Biblioteca Multimediale Marxista
Il processo che viene qui celebrato contro i militanti delle BR-PCC e i rivoluzionari
è pienamente calato nel clima di questa nuova fase politica, una fase
politica complessa e densa di contraddizioni la quale, in relazione al piano
che investe questo processo, riflette da un lato le particolari condizioni provocate
dalla politica antiguerriglia sui prigionieri, dall'altro è la misura
politica delle modifiche profonde che stanno avvenendo negli assetti del potere
della borghesia, nella sostanza stessa della mediazione politica tra classe
e Stato. La proposta dello Stato di soluzione politica per la guerriglia fatta
qualche anno fa ai prigionieri, allo scopo di chiudere il conflitto aperto dal
terreno rivoluzionario, ha sostanzialmente fallito il suo obiettivo, in quanto
si è risolta unicamente con un ulteriore arruolamento nelle file della
controrivoluzione di alcuni ex militanti, mentre il tentativo di riversarla
sul terreno dello scontro rivoluzionario si è scontrato con l'indisponibilità
delle BR e dei rivoluzionari a deporre le armi.
Il risvolto alla soluzione politica ha dato luogo ad un incremento dell'attività
antiguerriglia volta a liquidare militarmente le BR e per altro verso a ridefinire
le condizioni dei prigionieri che non intendono mercanteggiare la loro identità
rivoluzionaria e d'organizzazione col nemico di classe. La politica antiguerriglia,
compresa la sua specifica accezione verso i prigionieri, deriva direttamente
dalle condizioni politico-generali dello scontro di classe, ovvero il modo con
cui essa viene definita è strettamente legato all'evoluzione dei rapporti
politici tra classe e Stato; per questa ragione il fallimento della soluzione
politica non è dipeso unicamente dalla netta intransigenza opposta dalle
BR-PCC a questo tentativo controrivoluzionario, ma principalmente dalla vitalità
del processo rivoluzionario, dalle condizioni oggettive e soggettive per espletarlo,
dalla verifica attraverso la pratica della centralità della prospettiva
rivoluzionaria nel contesto dello scontro fra classi esistente nel nostro paese,
e dalla funzione che in ciò vi riveste l'avanguardia combattente.
Proprio per l'evidenza di questo dato politico il quale dipende dal carattere
della dinamica generale dello scontro di classe in Italia i "golpisti istituzionali"
che in questa fase gestiscono la politica dell'Esecutivo, non trovano altro
modo di contenere le istanze antagoniste che si producono nel campo proletario,
se non attraverso chiare e concrete intimidazioni all'interno di un attacco
ampio e articolato che si avvale di metodi di controguerriglia contro gli aspetti
qualificanti dello scontro e come "tattica" preventiva per smorzare
il montare delle istanze di lotta. La difficoltà di tenere a bada entro
limiti di "mediazione possibile" la crescente opposizione di classe
porta l'Esecutivo ad operare forzature su forzature nelle relazioni politiche
con la classe. La difficile gestione di tali pressioni viene mistificata dalla
"campagna contro la criminalità". Sì, esiste una campagna
di criminalità, ma è quella che sta attuando l'Esecutivo contro
l'ambito di classe: raid militari nei conflitti di lavoro e contro le espressioni
del Movimento Rivoluzionario, interventi d'autorità sul diritto di sciopero,
esecuzioni legalizzate, minacce di estendere i metodi antiguerriglia sul movimento
di classe. Questa travagliata fase di scontro fa temere allo Stato la sola cosa
che più di ogni altro può mettere in discussione il suo potere:
ovvero l'attività rivoluzionaria delle Brigate Rosse, perché capace
di legarsi dialetticamente alle istanze di lotta più mature, e di dirigerle
e organizzarle sul terreno dello scontro rivoluzionario.
Questo spettro, la guerriglia, non fa dormire sonni tranquilli alla borghesia
e al suo Stato, perché rappresenta l'alternativa strategica, concreta
e praticabile alla crisi della Borghesia Imperialista. Ed ecco agitare questo
spettro in termini preventivi nel chiaro intento di strumentalizzare la guerriglia
per ritorcerla da un lato contro il movimento di classe, dall'altro contro le
stesse Brigate Rosse. Una politica terroristica questa dagli evidenti limiti...
e che dimostra le insormontabili difficoltà della Borghesia Imperialista,
mentre per lo scontro rivoluzionario le prospettive non possono venir meno,
al di là di inevitabili battute d'arresto, dato lo spessore politico
che in questo ventennio si è sedimentato nel tessuto di classe e nelle
sue avanguardie a partire dal ruolo che le BR hanno saputo svolgere nel dirigere
questo complesso processo rivoluzionario.
In questo senso la nostra presenza qui è tesa ad esprimere l'attualità
e la validità della linea politica e della proposta strategica della
nostra Organizzazione malgrado la volontà, che si esprime anche in quest'aula,
di soffocare la presenza politica dei militanti delle BR e dei rivoluzionari,
di mistificare il senso stesso dei processi politici contro la guerriglia dentro
formule e riti giuridici che per quanto sommari risultano inefficaci a nascondere
la natura di classe di questi processi: quindi il nostro atteggiamento qui non
può che riflettere il rapporto di guerra esistente tra la guerriglia
e lo Stato, e in conseguenza di ciò, ribadiamo l'inconciliabilità
delle nostre posizioni nei confronti dello Stato.
Per meglio comprendere i caratteri della fase politica che si è aperta
nel nostro paese è necessario delineare brevemente il quadro internazionale
che si è maturato in quest'ultimo decennio data la stretta relazione
che corre tra la situazione in Italia e nel resto del mondo capitalistico. Mai
come adesso la contraddizione Est-Ovest manifesta la sua dominanza all'interno
del contesto mondiale. Le demagogiche campagne dell'imperialismo sulla "dissoluzione
dei blocchi" e sulla nuova "era di disarmo" a mala pena dissimulano
gli interessi economici, politici e militari che sottostanno alle prese di posizione
e al ruolo svolto dai paesi occidentali all'interno della frantumazione degli
equilibri post-bellici. L'accumularsi delle contraddizioni prodotte dalla crisi
economica e dagli elementi di approfondimento dell'imperialismo, nel loro interconnettersi,
premono verso il piano delle relazioni politiche, e quindi anche militari, stabilite
dal rapporto Est-Ovest, una dinamica questa che è alla base dell'attuale
fase dell'imperialismo; quello che si sta verificando è un complesso
processo, che ha maturato significativi passaggi della tendenza alla guerra,
e che si manifesta con caratteristiche specifiche a questa fase dell'imperialismo.
Il riflesso di questi passaggi sul piano politico e militare si misura giocoforza
col quadro storico stabilito dalla divisione del mondo in due sfere d'influenza,
in due campi di interesse contrapposto, e che nella fase attuale da origine
a quelle peculiari relazioni tra l'imperialismo e i "paesi dell'Est"
date anche dalla specifiche condizioni e contraddizioni di questi paesi. Così
come la crisi che si produce dentro al modo di produzione capitalistico, la
tendenza alla guerra e il portato oggettivo dell'accumularsi critico della crisi
generale di sopvrapproduzione assoluta di capitali (e di mezzi di lavoro) che
non possono operare come tali. Uno stato a cui il capitale, esaurite tutte le
possibili controtendenze, ha risposto storicamente con la guerra, quale mezzo
per ditruggere il sovrappiù di capitale prodotto in tutti i suoi termini,
dove lo stadio di accumulazione critica delle contraddizioni mette in discussione
equilibri e rapporti di forza complessivi premendo per una loro ridefinizione.
Il movimento economico che si è affermato in quest'ultimo decennio nel
mondo capitalistico, a seguito delle ristrutturazioni e delle introduzioni di
nuove tecnologie nella produzione, ha fatto sí che si formassero poderosi
processi di accentramento e centralizzazioni monopolistiche. Un processo che
nel suo insieme ha liberato enormi quote di capitale finanziario. Per il grado
di interdipendenza già esistente tra le economie capitaliste, questo
movimento ha provocato un salto in avanti nel livello di internazionalizzazione
ed integrazione economica tra gli Stati della catena imperialista; ciò
ha nel contempo evidenziato le modifiche sopravvenute nella collocazione dei
paesi della catena rispetto alla divisione internazionale del mercato del lavoro
uscita dal dopoguerra. Sono gli USA, quale paese più sviluppato della
catena, che hanno fatto da battistrada rispetto alle tendenze economiche affermatesi
nel resto del mondo capitalistico, e propria per questa ragione hanno consumato
per primi tutte le tappe che conducono alla crisi. La velocità con cui
si consuma il ciclo capitalistico negli USA ha fatto sí che si affermasse
la tendenza ad usare la politica del riarmo (e in taluni casi sbocchi militari)
come "stimolatore" dell'economia; basti pensare che fin dal 1948 il
ciclo espansivo già iniziava ad incepparsi manifestando i primi segni
di recessione. La guerra di Corea ha avuto in quel caso la funzione di ritrainare
l'economia USA. Quando è avvenuto il salto di composizione organica nella
produzione, con l'introduzione della microelettronica e della robotica nei mezzi
di lavoro, la velocità del ciclo è ulteriormente aumentata, e
per la maggior produttività derivata anche dall'intensificazione dei
ritmi di lavoro, si è alzato vertiginosamente il tasso di plusvalore
relativo dando luogo a questa dinamica capitalistica: da un lato processi di
concentrazione monopolistica, dall'altro uno stimolo alla caduta tendenzionale
del saggio medio di profitto. Ma la rapidità con cui si è consumato
il ciclo ha provocato una strisciante e pervicace recessione; soprattutto verso
la fine del periodo reaganiano la struttura produttiva si è significativamente
indebolita anche per la tendenza dei capitalisti a chiudere o non rinnovare
gli impianti produttivi investendo solo in particolari settori ad alta tecnologia.
La dimensione di questa tendenza ha configurato un vero e proprio processo di
destrutturazione produttiva, la cosiddetta deindustrializzazione. In una certa
misura le stesse scelte di politica economica compiute durante la presidenza
Reagan hanno contribuito all'indebolimento della struttura produttiva. Il neo-liberismo
ha messo in atto una serie di misure per favorire la ripresa dell'accumulazione
capitalista e l'incremento dei profitti, in tal senso ha agito su più
piani: sia stimolando l'azione selettrice della concorrenza, sia con apposite
politiche monetarie, sia comprimendo le spese sociali; se a ciò si aggiunge
la drastica riduzione del costo del lavoro avvenuto con le ristrutturazioni,
si comprende come il cosiddetto "boom economico più lungo del dopoguerra"
sia solo riferito ai profitti, in quanto è avvenuto in un contesto recessivo,
contesto che non ha prodotto un'allargamento della base produttiva al livello
dell'investimento capitalistico necessario. Il boom dei profitti è stato
tale da causarne un'inflazione e ciò ha favorito quella particolare tendenza
ad impegnarli in speculazioni finanziarie, le quali conseguentemente hanno rigonfiato
i parametri economici rispetto alla ricchezza reale prodotta. I poderosi processi
di fusione attuati dai grandi trust monopolistici in settori ad alta composizione
organica hanno avuto come risvolto il ridimensionamento dei settori a bassa
e media tecnologia e la rovina di gran parte dell'agricoltura, un processo che
come rovescio ha inevitabilmente approfondito le differenze sociali.
Alcuni dati possono dare la misura di questa realtà. Nella produzione
in questo decennio la produttività per addetto è aumentata del
14%, mentre la perdita di potere contrattuale della classe operaia e delle sue
rappresentanze sindacali ha consentito che fossero stipulati contratti che per
assurdo prevedevano una riduzione di salario in casi di perdita di competitività
dell'azienda; la stessa rimodellazione del mercato del lavoro ha camuffato i
dati concreti, facendo apparire come occupati anche quelli che hanno lavorato
poche settimane l'anno, o poche ore per settimana, o tramite la possibilità
di suddividere un salario tra più persone. La riduzione delle spese sociali
(previdenza, casa, sanità, istruzione) ha inciso sul livello di reddito
di quegli strati che in passato sono stati l'anima della classe media, comportandone
un drastico impoverimento. Di fatto in questo decennio gli stessi parametri
borghesi calcolano al 13% sull'intera popolazione il tasso di povertà.
