Biblioteca Multimediale Marxista
I due dogmi dell'empirismo
L'empirismo moderno è stato per molta parte condizionato da due dogmi:
I) una presunta discriminazione fra verità che sarebbero analitiche per
il fatto di basarsi sul significato dei termini, e non su dati di fatto, e verità
che sarebbero sintetiche perché si fonderebbero su dati di fatto; II)
la tesi per cui tutte le proposizioni significanti sarebbero equivalenti a certi
costrutti logici sulla base di termini in relazione diretta con l'esperienza
immediata, e cioè il riduzionismo. Noi abbandoneremo sia l'uno che l'altro
dogma perchè ne dimostreremo l'infondatezza; e le conseguenze di un tale
abbandono, fra l'altro, saranno: per un verso, un offuscarsi della distinzione
fra metafisica e scienza naturale; per un altro verso, un accostarsi al pragmatismo.
1. Prospetto dell'analiticità
La distinzione kantiana fra verità analitiche e verità sintetiche
era già adombrata in quella humiana fra connessioni di idee da una parte
e dati di fatto dall'altra, nonché in quella leibniziana fra verità
di ragione e verità di fatto. Leibniz parlava delle verità di
ragione come di quelle verità che sarebbero rimaste tali in tutti i mondi
possibili; fuor di metafora, ciò equivale a dire che le verità
di ragione sono quelle che in nessun modo potrebbero mai essere false. Sulla
stessa falsariga, una proposizione analitica viene anche definita come quella
proposizione la negativa della quale è contraddittoria. Quest'ultima
definizione, in realtà, non chiarisce molto le idee; infatti, codesta
nozione di contraddittorietà, intesa in senso lato come si richiede per
quella definizione, ha bisogno di essere chiarita né più né
meno che l'analiticità stessa. Codeste due nozioni non sono, insomma,
che le due facce di una stessa enigmatica moneta.
Per Kant una proposizione analitica era quella in cui si predicava del soggetto
nulla di più di ciò che era già contenuto concettualmente
nello stesso soggetto. Questa sua formulazione, però, ha due difetti:
in primo luogo si limita alle proposizioni della forma soggetto-predicato; secondo
poi, essa fa appello ad una nozione di contenimento che rimane ad un livello
metaforico. Ma ciò che Kant aveva in mente, e che di certo si chiarisce
più nell'uso che egli fa della nozione di analiticità che nella
sua definizione di essa, si potrebbe riformulare così: una proposizione
è analitica quando è vera in virtù del significato dei
termini, indipendentemente dai fatti. Seguendo questa traccia, esaminiamo il
concetto di significato che si viene a presupporre.
Significare, è bene ricordarlo, non è lo stesso che denotare.
L'esempio di Frege di 'Stella della sera' e 'Stella del mattino', e quello russelliano
di 'Scott' e 'l'autore del Waverley' mostrano come i termini possano denotare
la stessa cosa pur avendo significati diversi. La distinzione fra significare
e denotare non è poi di minor importanza a livello dei termini astratti.
'Il numero dei pianeti' e '9' denotano la stessa ed unica entità astratta,
ma è lecito supporre che i loro significati debbano considerarsi diversi;
tanto è vero che per dimostrare che l'entità in questione è
una sola abbiamo bisogno di un'osservazione astronomica, e non basta riflettere
soltanto sul significato dei termini in causa.
Gli esempi riportati contemplano soltanto il caso di termini singolari, sia
concreti che astratti. Con i termini generali, cioè i predicati, la situazione
cambia in un certo senso, ma rimane sostanzialmente parallela. I termini singolari,
contrariamente a quelli generali, mirano a denotare certe entità, concrete
o astratte che esse siano; i termini generali, invece, sono veri di certe entità,
o di tutte le singole entità di una classe, oppure di nessuna. La classe
di tutte le entità di cui un termine generale è vero si chiama
la estensione del termine. Ricordandoci ora della distinzione fra il significato
di un termine singolare e l'entità da esso denotata dobbiamo, parallelamente
e analogamente, distinguere fra il significato di un termine generale e la sua
estensione. Termini generali come 'creatura con cuore' e 'creatura con reni'.
ad esempio, hanno forse la medesima estensione, ma di certo un diverso significato.
Confondere il significato con l'estensione a proposito dei termini generali
non è tanto comune quanto confondere il significato col denotato a proposito
dei termini singolari. È diventato infatti un luogo comune, in filosofia,
opporre intensione (o significato) ad estensione o, come anche si dice, connotare
a denotare.
Il concetto aristotelico di essenza è senza dubbio il precursore di quello
moderno di intensione o significato. Per Aristotele era essenziale essere razionale
per essere uomo, accidentale l'avere due gambe. Ma c'è una differenza
importante fra queste posizioni aristoteliche e la dottrina del significato:
dal punto di vista di quest'ultima si può anche concedere (se non altro
per amore di discussione) che la razionalità sia implicita nel significato
della parola 'uomo' mentre l'avere due gambe no; ma l'avere due gambe si può
allo stesso tempo considerare implicito nel significato di 'bipede', mentre
la razionalità no. Così dal punto di vista della dottrina del
significato non ha senso dire di un individuo reale, uomo e bipede ad un tempo,
che la sua razionalità sia essenziale mentre il fatto che ha due gambe
sarebbe accidentale, o viceversa. Secondo Aristotele le cose avevano delle essenze;
ma solamente una forma linguistica ha un significato. Il significato è
ciò che l'essenza diventa quando si separa dall'oggetto di riferimento
per sposarsi al vocabolo.
Per la teoria del significato la natura dei propri oggetti costituisce un grosso
problema: che sorta di cose sono i significati? Se, ora, si sentisse il bisogno
di entità significate, ciò probabilmente vorrebbe dire che non
si era dato il suo giusto valore alla distinzione fra significato e riferimento.
Una volta che la teoria del significato sia nettamente distinta dalla teoria
del riferimento, si giunge facilmente a riconoscere che la sinonimia delle forme
linguistiche e l'analiticità delle proposizioni costituiscono i principali
problemi della teoria del significato; i significati di per sè, come
oscure entità intermediarie, si possono benissimo abbandonare.
Ci troviamo così di fronte, nuovamente, al problema dell'analiticità.
Le proposizioni che per generale proclamazione dei filosofi sono analitiche
non c'è da andarle a cercare molto lontano. Esse si dividono in due classi.
Quelle appartenenti alla prima classe, e che si possono chiamare verità
logiche, potrebbero essere esemplificate da:
(1) Nessun uomo non sposato è sposato.
L'aspetto più rilevante di questo esempio è che la proposizione
non solo è vera cosí come sta ma rimane vera per ogni possibile
interpretazione diversa di 'uomo 'e 'sposato'. Se noi presupponiamo un inventario
di particelle logiche, comprendente 'nessun', 'in-', 'non', 'se', 'allora',
'e', ecc., allora in generale una verità logica è una proposizione
che è vera e rimane vera per ogni interpretazione possibile dei termini
che la compongono che non siano le particelle logiche.
Ma c'è anche una seconda classe di proposizioni analitiche, esemplificata
da:
(2) Nessuno scapolo è sposato.
La caratteristica di una proposizione del genere è che essa può
venir tradotta in una verità logica sostituendo ad un termine il suo
sinonimo; così la (2) può venir tradotta nella (1) sostituendo
'uomo non sposato' al suo sinonimo 'scapolo'. Pur tuttavia, ci manca ancora
una caratterizzazione propria di questa seconda classe di proposizioni analitiche,
e quindi dell'analiticità in generale, dal momento che, nella esposizione
che abbiamo fatto, ci siamo dovuti valere di una nozione di " sinonimia
" che ha bisogno di esser chiarita almeno quanto l'analiticità stessa.
