Biblioteca Multimediale Marxista
Sommario:
Prefazione di Paolo Bonacchi
Presentazione
Il profeta del federalismo
Il socialista, l'ateo e l'anarchico
Prefazione dell'autore
Capitolo I
Dualismo politico.
Autorita' e liberta':
Opposizione e connessione di queste due nozioni
Capitolo II
Concetti a priori sugli ordinamenti politici :
Regime di autorita'
Capitolo III
Forme di governo
Capitolo IV
Transazione fra i principi:
Origine delle contraddizioni della politica.
Capitolo V
Governi di fatto : dissoluzione sociale.
Capitolo VI
Posizione del problema politico:
Principio di soluzione
Capitolo VII
Sviluppo dell' idea di federazione
Capitolo VIII
Costituzione progressiva
Capitolo IX
Ritardo delle federazioni:
Cause del loro rinvio
Capitolo X
Idealismo politico:
Efficacia della garanzia federale
Capitolo XI
Sanzione economica
Federazione agricolo- industriale
Prefazione
di Paolo Bonacchi
Presentazione
Ci siamo impegnati nella traduzione di questo libro per diffondere l'idea
del federalismo nella purezza dei suoi principi, come avrebbe detto Pierre-Joseph
Proudhon (1809-1865). Forse nessuno come lui ha saputo descriverlo in modo tanto
efficace e comprensibile anche per i non addetti ai lavori. Non esiste cosa
altrettanto importante per l'uomo moderno, quanto la diffusione delle informazioni.
E' perfettamente inutile declamare i sacri principi dell'uguaglianza, della
giustizia, della libertà, della democrazia e lasciare che la coscienza
dei cittadini si formi in un modo arbitrario, incompleto oppure attraverso informazioni
false.
Forze oscure agiscono contro gli uomini come contro la società. Queste
forze si riassumono nell'ignoranza e nel potere che per dominare impediscono
con la loro azione la crescita delle coscienze.
Non è facile al tempo d'oggi per un cittadino comune, avere la pazienza
e la buona volontà necessarie per leggere un libro di politica scritto
più di un secolo fa. Lo scempio che in Italia viene quotidianamente perpetrato
contro lo spirito della società, ha alla fine allontanato gli italiani
dalla passione della politica e dalla partecipazione alla vita collettiva. Tuttavia
quelli che si vorranno cimentare nell' impresa di leggere "Del principio
federativo" e si sforzeranno di capire quanto in esso contenuto, conosceranno
quali siano le ragioni ed i principi del federalismo, di cui moltissimi oggi
parlano senza conoscerlo. Il libro costituisce senza dubbio il testamento politico
di uno dei più grandi pensatori del diciannovesimo secolo.
Se dovessimo affidarci ai giornali oppure alle televisioni di casa nostra per
avere una idea chiara su ciò che è il federalismo, probabilmente
non riusciremmo mai a capirlo. Quasi tutti oggi si dichiarano più o meno
federalisti; la gente in genere crede che il federalismo consista approssimativamente
nel portare le istituzioni un pò più vicine ai cittadini. Questo
è vero solo nel senso che la prima condizione del federalismo è
che i cittadini sono lo Stato, e che è loro interesse avere le istituzioni
vicine per meglio controllarle ed indirizzarle.
La grande difficoltà nell'essere dei veri federalisti consiste nel fatto
di conoscere le sue origini, i suoi principi e le ragioni sulle quali si appoggia.
Chi si dichiara contrario al federalismo, poi, dovrebbe almeno avere il pudore
di giustificare l'avversione con la sua conoscenza.
Del resto non si può neppure continuare ad avere la pretesa di cambiare
lo Stato in senso federale, presentando ai cittadini un'immagine assurda, falsa,
incompleta o di comodo di ciò che esso è, come ad esempio hanno
fatto gli estensori del testo per la riforma della Costituzione riuniti in Commissione
bilaterale. Questo documento, che è stato presentato dagli organi di
informazione come riforma dello Stato italiano in senso federale, non è
che una gigantesca truffa, un inganno, una miserabile menzogna. In esso di federalismo,
non c'è assolutamente niente; è solo l'ennesimo trucco con cui
i partiti vogliono continuare ad avere, attraverso il Parlamento, un potere
superiore a quello del popolo che è Stato.
Sebbene sia sconosciuto al grande pubblico, le opere di Proudhon sono state
studiate da sociologi, filosofi ed economisti ed il suo pensiero é stato
condiviso sia da conservatori che da progressisti, da sindacalisti riformisti
o rivoluzionari, da circoli di estrema destra e da circoli di estrema sinistra,
da liberali e da comunisti ed anche da reazionari.