Al fine di intervenire sugli effetti della crisi in termini controtendenziali
e favorirne il decorso sono stati sviluppati molti studi dagli economisti borghesi
sul tipo e durata dei cicli, come ad esempio quelli elaborati dal "Centro
internazionale per la ricerca sui cicli economici della Columbia University",
una maggiore conoscenza che è servita per intervenire preventivamente
con politiche mirate. Queste politiche, soprattutto quelle monetarie, hanno
funzionato da stimolo artificiale delle stasi, per questo è stato possibile
convivere con la recessione per così tanto tempo. Gli effetti di questi
palliativi ("economia drogata") hanno dato spazio a tesi sulle capacità
autogeneratrici del capitalismo e ad apologetiche "bontà" di
questo sistema sociale. Ma poiché le controtendenze non possono incidere
nella sfera della produzione, nella sede cioè dove si produce la crisi,
queste finiscono solamente per spostare in avanti le contraddizioni approfondendole
ulteriormente, tenendo anche conto della diminuzione del capitale messo in moto
in un ciclo capitalistico a questo livello di sviluppo. Per queste ragioni le
controtendenze messe in atto negli anni '80 hanno esaurito il loro effetto "calmierante",
finendo con il produrre gravi scompensi nell'economia mondiale. Nonostante questi
interventi, negli USA dall'82 la crescita del prodotto nazionale lordo non ha
superato la soglia del 3%, indice per il quale gli stessi economisti borghesi
non considerano vi possa essere crescita: in poche parole recessione.
La realtà è che a far da volano dell'economia statunitense è
stato il più colossale riarmo prodotto dal dopoguerra, il principale
intervento di politica economica operato dalla Casa Bianca e su cui ha fatto
ruotare tutte le altre decisioni economiche. Gli alti tassi d'interesse hanno
permesso di rastrellare capitali da ogni parte andando a finanziare i programmi
del Pentagono, una politica monetaria che se è stata funzionale al riarmo,
ha da un lato esportato inflazione in Europa, dall'altro ha contribuito ad ingigantire
il deficit di bilancio sia federale che nel commercio. La scelta del riarmo
ha permesso e permette di immobilizzare i capitali eccedenti all'interno delle
tecnologie avanzate impiegate intorno al settore bellico, un settore che assorbe
enormi quote di finanziamento solo per sviluppare la ricerca (parte di essa
finalizzata su calcolatori superveloci). Le tecnologie avanzate applicate al
militare hanno consentito di approntare sofisticati sistemi d'arma, applicabili
tanto ai satelliti quanto alle nuove e moderne armi convenzionali; un dato questo
che dimostra l'inconsistenza degli apologetici scenari di pace che la propaganda
imperialista cerca di propinare, non fosse altro che per il volume astronomico
degli investimenti "incorporati" all'interno del riarmo.
Data l'interconnessione delle economie, è subito chiaro come l'andamento
dell'economia statunitense condizioni quelle degli altri paesi. In questo senso
le principali controtendenze tendono ad affermarsi in tutto l'ambito capitalistico,
rafforzando l'interdipendenza e complementarietà, nonché il loro
rapporto gerarchico; così è stato per le politiche keynesiane,
come per quelle neo-liberiste, così lo è tendenzialmente per il
riarmo. L'Europa Occidentale fino ad ora, pur nelle sostanziali differenze di
posizioni, ha usufruito di maggiori margini economici. La stratificazione risultata
dallo sviluppo ineguale ha permesso di ammortizzare gli effetti della crisi
in tempi più lunghi, ciò ha consentito di adottare misure controtendenziali,
che tra l'altro non hanno soffocato le produzioni a bassa e media tecnologia,
anzi sono state favorite da appositi aiuti statali. Ciò nonostante in
questi ultimi anni la tendenza ad adottare la scelta della particolare politica
economica del riarmo, come traino dell'economia, è proceduta in modo
consistente anche in Europa Occidentale a partire dall'Inghilterra che per prima
vi ha ricorso anche a causa delle sue strette relazione con gli USA. Ma la politica
di riarmo, necessitando di ingenti masse di capitale finanziario per potersi
legare alle tecnologie avanzate, richiede giocoforza uno sforzo comune dei paesi
europei, per questo attualmente sia la ricerca che le commesse vere e proprie
sono centralizzate da organismi che fanno riferimento alla NATO. Questa cooperazione,
in parte forzata, favorisce l'ulteriore interconnessione delle economie e su
un altro piano si riflette nei livelli di integrazione politico-militare. Per
questa ragione la filosofia dell'Alleanza Atlantica, rispecchiando questa situazione,
ha promosso significative esperienze interforce che integrano i rispettivi ammodernamenti
degli eserciti e per altro verso approfondiscono i livelli di collaborazione
multilaterale e bilaterale tra paesi europei in campo militare. Le differenze
che si sono accentuate nella collocazione dei paesi della catena vedono spostarsi
il peso economico verso il cuore dell'Europa Occidentale, senza che questo significhi
perdita della leadership degli USA, sia perché rimane il paese più
sviluppato capitalisticamente, per quanto indebolito dalla strisciante recessione,
sia per il ruolo politico-militare che a tutt'oggi rende gli USA in grado di
forzare e pilotare verso le sue scelte politiche i partners della catena, pur
tra stridenti contraddizioni, senza dimenticare la capillare penetrazione economica
che il gigante statunitense ha perpetrato sull'intero continente, con conseguente
influenza politico-militare. Tutto ciò all'interno della dimensione internazionalizzata
dell'imperialismo che costringe ad una stretta interrelazione economica tutti
i paesi della catena, con il risultato di poter scaricare parte degli effetti
della crisi sugli altri partners. Questo quadro però non si presta a
facili schematizzazioni come quelle che vedono tre principali antagonisti in
campo, Giappone-USA-Europa Occidentale; ciò è infondato per il
fatto che da un lato l'economia giapponese è cresciuta in modo totalmente
dipendente dagli USA, e quindi con un certo grado di complementarietà,
mentre dall'altro l'Europa Occidentale, pur nelle differenze di movimento della
dinamica capitalistica, è assai integrata al livello di composizione
dei colossi monopolistici col capitale finanziario USA, anche se gli ultimi
anni hanno visto un'inversione di tendenza degli investimenti, accentuandosi
quelli europei verso gli USA. Questi dati acuiscono maggiormente i livelli di
concorrenzialità sui mercati capitalistici sottoponendoli a spinte contrastanti,
e questo anche perché l'ultimo decennio è stato decisivo per una
modifica qualitativa dell'ambiente capitalistico nello specifico europeo a causa
del formarsi di significative aggregazioni monopolistiche intereuropee (e per
la maggior tenuta del tessuto produttivo). Questa situazione ha in un certo
senso rivoluzionato i termini della concorrenza interimperialista dato il definirsi
delle nuove concentrazioni le quali richiedono, per formarsi, un ulteriore avanzamento
del grado di internazionalizzazione; inoltre per le spregiudicate politiche
commerciali che ogni paese adotta ciò provoca inevitabili resistenze
e spinte protezionistiche di tutti i paesi capitalistici, nonostante gli accordi
commerciali che vengono periodicamente fatti e puntualmente disattesi per il
forzare della concorrenza. Di fatto il protezionismo scarica i suoi effetti
più negativi nel commercio mondiale con i paesi in via di sviluppo. Il
quadro europeo è, in questa congiuntura economica, il centro del movimento
dei capitali. La liberalizzazione del mercato europeo e gli accordi politici
raggiunti ratificheranno una realtà sostanzialmente operante: gli ulteriori
passaggi politici a livello comunitario sanciranno le regole tese a formare
l'ambiente più favorevole alle aggregazioni monopolistiche, diventando
esse stesse veicolo per il processo di coesione politica europea. Ma l'Europa
Occidentale non è un territorio economicamente e politicamente omogeneo;
le differenze stratificate di peso economico delineano una gerarchizzazione
marcata al centro della quale si situa la Repubblica Federale Tedesca. La RFT
è andata assumendo un ruolo economico preponderante soprattutto all'interno
di questa fase, a partire dalle caratteristiche della sua situazione economica,
che in termini capitalistici è una delle più avanzate. Nella RFT
si esprime emblematicamente l'aspetto dominante dell'imperialismo, dato dalla
fusione tra capitale finanziario e capitale industriale e, per la sua specifica
storia economica, ciò è favorito dalla sostanziale mancanza di
vincoli nel ruolo delle banche come accentratrici di capitale finanziario. Questo
ha fatto sì che pochi grandi gruppi bancari detengano quasi di fatto
il controllo dei settori industriali più importanti del paese attraverso
formule di partecipazione che ne garantiscono la maggioranza assoluta (la Deutsche
Bank, la Dresdener Bank, la Commerzbank hanno partecipazioni, e quindi controllo,
in proporzioni simili, nella Daimler nella Benz, nella Metallghesellshaft, nella
Westfallen, Holzmann, Volkswagen, Basf, Hoechst, Siemens, Mbb, ecc...); per
questa ragione il capitale finanziario e la funzione delle banche nella RFT
hanno un ruolo cruciale nel controllo dell'andamento dei mercati, nelle fusioni
tra grandi trust, sia dentro al paese che di tipo multinazionale e, cosa fondamentale,
sulla direzione dei flussi finanziari. Questa realtà spiega da sola la
centralità dell'attacco sferrato dalla Rote Armee Fraktion al presidente
della Deutsche Bank, A. Herrhausen, tenendo conto dell'influenza che un tale
ruolo esercitava nelle decisioni politiche principali prese a diversi livelli
nella RFT. Anche nella RFT (così come nel resto dell'ambito capitalistico)
gli altissimi profitti che le concentrazioni monopolistiche raggiungono avvengono
in un contesto di recessione strisciante, in concomitanza dell'utilizzo degli
impianti attivi vicino al 90% della loro capacità, mentre sul piano della
cicolazione c'è troppa liquidità, un valore del marco troppo alto,
un'inflazione troppo instabile e, per altro verso, uno sbilancio degli investimenti
sempre più massicci verso l'estero; in poche parole, gli effetti più
vistosi della sovrapproduzione assoluta di capitali. Risalta agli occhi l'analogia
storica con il precedente periodo prebellico nelle caratteristiche della situazione
economica della RFT (così come nel resto dell'Europa Occidentale) e ciò
è ancora più evidente se si confronta il suo riflesso sul piano
politico. Oggi come allora la RFT è il nodo cruciale delle svolte politiche
che si prefigurano in questa delicata fase internazionale. Ma le analogie non
possono rendere la complessità dei fattori in gioco subentrati nella
situazione, proprio a partire dal rapporto Est-Ovest nonché per l'evoluzione
maturatasi in questi 45 anni a partire dalle relazioni che l'imperialismo ha
stabilito con i paesi in via di sviluppo. La principale novità storica
è appunto la realtà dei paesi che hanno operato le prime rotture
rivoluzionarie, un fattore che per la sua importanza ha reso la contraddizione
Est-Ovest dominante su tutte le questioni internazionali e che ha scandito dal
dopoguerra le tappe sostanziali degli equilibri mondiali. Un fattore che ha
il suo cuore proprio nella Germania (divisa in due dopo il conflitto) dove si
riflettono tutti i mutamenti di sostanza del rapporto tra i blocchi (anche perché
geograficamente interessata dallo spostamento di tali equilibri). I mutamenti
di sostanza in quest'ultimo decennio, nascono proprio dalla RFT (e dall'insieme
dell'Europa Occidentale) a partire dalla capillare penetrazione economica verso
i paesi dell'Est. La forte complementarietà tra le economie dell'Europa
Occidentale - e della RFT in particolare - e quelle dei paesi dell'Est - URSS
in testa - è alla base del sostenuto flusso di investimenti destinato
ad aumentare nel prossimo futuro. Già l'interscambio commerciale con
i paesi del blocco orientale per la sola RFT è di circa 24 miliardi di
marchi di esportazione e di circa 20 miliardi di marchi di importazione, con
un saldo attivo di oltre 4 miliardi di marchi per la RFT; se si paragona l'interscambio
fra la RFT e gli USA (esportazioni verso gli USA per più di 45 miliardi,
importazioni per circa 29 miliardi, con un attivo di oltre 16 miliardi di marchi
per la RFT) si può comprendere l'importanza di questo dato (fonti Bundesbank).