Recentemente Carnap ha preferito spiegare l'analiticità facendo appello
a ciò che egli chiama descrizioni-di-stato. Una descrizione di stato
è una qualsiasi esauriente attribuzione di valori di verità alle
proposizioni atomiche, o non composte, di una certa lingua. Tutte le altre proposizioni
della lingua in questione sono, secondo Carnap, costruite con le loro locuzioni
costitutive per mezzo degli usuali mezzi logici, in modo tale che il valore
di verità di una qualsiasi proposizione complessa è fissato per
ogni descrizione di stato da leggi logiche determinabili. Si dice allora che
una proposizione è analitica quando essa risulta vera sotto ogni e qualsiasi
descrizione di stato. Questa spiegazione è un adattamento del leibniziano
" vero in tutti i mondi possibili ". Ma si noti che codesta spiegazione
dell'analiticità raggiunge il suo scopo solo se le proposizioni atomiche
della lingua sono, a differenza di 'John è scapolo' e 'john è
sposato', indipendenti l'una dall'altra. Altrimenti vi sarebbe una descrizione
di stato che assegnerebbe valore di verità a 'john è scapolo'
e a 'john è sposato' e di conseguenza 'Nessuno scapolo è sposato'
diventerebbe, per il criterio proposto, piuttosto una proposizione sintetica
che non analitica. Così il criterio di analiticità in termini
di descrizioni di stato serve solo per le lingue prive di coppie di sinonimi
extralogici, come 'scapolo' e 'uomo non sposato' - coppie di sinonimi del tipo
che ha dato origine alla " seconda classe " di proposizioni analitiche.
Il criterio in termini di descrizioni di stato è tutt'al più una
ricostruzione della verità logica, ma non dell'analiticità.
Non voglio con ciò dire che Carnap si inganni a questo proposito. La
sua semplificata lingua modello con le sue descrizioni di stato mirava non alla
risoluzione del problema generale dell'analiticità, ma prima di tutto
alla chiarificazione delle nozioni di probabilità e di induzione. Il
nostro problema, tuttavia, è l'analiticità; e qui la maggiore
difficoltà non è nella prima classe di proposizioni analitiche,
le verità logiche, ma piuttosto nella seconda classe, che dipende dalla
nozione di sinonimia.
2. Sulla 'definizione'
Vi sono di coloro che trovano confortante dire che le proposizioni analitiche
della seconda classe si riducono a quelle della prima classe (cioè le
verità logiche) per definizione; 'scapolo' ad esempio, si dice, è
definito come: 'uomo non sposato'. Ma in che modo riusciamo a scoprire che 'scapolo'
è definito come: 'uomo non sposato'? Chi lo ha definito così,
e quando? Dobbiamo forse ricorrere al più vicino dizionario, e accettare
come legge la formulazione del lessicografo? Questo vorrebbe dire veramente
mettere il carro avanti ai buoi. Il lessicografo è uno scienziato empirico,
il cui compito è quello di registrare dei fatti che lo precedono; e se
egli glossa 'scapolo' con 'uomo non sposato' ciò è perchè
egli crede che vi sia una relazione di sinonimia fra quelle due forme linguistiche,
relazione implicita o nell'uso corrente generale o in una accezione particolare
di certo anteriori al suo lavoro. Ma la nozione di sinonimia qui presupposta
deve ancora essere chiarita, e chiarita presumibilmente in termini di comportamento
linguistico. Dal momento, però, che la "definizione" non è
che la registrazione di una sinonimia rilevata dal lessicografo, essa non si
può prendere di certo come fondamento della sinonimia stessa.
L'attività definitoria, in verità, non è una attività
esclusivamente riservata al filologo. I filosofi e gli scienziati hanno spesso
occasione di "definire" un termine oscuro facendone la parafrasi in
termini più familiari. Ma di solito una simile definizione, così
come quella del filologo, è pura lessicografia, ed afferma una relazione
di sinonimia che la precede.
È quindi ancora lungi dall'esser chiaro cosa voglia dire affermare la
sinonimia e cioè proprio in che cosa consistano quei reciproci rapporti
che sono necessari e sufficienti perchè due forme linguistiche possano
propriamente dirsi sinonime; ma quali che possano essere codesti rapporti, di
solito essi si fondano sull'uso corrente. Le definizioni che registrano casi
selezionati di sinonimia vengono ad essere, allora, niente altro che registrazioni
dell'uso corrente.
Vi è anche, tuttavia, un tipo diverso di attività definitoria
che non si limita alla registrazione di sinonimie preesistenti. Penso a quella
che Carnap chiama spiegazione: un'attività propria dei filosofi, ma anche
degli scienziati nei loro momenti più filosofici. In una spiegazione
lo scopo non è meramente quello di parafrasare il definiendum con un
suo immediato sinonimo, ma quello di perfezionare in realtà il senso
del definiendum raffinando o integrando il suo significato. Ma la spiegazione,
sebbene essa non sia la mera registrazione di una sinonimia preesistente, fra
il definiens e il definiendum, si basa pur tuttavia su altre sinonimie preesistenti.
La questione, allora, si può vedere così: ogni parola che meriti
una spiegazione si trova in certi contesti alcuni dei quali, presi nel loro
insieme, sono chiari e abbastanza precisi per essere utili; lo scopo della spiegazione
è quello di proteggere l'uso corrente di tali contesti privilegiati rendendo
più preciso allo stesso tempo l'uso di altri contesti. Perchè
una data definizione sia perciò adatta agli scopi di una spiegazione,
non si richiede che il definiendum nel suo uso corrente sia sinonimo del definiens,
ma solo che ciascuno di questi contesti privilegiati del definiendum, preso
come insieme nel suo uso corrente, sia sinonimo del contesto corrispondente
del definiens.
Due diversi definientia possono essere ugualmente adatti per gli scopi di un
dato compito di spiegazione senza tuttavia essere sinonimi l'uno dell'altro;
essi, infatti, possono servire scambievolmente nei contesti privilegiati ma
divergere altrove. Seguendo uno di questi definientia piuttosto che l'altro
una definizione di tipo esplicativo genera, normativamente, una relazione di
sinonimia fra il definiendum e il definiens, relazione che prima non sussisteva.
Ma una definizione del genere deve anch'essa la sua funzione esplicativa, come
si è visto, a certe sinonimie preesistenti.
Rimane ancora, tuttavia, un ultimo tipo di definizione che non rimanda affatto
a sinonimie antecedenti: l'introduzione, cioè, esplicitamente fatta per
convenzione, di nuovi simboli a scopo di pura abbreviazione. Qui il definiendum
diventa sinonimo del definiens semplicemente perchè è stato creato
espressamente con lo scopo di esserlo. Questo è veramente un caso palese
di sinonimia creata per definizione; magari tutte le specie di sinonimia fossero
altrettanto comprensibili! In tutti gli altri casi, invece, la definizione poggia
sulla sinonimia piuttosto che spiegarla.
La parola 'definizione' è venuta ad avere un suono pericolosamente rassicurante,
dovuto senza dubbio al fatto che essa ricorre frequentemente negli scritti di
logica e di matematica. Sarà bene soffermarci quindi un poco a fare rapidamente
una valutazione del ruolo della definizione negli scritti formali.
Nei sistemi logici e matematici ci si può sforzare di raggiungere l'uno
o l'altro di due tipi di economia che si escludono a vicenda, e di cui ciascuno
ha la sua peculiare utilità pratica. Da una parte possiamo perseguire
un'economia delle nostre espressioni pratiche (e cioè mirare alla snellezza
e alla brevità nella asserzione di una molteplicità di relazioni).