Molti hanno utilizzato le sue idee di volta in volta per affermare le loro tesi
o per perseguire i propri scopi. I più attribuiscono ciò alle
contraddizioni del suo pensiero in cui ognuno può vedere quello che gli
torna comodo. La verità non ha definizioni, non ha partiti né
correnti, né indirizzi particolari. Ma per trovarla, è necessario
cercare con attenzione, guardare in profondità, e non limitarsi a leggere
superficialmente o isolatamente solo le parti che corrispondono al nostro punto
di vista. Forse é per questo che in molte parti delle opere di Proudhon,
ognuno può ritrovare le proprie ragioni ed avere un'idea errata della
frammentarietà e del disordine delle sue analisi. Leggendo le sue opere
e riflettendo sul loro contenuto, è facile trovare la radice unitaria
del suo pensiero.
Alla traduzione del testo non abbiamo aggiunto alcun commento personale o di
scienziati della politica, o di filosofi, sociologi ed economisti su quanto
egli ha scritto.
Ci è capitato di conoscerlo per caso, da semplici cittadini che ad un
certo punto della vita, alcuni anni orsono, hanno voluto occuparsi della politica.
Abbiamo avuto notevoli difficoltà a trovare le sue opere, ma alla fine
siamo stati ricompensati.
Abbiamo cercato di capire al di fuori degli schemi, dei partiti, delle fazioni,
degli indirizzi, e ci siamo convinti che ognuno deve farsi una sua idea personale
dell'opera che qui presentiamo tradotta in italiano. I commenti, le note, le
spiegazioni, le classificazioni, gli accostamenti, le divergenze, le esaltazioni
e le condanne oppure i tagli suggeriti dalla convenienza ideologica di chi ha
voluto interpretare questo autore con spirito di parte, influirebbero negativamente
sulla libertà di giudizio del lettore. Che ognuno giudichi da sé,
secondo la propria capacità ed esperienza: pensiamo che questo sia il
modo migliore per apprezzare la sua opera ed entrare in sintonia col federalismo.
Il lavoro, a parte il rigore della traduzione, non ha alcuna pretesa scientifica.
E' bene lasciare agli scienziati il compito di analizzare ed approfondire le
singole parti dell'opera. In Del principio federativo Proudhon si rivolgeva
direttamente ai suoi lettori, che erano più che altro semplici operai,
artigiani, piccoli commercianti: gente comune che aveva poca o nessuna dimestichezza
con la politica e le scienze sociali. Era per migliorare la loro condizione
culturale e sociale che scriveva e studiava. Il nostro compito é solo
quello di riproporre il suo pensiero e cercare di contraddire brevemente, con
le sue stesse parole e con ciò che l'esperienza di questo secolo ci ha
dimostrato, i giudizi negativi di coloro che per convenienza personale o politica,
lo hanno condannato o dimenticato.
Via via che il libro scorrerà davanti ai vostri occhi vi renderete conto
delle enormi forze che in ogni tempo agiscono nella società; della natura
e dell'origine del potere; delle sue degenerazioni attraverso i partiti; di
come la debolezza e l'eterna variabilità degli uomini influiscano sulla
politica; ed ancora del perché si formi uno Stato unitario accentrato
che con le sue infinite leggi permette lo sviluppo e la crescita della corruzione
e dello spreco della ricchezza e come esso generi naturalmente l'elefantiasi
della burocrazia. Conoscerete le ragioni per cui il grande capitale si allea
volentieri con i partiti e come il popolo, in una democrazia, possa finire col
non contare quasi niente essendo le elezioni solo una finzione, una maschera
del potere. E' per questo che le leggi dello Stato non riflettono tanto la volontà
del popolo, quanto quella dei gruppi economici che attraverso i partiti ed i
sindacati lo dominano. Vi sembrerà che il libro sia stato scritto ieri
e non centotrentacinque anni fa, perché sotto diversi aspetti, molte
parti sono in perfetta sintonia con la situazione attuale della politica italiana.