Una penetrazione economica che non è alternativa al riarmo, anzi i due
aspetti si autoalimentano, per la natura del capitale, anche per l'elemento
qualitativo di questa penetrazione dato da massicci flussi di capitale finanziario
e che assumono pure la forma di "aiuti" economici all'Est europeo;
è la crisi economica dell'imperialismo che spinge verso questa direzione
poiché i paesi dell'Est europeo sono sufficientemente strutturati da
consentire quella complementarietà necessaria a rilanciare la produzione
con una diversa divisione internazionale del lavoro e dei mercati. Cosí
come per la seconda guerra mondiale furono gli USA che di fatto finanziarono
il conflitto attraverso gli enormi investimenti in Europa, e principalmente
in Germania quale paese più ricettivo, nella fase storica attuale è
possibile che si ripresenti una dinamica simile, dove però il ruolo che
fu degli USA non è svolto da un singolo paese, ma vi concorre la catena
imperialista nel suo insieme, pur con posizioni differenziate che favoriscono
l'Europa Occidentale e, all'interno di essa, la RFT per la forza che vi esercita
il capitale finanziario. Se dal breve al medio periodo questa dinamica economica
consentirà una stasi nell'accavallarsi del processo di crisi economica,
dal medio al lungo periodo gli effetti economici, che si matureranno dall'uso
del riarmo come principale immobilizzo di capitali eccedenti, avvicineranno
come non mai lo sbocco militare date le caratteristiche peculiari "dell'investimento
bellico", il quale non consente un rientro nel circuito produttivo, anzi
il loro non uso porta al collasso economico (beninteso il riarmo è altra
cosa dalla normale produzione bellica che funziona dentro alle leggi della produzione
in generale, dato che il "riarmo" è un intervento di politica
economica che porta ad armare per sé lo Stato che se ne fa carico e non
per il normale commercio). Se questa è la particolarità del riarmo
dentro lo stadio economico che materializza la tendenza alla guerra in presenza
di altre circostanze (crisi generale di sovrapproduzione assoluta di capitali
con lungo ristagno produttivo e recessivo, mercati capitalistici saturi, equilibri
nella divisione internazionale del lavoro e dei mercati che necessitano di essere
ridefiniti) ciò non significa attuazione immediata della tendenza poiché
l'interazione con i fattori politici e militari abbisogna della rottura di molti
equilibri politici e la maturazione di altri che si avvicinano a questa realtà
(necessità) economica; processo per niente spontaneo e oggettivo, ma
dato dal concreto scontro fra i diversi soggetti politici in campo.
L'Europa Occidentale in questo contesto generale, per i processi di coesione
politica che sta promuovendo, acquista un peso sempre più rilevante nel
processo di modifica degli equilibri del vecchio assetto postbellico, non solo
lungo la direttrice Est/Ovest, ma anche nelle aree di crisi della periferia.
E' indubbio che la RFT in questo quadro tende ad imprimere i suoi interessi
nelle scelte e nelle posizioni che assumono i paesi europei; questo per la forza
del suo ruolo economico, che si impone nonostante scontri e differenze. Il grosso
interesse della RFT ad impossessarsi degli spazi economici che i vicini paesi
del'Est - Repubblica Democratica Tedesca in testa - offrono, è rivestito
da plateali quanto revanscistici richiami nazionalistici "all'autodeterminazione
dei popoli", un cinismo politico che non manca alla Borghesia Imperialista
tedesca e che consentirà un ulteriore rafforzamento della sua posizione
economica.
Per questo la RFT assume un peso centrale all'interno della ridefinizione degli
equilibri Est/Ovest. L'Europa comunitaria, nonostante i propositi di "unificazione
politica" enunciati in primo luogo da Francia, Italia, RFT, è nella
realtà un processo molto contraddittorio, perché se da un lato
la dinamica stessa di questa fase dell'imperialismo necessita dello svincolo
delle "barriere normative e commerciali nazionali", dall'altro l'aspra
concorrenza per occupare le posizioni più appetibili sul mercato capitalistico
comporta una accentuata conflittualità in riferimento agli specifici
interessi, come nel caso appunto della RFT. Infatti essa intende far pesare
a suo favore lo sgretolamento degli equilibri con l'Est europeo poiché
più favorita nell'accapparramento di questi mercati e quindi intenzionata
a condizionarli ed inglobarli anche politicamente approfittando della loro attuale
"instabilità politica". Questo ha un riflesso proprio sul procedere
di questi accordi politici che dovrebbero promuovere una "formale giurisdizione
europea". Tale discontinuità non impedisce all'Europa Occidentale
di procedere nella coesione politica attraverso intese che di volta in volta
si formano per il concomitare di reciproci interessi, come nel caso dell'opera
di sfondamento ad Est attraverso pressioni di ogni tipo ed entità miranti
a creare le condizioni favorevoli alla penetrazione del capitale finanziario,
con il dispiegamento di vaste pressioni politiche; un terreno questo che coinvolge
tutti i paesi della catena imperialista. Per questa ragione pare delinearsi
un'informale divisione dei mercati futuri (vedi il tentativo dell'Italia di
costituire un polo alternativo di aggregazione, alternativo a quello che nella
regione settentrionale dell'Europa Occidentale ruota attorno alla RFT). Il dinamismo
politico europeo per quanto persegua interessi specifici non è in antagonismo
con gli interessi USA (almeno all'interno di questa fase) nonostante le diverse
modalità con cui si relazionano alla contraddizione Est/Ovest; essi in
modo diverso concorrono ad avvicinare il medesimo obiettivo: la rottura dei
vecchi equilibri. Ciò non significa affatto fine del bipolarismo, si
è chiusa solo una fase dello scontro Est/Ovest per l'apertura di un'altra
e in relazione all'aggressività raggiunta dal capitale monopolistico
in questa fase di crisi-recessione. E' nel contesto della tendenza alla guerra,
fatta di visibili e concreti processi di riarmo e compattamento all'interno
dell'alleanza imperialista, pur nella diversità di ruolo e ai diversi
gradi in cui si manifesta la crisi generale, che si colloca la coesione economica,
politica e militare dell'Europa Occidentale. Un processo che perciò investe
tutte le sue strutture sovranazionali (NATO, UEO, Consiglio d'Europa) a dimostrazione
che i cosiddetti processi di pace sono solo un velo mistificatorio per nascondere
le pressanti contraddizioni politiche ed economiche in cui si dibatte l'imperialismo.
Sono gli USA, incalzati dalla crisi, a prendere l'iniziativa; essi adottano
una strategia globale tesa ad intervenire in ogni zona di crisi, sia cercando
di impedire la perdita di posizioni sia operando per il loro rafforzamento,
interventi che sono principalmente di origine militare fino a palesare vere
e proprie invasioni (dirette) come i recenti fatti in centro-America stanno
a dimostrare. Intorno a questa strategia globale gli USA cercano di compattare
tutta l'alleanza imperialista. L'attivismo USA è principalmente coadiuvato
dall'Europa Occidentale tramite l'intensa attività "politico-diplomatica"
consentitagli dai maggiori margini di manovra; questa si esprime principalmente
nell'area di crisi mediterranea-mediorientale per ricucire in avanti gli strappi
operati dalle precedenti forzature militari USA. Un'area che per la sua importanza
(confine non definito nel dopoguerra, rotte strategiche) ha necessitato di un
intervento di ordine complessivo; esso ha operato verso i conflitti nel senso
di un loro contenimento e normalizzazione permettendo sostanziali modifiche
nelle posizioni dei paesi arabi in senso filo-occidentale. Ma la normalizzazione
è lontana dall'essere raggiunta per la resistenza opposta dai popoli
libanese e palestinese, resistenza tale da far naufragare i vari tentativi d'intervento
diretto, come ad esempio quello francese in Libano oppure, per altro verso,
le pressioni cosiddette diplomatiche condotte dall'Italia in primo luogo per
contenere, all'interno di una soluzione mediata, la rivolta del popolo palestinese
data la sua indisponibilità a farsi normalizzare dalla pace imperialista.
E' un fatto che la resistenza del popolo palestinese non, ha permesso l'attuazione
del piano Shultz-Shamir sull'autonomia amministrativa dei territori, facendo
fallire tutti gli "accordi" che non si misurano con le questioni che
la lotta ha posto all'ordine del giorno. La determinazione rivoluzionaria del
popolo palestinese nel perseguire l'obiettivo della propria autodeterminazione
sta minando ed erodendo la capacità di contenimento militare d'Israele
per i riflessi che questo conflitto produce sul piano politico, sia interno
all'area che a livello generale. La regione mediorientale-mediterranea è
il luogo ove si riflettono e si intrecciano sia la direttrice Est-Ovest quale
zona non definita nel dopoguerra e in cui l'alleanza occidentale ha premuto
e preme (già nel '48 con l'installazione dell'entità sionista
a gendarme degli interessi imperialisti) al fine di modificare l'equilibrio
di questi confini a suo favore, sia la direttrice Nord-Sud la quale coinvolge
direttamente l'Europa Occidentale perché sua naturale zona d'influenza,
e dunque per i conflitti che si producono tendenti a rompere la "cappa
normalizzatrice" dell'imperialismo. Per questi due aspetti centrali questa
regione va considerata l'area di massima crisi rispetto alle altre aree di crisi
periferica. Ma è tutta la periferia ad essere sottoposta all'intervento
dell'imperialismo, a partire dall'attivismo militare USA; esso, laddove non
è direttamente praticato, è ugualmente presente attraverso i finti
governi e le forze controrivoluzionarie che gli USA organizzano. Questo è
il tipo di relazioni internazionali che intendono instaurare laddove le armi
della diplomazia e lo strangolamento economico non sono sufficienti a ricondurre
alla "ragione" i paesi che non si sottomettono alla logica dell'imperialismo
o che non contrastano efficacemente i processi rivoluzionari interni (Panama,
Nicaragua, Salvador, Filippine sono gli esempi più rilevanti). Gli USA
ancora una volta si identificano col volto feroce della controrivoluzione imperialista,
ma tanto è sanguinaria tanto essa manifesta la debolezza strategica del
potere, dell'imperialismo, il quale a causa delle profonde diseguaglianze e
dell'immiserimento che provoca non fa altro che suscitare la legittima resistenza
dei popoli per la loro autodeterminazione e la necessaria opposizione di classe
nelle metropoli del centro. Alla base di questa condizione non c'è una
pura volontà di dominio perché l'imperialismo non è una
politica, esso è uno stadio economico del capitalismo in cui domina il
capitale finanziario. Il rapporto di sfruttamento che l'imperialismo stabilisce
con i paesi della periferia solo apparentamente è simile al rapporto
coloniale, se non per l'assoggettamento politico che in entrambi i casi ne è
derivato. Se il colonialismo è consistito sostanzialmente nella rapina
delle materie prime e delle risorse, l'imperialismo basa il suo dominio sul
privilegio e monopolio dello sfruttamento industriale, al livello di sviluppo
ineguale necessario a questo stadio economico; in questo senso la qualità
dello sfruttamento è superiore e il dominio politico non si esprime più
nei protettorati, ma per i vincoli che questi paesi sono costretti ad avere
col mercato capitalistico, il quale ne condiziona pesantemente lo sviluppo economico
e sociale. Basti pensare all'imposizione dei prezzi sulle materie prime o delle
monoculture e monoproduzioni, o al potere esercitato dagli organismi finanziari
internazionali (FMI, BM, ecc.) che condizionano l'erogazione dei prestiti alle
concrete pressioni politiche. L'imperialismo impedendo il libero sviluppo dei
paesi terzi (così come nel suo centro il libero sviluppo delle forze
produttive "incatenate" dai rapporti di produzione) rappresenta storicamente
la forza del regresso nel mondo. Un bilancio di questi ultimi 40 anni mette
in risalto come l'imperialismo abbia subito nel suo insieme un'erosione costante
della sua forza d'influenza e della sua estensione (pur in presenza di un approfondimento
dello stesso modo di produzione). Se nella periferia i processi di decolonizzazione
prima e di emancipazione dei popoli nelle "nuove democrazie" poi,
hanno permesso di sottrarre molti paesi al dominio imperialista, all'interno
del sistema si è affermata la prassi rivoluzionaria storicamente adeguata
al suo superamento: la Guerriglia.