Questo tipo di economia richiede in genere delle notazioni di individuazione
concise per un gran numero di concetti. D'altra parte, tuttavia, ed in modo
del tutto opposto, possiamo perseguire un'economia grammaticale e lessicale;
possiamo cercar di trovare un minimo di concetti fondamentali tali che, una
volta che una notazione di individuazione sia stata assegnata a ciascuno di
essi, divenga possibile esprimere qualsiasi ulteriore concetto desiderato col
semplice combinare e ripetere le nostre notazioni fondamentali. Questo secondo
tipo di economia per un verso non è molto pratico, dal momento che la
povertà delle locuzioni fondamentali tende necessariamente ad allungare
il discorso. Ma per un altro verso è realmente pratico: semplifica infatti
di molto il discorso teorico sul linguaggio, riducendo al minimo i termini e
le forme di costruzione in cui quel linguaggio si esaurisce.
Entrambi i tipi di economia, sebbene siano prima facie incompatibili, sono di
gran valore, ciascuno a suo modo, se considerati separatamente. Di conseguenza
è sorta l'abitudine di combinarli creando di fatto due linguaggi, di
cui uno è parte dell'altro. Il linguaggio inclusivo, sebbene abbia una
grammatica e un lessico ridondanti, è economico per quanto riguarda la
lunghezza dei messaggi, mentre la sua parte, chiamata notazione primitiva, è
economica per quanto riguarda la grammatica e il lessico. Tutto e parte sono
correlati da regole di traduzione con cui ciascuna locuzione che non sia costituita
da notazioni primitive viene identificata tuttavia a un certo complesso che,
invece, con notazioni primitive è costruito. Queste regole di traduzione
sono le cosiddette definizioni che compaiono nei sistemi formalizzati e che
non si debbono tanto considerare come complemento di una lingua, ma piuttosto
come relazioni reciproche fra due lingue, l'una facente parte dell'altra.
Queste relazioni, però, non sono arbitrarie. Il loro scopo è quello
di mostrare come le notazioni primitive possono raggiungere tutti gli obiettivi
della lingua ridondante, tranne la brevità e la praticità. Quindi
ci si può aspettare che il definiendum e il suo definiens, in ciascun
caso, siano in uno dei tre tipi di rapporto ora esaminati. Il definiens può
essere una parafrasi fedele del definiendum in termini più familiari
e tale da rispettare una sinonimia diretta col precedente uso corrente; oppure
il definiens può, in quanto spiegazione, specificare ulteriormente l'uso
corrente del definiendum; oppure, infine, il definiendum può essere una
notazione creata appositamente, ed appositamente dotata di significato.
Sia negli scritti formali che in quelli non formali, cosí, troviamo che
la definizione-eccetto che nell'ultimo caso, e cioè nell'introduzione
esplicitamente convenzionale di nuove notazioni-fa perno su precedenti relazioni
di sinonimia. Riconoscendo allora che la nozione di definizione non fornisce
la chiave né per la sinonimia né per l'analiticità, esaminiamo
più da vicino la sinonimia e lasciamo da parte la definizione.
3. La sostituibilità reciproca
Un suggerimento spontaneo, che merita un esame ravvicinato, è che la
sinonimia di due forme linguistiche consista semplicemente nella possibilità
di sostituire in tutti i contesti l'una forma all'altra senza alterare il valore
di verità-sostituibilità reciproca, come diceva Leibniz, salva
veritate. Si noti che i sinonimi così concepiti non devono necessariamente
essere privi di indeterminatezza, finché l'indeterminatezza dell'uno
si uniforma a quella dell'altro.
Ma non è del tutto vero che i sinonimi 'scapolo' e 'uomo non sposato'
siano sempre e dovunque sostituibili reciprocamente salva veritate. Verità
che diventano false sostituendo 'uomo non sposato' a 'scapolo' si costruiscono
facilmente servendosi, ad esempio, di una citazione fra virgolette, come:
'Scapolo' ha meno di dieci lettere.
Codesto esempio a sfavore, tuttavia, si potrebbe forse respingere trattando
la citazione 'scapolo' come una singola parola indivisibile e quindi stabilendo
che la sostituibilità reciproca salva veritate come banco di prova della
sinonimia non si deve applicare a delle parti che figurano all'interno di una
parola. Questa spiegazione della sinonimia, ammesso che sia accettabile per
certi aspetti, presenta però l'inconveniente di fare appello a un concetto
presupposto di " parola " che presenta di certo, a sua volta, difficoltà
di formulazione. Tuttavia, si può pretendere di aver fatto qualche progresso
con l'aver ridotto il problema della sinonimia ad un problema sullo status di
" parola ". Proseguiamo ancora un poco su questa strada, sorvolando
sul termine " parola " o dandolo per chiarito.
Rimane la questione se la sostituibilità reciproca salva veritate (trascurando
quella riferentesi a parti di parole) sia una condizione sufficientemente forte
per la sinonimia o se, al contrario, alcune espressioni antonimiche non possano
essere sostituibili allo stesso modo. Chiariamo subito che non stiamo parlando
di sinonimia intesa nel senso di una identità completa di associazioni
psicologiche o di qualità poetiche; in realtà nessuna espressione
può mai essere sinonima di un'altra in questo senso. Ci occupiamo qui
soltanto di quella che si potrebbe chiamare sinonimia conoscitiva e sapere che
cosa essa sia è lo scopo di questa nostra ricerca; ma noi già
sappiamo qualcosa sul suo conto poiché ci accorgemmo di averne bisogno
quando parlavamo dell'analiticità nel par. 1. Allora si aveva bisogno
soltanto di una sinonimia tale che qualsiasi proposizione analitica potesse
esser volta in una verità logica sostituendo soltanto ad alcuni termini
i loro sinonimi. Capovolgendo la situazione e ammettendo l'analiticità,
invero, potremmo spiegare la sinonimia conoscitiva dei termini nel modo seguente
(attenendoci al solito esempio): dire che 'scapolo' e 'uomo non sposato' sono
sinonimi in senso conoscitivo significa dire né più né
meno che:
(3) Tutti e soltanto gli scapoli sono uomini non sposati
è analitica.
Ma noi dobbiamo riuscire a dar conto della sinonimia conoscitiva senza presupporre
l'analiticità-se dobbiamo spiegare, viceversa, l'analiticità con
l'aiuto della sinonimia conoscitiva, come si era mostrato nel par. 1. Ed è
proprio una tale indipendente spiegazione della sinonimia conoscitiva quella
che stiamo ora prendendo in esame, cioè la sostituzione reciproca salva
veritate ovunque tranne che al di dentro delle parole. Il problema ora da risolvere,
per riprendere finalmente il filo del discorso, è se una tale sostituibilità
sia una condizione sufficiente per la sinonimia conoscitiva. Possiamo subito
assicurarci che lo è, con un esempio come quello che segue. La proposizione:
(4) Necessariamente tutti e solo gli scapoli sono scapoli
è palesemente vera, anche supponendo che 'necessariamente' sia interpretato
in senso così stretto da potersi applicare propriamente soltanto alle
proposizioni analitiche. Allora, se 'scapolo' e 'uomo non sposato' sono reciprocamente
sostituibili salva veritate, la proposizione:
(5) Necessariamente tutti e solo gli scapoli sono uomini non sposati
che risulta sostituendo 'uomo non sposato' ad uno dei due 'scapolo' nella (4)
deve, come la (4), essere vera. Ma dire che la (5) è vera significa dire
che la (3) è analitica, e quindi che 'scapolo' e 'uomo non sposato' sono
sinonimi in senso conoscitivo.
Cerchiamo di vedere cos'è che dà a tutto questo discorso una certa
aria di gioco di prestigio. La condizione di sostituibilità reciproca
salva veritate ha forza variabile a seconda della maggiore o minore ricchezza
della lingua che prendiamo in considerazione; il discorso di cui sopra presuppone
una lingua abbastanza ricca da contenere l'avverbio 'necessariamente', avverbio
interpretato in modo tale che la proposizione cui esso viene applicato è
vera se e solo se è una proposizione analitica. Ma possiamo tollerare
una lingua che contenga un avverbio simile? Ha veramente senso un simile avverbio?
Supporre di sì vuol dire supporre di aver già dato un senso soddisfacente
a 'analitico'. E allora, a che è servito tutto il nostro lavoro?
