunicato, dall'identità politica e dai caratteri
politici che contraddistinguono la militanza politica in prigionia. Questo nodo,
che ha caratterizzato tutto l’andamento del processo, ha un’importanza
fondamentale per capire il corso stesso del dibattimento, gli eventi che si
sono succeduti dando origine a momenti di attrito molto forte fra la Corte e
gli imputati. Nella realtà tutto ciò che è avvenuto, nonché
i meccanismi processuali e formali messi in campo sono stati avvolti dalla contraddizione
di fondo che sta alla base di questo stesso procedimento nella logica interna
che lo guida. Da una parte l’accusa, col separare l’atto politico
del comunicato dall’identità politica degli estensori, ha permesso
su un piano meramente giuridico-formale di svuotare il significato reale dell’atto
politico per ricondurlo ad un piano di reato, nel contempo ciò ha comportato
il riempirlo di un diverso significato politico relativo alla funzionalità
direttiva ma estraneo al pensiero degli stessi estensori del comunicato e, tutto
sommato, fondamentalmente puntato alla loro criminalizzazione in quanto prigionieri
politici BR. In questo senso ciò che era stato separato sul piano giuridico-formale
nell’attribuzione della fattispecie di reato si ricompone nel processo
di criminalizzazione del comportamento e dell’identità degli imputati
in quanto tali. Dall’altra parte, il comportamento dei prigionieri ha
teso a ricomporre e ricollocare esattamente nel suo reale significato la natura
vera dell’atto politico del comunicato del giugno ’99 con la loro
reale identità politica e i caratteri di espressione che assume nella
prigionia rispetto a quelli di un’organizzazione in attività.
In estrema sintesi, a partire da questa contraddizione, ciò che è
emerso in maniera più manifesta è che in fondo ciò che
si pone come punto d’accusa non è tanto in sé il comunicato
del giugno ’99, ma la soggettività politica degli imputati nel
suo complesso e questo viene fatto con un apparato accusatorio che usa uno strumento
messo in campo a suo tempo dal fascismo per regolare i conti con i propri oppositori
politici: “Perciò mentre costringe i processi reali nelle ricostruzioni
giudiziarie e strumentali al suo fine politico, cerca di utilizzare in vario
modo i prigionieri, ostaggi nelle sue mani, sfruttandone le figure rivoluzionarie
che perciò stesso rappresentano, per contrastare l'avanzamento politico
nella costruzione del P.C.C. sancito dal rilancio, da un lato contrastando e
stravolgendo la condotta inscritta nel solco storico di una tradizione centenaria
di rivendicazione della propria identità militante da parte dei prigionieri
rivoluzionari, e di riadeguamento agli indirizzi dell'Organizzazione in attività
da parte dei militanti B.R. e rivoluzionari prigionieri…” (verbale
udienza 13/09)
Tutte le argomentazioni sin qui sviluppate convergono chiaramente verso un'unica
conclusione che è la sola dotata di logicità intrinseca e coerenza
storica, oltre che in linea con le premesse di ordine tecnico giuridico da cui
ha preso le mosse la tesi difensiva: l'impossibilità di attribuire, come
pure vorrebbe l'accusa, valenza programmatico-direttiva e portata istigatrice
al documento in questione, impossibilità legata al particolare e ampiamente
esaminato ruolo politico dei detenuti, si traduce nella impossibilità
di ritenere integrate le ipotesi delittuose di cui ai capi di imputazione, stante
la comprovata mancanza nel caso di specie, della concreta offensività
del fatto quale elemento che condiziona la rimproverabilità penale dei
suoi autori.
In sostanza se quel documento non aveva, perché non poteva averla, valenza
direttiva, e quindi non aveva capacità di orientare o stimolare in alcun
modo le iniziative dei membri dell'O. in attività, allora la sua effettiva
rilevanza deve essere riportata entro i limiti della libera e non incriminabile
manifestazione del pensiero, e per questo non può essere fatta rientrare,
a meno di non voler ricorrere a forzature di ordine storico e logico, nel modello
legale astratto delle fattispecie apologetiche.