Per questa ragione l'antimperialismo è la questione politica prioritaria
che attraversa tanto i popoli in lotta nella periferia quanto lo scontro di
classe e rivoluzionario nel centro imperialista, e in diversi momenti le rotture
rivoluzionarie avvenute nella periferia hanno riversato il loro potenziale all'interno
del Movimento Rivoluzionario del centro, influenzando anche tendenze politiche
terzomondiste. L'evolvere della situazione internazionale e la marcata integrazione
politica e militare della catena ha posto le condizioni per il superamento della
concezione solidaristica dell'antimperialismo. Il mutato atteggiamento riguardo
la necessità di opporsi e combattere l'imperialismo è partito
dall'evidenza che lo stesso procedere del processo rivoluzionario nei paesi
del centro necessitava di un indebolimento e ridimensionamento dell'imperialismo.
Ciò ha posto con sempre maggior chiarezza che il dovere delle forze rivoluzionarie
di sviluppare il processo rivoluzionario nel proprio paese doveva unirsi alla
possibilità di praticare una politica antimperialista in grado di provocare
nel cuore del sistema questo indebolimento; in sintesi, un compito politico
che l'avaguardia rivoluzionaria combattente, la Guerriglia, si è posta
e che ogni Forza Rivoluzionaria ha affrontato e affronta con l'approccio specifico;
ciò però non ha impedito che si sviluppasse un processo di confronto
sulla necessità di un'unità politica tra le diverse Forze Rivoluzionarie
per combattere l'imperialismo. Questa acquisizione importante sul terreno dell'antimperialismo
non è sfuggita alla Borghesia Imperialista; tant'è che un punto
qualificante, che sta tutto interno ai processi di coesione politica della catena
imperialista, e in particolare nello specifico europeo, è quello delle
politiche antiguerriglia, che passa attraverso una più stretta centralizzazione
e coordinamento degli apparati repressivi, con l'omogeneizzazione degli strumenti
legislativi quali ad esempio lo "spazio giuridico europeo" ed anche
la definizione di inizative politiche comuni quali la soluzione politica per
la guerriglia (RFT, Francia, Italia, Spagna). E' un punto qualificante da un
lato perché caratterizza l'esperienza che la Borghesia Imperialista ha
acquisito in relazione all'importanza politica e strategica della guerriglia,
tanto nel centro imperialista quanto nell'area limitrofa mediterranea-mediorientale,
dall'altro perché su questo piano minori sono le contraddizioni interborghesi
e interimperialiste, dato che si tratta di difendere in tal senso gli interessi
della catena imperialista nel suo complesso. Ovvero tali politiche partono dalla
consapevolezza che esiste un fronte oggettivo dato dall'interesse comune delle
varie Forze Rivoluzionarie che combattono l'imperialismo. Questa oggettività
spinge alla costruzione-consolidamento del fronte antimperialista a livello
soggettivo, di cui il Fronte Combattente Antimperialista (FCA) è punto
di partenza e momento qualificante della politica di alleanze. Ma già
precedentemente, in base alle contraddizioni che presenta l'agire della varie
frazioni della Borghesia Imperialista nei diversi paesi, si erano poste le condizioni
per una serie di contatti e accordi che vedono in particolare l'Italia al centro
di questo complesso meccanismo.
Il nostro paese si è mostrato all'avanguardia in questo campo (grazie
all'esperienza accumulata in vent'anni di scontro rivoluzionario al suo interno
e all'essere geograficamente vicino all'area di massima crisi) ed è riuscito
a porsi al centro delle politiche antiguerriglia in Europa Occidentale e nell'area,
stipulando ben 17 trattati con altrettanti paesi europei, arabi e del Nord-Africa,
trattati che prevedono prevalentemente l'attivizzazione di centri di "intelligence"
separati da quelli già esistenti (esempio Interpol) finalizzati all'acquisizione
di notizie a carattere preventivo sullo stato delle Forze Rivoluzionarie operanti
e sui movimenti rivoluzionari in genere (non esclusi naturalmente quelli a carattere
politico-religioso quali i gruppi islamici). Essendo bilaterali e non prevedendo
l'esclusività delle informazioni raccolte e trasmesse, questi accordi
pongono l'Italia nella posizione di "centrale di acquisizione e smistamento"
dell'attività antiguerriglia facendone, tra l'altro, un punto qualificante
della sua politica estera. Questa attività controrivoluzionaria è
tutta interna alla dinamica dell'imperialismo che tende alla gestione offensiva
delle contraddizioni sociali e politiche che si producono nei diversi paesi,
in funzione di deterrenza, sia quando acquista forma militare sia quando si
mantiene sul piano politico, in quanto questi due piani interagiscono fra loro,
con delle ricadute uno sull'altro, trattandosi in definitiva di misure coordinate
sul piano politico che influiscono sulla connotazione del rapporto imperialismo/antimperialismo
e rivoluzione/controrivoluzione in tutta l'area europea-mediterranea-mediorientale.
La condotta della guerra rivoluzionaria nelle dinamiche dello scontro rivoluzione/controrivoluzione
La dinamica di fondo che è alla base di questa complessa fase internazionale
attraversa tutti i paesi della catena imperialista, in questo senso condiziona
ed incide nei contesti di ogni Stato, a tutti i livelli della loro politica
a causa delle similitudini politico-sociali che si sono determinate con lo sviluppo
dell'imperialismo. Il nostro paese riflette questa dinamica generale pur all'interno
delle sue specificità e le spinte che essa produce, interagendo con i
termini delle specificità nazionali, inaspriscono le contraddizioni del
quadro politico interno rendendolo quanto mai instabile e problematico. L'esecutivo
che si è formato si caratterizza per l'aspetto restauratore insito nel
suo programma. Un aspetto conseguente alle sostanziali forzature (autentici
colpi di mano) avvenute nel quadro istituzionale a tutti i livelli del potere
statale e all'interno dei rapporti politici fra le classi, delineando chiaramente
il procedere di un vero e proprio "golpe istituzionale". Nei fatti
sono state consumate rotture e modifiche nel modo di effettuare il "governo"
del paese tali da aprire concretamente alla "seconda repubblica".
Non si tratta di un ritorno reazionario ai vecchi tempi, benché la compagine
dell'esecutivo si avvale dei più oscuri personaggi espressi dalla classe
dominante in questi ultimi quarant'anni, al contrario questa rappresenta al
meglio quella frazione dominante della Borghesia Imperialista che intende prevalere
su tutte le altre. Le "sbavature conservatrici" non sono eccezioni
nostrane che mal si addicono alla "gestione democratica" dell'attuale
stadio dell'economia capitalistica, ma esse contraddistinguono l'intero ambito
dei paesi imperialisti. Se si analizzano le tendenze politiche affermatesi nei
paesi occidentali, soprattutto dopo gli anni '70, si può osservare come
i governi delle cosiddette "democrazie rappresentative" tendono a
concentrare il potere in "esecutivi forti" con un marcato dirigismo
nei metodi di governo e conseguente restringimento degli spazi di mediazione
politica; laddove tali tendenze sono state ratificate in normative e leggi di
stampo restrittivo hanno comportato la modifica strisciante delle legislature.
Questo tipo di esecutivi hanno gestito i pesanti costi sociali della crisi economica
e delle ristrutturazioni produttive; per questo il loro operato si contraddistingue
per il suo carattere antiproletario e controrivoluzionario (laddove è
presente il processo rivoluzionario), ciò anche quando tali esecutivi
sono stati guidati dai socialisti (ad esempio Francia, Italia, Spagna). In ultima
analisi il taglio degli esecutivi che sono stati espressi nell'ambito dei paesi
capitalistici configura l'attuale forma storica di dittatura borghese che meglio
rappresenta la tendenza dominante dell'imperialismo, a maggior ragione nella
fase politica che si è aperta in cui premono spinte verso soluzioni per
regimi forti tout-court. Nella situazione del nostro paese questa tendenza si
compenetra con le peculiarità storiche e politiche relative alla natura
dello scontro di classe e al livello di sviluppo economico, nonché con
i caratteri specifici assunti dalla classe dominante; ciò rende l'Italia
ben inserita nel contesto generale della realtà politica dei paesi occidentali,
con tutto il portato restauratore che essa esprime. Per questi motivi non esiste,
se non nella gestione demagogica delle "opposizioni istituzionali",
uno sviluppo democratico dell'imperialismo; i riflessi delle "guerre concorrenziali"
tra i grandi gruppi monopolistici, non sono lotte tra una versione più
democratica e un'altra conservatrice del capitalismo, al contrario lo scontro
vitale per aggiudicarsi le migliori posizioni fa sì che le frazioni di
Borghesia Imperialista premano senza mezzi termini per pesare sul terreno della
rappresentanza politica allo scopo di essere meglio favorite da quest'ultimo.
Ma al di là di questo dato di fondo, sono estremamente complessi i fattori
che intervengono nello scontro politico del paese per la natura di classe dello
stesso. La fase politica che si è aperta in Italia rappresenta in tutta
chiarezza, e in particolare nell'operato del governo Andreotti, le pressanti
contraddizioni in cui è costretta a muoversi la frazione dominante della
Borghesia Imperialista. In primo luogo ciò è testimoniato dal
ruolo svolto dalla Presidenza della Repubblica nella nascita di questo governo
e dal peso assunto nelle coalizioni dalla figura del Presidente del Consiglio,
un peso preponderante all'interno dell'esecutivo per la dinamica impressa alla
ridefinizione dei poteri e delle funzioni dello Stato che trova ormai attuazione
verso una forma di governo caratterizzata dal progressivo accentramento dei
poteri nell'esecutivo e in esso la sempre più manifesta funzione "coesiva"
e "vincolante" del Presidente del Consiglio nel dirigere l'azione
di governo. In definitiva la modifica e l'affinamento del modo di governare
(suoi strumenti e metodi). Dal tipo di contraddizioni che sono venute a maturazione
per tutto il corso dell'ultimo decennio, sintetizzabile nella necessità
per uno Stato a capitalismo maturo d'intervenire nel movimento dell'economia
in crisi (un intervento complesso data la sua dimensione internazionale) e di
far fronte al governo del conflitto di classe, conflitto che ha conosciuto espressioni
di uno spessore e con un grado di autonomia senza eguali nelle altre formazioni
economico-sociali occidentali, e l'esistenza di un processo rivoluzionario diretto
e organizzato dalla Guerriglia, ne è scaturito un processo di riadeguamento
dello Stato che ha investito nel suo complesso forme e meccanismi del potere.