Il nostro discorso non è del tutto circolare, ma quasi. Se dovessimo
darne un'immagine, avrebbe la forma di una curva chiusa nello spazio.
La sostituibilità reciproca salva veritate non ha significato fino a
che non ci si riferisca ad una lingua la cui estensione sia specificata nei
suoi aspetti di rilievo. Immaginiamo una lingua che contenga soltanto il materiale
seguente: una quantità indefinita di predicati ad un posto (ad esempio,
'F' dove 'Fx' significa che x è un uomo) e di predicati a più
posti (ad esempio, 'G' dove 'Gxy' significa che x ama y), aventi soprattutto
a che fare con argomenti extra-logici. Il resto della lingua è composto
di particelle logiche. Ogni proposizione atomica consiste di un predicato seguito
da una o più variabili 'x', 'y', ecc.; e le proposizioni complesse sono
costruite con quelle atomiche con l'ausilio delle funzioni di verità
('non', 'e', 'o', ecc.) e dei quantificatori. Una lingua simile beneficia anche
dei vantaggi delle descrizioni e dei termini singolari in generale, essendo
essi definibili contestualmente come già sappiamo. Perfino i termini
singolari astratti che sono nomi di classi, di classi di classi, ecc. sono definibili
contestualmente nel caso che fra i predicati dati figuri il predicato a due
posti dell'esser membro di una classe. Una lingua simile può essere paragonata
alla matematica classica e al linguaggio scientifico in generale, tranne che
quando questo introduce mezzi discutibili come i condizionali controfattuali
o gli avverbi modali come 'necessariamente'. Ora una lingua di questo tipo è
una lingua estensionale, in questo senso: che due predicati qualsiasi che son
di eguale estensione (e cioè, veri degli stessi oggetti) sono sostituibili
reciprocamente salva veritate.
In una lingua estensionale, perciò, la sostituibilità reciproca
salva veritate non garantisce affatto la sinonimia conoscitiva che si desiderava.
Che 'scapolo' e 'uomo non sposato' siano sostituibili reciprocamente salva veritate
in una lingua estensionale ci fa soltanto sapere che la (3) è vera. Niente
ci garantisce che il fatto che 'scapolo' e 'uomo non sposato' abbiano uguale
estensione poggi sul significato dei termini piuttosto che su soli dati di fatto
contingenti, come è il caso di 'creatura con cuore' e 'creatura con reni'.
Nella maggior parte dei casi la concordanza estensionale è la maggiore
approssimazione alla sinonimia di cui ci si debba preoccupare. Ma resta il fatto
che la concordanza estensionale non riesce affatto a rendere la sinonimia conoscitiva
richiesta per dar ragione dell'analiticità alla maniera del par. 1. Il
tipo di sinonimia conoscitiva che si richiedeva doveva essere tale da identificare
la sinonimia di 'scapolo' e 'uomo non sposato' con l'analiticità della
(3), non semplicemente con la verità della (3).
Così dobbiamo riconoscere che la sostituibilità reciproca salva
veritate, se spiegata con riferimento a una lingua estensionale, non è
una condizione sufficiente per quella sinonimia conoscitiva necessaria a dar
ragione e conto dell'analiticità di cui si parlava nel par. 1. Se una
lingua contiene un avverbio intensionale come 'necessariamente' nel senso indicato
da ultimo, o altre particelle del genere, allora la sostituibilità reciproca
salva veritate in una tale lingua non offre una condizione sufficiente per la
sinonimia conoscitiva; ma una lingua simile è comprensibile se e per
quanto si sia già compresa la nozione di analiticità.
Il tentativo di spiegare prima la sinonimia conoscitiva, per derivare poi da
essa l'analiticità come nel par. 1, è forse la via sbagliata.
Potremmo invece spiegare l'analiticità in qualche modo senza ricorrere
all'aiuto della sinonimia conoscitiva. Dopo di che potremmo senz'altro derivare
quest'ultima esaurientemente dall'analiticità, a nostro piacimento. Abbiamo
visto che la sinonimia conoscitiva di 'scapolo' e 'uomo non sposato' può
venir spiegata come l'analiticità della (3). La stessa spiegazione vale,
naturalmente, per qualsiasi coppia di predicati ad un posto, e la si può
estendere ovviamente anche ai predicati a più posti. Le altre categorie
sintattiche possono venir sistemate parallelamente. Si può dire che i
termini singolari siano sinonimi conoscitivi quando la proposizione che asserisce
la loro identità, proposizione formata col porre '=' fra due dei termini
in questione, è analitica. Si può dire che gli asserti siano sinonimi
in senso conoscitivo quando il loro bicondizionale (che si ottiene unendoli
con 'se e solo se') è analitico. Se vogliamo comprendere tutte le categorie
in una sola formulazione, a patto però di presupporre di nuovo la nozione
di " parola " cui facevamo appello al principio di questo paragrafo,
possiamo descrivere due qualsiasi forme linguistiche come sinonime in senso
conoscitivo quando esse sono sostituibili reciprocamente (salvo che all'interno
delle " parole ") salva (non più veritate, ma) analyticitate.
In realtà sorgono alcuni problemi tecnici nei casi di ambiguità
o di omonimia; non ci soffermeremo su di essi, tuttavia, per non perderci troppo
in digressioni. Voltiamo piuttosto le spalle al problema della sinonimia e rivolgiamoci
ancora di nuovo a quello dell'analiticità.
4. Le regole semantiche
Da principio sembrava più che naturale definire l'analiticità
ricorrendo ad un regno dei significati. Poi l'appello ai significati dette adito
ad un appello alla sinonimia o alla definizione. Ma risultò che la definizione
era un fuoco fatuo, e che la sinonimia diventa comprensibile a sua volta solo
in forza della stessa analiticità: e cosí siamo tornati al problema
dell'analiticità.
Io non so se l'asserto 'Tutto ciò che è verde è esteso'
sia analitico o meno; ora, questa mia incertezza sta davvero ad indicare che
io non comprendo del tutto, che io non mi rendo conto pienamente dei "significati"
di 'verde' e di 'esteso'? Io credo di no; la difficoltà non riguarda
'verde' o 'esteso', ma 'analitico'.
Si accenna spesso al fatto che la difficoltà nel separare le proposizioni
analitiche dalle sintetiche nella lingua ordinaria è dovuta alla vaghezza
di codesta lingua e che la distinzione diventa chiara quando si abbia una lingua
artificiale precisa e fornita di esplicite " regole semantiche ".
Questa, tuttavia, come tenterò ora di mostrare, è una confusione.
La nozione di analiticità di cui ci stiamo occupando e preoccupando è
una pretesa relazione fra proposizioni e lingue: una proposizione S, si dice,
è analitica per una lingua L, e il problema sta nel dare un senso a codesta
relazione in generale, cioè per 'S' e 'L' variabili. La gravità
di tale problema non è meno evidente per le lingue artificiali che per
quelle naturali. Il problema di dar senso all'espressione 'S è analitica
per L', con 'S' ed 'L' variabili, rimane ostinatamente in piedi anche se limitiamo
la gamma della variabile 'L' alle lingue artificiali. Cercherò ora di
chiarire questo punto.
Non appena si parla di lingue artificiali o di regole semantiche si guarda subito
naturalmente agli scritti di Carnap. Le sue regole semantiche assumono varie
forme e per chiarezza io dovrò distinguerne alcune. Supponiamo, per cominciare,
una lingua artificiale L0 le cui regole semantiche abbiano esplicitamente la
forma di una determinazione, ricorsiva o no, di tutte le proposizioni analitiche
di L0. Le regole ci dicono che certe determinate proposizioni, e soltanto esse,
sono le proposizioni analitiche di L0. Ma qui la difficoltà sta semplicemente
nel fatto che le regole contengono il termine 'analitico' che noi non comprendiamo!