Anche se i tempi sono diversi ed è perciò comprensibile che alcuni
punti non corrispondano al modo di pensare di oggi, se leggerete il libro con
attenzione, alla fine avrete un'idea chiara di come il federalismo sia una grande,
profonda e progressiva rivoluzione sociale che senza violenza determinerà
un radicale cambiamento della struttura dello Stato. Questa rivoluzione appare
oggi sempre più necessaria per sostituire all'instabilità della
politica ed all'insicurezza della società, un ordine politico basato
sulla Legge intesa come contenuto del patto, del contratto fra cittadini e fra
cittadini ed eletti. Ciò realizzerà nel tempo una Costituzione
Progressiva, aderente allo spirito, agli interessi ed alle aspettative dei cittadini,
e lo Stato non sarà che un effetto della loro volontà.
In poche parole: chi avrà la pazienza di leggere tutto il libro e di
meditarlo, con ogni probabilità diventerà un vero federalista.
Capirà come col federalismo, che Proudhon presenta nella sua vera natura,
ogni società di uomini possa progredire tranquillamente nella sicurezza
e nel maggiore benessere, perché ognuno sa che lo Stato costruito dal
popolo per il popolo, gli è amico e gli rende più libera, facile,
serena e sicura la vita di ogni giorno.
Nel libro Proudhon chiede spesso ai suoi lettori " di aver pazienza ",
" di leggere con pazienza ", " di avere la bontà di continuare
a seguirlo" e che alla fine tutto sarà chiaro. Questa è la
nostra stessa avvertenza, perché solo la comprensione e la conoscenza
possono aiutarci ad uscire dal pantano politico, dal disordine morale, dall'egoismo
individuale, dal degrado civile e sociale in cui in l'Italia sta sempre più
sprofondando.
E' di questa conoscenza che l'Italia di oggi ha bisogno per cambiare, e quanto
più ognuno saprà essere semplice e rigoroso nell'affermazione
dei principi del federalismo, tanto più sarà possibile un' autentica
trasformazione dello Stato: una rivoluzione graduale e pacifica che strappandolo
dalle mani dei partiti, dei sindacati e del potere economico e rimettendolo
nelle mani dei cittadini, porrà di nuovo il nostro paese in cammino verso
la civiltà.
Ancora una cosa chiediamo ai lettori: non abbiate pregiudizi su Proudhon senza
aver letto le sue opere. Egli ha sempre avuto contro il potere economico, il
potere politico ed il potere delle Chiese; ma il modo arbitrario in cui attraverso
la manipolazioni delle informazioni nel suo e nel nostro secolo essi abbiano
rappresentato una economia, un potere, ed uno Spirito al servizio del progresso
umano, è storia di menzogna e di violenza che tutti conoscono.
Il profeta del federalismo
Pierre-Joseph Proudhon non è stato l'unico sociologo federalista della
storia, ma certamente è stato il suo più grande profeta. Per la
maggior parte di noi non è facile credere ai profeti, specialmente a
quelli politici. Ma quando l'esperienza ed il tempo hanno confermato le loro
intuizioni nella pratica della vita sociale, il nostro spirito entra con facilità
in sintonia con le loro osservazioni. Il verificarsi delle contraddizioni da
essi indicate molto tempo prima che i fenomeni sociali le manifestassero, fanno
sorgere spontaneamente la fiducia
La storia non ha reso ragione a questo grande pensatore. Egli stesso descrivendosi
socialista, anarchico e ateo, si è autoescluso dalla considerazione di
gran parte della pubblica opinione, e questa può essere una delle ragioni
dei pregiudizi che molti si sono fatti di lui. Ma il significato di queste collocazioni
era allora del tutto diverso da quello che noi gli attribuiamo oggi. Come il
termine comunità, che egli usava per comunismo, non ha più oggi
alcuna relazione con esso, così è probabile che per lui la parola
socialista avesse più il significato di studioso dell'uomo e dei fenomeni
che si verificano nella società, allo scopo di migliorare la condizione
della vita umana che del politico, mentre per ateo probabilmente allora si intendeva
solo un non cattolico.
Proudhon non era senza difetti. E' vero che ai nostri occhi essi appaiono tanto
più grandi, quanto maggiore è la considerazione che abbiamo dell'uomo.
La sua dura polemica contro gli ebrei, suscita meraviglia ai nostri giorni:
una vasta coscienza, unita ad una potente intelligenza, si dileguano davanti
ai giudizi che espresse sull'ebraismo. Dove dobbiamo ricercare la ragione di
ciò? Per esprimere un giudizio obiettivo sulle questa sua posizione,
bisognerebbe conoscere i suoi tempi e la situazione dell'ebraismo di allora.
Niente nasce dal nulla. Verrebbe voglia di dire: "Chi non ha colpa, scagli
la prima pietra."