Un processo non solo di carattere meccanico-oggettivo (ovvero scaturente solo
sul piano di relazione crisi/rifunzionalizzazione degli apparati dello Stato,
che pure esiste), ma che trova le sue radici e i suoi punti di squilibrio proprio
nella specificità della democrazia rappresentativa italiana che, sorta
dalla guerra e dalla Resistenza, ne ha ereditato una precisa configurazione
degli equilibri generali politici e di forza fra classe e Stato. Un processo
di riadeguamento non certo lineare, che è relativo alle stesse forme
di dominio della Borghesia Imperialista nel loro interrelazionarsi dialettico
con la struttura economica (evoluzione dell'imperialismo) e con la classe (maturità
del movimento di classe ed esistenza del processo rivoluzionario). In tal senso
la democrazia rappresentativa è l'involucro sovrastrutturale adeguato
alla fase dell'imperialismo, proprio in quanto ha dimostrato di possedere quell'elasticità
necessaria a far fronte alla crisi, nella misura in cui questa ha prodotto non
solo dei gravi scompensi economici e sociali, ma anche politici. Infatti, alla
fine degli anni '70, la DC - cioè la forza politica attorno a cui si
era formato ed aveva ruotato il sistema politico italiano - entrò in
una grave crisi politica dopo il fallimento della politica di "unità
nazionale"; la complessa articolazione delle forze politiche borghesi ha
in quell'occasione mostrato di poter garantire la "governabilità"
del paese, segnando anche delle importanti tappe politiche nella definizione
del più generale processo di rifunzionalizzazione dello Stato. La stabilità
politica dell'Italia nelle scelte politiche fondamentali, quali il rapporto
con l'alleanza atlantica, col grande capitale monopolistico e con la classe
nelle politiche adottate, portanti come unico tratto distintivo un chiaro carattere
antiproletario e controrivoluzionario, in tal senso ha trovato attuazione proprio
nella complessità della democrazia rappresentativa, segnatamente al rifunzionalizzarsi
dei partiti alle nuove condizioni generate dalla crisi, espresso dal formarsi
di nuovi equilibri politici (le presidenze del consiglio "laiche")
che hanno gestito non solo i passaggi necessari alla frazione dominante della
Borghesia Imperialista per sostenere la concorrenza e modificare e ricondurre
in un nuovo ambito istituzionale i termini del conflitto di classe, attraverso
il ripristino di condizioni favorevoli nei rapporti di forza generali fra classe
e Stato, ma anche nelle modifiche apportate dal piano istituzionale nella funzione
e nei poteri stessi dello Stato.
In questo decennio sono venuti a maturazione una serie di passaggi concreti
nel processo di "riforma dello Stato" (i processi di esecutivizzazione
in particolare) e di volta in volta si sono costruiti equilibri politici che
hanno espresso nelle diverse fasi il punto di risoluzione (relativo) per le
contraddizioni che nascevano dalle necessità di governo del paese. Dentro
questo processo complesso e contraddittorio la DC ha maturato una nuova centralità
che oggi la rende il perno di equilibri politici facenti capo alla frazione
dominante di Borghesia Imperialista. Il processo contraddittorio aperto dalla
"fase costituente" che tende ad evolvere verso una "seconda repubblica",
modificando funzione e peso dei partiti e gli strumenti con cui si opera la
mediazione politica fra classe e Stato, si è ripercosso sugli equilibri
politici che si instaurano a livello di governo spostando, nella sostanza, in
avanti le stesse contraddizioni interborghesi e di conseguenza il loro punto
di sutura. Se il passaggio dalla presidenza Goria al governo De Mita ha rappresentato
una sterzata definitiva in questo processo con la ripresa del possesso in senso
complessivo delle leve del comando sulla base di un progetto politico organico,
seguita poi da una vera e propria escalation di colpi di mano e forzature, l'ulteriore
passaggio in questa direzione operato con il governo Andreotti mostra in tutta
evidenza gli effetti dell'accentramento dei poteri nell'esecutivo, così
come la necessità impellente di operare forzature nei rapporti di forza
complessivi laddove si credeva di potervi far fronte con il processo di sviluppo
della "democrazia formale" e con la costruzione di false "alternanze
di governo" (le staffette). In realtà l'unica "alternanza"
che si è realizzata è appunto quella all'interno della DC, tutta
relativa alle contraddizioni che sono maturate in questo processo e che hanno
reso più stretti i margini di manovra nel "governo possibile"
in presenza della crisi generale e del mutamento dei rapporti di forza a livello
internazionale. L'attuale esecutivo, avvalendosi dei passaggi già operati
verso l'esecutivizzazione e la rifunzionalizzazione dello Stato, in particolar
modo la riforma della presidenza del Consiglio, la modifica del voto segreto,
si è mosso su questa falsariga spingendo però l'acceleratore in
seguito all'aggravarsi del quadro politico ed economico interno ed internazionale,
caratterizzando l'azione di governo secondo schemi che non è errato chiamare
di "golpismo istituzionale", relativamente ai problemi posti dalla
fase attuale dell'imperialismo, ovvero l'approfondimento della contraddizione
Est/Ovest e la necessità di adeguare il capitale monopolistico ai nuovi
livelli di concorrenza, mentre sul piano interno principalmente verso la vasta
conflittualità politica e sociale che si esprime con le forme di lotta
e di organizzazione a "macchia di leopardo", che investe cioè
molteplici settori di classe; lotte che avendo sperimentato a fondo la sostanza
del neocorporativismo nelle relazioni industriali come corrispettivo dell'accentramento
dei poteri nell'esecutivo, sono di fatto già parzialmente fuori controllo
nel momento stesso in cui si esprimono, essendo caratterizzate a priori da una
forte critica al sindacalismo di regime. Entro questo quadro in parte oggettivo,
ma soprattutto soggettivo, cioè di lucida persecuzione di obiettivi prefissati
nell'ambito dell'esecutivo, vediamo dispiegare l'azione di governo che spazia
contemporaneamente su più piani, caratterizzandosi nel suo complesso
come movimento di vera e propria restaurazione (nel senso di una tendenza all'azzeramento
delle precedenti conquiste politiche e sociali della classe e non nel senso
di un'involuzione reazionaria nelle forme di dominio della Borghesia Imperialista).
Così è nei rapporti intergovernativi, con politiche di selezione
nel rapporto fra ministeri e Presidenza del Consiglio passate da un lato attraverso
il filtro del Consiglio di Gabinetto, che inoltre rappresenta una sorta di "comitato
di crisi" riunito in permanenza per impattare le varie "emergenze"
e per ricondurre entro interessi generali le inevitabili sfasature che si producono,
e dall'altro con i vincoli cui sono sottoposti i singoli ministeri in materia
di spesa sottoposta al vaglio del Capo del Governo e della triade bilancio-tesoro-finanze
per verificarne la compatibilità con i rigidi indirizzi di politica economica.
Analogamente nel rapporto tra esecutivo e parlamento si tende alla funzionalizzazione
delle camere al governo (proposta di modifica del "bicameralismo perfetto")
per farle tendere ad una funzione di pura e semplice ratifica delle decisioni
governative, per adesso attuate con il ricorso al voto di fiducia. Gli ultimi
episodi in materia chiariscono il vizio per i colpi di mano che esprime però
uno stato di necessità relativo al fatto che l'esecutivo deve muoversi
contemporaneamente su più piani e con la medesima impronta decisionista
perché ne risulti la possibilità di contenimento delle contraddizioni
che si frappongono fra stato reale dei rapporti di forza e indirizzo politico
programmatico, contraddizioni a loro volta alimentate proprio da questo modo
di operare a suon di forzature. Inoltre nel rapporto con la Magistratura risulta
chiarissima la ormai consolidata funzione assegnatagli di repressione-contenimento
delle contraddizioni sociali e in più il tentativo di compattamento alle
esigenze dell'esecutivo passanti attraverso la proposta di riforma del Consiglio
Superiore della Magistratura (CSM), tendente ad azzerare il peso delle rappresentanze
dell'opposizione "istituzionale", così come per la Corte dei
Conti che ha una funzione chiave per ciò che riguarda l'intervento dello
Stato nell'economia, chiamata così a ratificare le scelte dei ministeri
economici che favoriscono i monopoli, tutte squilibrate verso i finanziamenti
diretti e indiretti al grande capitale in relazione ai processi di concentrazione
monopolistica in atto, e ancora per la Corte Costituzionale chiamata a compatibilizzare
con equilibrismi giuridici gli strappi operati nel quadro istituzionale. Altro
piano è quello del rapporto tra potere centrale e poteri locali, dove
a fianco della legge Gava, che sancisce la non autonomia politica in termini
di indirizzo e di funzione degli organi del governo locale e la "responsabilizzazione"
in materia di spesa sul piano amministrativo, si realizza la centralizzazione
dei modelli di governo, imponendo coalizioni siamesi di pentapartito. Inoltre,
un'attenzione particolare merita la recente proposta di Andreotti di riunificare
i vari apparati dei Servizi Segreti, che palesemente tende a rafforzare il potere
"golpistico" compattando l'azione dell'apparato più filogovernativo
per antonomasia, che da sempre opera un ruolo controrivoluzionario tristemente
noto.
Contemporaneamente a tutta questa serie di cambiamenti nel modo di governare,
più o meno sanciti dalle modifiche legislative e istituzionali, è
mutato in questa ultima fase anche l'approccio ai passaggi già operati
o da operare sul piano della "riforma dello Stato". Se da un lato
l'esecutivo si è avvalso della riforma della Presidenza del Consiglio
e della modifica del voto segreto come validi puntelli per i suoi colpi di mano,
la stessa riforma della Farnesina ha subito nel suo iter alcune modifiche in
relazione, in primo luogo, alle necessità derivanti dalla collocazione
dell'Italia nella catena imperialista e all'interno del processo di coesione
politica europea e, conseguentemente, rispetto al piano della rifunzionalizzazione
degli apparati dello Stato. Infatti, per far fronte alle esigenze sul piano
dell'evoluzione dei rapporti Est/Ovest, con tutto il suo portato politico-strategico,
oltre che economico, nella riforma della Farnesina è previsto che il
Ministro degli Esteri coordini tutte le attività che riguardano la politica
internazionale, anche se svolte da altri ministeri o Enti Locali (ad esempio
le Regioni) con un'organizzazione delle Direzioni Generali per aree geografiche
(Europa e Nord America, Sud America, Africa mediterranea e mediorientale, Africa
sub-sahariana, Sud-Est asiatico e Oceania). La "supervisione" del
Ministero degli Esteri che ne deriva è chiaramente attinente all'aumentato
peso dell'Italia soprattutto sul piano diplomatico e politico, in primo luogo
in relazione all'inserimento dei paesi della fascia sud europea nel processo
di coesione-integrazione, e poi rispetto ai conflitti che si producono nell'area
mediterranea-mediorientale, ma ha un riflesso diretto anche nei processi di
esecutivizzazione poiché la gestione centralizzata della politica estera
tende ad evitare le sfasature che normalmente si producono quando ad operare
sono più soggetti istituzionali in una materia complessa qual è
appunto la politica estera che evidentemente comprende più piani d'intervento.
Si fanno sempre più evidenti entro questo processo, da un lato, l'enorme
importanza assunta dal piano internazionale nello svolgersi delle relazioni
tra i diversi istituti dello Stato e, dall'altro, le sue implicazioni complessive
in termini politico-diplomatico-militari rispetto allo stretto legame tra crisi/compattamento
dell'alleanza imperialista/rifunzionalizzazione degli apparati dello Stato:
l'attivismo dell'Esecutivo in politica estera risponde anch'esso ad uno stato
di necessità con il suo tratto restaurativo pur negli "affinamenti"
legislativi e istituzionali. Rispetto al rapporto capitale-lavoro l'azione dell'attuale
Esecutivo ha reso ancor più evidente il suo intervento diretto nelle
principali questioni che riguardano la contrattazione della forza-lavoro e nel
merito delle relazioni industriali; è recente l'ennesimo accordo capestro
sul costo del lavoro spalleggiato dall'Esecutivo che ha spinto affinché
esso prevedesse a fianco di tale questione anche un capitolo sulle nuove regole
di composizione dei conflitti, così da rafforzare ulteriormente le posizioni
del capitale, al contempo indebolendo quelle del sindacato, approfondendo la
sua già grave crisi di rappresentatività che è divenuta
materia da tutelare per legge! Inoltre, l'uso massiccio e spregiudicato della
precettazione è divenuta la soluzione decisionista come anticipazione
della legge antisciopero, un intervento questo sul piano istituzionale che per
la forte opposizione incontrata nel campo proletario non ha ancora trovato attuazione
per le contraddizioni interborghesi che ne sono derivate; per aggirare l'ostacolo,
allora, si è posta mano agli stessi meccanismi della precettazione, rendendone
più facile il ricorso. Il piano politico del rapporto classe/Stato si
è andato a modificare a partire dalle forzature operate con la controrivoluzione
degli anni '80. Le tappe sostanziali dello scontro politico e sociale nel nostro
paese, lo sviluppo stesso dei caratteri dell'autonomia di classe, sono tali
per l'attività della Guerriglia, in quanto la sua prassi interviene sui
rapporti di forza generali tra le classi, ed è per questa dinamica che
la controrivoluzione degli anni '80, oltre a scompaginare il tessuto di lotte
proletarie, ha portato necessariamente con sé il corollario di restauro-ripristino
delle precedenti condizioni favorevoli alla Borghesia Imperialista, in sostanza
andando a modificare le stesse forme di dominio della borghesia adeguandole
alla fase dell'imperialismo, nonché adeguandole ai livelli di scontro
politico e sociale e all'esistenza del processo rivoluzionario. Partendo da
questo dato generale, questo Esecutivo ha spinto al massimo la tendenza alla
restaurazione, facendo delle pressioni e intimidazioni di chiara marca controrivoluzionaria,
una pratica costante e quotidiana: blitz nei luoghi di lavoro per normalizzare
i conflitti che vi si producono, in particolare camuffando la sostanza dello
smantellamento dello "Stato sociale" in "scarsa attitudine al
lavoro"; attacco e criminalizzazione di qualsiasi forma di antagonismo
all'operato del governo, allo scopo di operare una pacificazione forzata e il
silenziamento delle tensioni politiche e sociali che si producono nel paese.