Possiamo capire quali siano le espressioni cui le regole attribuiscono analiticità,
ma non capiamo che cosa sia che le regole attribuiscono a quelle espressioni.
In breve, prima di riuscire a capire una regola che comincia con 'Una proposizione
S è analitica per la lingua L0 se e solo se...', dobbiamo capire il termine
relativo generale 'analitico per'; dobbiamo capire 'S è analitica per
L' dove 'S' ed 'L' sono variabili.
Oppure possiamo considerare le cosiddette regole come definizioni convenzionali
di un certo nuovo simbolo semplice 'analitico-per-L0' che sarebbe meglio scrivere
'K' per non essere tendenzioso e non dare l'illusione di far luce sul termine
che ci interessa: 'analitico'. È ovvio che qualsiasi numero di classi
K, M, N, ecc. di proposizioni di L0 può venir specificato per vari o
per nessuno scopo; che cosa significa dire che K, e non M, N, ecc., è
la classe delle proposizioni " analitiche "di L0?
Dicendo quali proposizioni sono analitiche per L0 noi spieghiamo 'analitico-per-L0',
ma non 'analitico', né 'analitico per'. E non cominciamo di certo a spiegare
l'espressione 'S è analitico per L' con 'S' e 'L' variabili, neanche
se ci accontentiamo di limitare la variabile 'L' al regno delle lingue artificiali.
In realtà ne sappiamo abbastanza sul conto di ciò che si intende
dire con 'analitico' per sapere che se una proposizione è analitica deve
essere vera. Passiamo allora ad un secondo tipo di regola semantica, che non
ci dice quali particolari proposizioni siano analitiche, ma semplicemente quali
proposizioni facciano parte delle proposizioni vere. Una regola siffatta, non
contenendo il termine non spiegato 'analitico', non si può criticare
per questo verso; e possiamo concedere per amore di discussione che il più
lato termine 'vero' non presenti alcuna difficoltà. Una regola semantica
di questo secondo tipo, e cioè una regola di verità, non deve
necessariamente specificare quali siano tutte le verità di una lingua;
essa stabilisce solamente, in un modo ricorsivo o no, un certo numero di proposizioni
che, insieme ad altre non specificate, debbono considerasi vere; e si può
anche concedere che una regola del genere sia assolutamente chiara. Dopo di
che, per derivazione, si può caratterizzare l'analiticità nel
modo seguente: una proposizione è analitica se è (non semplicemente
vera, ma) vera secondo le regole semantiche.
Eppure non abbiamo fatto neanche un passo avanti. Invece di fare appello al
termine non spiegato 'analitico', facciamo ora appello a una locuzione, 'regola
semantica', che non è affatto spiegata. Non tutte le proposizioni vere
che dicono che le asserzione di una certa classe sono vere possono venir considerate
come regole semantiche (altrimenti tutte le verità sarebbero " analitiche
" nel senso di essere vere secondo le regole semantiche). Si direbbe che
le regole semantiche si possano distinguere solo per il fatto di apparire in
una pagina sotto l'intestazione 'Regole Semantiche'; ma sarà allora questa
stessa intestazione ad essere priva di significato.
Noi possiamo sì dire che una proposizione è analitica-per-Lo se
e solo se essa è vera secondo certe determinate " regole semantiche
", ma ci troveremo poi sostanzialmente nella stessa situazione che si discuteva
in principio: 'S è analitica-per-Lo se e solo se...'. Quando cerchiamo
di spiegare 'S è analitica per L' in generale per 'L' variabile (anche
ammettendo che 'L' si limiti alle lingue artificiali), la spiegazione: 'vera
secondo le regole semantiche di L' non è di alcun vantaggio; il termine
relativo 'regola semantica di', infatti, ha bisogno di esser chiarito almeno
quanto lo è 'analitico per'.
Può essere istruttivo paragonare la nozione di regola semantica con quella
di postulato. Data una certa serie di postulati, è facile dire che cosa
è un postulato: è un membro della serie. Data una certa serie
di regole semantiche, è altrettanto semplice dire che cosa sia una regola
semantica. Ma data una semplice notazione, matematica o no che essa sia, se
anche ammettiamo che si comprendano perfettamente le traduzioni o le condizioni
di verità delle sue asserzioni, chi può dire quali delle sue asserzioni
vere fungano da postulati? È chiaro che la questione non ha senso, come
non ha senso domandarsi quali tra tutti i punti dell'Ohio siano quelli da cui
esso comincia. Qualsiasi serie prescelta di asserzioni (con preferenza, forse,
per quelle vere) finita (o che sia determinata realmente come infinita) è
un insieme di postulati tanto quanto lo è una qualsiasi altra serie.
La parola 'postulato' ha significato solo in rapporto a un atto di ricerca;
noi applichiamo quel termine a un certo insieme di proposizioni solo fintanto
che ci accade, in qualsiasi momento, di pensare a quelle proposizioni in rapporto
alle altre proposizioni che se ne possono derivare con una certa serie di trasformazioni
cui ci siamo trovati a rivolgere la nostra attenzione. Ora la nozione di regola
semantica è tanto sensata e significante quanto quella di postulato,
se concepita in un senso ugualmente relativo - relativo, questa volta, ad un
certo particolare tentativo di far capire a qualcuno non troppo pratico quali
siano le condizioni sufficienti perchè le asserzioni di una certa lingua
naturale o artificiale L siano vere. Ma da questo punto di vista nessuna regola
che distingua una certa sottoclasse dalla classe delle verità di L è
intrinsecamente una regola semantica più di una qualsiasi altra; e, se
'analitico' significa 'vero per le regole semantiche', nessuna verità
di L è analitica ad esclusione di un'altra.
Si potrebbe protestare che una lingua artificiale L (a differenza di una lingua
naturale) è una lingua nel senso ordinario del termine con in più
una serie di esplicite regole semantiche - il tutto costituente, diciamo, una
coppia ordinata; e che le regole semantiche di L si potrebbero allora caratterizzare
semplicemente come la seconda componente della coppia L. Ma, per la stessa ragione
e più semplicemente, potremmo interpretare una lingua artificiale L direttamente
come una coppia ordinata di cui la seconda componente sia la classe delle sue
proposizioni analitiche; e allora le proposizioni analitiche di L divengono
determinabili semplicemente come le proposizioni che fan parte della seconda
componente di L. O, ancora meglio, potremmo finirla di arrampicarci sugli specchi.
Non tutte le spiegazioni della analiticità conosciute da Carnap e dai
suoi lettori sono state trattate esplicitamente nelle nostre considerazioni,
ma queste considerazioni, come si può facilmente intuire, sono estensibili
a tutte. Basterà parlare soltanto di un altro fattore che talvolta entra
in giuoco: qualche volta le regole semantiche sono veramente regole per tradurre
la lingua artificiale nel linguaggio comune, e in questo caso le proposizioni
analitiche della lingua artificiale si riconoscono di fatto come tali dall'analiticità
delle loro traduzioni particolari nel linguaggio comune. Qui non si può
certo pensare che il problema dell'analiticità riceva qualche chiarimento
da parte della lingua artificiale.
Dal punto di vista del problema dell'analiticità la nozione di una lingua
artificiale provvista di regole semantiche è un feu follet par excellence.
Le regole semantiche che determinano le proposizioni analitiche di una certa
lingua artificiale sono di un qualche interesse solo se abbiamo già compreso
il concetto di analiticità; ma per la comprensione di quest'ultima non
sono di nessun aiuto.
Fare appello a lingue ipotetiche artificialmente elementari potrebbe essere
un modo utile per chiarire l'analiticità se i fattori mentali o comportamentistici
o culturali di rilievo per l'analiticità (quali che possano essere) fossero
in qualche modo abbozzati in quel modello semplificato. Ma un modello che prende
l'analiticità puramente come una caratteristica non riducibile non è
certo fatto per far luce sul problema dell'analiticità.