Un terreno obbligato, questo, anche in relazione alle esigenze del capitale
in questa fase, che ha portato i livelli di sfruttamento della forza lavoro
ad un limite di per sé insostenibile e che quindi genera conflitti e
processi di aggregazione sui quali il governo si preoccupa di intervenire con
metodi terroristici. Il quadro che viene a delinearsi di converso è perciò
quello di una forte instabilità politica e sociale; lo stesso quadro
politico delle forze istituzionali (di maggioranza e di opposizione) dimostra
come alla generale tendenza all'accentramento dei poteri nell'Esecutivo ne consegue
un indebolimento nella dialettica tra le forze politiche che continuamente genera
la necessità di un riassestamento. Se la tendenza dominante all'esecutivizzazione
è il tratto caratteristico di tutte le democrazie mature occidentali,
la specificità del caso italiano merita di essere sottolineata proprio
perché costituisce un percorso a suo modo originale sul piano del rapporto
classe/Stato. Il riadeguamento delle forze politiche indotto dalla rifunzionalizzazione
dello Stato trova uno stretto collegamento con l'accentramento dei poteri nell'Esecutivo
proprio a partire dagli equilibri che si formano intorno alla frazione dominante
della Borghesia Imperialista. Il processo intrapreso dal PCI è tutto
interno a questa dinamica e rappresenta solo l'atto conclusivo della progressiva
perdita di peso politico e della modifica della funzione stessa che, precedentemente
alla fase controrivoluzionaria, PCI e sindacato avevano svolto in quanto rappresentanze
istituzionali della classe. Ma ciò che è più importante
è che lo snodo conclusivo del percorso revisionista ruota attorno al
tema politico dominante della "modifica delle regole del gioco", in
primo luogo attorno alla modifica della legge elettorale che ne costituisce
un capitolo determinante poiché va a ridisegnare la geografia politica
delle sedi parlamentari e dei rapporti di coalizione fra le forze politiche
rappresentanti la Borghesia Imperialista, tenendo conto anche che il "modello"
del pentapartito è ormai già nei fatti superato dalla centralità
assunta dalla DC nelle coalizioni di governo.
Il PCI, costretto ad inserirsi in questo processo in virtù della modifica
dei termini della mediazione politica tra classe e Stato, ne scambia la forma
con la sostanza: infatti la provocatorietà del referendum proposto sulla
legge elettorale non è tanto perché costringe la maggioranza a
compattarsi per scongiurarlo e porre dunque mano a quello che costituisce il
più delicato ingranaggio del meccanismo della "riforma dello Stato"
(infatti è chiaro che l'approvazione di una nuova legge si misura con
un terreno e ad un clima politico non ancora giunto pienamente a maturazione
cui sta cercando di porre rimedio questo stesso Esecutivo con la pratica dei
colpi di mano sulle questioni politiche preminenti), quanto perché è
agitato a scopo lealista e propagandistico per camuffare nella forma referendaria
ciò che invece è materia esclusivamente relativa agli interessi
borghesi negandone così il carattere di classe.
Nella sostanza il PCI finisce per favorire la modifica del quadro costituzionale,
sancendo per così dire la rottura degli equilibri instauratisi dal dopoguerra,
in virtù di una "rinnovata affidabilità al sistema"
che è poi semplicemente il conformarsi ad una dialettica puramente formale
con le forze di governo, così da rappresentare solamente il garante "democratico"
del regime.
Sono proprio gli anni della controrivoluzione a segnare in modo irreversibile
la natura ed i passaggi del processo rivoluzionario nel nostro paese, ad imporre
il terreno e la qualità dello scontro di classe, ad imporre il terreno
di adeguamento alle avanguardie e al movimento rivoluzionario, e ciò
per una semplice ragione generalizzabile a tutti gli Stati: è in riferimento
al come, al modo con cui la borghesia impone la sua dittatura di classe, al
come e al modo con cui la borghesia regolamenta e "istituzionalizza"
il proprio dominio che si organizza l'opposizione di classe, l'opposizione rivoluzionaria.
E' sotto gli occhi di tutti che in questi ultimi vent'anni non una delle ragioni
obiettive che stavano alla base della costituzione della Guerriglia nelle metropoli
imperialiste è venuta meno. Ovvero, in sintesi le ragioni dell'affermarsi
della Guerriglia, della strategia della lotta armata, sono date dai mutamenti
che lo sviluppo dell'imperialismo ha posto in essere sia sul piano storico-politico
che economico-sociale. E in principal luogo nella diversa caratterizzazione
delle forme di dominio e quindi del rapporto classe/Stato con l'affermarsi della
controrivoluzione preventiva e dall'altro lato per il conseguente grado di integrazione
politico-militare fra gli Stati della catena che stabilisce una nuova condizione
entro cui viene a collocarsi e svilupparsi lo stesso processo rivoluzionario.
Da ciò si è constatato il venir meno del dato del "momento
eccezionale" (strategia terzinternazionalista dell'insurrezione) e ponendo
in essere, nel carattere di lunga durata della guerra di classe, l'aumentato
peso della soggettività rivoluzionaria nello scontro. Anzi, l'intersecarsi
del movimento delle crisi capitalistiche e il rapporto rivoluzione/controrivoluzione,
ha spinto gli Stati della catena imperialista (pur con tempi e passaggi riferiti
alla propria storia concreta) a rimodellare i termini del "governo"
del conflitto di classe. Questa la natura e la base da cui hanno preso il via
le odierne "riforme dello Stato" riconoscibili da tutti, anche se
molti fanno finta o hanno interesse a non vedere e ciò per un'unica ragione,
perché riconoscere questi dati di fondo e la realtà attuale significa
(per parte rivoluzionaria) collocare la propria militanza nei presupposti interni
alla formazione della Guerriglia; perché la Guerriglia nelle metropoli
imperialiste non è semplicemente un surrogato della guerra, una "tecnica
militare" (guerra guerreggiata), ma l'organizzazione adeguata a misurarsi
contro lo Stato, a rompere il reticolo della mediazione politica che caratterizza
il rapporto politico tra le classi negli Stati a capitalismo maturo; è
l'unità del politico e del militare; è rompere con il monopolio
della violenza della classe dominante per praticare gli interessi generali del
proletariato e collocarli nella loro giusta dimensione: scontro per il potere
con il fine del superamento della società divisa in classi. D'altronde,
questi ultimi dieci anni segnati dall'approfondimento del rapporto di scontro
tra rivoluzione e controrivoluzione hanno evidenziato in termini oggettivi come
un processo rivoluzionario nelle metropoli imperialiste, in presenza della Guerriglia,
assuma la connotazione di una Guerra di Classe di Lunga Durata, come la proposta
della lotta armata sia il solo terreno adeguato allo scontro per l'organizzazione
di classe. E' evidente perciò come questi anni di controrivoluzione siano
decisivi per lo scontro stesso del processo rivoluzionario nel nostro paese,
decisivi perché non ci si può sottrarre al livello di scontro
raggiunto; perché le dinamiche dello scontro rivoluzione/controrivoluzione
attraversano in maniera orizzontale tutte le istanze politiche della classe
(anche se lo Stato calibra il suo intervento nei confronti della classe e delle
sue avanguardie mirandolo e dosandolo a seconda delle istanze si cui va ad agire);
perché hanno imposto ed impongono all'avanguardia armata di misurarsi
con le leggi dello scontro, di adeguare costantemente il proprio impianto politico,
di affinare le capacità per realizzare il programma politico. Il contraltare
a questi compiti è l'annientamento politico, è l'arretramento
complessivo delle posizioni politiche della classe senza vie di mezzo! Per le
BR questi anni sono stati fonte di ricchi insegnamenti e di una rinnovata capacità
proiettata nel futuro proprio per la comprensione che hanno acquisito delle
leggi generali che influenzano le dinamiche dello scontro di classe nelle metropoli
imperialiste. Un percorso pratico fatto di avanzate e ritirate, di successi
e sconfitte, di errori pagati duramente. Errori in parte evitabili e comunque
sempre frutto dell'attività rivoluzionaria pratica. L'Organizzazione
in attività saprà ancora una volta risolvere tali errori e far
tesoro degli insegnamenti pratici e teorici. Dal loro superamento saprà
trarne profitto, rilanciando su tali nuove acquisizioni (come sempre è
successo in questi vent'anni) lo scontro a livello più alto. Da parte
delle BR uno dei momenti fondamentali nel processo di riadeguamento alle mutate
condizioni dello scontro è stata la scelta, nel 1982, di aprire la Ritirata
Strategica. Le condizioni politiche generali in cui fu operata la Ritirata Strategica
rimarcavano una sostanziale inadeguatezza dell'impianto e della linea politica
dell'Organizzazione sui termini dello scontro. Da una parte l'incapacità
di cogliere i mutamenti che a livello dell'imperialismo andavano a modificare
il quadro degli equilibri generali. Dall'altro lato, per quanto riguarda l'analisi
dello Stato e della situazione interna, si riteneva che l'attacco all'"Unità
Nazionale" aveva lasciato la borghesia e lo Stato incapaci di ricompattare
le proprie fila e di riformulare nuove intese politiche. Questo era anche il
prodotto di una visione dello Stato schematica, che da un lato assolutizzava
il piano soggettivo, dall'altro ne schematizzava le funzioni ad articolazioni
del "Sistema Imperialista delle Multinazionali". Non si coglieva il
movimento partito all'interno stesso della borghesia e dello Stato teso a sferrare
una controffensiva politico-militare alla classe, a partire dalle sue avanguardie
di lotta e rivoluzionarie. Con il fine di operare una rottura a favore della
borghesia nei rapporti di forza tra le classi per ridimensionare così
il peso politico acquisito dalla classe operaia e dal proletariato. Una controffensiva
senza precedenti, la quale non poteva che partire infliggendo un duro colpo
alla Guerriglia in modo da riversarlo sull'intero corpo di classe attraversandolo
orizzontalmente: dai settori dell'autonomia di classe che si sono dialettizzati
con la Guerriglia, al movimento rivoluzionario, fino a pesare sulle condizioni
politiche e materiali di tutto il proletariato. Una controffensiva che per proporzioni,
modi di dispiegamento, ha assunto caratteri di vera e propria controrivoluzione.
Le posizioni inadeguate, prodotte principalmente dalla giovinezza politica,
sono state battute nelle battaglie politiche contro il soggettivismo idealista
e l'operaismo. Il ricentramento operato dall'Organizzazione (esplicitato dall'azione
Dozier per quanto riguarda l'antimperialismo e dall'azione Taliercio per quanto
riguarda il piano classe/Stato) non impedì contraddizioni e ritardi.
Ma il ripristino del corretto metodo dell'analisi materialista permise l'apertura
della Ritirata Strategica nonostante i limiti di comprensione che l'Organizzazione
aveva della stessa, gli permise di ritirarsi e proseguire nel riadeguamento
pur all'interno della pressione esercitata dalla controffensiva dello Stato.
La giustezza della scelta della Ritirata Strategica ha dimostrato nel tempo
tutta la sua validità, poiché interpretando opportunamente le
leggi della guerra rivoluzionaria ha permesso alle BR di ripiegare da posizioni
niente affatto avanzate, collocando correttamente la sconfitta tattica dell'82
nell'andamento discontinuo dello scontro all'interno del percorso di lunga durata.
Una scelta che ha permesso di aprire una fase rivoluzionaria in cui le BR, ritirandosi,
hanno sottratto per quanto possibile, le forze al dissanguamento causato dalla
controffensiva dello Stato senza cadere nell'avventurismo. In tal modo le BR
hanno iniziato un lungo e difficile processo di riadeguamento complessivo a
fronte delle modifiche avvenute nel contesto dello scontro con la conseguente
durezza delle condizioni politiche e materiali venutesi a determinare nel tessuto
proletario e nell'autonomia di classe. Un processo quindi non lineare e ciò
proprio per la natura stessa dello scontro di classe e del processo rivoluzionario
in generale e della funzione della Guerriglia in particolare, la quale evidenzia
senza mediazione il rapporto di guerra che vige nello scontro di classe, caratterizzandolo
pertanto come processo di guerra di classe di lunga durata.
Non linearità perché è un percorso materiale collocato
per intero all'interno delle contraddizioni generate nel tessuto di classe dal
confronto rivoluzione/controrivoluzione. Pertanto non è solo riduttivo,
ma in alcuni casi anche oggettivamente opportunista pensare che sia sufficiente
la "ricollocazione di un corpo di tesi e la loro propaganda per l'uscita
dalla Ritirata Strategica" e ciò perché di fatto è
sottrarsi alle implicazioni che ha l'operare nell'unità del politico
e del militare, l'operare della Guerriglia indipendentemente dalla coscienza
che se ne ha. Ma il procedere del processo di riadeguamento è strettamente
legato alla ricostruzione delle condizioni politiche e militari della guerra
di classe, alla capacità delle BR di articolare un processo di attivizzazione/organizzazione
delle forze proletarie a partire dalle condizioni create dall'arretramento.
Tenendo conto che per la Guerriglia anche il riadeguamento si realizza nell'unità
del politico e militare; implica quindi che l'avanguardia combattente stabilisca
una "condotta della guerra rivoluzionaria" i cui termini sono interni
ai presupposti della Ritirata Strategica sino a che l'evolversi successivo dei
livelli di ricostruzione, compattamento e direzione delle forze proletarie sul
terreno rivoluzionario non abbiano maturato l'assestamento necessario per superare
le posizioni di relativa debolezza nel complesso dei rapporti di forza tra le
classi. Possiamo affermare che l'unità del politico e del militare agisce
come una matrice nel processo rivoluzionario, dai meccanismi che permettono
ad una forza rivoluzionaria di essere tale, al suo modo di sviluppare prassi
rivoluzionaria, al processo rivoluzionario nel suo complesso. Per quanto riguarda
l'esperienza maturata dall'Organizzazione possiamo dire che la Guerriglia svolge
la funzione di direzione dello scontro di classe, affrontando contemporaneamente
e globalmente i principali piani del processo rivoluzionario. La direzione operata
dalla Guerriglia è volta ad organizzare e disporre le forze in riferimento
al sostenere il livello di scontro dato e ai fini della fase rivoluzionaria
sul terreno strategico della lotta armata obiettivamente consolidatosi nello
scontro rivoluzione/controrivoluzione in vent'anni di prassi rivoluzionaria
delle BR. In altri termini la strategia della lotta armata è il modo
con cui si rende praticabile il processo rivoluzionario e si materializza lo
sviluppo della Guerra di Classe di Lunga Durata contro lo Stato. Un processo
in cui l'avanguardia armata si pone come direzione e organizza fin da subito
i settori rivoluzionari di classe che si dialettizzano e si dispongono sul terreno
della lotta armata. Vent'anni di prassi rivoluzionaria hanno chiarito come il
portato dell'agire nell'unità del politico e del militare abbia tracciato
un terreno concreto di (possibile) risoluzione al quesito da sempre oggetto
di dibattito nel movimento rivoluzionario, quale la questione del "Partito"
e del rapporto "Partito/masse" determinando al tempo stesso una netta
demarcazione con l'opportunismo parolaio. Per quanto riguarda il Partito ciò
ha evidenziato come questo sia un problema di costruzione/fabbricazione delle
condizioni stesse della guerra di classe, cioè problema di costruzione
di una direzione politica e di strutture organizzate, adeguate a sostenere lo
scontro e a rilanciarlo ed approfondirlo, perseguendo ed assolvendo alle necessità
e ai compiti dettati dalla congiuntura politica che scaturiscono dalla contraddizione
dominante che oppone la classe allo Stato, disponendo e organizzando le forze
disponibili intorno ai compiti imposti dalla fase rivoluzionaria, compiti che
in generale sono sempre riferibili allo stato dei rapporti di forza tra le classi,
agli equilibri dei rapporti tra imperialismo e antimperialismo, allo stato delle
forze proletarie e in ultima istanza ad un determinato passaggio del rapporto
di scontro tra rivoluzione e controrivoluzione. Solo la risposta corretta e
contemporaneamente la collocazione materiale delle forze permette di aprire
una nuova fase rivoluzionaria di scontro. Nuova fase che è sempre il
prodotto di come si è conclusa la fase precedente, in quanto prodotto
del rapporto concreto di scontro tra le forze in campo. Pertanto il susseguirsi
delle fasi rivoluzionarie assume un andamento non lineare, non schematizzabile
dall'inizio alla fine. Alla luce dell'andamento concreto del rapporto di scontro
tra le classi, la costruzione di una reale direzione politica attraverso un
atto di "fondazione del Partito" pare non solo infantile, ma addirittura
opportunista. Per questo le BR fin dalla loro iniziale attività ed elaborazione
teorica hanno sempre posto il problema del Partito come processo di costruzione
e di fabbricazione delle condizioni stesse della guerra di classe. Nodo che
ha sempre caratterizzato le fasi del processo rivoluzionario nel nostro paese,
dalla fase della Propaganda Armata alla fase attuale di Ritirata Strategica.
In questo percorso le BR si sono costruite come direzione politica dello scontro
proprio agendo da partito per costruire il Partito, perché le BR non
sono il Partito ma un'organizzazione di Guerriglia che nel loro agire politico-militare
pongono le basi per la loro trasformazione in Partito.
In altri termini la Guerriglia, le Brigate Rosse, si pongono nello scontro come
un esercito Rivoluzionario (ovviamente con specifiche peculiarità determinate
dal tipo di mediazione politica assestatasi negli Stati a capitalismo maturo)
che lavora a costruire la direzione politica, il Partito Comunista Combattente.
Questa impostazione fa altresì chiarezza riguardo a quelle posizioni
che vedono il formarsi del Partito come una sommatoria, "federazione"
di gruppi e organismi che si richiamano ideologicamente al comunismo, dettandone
l'inconsistenza di queste posizioni.
Riguardo al rapporto "Partito/masse" la posizione delle BR è
nettamente chiara; tale rapporto non è altro che il termine di costruzione/organizzazione
degli spezzoni di autonomia di classe sul terreno della lotta armata, calibrato
nelle forme e nei modi alle fasi rivoluzionarie che si attraversano. La giustezza
di queste concezioni, oltre ad essere stata verificata dalla pratica, è
derivata dal fatto che la direzione della Guerriglia si esplica sui piani principali
dello scontro, cioè vi è interdipendenza e interrelazione tra
i diversi momenti in cui si materializza l'operare della Guerriglia nella dinamica
attacco-costruzione-organizzazione-attacco. Questo perché un processo
rivoluzionario non è la risposta agli attacchi della borghesia alle condizioni
politiche e materiali della classe (un atto difensivo), anche se nel suo sviluppo
conosce fasi di resistenza più o meno prolungate, ma è nella sua
sostanza un processo di attacco per affermare gli interessi generali del proletariato.
In questa fase della guerra di classe segnata, dal lato dell'attività
controrivoluzionaria dello Stato, da una riformulazione complessiva di tutti
i termini della mediazione politica tra le classi e da parte rivoluzionaria,
inserita nella fase generale dalle BR definita di Ritirata Strategica, cioè
un periodo politico non quantificabile in anni nel quale l'attività rivoluzionaria
è prevalentemente tesa ad una ricollocazione delle forze in modo da mantenere
e rilanciare la capacità offensiva espressa dalla Guerriglia, diventano
di fondamentale importanza i criteri con i quali si sviluppa l'attacco, si definiscono
gli assi programmatici e la disposizione/strutturazione delle forze disponibili.
Un dato generale dell'operare della Guerriglia è che la sua iniziativa
è tesa a lacerare il piano degli equilibri politici fra classe e Stato
e a costruire le condizioni materiali per un equilibrio politico e di forza
favorevole al campo proletario che può partire solo intervenendo (con
l'attacco) al punto più alto dello scontro. Questo poi si ripercuote
come effetto su tutto l'arco dei rapporti fra le classi fino al piano capitale/lavoro,
una dinamica di intervento che "libera" - anche se momentaneamente
- energie proletarie.
Una forza politica che deve trovare il suo corrispettivo sul piano rivoluzionario
nella costruzione di organizzazione di classe sul terreno della lotta armata,
calibrata nelle forme e nei modi alla fase di scontro e ai rapporti di forza
generali. Vantaggi momentanei derivanti dell'attacco operato che vanno tradotti
in organizzazione, perché lo scontro rivoluzionario diretto dalla Guerriglia
nelle metropoli imperialiste non può costruire "basi rosse"
stabili, non può avere retroterra logistico, perché lo scontro
rivoluzionario nei centri imperialisti è una guerra senza fronti dove
l'attività controrivoluzionaria dello Stato si dispiega contro l'intero
campo proletario (Guerriglia, movimento rivoluzionario, classe); dove il processo
rivoluzionario avanza in una condizione di accerchiamento strategico, almeno
fino alla fase finale dello scontro rivoluzionario. Alla luce di questa considerazione
di carattere generale ed ai caratteri assunti dallo Stato (in quanto organo
della dittatura borghese e contemporaneamente manifestazione della inconciliabilità
fra le classi) le BR fanno dell'asse classe/Stato il principale elemento programmatico
su cui si costruiscono i termini dell'organizzazione di classe sul terreno della
lotta armata. Non si tratta come nel passato di disarticolare, mettendoli sullo
stesso piano, tutti i centri della macchina statale (periferici e centrali)
anche perché ciò era il riflesso di una visione schematica dello
Stato, visto in una separatezza tra i suoi apparati (politici, burocratici,
militari) a sua volta derivata da una visione semplificata e un po' manualistica
delle fasi rivoluzionarie che si succedono nella guerra di classe, ricondotta
a due sole fasi principali: quella dell'accumulo di capitale rivoluzionario
e il suo dispiegamento nelle guerra civile. L'esperienza acquisita dalle BR
ha permesso di ricentrare non solo la dinamica del succedersi delle fasi rivoluzionarie
nell'andamento discontinuo dello scontro, ma soprattutto di collocare correttamente
la funzione dello Stato, il quale necessariamente centralizza nella sede politica
la funzionalità dei suoi apparati. Un dato approfondito ulteriormente
negli attuali processi di rifunzionalizzazione. Per queste ragioni l'attacco
allo Stato, al suo cuore congiunturale, va inteso nel giusto criterio affermatosi
nella pratica come capacità di riferirsi alla centralità, selezione
e calibramento dell'attacco.
Centralità: si può affermare che date le condizioni politiche
dello scontro, il suo approfondimento, la capacità dell'attacco di disarticolare
(inteso in termini relativi e non assoluti) risiede in primo luogo nella capacità
tutta politica di individuare all'interno della contraddizione dominante che
oppone le classi, il progetto politico centrale della Borghesia Imperialista.
Selezione: sta nella capacità di individuare il personale che nel progetto
politico assume una funzione di equilibrio delle forze che tale progetto sostengono.