È ovvio che la verità in generale dipende sia da fatti linguistici
che da fatti extralinguistici. L'asserzione 'Bruto uccise Cesare' sarebbe falsa
se il mondo fosse stato diverso per certi aspetti, ma sarebbe anche falsa se
la parola 'uccise' avesse per caso il senso di 'generò'. Così
si è tentati a supporre che in generale si possa analizzare in qualche
modo la verità di una proposizione in una componente linguistica e in
una componente fattuale. E quindi, poi, sembra ovvio che alcune proposizioni
non abbiano alcuna componente fattuale; queste ultime, allora, sarebbero le
proposizioni analitiche. Ma, per tutta la sua ragionevolezza a priori, non si
è affatto tracciata una distinzione fra proposizioni analitiche e sintetiche.
Credere che si debba tracciare una tale distinzione è un non empirico
dogma degli empiristi, un metafisico articolo di fede.
5. La teoria della verificazione e il riduzionismo
Nel corso di queste fosche riflessioni abbiamo dato un giudizio pessimistico
prima di tutto della nozione di significato, quindi della nozione di sinonima
conoscitiva e finalmente della nozione di analiticità. Ma che dire, ci
si potrebbe chiedere, di quella teoria del significato che va sotto il nome
di teoria della verificazione? Questa locuzione si è così saldamente
affermata che è diventata quasi uno slogan dell'empirismo, e sarebbe
veramente poco scientifico non rivolgersi ad essa per cercare una possibile
soluzione del problema del significato e dei problemi ad esso connessi.
La teoria della verificazione, che ha avuto una parte notevole nella letteratura
da Peirce in poi, consiste nell'affermare che il significato di una proposizione
è il metodo con cui empiricamente la confermiamo o la infirmiamo. La
proposizione analitica rappresenta il caso limite di quella proposizione che
è confermata quali che siano i dati di fatto.
Come si è dimostrato nel par. 1, possiamo benissimo sorvolare sulla questione
dei significati come entità e guardare direttamente a quella della identità
di significato o sinonimia. E allora ciò che la teoria della verificazione
dice è che due proposizioni sono sinonime se e solo se il metodo per
confermarle o infirmarle empiricamente è lo stesso per entrambe.
In realtà, questa è una spiegazione della sinonimia conoscitiva
delle proposizioni, ma non delle forme linguistiche in generale. Tuttavia dal
concetto della sinonimia delle proposizioni potremmo derivare il concetto di
sinonimia per le altre forme linguistiche con considerazioni in qualche modo
simili a quelle che facevamo alla fine del par. 3. Accettando la nozione di
" parola ", infatti, potremmo dire che due forme linguistiche qualsiasi
sono sinonime quando, sostituendo una forma all'altra in una qualsiasi proposizione
(tranne che quando figurino all'interno delle " parole "), si ottiene
una proposizione sinonima a quella data. Infine, una volta dato così
il concetto di sinonimia per le forme linguistiche in generale, potremmo definire
l'analiticità in termini di sinonimia e di verità logica come
nel par. 1. A tal fine, anzi, potremmo più semplicemente definire l'analiticità
soltanto in termini di verità logiche e di sinonimia di proposizioni:
non è necessario ricorrere alla sinonimia di forme linguistiche che non
siano proposizioni. Si potrebbe infatti dire che una proposizione è analitica
semplicemente - quando è sinonima di un'altra proposizione logicamente
vera.
Così, se la teoria della verificazione potesse venire accettata come
una spiegazione adeguata della sinonimia delle proposizioni, si potrebbe dopo
tutto salvare la nozione di analiticità. Tuttavia, cerchiamo di riflettere.
Si dice che la sinonimia delle proposizioni consista nell'identità del
metodo con cui esse vengono confermate o infirmate empiricamente. Ma cosa sono
codesti metodi che si mettono a confronto per scoprirne l'identità? Qual'è,
in altre parole, la natura del rapporto fra una proposizione e le esperienze
che sono a favore o contro la sua conferma?
L'opinione più ingenua è quella secondo cui quel rapporto consisterebbe
in una registrazione diretta; questo è ciò che si chiama il riduzionismo
radicale. Esso afferma che ogni proposizione avente significato è traducibile
in una proposizione (vera o falsa che sia) su esperienze immediate. Il riduzionismo
radicale, in una forma o nell'altra, possiamo dire che anticipi quella teoria
del significato chiamata esplicitamente teoria della verificazione. Così,
Locke e Hume sostenevano che ogni idea dovesse trarre la sua origine direttamente
dall'esperienza sensibile oppure essere composta di idee originatesi in tal
modo; e servendosi di un suggerimento di Tooke potremmo riformulare questa teoria
in termini semantici dicendo che un termine, per essere affatto significante,
deve essere o il nome di un dato sensoriale o un composto di tali nomi o un'abbreviazione
di un tale composto. Enunciata così, codesta teoria presenta ambiguità
fra dato sensoriale come evento sensoriale e dato sensoriale come qualità
sensoriale; e non ci dice neanche con chiarezza quali siano i modi ammissibili
per ottenere un composto. Oltretutto essa è restrittiva in modo intollerabile
e del tutto superfluo dal momento che ci impone il compito di una critica per
ogni singolo termine. Più ragionevolmente, e senza tuttavia oltrepassare
i limiti di ciò che ho chiamato riduzionismo radicale, potremmo prendere
come nostre unità significanti le proposizioni in quanto tali e richiedere
che esse siano traducibili nella lingua dei dati sensoriali, senza esigere però
che siano traducibili termine per termine.
Questa variante sarebbe. stata certamente accolta da Locke, da Hume e da Tooke,
ma storicamente essa ha dovuto aspettare un importante mutamento di prospettiva
negli studi semantici, e cioè quando si giunse a considerare veicolo
di significato non più il singolo termine ma la proposizione come tale.
Questo cambiamento di prospettiva, esplicito in Frege [Foundations of Arithmetic
(New York: Philosophical Library, 1950), par. 60], è implicito nel concetto
russelliano di definizione d'uso dei simboli incompleti; ed è anche implicito
in quella teoria del significato che è la teoria della verificazione,
dal momento che oggetto della verificazione sono le proposizioni.
Il riduzionismo radicale, concepito ora in funzione delle proposizioni, si pone
il compito di determinare una lingua dei dati sensoriali e di mostrare come
tradurre in essa qualsiasi discorso significante, proposizione per proporzione.
Carnap intraprese una tale opera nel suo Aufbau.
La lingua che Carnap adottò come punto di partenza non era una lingua
dei dati sensoriali nel senso più stretto del termine, dal momento che
essa includeva anche le notazioni della logica fino alla superiore teoria degli
insiemi. Di fatto essa includeva l'intero linguaggio della matematica pura.
L'ontologia in essa implicita (cioè la gamma dei valori delle sue variabili)
abbracciava non soltanto gli eventi sensoriali, ma anche le classi, le classi
di classi e così via. Alcuni empiristi trasalirebbero di certo a una
tale prodigalità. Il punto di partenza di Carnap è molto parsimonioso,
tuttavia, nella sua parte extralogica o sensoriale. In una serie di costruzioni
in cui egli sfrutta le risorse della logica moderna con molta abilità,
Carnap riesce a definire un'ampia serie di importanti concetti sensoriali supplementari
che, se non fosse stato per quelle sue costruzioni, non ci saremmo neanche sognati
di poter definire su una base tanto debole. Egli è stato il primo empirista
che, non contento di asserire semplicemente la riducibilità della scienza
ai termini dell'esperienza immediata, abbia fatto seriamente dei passi avanti
per mettere in pratica il riduzionismo.
Anche se il punto di partenza di Carnap è soddisfacente, pur tuttavia
le sue costruzioni erano, come del resto sottolineò egli stesso, solo
una parte dell'intero programma. E la costruzione delle proposizioni sul mondo
fisico, anche delle più semplici, fu soltanto abbozzata. I suggerimenti
di Carnap a questo proposito erano, malgrado la loro incompletezza, molto stimolanti.