Calibramento: sta nella capacità di calibrare l'attacco in relazione
al grado di approfondimento dello scontro (ad esempio anche in casi di arretramenti
il livello di intervento non può prescindere dal punto di scontro più
alto assestato), allo stato di aggregazione-assestamento delle forze proletarie
e rivoluzionarie, allo stato dei rapporti di forza generali sia interni al paese
che negli equilibri internazionali fra imperialismo e antimperialismo. Questi
i criteri che guidano l'attacco e la scelta dell'obiettivo e che permettono
alla Guerriglia di incidere adeguatamente nello scontro traendone il massimo
del vantaggio politico e materiale. In ultima analisi possiamo affermare che
questo criterio sarà determinante per molte fasi ancora dello scontro,
poiché solo la fase della guerra civile dispiegata consente di attaccare
contemporaneamente e su più livelli la macchina statale.
Altro elemento programmatico, di vitale importanza, su cui si costruiscono i
termini della guerra di classe è l'antimperialismo. Su questo terreno
si è sviluppato un processo di confronto e di unità politica tra
le diverse forze rivoluzionarie. L'esordio del Fronte Rivoluzionario Combattente
in Europa Occidentale promosso nel 1985 dalla Rote Armee Fraktion (RAF) e da
Action Directe (AD) ha costituito il primo momento di confronto concreto nelle
forze rivoluzionarie, a partire dalla prassi che lo ha sostanziato; si è
posto cioè sul piano soggettivo la possibilità di superare quel
fronte oggettivo costituito dai singoli percorsi rivoluzionari che avvengono
sia nel centro che nella periferia. L'assunzione soggettiva della politica di
Fronte permette quindi di connotare l'internazionalismo proletario all'interno
della prassi adeguata alla profondità dello scontro tra imperialismo/antimperialismo;
in questo senso ribadiamo la giustezza delle affermazioni fatte dal Fronte fin
dal suo esordio, e cioè che lavorare alla costruzione e consolidamento
del Fronte costituisce un salto nella lotta proletaria e rivoluzionaria. L'attività
antimperialista delle BR fin lì praticata con le iniziative politico-militari
Dozier e Hunt, si è confrontata con il problema politico del Fronte ponendosi
in dialettica con il suo processo di avanzamento e consolidamento (l'iniziativa
politico-militare Conti).
L'approccio delle BR per la costruzione del Partito Comunista Combattente alla
politica di Fronte Combattente Antimperialista (FCA) è quella di una
politica di alleanze con le altre forze rivoluzionarie (non necessariamente
del centro) tesa a costruire momenti di unità successivi contro il nemico
comune (le politiche centrali dell'imperialismo). Per questo il fronte non è
e non può essere una formazione "spuria" di una nuova Internazionale
Comunista, come qualcuno nell'intento di denigrare questa proposta politica
ha cercato di spacciare, ma sostanzialmente è fondata su un rapporto
di alleanza fra le varie forze combattenti. Tutto ciò non significa che
l'attività antimperialista sostituisca l'intera prassi rivoluzionaria
all'interno del paese; ovvero vive la consapevolezza che i termini dell'organizzazione
di classe sulla lotta armata dipendono in primo luogo dalla capacità
di intervenire nelle contraddizioni tra classe e Stato e che tali contraddizioni
nascono all'interno delle condizioni peculiari del paese (per quanto possano
essere influenzate dalle relazioni che l'imperialismo stabilisce all'interno).
Per questa ragione l'attività nel FCA costituisce per le BR una parte
del loro programma politico, essa cioè vive con l'attacco al cuore dello
Stato un rapporto programmatico. Inoltre, per la nostra Organizzazione, l'attività
del FCA non può disperdersi in un attacco generico all'imperialismo,
a qualsiasi livello esprime la sua politica, ma ne deve individuare i nodi centrali,
sia quando essi si esplicano nel cuore del sistema, sia quando sono volti a
"normalizzare" l'area mediterraneo-mediorientale, sia quando essi
si coordinano per stabilire politiche controrivoluzionarie nei confronti della
Guerriglia e del FCA. Ciò significa intendere l'alleanza come un processo
di unità successive, che non comportano l'annullamento del proprio impianto
specifico nella politica di Fronte, ma stringerla all'interno dell'obiettivo
di costruire offensive comuni contro le politiche centrali dell'imperialismo,
indipendentemente dalle finalità strategiche delle Forze Rivoluzionarie
che vi contribuiscono, siano esse lotte di liberazione nazionale o la conquista
del potere politico da parte del proletariato. Per questo le BR affermano insieme
alla RAF che non si tratta di fondere ciascuna Organizzazione in un'unica Organizzazione,
ma di costruire la forza politica e pratica per attaccare l'imperialismo. L'unità
possibile e necessaria, nel FCA, fra le Forze Rivoluzionarie del centro e quelle
della periferia, nulla toglie al diverso peso e funzione che ognuna occupa nello
scontro, due livelli che appunto si riunificano politicamente nella lotta contro
l'imperialismo. All'interno di questi criteri generali, la nostra Organizzazione
si rapporta alla politica del Fronte, contribuendo al suo rafforzamento attraverso
intese politiche fattive. E' all'interno di questo contesto, in riferimento
alla politica di alleanze praticata e promossa dalla nostra Organizzazione,
che rivendichiamo ancora l'iniziativa combattente della RAF contro il presidente
della Deutsche Bank, Alfred Herrhausen. Essa, insieme alla precedente contro
Tietmayer, si inserisce contro il centro della politica che in questa fase costituisce
l'elemento principale del processo di coesione (formazione) dell'Europa Occidentale
a partire dal suo cuore, il ruolo della Repubblica Federale Tedesca.
Due assi programmatici (classe/Stato, antimperialismo/imperialismo) che sono
il terreno pratico su cui le BR sviluppano e verificano la loro capacità
d'attacco e assolvono alla funzione di direzione politica dello scontro. Una
direzione che si colloca nel quadro di scontro interno e internazionale dove
qualificare e far vivere nella strutturazione e disposizione delle forze il
patrimonio acquisito in questi vent'anni e misurarsi con l'approfondimento dello
scontro rivoluzione/controrivoluzione. Per inciso va detto che questi anni di
prassi rivoluzionaria hanno verificato che qualora viene meno il modulo politico-organizzativo
fondato sui criteri di clandestinità e compartimentazione, su sedi politiche
ben definite che permettono di accertare e relazionare le diverse responsabilità
attraverso il centralismo democratico, vi è perdita di capacità
della Guerriglia su tutti i piani dello scontro. In questa fase politica quello
che va tenute presente è il quadro determinato dalla dialettica rivoluzione/controrivoluzione
nel nostro paese, un processo che si ripercuote nel modo in cui lo Stato si
relaziona al campo proletario. Lo Stato ha ben presente che non può eliminare
la componente rivoluzionaria, in questo senso ha definito un apparato antiguerriglia
con un raggio d'intervento politico complessivo, ovvero finalizzato a tenere
sotto pressione le componenti proletarie e rivoluzionarie che esprimono antagonismo
verso lo Stato. Un aspetto questo che si compenetra con la mediazione politica
facendo di quest'ultima un reticolo di atti politici e materiali che contrastano
con l'ambito stesso di formazione dell'avanguardia, nel tentativo di impedire
all'autonomia di classe di esprimersi. In sintesi, misurarsi con le condizioni
politiche del rapporto classe/Stato per pesare sugli equilibri dello scontro
mette in luce i termini necessari della dialettica Guerriglia/autonomia di classe.
Una dialettica che a livello dell'organizzazione di classe sul terreno della
lotta armata deve agire sul binomio ricostruzione-formazione. Le BR hanno lavorato
e lavorano per porre le basi alla fase di ricostruzione; queste poggiano sui
passaggi effettivamente compiuti dall'avanguardia rivoluzionaria in termini
di ricentramento teorico, politico e organizzativo attraverso la prassi concretamente
messa in campo per portare l'iniziativa rivoluzionaria al punto più alto
dello scontro tra le classi. Se queste basi consentono di definire questo indirizzo
politico su cui s'incentra il lavoro rivoluzionario, è però vero
che la fase di ricostruzione è un passaggio problematico e difficile
per i molti fattori di contraddizione a cui l'avanguardia combattente deve dare
soluzione. A fronte della qualità richiesta all'intervento rivoluzionario,
quindi delle condizioni complessive per espletarlo, vi è la continua
necessità di operare ricostruzione dei mezzi e delle forze che devono
essere disposte; questo comporta un andamento avanzate-ritirate, per via dell'equilibrio
da mantenere tra i due fattori, il quale deve confrontarsi con l'intensa attività
antiguerrigliera e controrivoluzionaria dello Stato, e per altro verso per il
necessario processo di formazione delle stesse forze rivoluzionarie. Ecco perché
questa fase è soggetta ad un andamento fortemente discontinuo che comporta
il procedere fra avanzate e ritirate, condizionando in tal modo l'atteggiamento
tattico del momento. In sintesi, un termine di lavoro che attraversa verticalmente
e orizzontalmente le forze in campo (seppure con le dovute differenze) a partire
in primo luogo dalla formazione dei rivoluzionari.
L'adeguamento nella capacità di esprimere la direzione idonea alle mutate
condizioni dello scontro comporta un salto di qualità nella centralizzazione
delle forze in campo attorno all'attività generale dell'Organizzazione,
cioè emerge la necessità politica che l'attività dell'Organizzazione
si muova in termini di forte centralizzazione politica, che nell'accezione leninista
significa: centralizzazione delle direttive politiche sull'intero movimento
delle forze, decentralizzazione delle responsabilità politiche alle diverse
sedi e istanze organizzate. Più precisamente la centralizzazione deve
rispondere alla capacità di responsabilizzare le forze in un piano di
lavoro le cui caratteristiche politiche siano di patrimonio di tutti e non interpretabili
spontaneamente dai diversi livelli organizzati. La centralizzazione dell'attività
del movimento delle forze è condizione che richiede il massimo utilizzo
politico delle medesime all'interno di una disposizione volta a farle muovere
intorno all'iniziativa dell'Organizzazione. Ciò avviene solo dentro un
piano di lavoro definito, all'interno del quale tutte le forze concorrono non
per spontaneo apporto, ma disposte e organizzate in modo da contribuire confacentemente.
Una dinamica politico-organizzativa che può avvenire appunto nel duplice
movimento centralizzazione politica/decentralizzazione delle responsabilità.
Questo perché non è più sufficiente disporsi spontaneamente
sulla lotta armata pensando di ritagliarsi in piccolo i problemi posti dallo
scontro; in altri termini, una riproposizione dell'esperienza dei nuclei, che
al proprio livello riprendevano le indicazioni dell'Organizzazione, in questo
contesto non è più praticabile politicamente.
Non si tratta di dover far fare esperienza al proprio livello alle forze che
si relazionano, ma si tratta fin da subito di formarle all'interno di una disposizione
che permette di acquisire la dimensione politico-organizzativa che lo scontro
richiede: la dimensione del senso organizzato del lavoro per rispondere alle
necessità che assume questo livello di sviluppo della guerra di classe.
Al di fuori di questo dato politico c'è solo un'interpretazione fumosa
dell'unità dei comunisti che, muovendosi in ordine sparso, non può
che trascendere dalle condizioni che lo scontro impone, al limite ritagliandosi
un proprio spazio ininfluente ad incidere sullo scontro stesso, ma di fatto
favorendo la dispersione delle forze e delle iniziative in quanto su di esse
grava, indipendentemente dalla coscienza con cui si sono disposte nello scontro,
tutto il peso delle condizioni politiche. Questo adeguamento implica la capacità
di esprimere un livello di direzione politico-organizzativa adeguata alla centralizzazione
nella disposizione delle forze sull'attività dell'Organizzazione, un
livello di direzione che nel suo complesso muove verso un avanzamento nel processo
di costruzione del Partito Comunista Combattente.
I militanti delle BR-PCC: Maria Cappello, Tiziana Cherubini, Franco Galloni,
Enzo Grilli, Franco Grilli, Flavio Lori, Rossella Lupo, Fausto Marini, Fulvia
Matarazzo, Stefano Minguzzi, Fabio Ravalli. I militanti rivoluzionari organizzati
intorno alle BR-PCC: Daniele Bencini, Carlo Pulcini, Vincenza Vaccaro, Marco
Venturini.