Egli spiegò il punto-istante spazio-temporale come l'insieme di quattro
numeri reali e predispose l'assegnazione di qualità sensoriali ai punti-istanti
secondo certe regole. Riassunto sommariamente, il progetto consisteva nell'assegnare
le qualità ai vari punti-istanti in modo tale da ottenere il mondo più
pigro possibile compatibile con la nostra esperienza. Il principio della minima
azione doveva guidarci nella costruzione di un mondo per mezzo della nostra
esperienza.
Carnap, tuttavia, non parve rendersi conto che il suo trattamento degli oggetti
fisici non riusciva ad ottenere la riduzione desiderata non soltanto per la
sua incompletezza, ma anche in linea di principio. Alle proposizioni della forma
'La qualità q è al punto-istante x;y;z;t' si dovevano, secondo
le sue regole, assegnare valori di verità in modo tale da elevare al
massimo e ridurre al minimo certi aspetti globali e, con il procedere dell'esperienza,
i valori di verità dovevano venire progressivamente riesaminati con gli
stessi criteri. Io credo che questa sia una buona esposizione schematica (di
proposito più che semplificata, certamente) di ciò che la scienza
realmente fa; ma essa non ci offre nessuna indicazione, neanche la più
sommaria, di come una proposizione della forma 'La qualità q è
a x;y;z;t' possa mai venir tradotta in quella lingua dei dati sensoriali e della
logica che Carnap adottava come punto di partenza. La locuzione 'è a'
rimane una congiunzione supplementare e non definita; le regole ci suggeriscono
come usarla, ma non come eliminarla.
Sembra che Carnap in seguito si sia reso conto di ciò; infatti nei suoi
scritti posteriori egli abbandonò del tutto la nozione di traducibilità
delle proposizioni sul mondo fisico in proposizioni su esperienze immediate.
Il riduzionismo nella sua forma radicale da allora non è più apparso
nella filosofia di Carnap.
Ma il dogma del riduzionismo ha continuato, in una forma meno ingenua e più
attenuata, ad influenzare il pensiero degli empiristi. Permane la convinzione
che a ciascuna proposizione, o a ciascuna proposizione sintetica, sia associata
una ed una sola sfera di possibili eventi sensoriali sì che la presenza
di uno di questi aumenterebbe le garanzie di veridicità della proposizione,
e che vi sia associata anche un'altra e un'altra sola sfera di possibili eventi
sensoriali la cui presenza quelle garanzie diminuirebbe. Questa convinzione
è naturalmente implicita nella teoria della verificazione.
Il dogma del riduzionismo sopravvive nella convinzione che ciascuna proposizione,
presa di per sè ed isolata dalle altre, si possa confermare o infirmare.
Il mio parere, al contrario, che discende essenzialmente dalla teoria carnapiana
del mondo fisico esposta nell'Aufbau, è che le nostre proposizioni sul
mondo esterno si sottopongono al tribunale dell'esperienza sensibile non individualmente
ma solo come un insieme solidale.
Il dogma del riduzionismo, anche in questa sua forma attenuata, è connesso
intimamente con l'altro dogma - cioè quello per cui vi sarebbe una differenza
essenziale tra l'analitico e il sintetico. E di fatto quest'ultimo problema
ci ha condotti al primo attraverso la teoria della verificazione. Più
esattamente, il primo dogma sostiene chiaramente il secondo nel modo seguente:
finché si ritiene che abbia significato in generale parlare di confermare
o informare una proposizione, sembra che abbia significato anche parlare di
un tipo limite di proposizione confermata in modo vuoto, ipso facto, quali che
siano i dati di fatto; e questa sarebbe una proposizione analitica.
I due dogmi hanno in effetti una radice comune. Poco fa abbiamo detto che in
generale la verità delle proposizioni dipende ovviamente da fatti sia
linguistici che extralinguistici; e abbiamo notato come ciò provochi,
non da un punto di vista logico ma del tutto istintivamente, l'impressione che
la verità di una proposizione sia in qualche modo analizzabile in una
componente linguistica e in una componente fattuale. La componente fattuale
deve, se siamo empiristi, ridursi ad una gamma di esperienze di conferma. Nel
caso limite in cui la componente linguistica è la sola che conti, una
proposizione vera è analitica. Ma ormai siamo tutti convinti, spero,
che non si può assolutamente riuscire a tracciare una netta distinzione
tra analitico e sintetico. Ed è anche notevole, a mio parere, a parte
gli esempi prefabbricati delle palle bianche e nere in un'urna, quanto sia stato
sempre sconcertante il problema di arrivare a definire chiaramente una qualsiasi
teoria della conferma empirica di una proposizione sintetica. A questo punto,
perciò, vorrei suggerire che non ha alcun senso, e ha causato invece
molte assurdità, parlare di una componente linguistica e di una componente
fattuale nella verità di una qualsiasi singola proposizione. Presa nel
suo insieme, la scienza dipende dalla lingua e dalla esperienza ad un tempo;
ma ciò non significa che si possa dire altrettanto di ciascuna proposizione
della scienza presa singolarmente.
L'idea della definizione d'uso di un simbolo, come è stato sottolineato,
ha costituito un passo avanti rispetto all'assurdo empirismo, diretto ad ogni
singolo termine, di Locke e di Hume. Con Frege si giunse a riconoscere che era
la proposizione, e non il singolo termine, ciò che una critica empirista
doveva considerare come unità. Ma io sostengo che anche questa è
una rete a maglie troppo strette: l'unità di misura della significanza
empirica è tutta la scienza nella sua globalità.
6. Empirismo senza dogmi
Tutte le nostre cosiddette conoscenze o convinzioni, dalle più fortuite
questioni di geografia e di storia alle leggi più profonde della fisica
atomica o financo della matematica pura e della logica, tutto è un edificio
fatto dall'uomo che tocca l'esperienza solo lungo i suoi margini. O, per mutare
immagine, la scienza nella sua globalità è come un campo di forza
i cui punti limite sono l'esperienza. Un disaccordo con l'esperienza alla periferia
provoca un riordinamento all'interno del campo; si devono riassegnare certi
valori di verità ad alcune nostre proposizioni. Una nuova valutazione
di certe proposizioni implica una nuova valutazione di altre a causa delle loro
reciproche connessioni logiche - mentre le leggi logiche sono soltanto, a loro
volta, certe altre proposizioni del sistema, certi altri elementi del campo.
Una volta data una nuova valutazione di una certa proposizione dobbiamo darne
un'altra anche a certe altre, che possono essere proposizioni logicamente connesse
con la prima o esse stesse proposizioni di connessioni logiche, Ma l'intero
campo è determinato dai suoi punti limite, cioè l'esperienza,
in modo così vago che rimane sempre una notevole libertà di scelta
per decidere quali siano le proposizioni di cui si debba dare una nuova valutazione
alla luce di una certa particolare esperienza contraria. Una esperienza particolare
non è mai vincolata a nessuna proposizione particolare all'interno del
campo tranne che indirettamente, per delle esigenze di equilibrio che interessano
il campo nella sua globalità.
Se tutto ciò è giusto, non è affatto corretto parlare del
contenuto empirico di una certa proposizione particolare - specialmente se si
tratta di una proposizione molto lontana dalla periferia del campo. Ed inoltre
diventa assurdo cercare una qualsiasi linea di demarcazione fra proposizioni
sintetiche, che si fondino sull'esperienza contingente, e proposizioni analitiche,
che valgono quali che siano i dati dell'esperienza. Tutte le proposizioni si
potrebbero far valere in tal modo se facessimo delle rettifiche sufficientemente
drastiche in qualche altra parte del sistema. Persino una proposizione molto
vicina alla periferia si potrebbe ritenere vera malgrado qualsiasi esperienza
contraria adducendo a pretesto un'allucinazione o modificando alcune di quelle
proposizioni che si chiamano leggi logiche. Analogamente, per converso, nessuna
proposizione è immune, per le stesse ragioni, da correzioni. Si è
perfino proposto di modificare la legge logica del terzo escluso come un mezzo
per semplificare la meccanica quantistica; e che differenza c'è in linea
di principio fra una modifica del genere e quella per cui Keplero ha preso il
posto di Tolomeo o Einstein quello di Newton o Darwin quello di Aristotele?
Tanto per dare un'immagine intuitiva ho parlato in termini di distanze variabili
da una periferia sensoriale; cerchiamo ora di chiarire questo concetto fuor
di metafora. Sembra che alcuni asserti, pur se intorno ad oggetti fisici e non
ad esperienze sensoriali, siano particolarmente pertinenti all'esperienza sensoriale
(e in modo selettivo: certe asserzione a certe esperienze, altre ad altre).
Tali asserti, segnatamente concernenti esperienze particolari, li rappresento
come vicini alla periferia. Ma in questa relazione di " pertinenza "
io non vedo niente più che una libera associazione che riflette in pratica
il fatto che con una certa probabilità preferiremo modificare una certa
proposizione piuttosto che un'altra in caso di qualche esperienza contraria.
Per esempio, possiamo immaginare delle esperienze contrarie cui conformeremmo
di certo volentieri il nostro sistema mutando soltanto la nostra valutazione
dell'asserzione che in Via Elm vi sono delle case di mattoni, e delle relative
asserzioni sullo stesso argomento. Possiamo immaginare altre esperienze contrarie
cui conformeremmo volentieri il nostro sistema dando soltanto una nuova valutazione
della asserzione che non vi sono centauri, e delle asserzioni ad essa relative.
Io ho insistito nel dire che un'esperienza contraria può conciliarsi
ed inserirsi in un certo sistema modificando a piacere alcune fra le varie e
diverse valutazioni che si erano date nei vari e diversi settori dell'intero
sistema: ma, nei casi che abbiamo ora portato ad esempio, la nostra naturale
tendenza a turbare il meno possibile il sistema nella sua interezza ci condurrebbe
a dirigere la nostra revisione su quelle particolari asserzioni concernenti
case di mattoni o centauri. Si ha l'impressione perciò che queste proposizioni
abbiano un riferimento empirico più preciso di quanto non lo abbiano
le proposizioni altamente teoriche della fisica o della logica o dell'ontologia.
Si possono considerare codeste proposizioni come poste quasi al centro dell'intera
rete, volendo dire con ciò semplicemente che vi si impongono ben pochi
rapporti preferenziali con i dati sensoriali particolari.
Come empirista io continuo a considerare lo schema concettuale della scienza
come un mezzo, in ultima analisi, per predire l'esperienza futura alla luce
dell'esperienza passata. Gli oggetti fisici vengono concettualmente introdotti
nella situazione come comodi intermediari -non definendoli in termini di esperienza,
ma come semplici postulati non riducibili, paragonabili, da un punto di vista
epistemologico, agli dei di Omero. Io, che di fisica ho nozioni più che
comuni, credo per parte mia negli oggetti fisici e non negli dei di Omero; e
considero un errore scientifico credere altrimenti. Ma in quanto a fondamento
epistemologico, gli oggetti fisici e gli dei differiscono solo per grado e non
per la loro natura. Sia l'uno che l'altro tipo di entità entrano nella
nostra concezione soltanto come postulati culturali. Da un punto di vista epistemologico
il mito degli oggetti fisici è superiore agli altri nel fatto che si
è dimostrato più efficace degli altri miti come mezzo per elevare
una semplice costruzione nel flusso dell'esperienza.
E non ci fermiamo a postulare soltanto gli oggetti fisici del mondo macroscopico.
Si postulano degli oggetti anche a livello atomico per rendere più semplici
e più comode le leggi degli oggetti macroscopici e, in definitiva, le
leggi dell'esperienza; e non dobbiamo aspettarci né pretendere una definizione
esauriente delle entità atomiche e subatomiche in termini di quelle macroscopiche,
più di quanto non pretendiamo una definizione degli oggetti macroscopici
in termini di dati sensoriali. La scienza è un prolungamento del senso
comune, e si serve dello stesso espediente del senso comune: amplia l'ontologia
per semplificare la teoria.
Gli oggetti fisici, piccoli o grandi che siano, non sono i soli postulati; un
altro esempio è costituito dalle forze; ed in realtà oggi la scienza
ci dice che la discriminazione fra energia e materia è ormai antiquata.
Inoltre, le entità astratte che sono l'essenza della matematica (cioè,
in definitiva, le classi, le classi di classi e così via) sono degli
altri postulati, e per le stesse ragioni. In sede epistemologica questi sono
miti, sullo stesso piano degli oggetti fisici e degli dei, e non si possono
considerare né migliori né peggiori se non per il diverso grado
in cui ci facilitano il compito di trattare le esperienze sensoriali.
L'intera algebra dei numeri razionali e irrazionali non si può determinare
interamente con l'algebra dei numeri razionali, ma è più funzionale
e conveniente; essa include l'algebra dei numeri razionali come una sua parte
incompleta o di comodo. Analogamente, ma in maggior misura, l'esperienza non
può interamente determinare l'intero corpus delle scienze, matematiche
naturali e dell'uomo. Il margine del sistema deve mantenersi sempre in accordo
con l'esperienza; il resto, con tutti i suoi miti accurati o le sue fantasie,
ha come obiettivo la semplicità delle leggi.
Le questioni ontologiche, che in questo senso sono sullo stesso piano delle
questioni della scienza naturale. Consideriamo la questione se accettare o meno
le classi come entità. Questo, come ho dimostrato altrove, vuol dire
chiedersi se si possa o meno adoperare la quantificazione in riferimento a variabili
che abbiano come valori le classi. Ora Carnap ["Empirism, semantics, and
ontology", Revue internazionale de philosophie 4 (1950). Ristampato in
Linsky] ha sostenuto che questa non è una questione di dati di fatto,
ma di scelta di una forma conveniente di linguaggio, di uno schema concettuale
conveniente o di un'intelaiatura per la scienza. In questo sono pienamente d'accordo,
ma solo con la clausola che lo stesso si debba concedere per tutte le ipotesi
scientifiche in generale. Carnap [vedi sopra pag. 32n] ha ammesso di poter mantenere
un duplice criterio per le questioni ontologiche e per le ipotesi scientifiche
solo ammettendo una distinzione assoluta fra l'analitico e il sintetico; e non
ho bisogno di ripetere che questa è una distinzione che io respingo.
La questione dell'esistenza delle classi sembra più una questione della
scelta di uno schema concettuale conveniente; quella dell'esistenza dei centauri
o delle case di mattoni in Via Elm, ci dà più l'impressione di
essere una questione di fatto. Ma io ho cercato di dimostrare che questa differenza
è soltanto una differenza di grado, e che essa dipende da una tendenza
in qualche modo pragmatica a modificare una certa parte dell'edificio della
scienza piuttosto che un'altra quando dobbiamo conciliare certe esperienze particolari
contrarie. In tutte codeste scelte traspare un certo conservatorismo insieme
alla ricerca della semplicità.
Carnap, Lewis ed altri assumono una posizione pragmatica nella questione della
scelta delle forme di linguaggio, delle intelaiature della scienza; ma il loro
pragmatismo cessa alla soglia della immaginaria distinzione fra l'analitico
e il sintetico. Nel ripudiare una tale discriminazione, io abbraccio un pragmatismo
più radicale. Ciascun uomo ha una certa eredità scientifica oltre
che una ininterrotta diga di stimoli sensoriali; e le considerazioni che lo
guidano a piegare la sua eredità scientifica perchè si adatti
agli incessanti dettami dei sensi sono, se razionali, di natura pragmatica.