Molte sono le ragioni del suo immeritato destino; sicuramente la sinistra intera
che con estrema superficialità lo ha bollato di contraddittorio e borghese,
e perciò di inattendibile, ne è la prima responsabile. Neppure
in questo è stato smentito il vangelo del suo massimo messia. Marx infatti,
dopo averlo definito "il Rousseau Voltaire di Luigi Bonaparte", ed
aver espresso giudizi altamente positivi sul suo pensiero, in Miseria della
filosofia, scritto in risposta al libro di Proudhon Sistema delle contraddizioni
economiche o Filosofia della miseria, lo definisce un piccolo borghese e lo
attacca con intolleranza e cruda violenza.
Alla fine il fallimento del comunismo, rendendo ragione a Proudhon, ha espresso
il suo inappellabile giudizio proprio sulle dottrine di Marx. Proudhon, il profeta,
alcuni decenni prima dell'avvento del comunismo, aveva intuito che la realizzazione
pratica del pensiero marxista avrebbe condotto esattamente ai risultati conseguiti
nei paesi dove esso è stato applicato. In ogni sua opera egli si dimostra
un accanito oppositore della concezione comunista e sempre sostenitore della
libertà.
In Che cosa è la proprietà, definiva il comunismo oppressione
e schiavitù; sei anni più tardi nel suo libro Sistema delle contraddizioni
economiche, riprende con vigore la sua condanna affermando che il comunismo
sarebbe stato:"...Dittatura dell'industria, dittatura del commercio, dittatura
del pensiero, dittatura della vita sociale e nella vita privata, dittatura in
ogni luogo: tale è il dogma. ....... Dopo aver soppresso tutte le volontà
individuali, il comunismo le concentra tutte in un'autorità suprema che
esprime il pensiero collettivo e, come il motore immobile di Aristotele, dà
il via a tutte le attività subalterne. Così, per il semplice sviluppo
dell'idea, si è inevitabilmente portati a concludere che l'ideale del
comunismo è l'assolutismo. Ed invano si potrebbe prendere come scusa
che questo assolutismo sarà transitorio; se una cosa è necessaria
un solo istante, essa lo diventa per sempre, la transizione è eterna."
Ma la sua più grande profezia fu quella sul federalismo che riassume
in modo mirabile in una nota del cap. VII di Del principio federativo. In essa
egli definisce una finzione di legista il contratto sociale di Rousseau, "...immaginata
per rendere conto senza ricorrere al diritto divino, all'autorità paterna
o alla necessità sociale, della formazione dello Stato e dei rapporti
fra il governo e gli individui. Questa teoria, mutuata dai Calvinisti, costituiva
nel 1746 un appannaggio della legge di natura e della religione. Nel sistema
federativo, il contratto sociale è più di una finzione, è
un patto positivo, effettivo, che è stato realmente proposto, discusso,
votato e adottato e che si modifica regolarmente secondo la volontà dei
contraenti. Fra il contratto federativo e quello di Rousseau e del 93, c'è
tutta la distanza che passa fra la realtà e l'ipotesi." Tutti sembrano
aver oggi dimenticato queste parole: per primi quelli che per dovere istituzionale
dovrebbero conoscerle più di ogni altro e che invece le ignorano o per
malafede o per tornaconto o semplicemente perché non le hanno meditate
o addirittura mai lette.
Il socialista, l'ateo e l'anarchico.
Ma torniamo al Proudhon che si presentava come socialista, anarchico ed ateo.
Togliamoci il paraocchi dei pregiudizi e giudichiamolo, se ciò è
opportuno, dalle sue stesse opere. Per lui essere socialista, significava probabilmente,
l'abbiamo già detto, definire, isolare e conoscere le forze che agiscono
nella società per effetto della natura e del comportamento variabile
degli uomini e porre i risultati delle sue ricerche al servizio del miglioramento
dell'uomo e della sua società. Proudhon vide come il socialismo presto
trasmigrasse dall'esaltazione dell'individualità e della società,
all'esaltazione della funzione e del ruolo dello Stato. Comprese allora che
questo processo avrebbe portato, ovunque fosse stato realizzato, al comunismo,
cioè alla miseria, alla povertà ed alla tirannia statalista, che
è la peggiore di qualsiasi tirannia.
Le sue origini modestissime, gli fecero presto comprendere quanto ingiusta fosse
la miseria soprattutto per i fanciulli innocenti che come lui, senza colpa,
dovevano subirla. Ancora ragazzo si chiese dove dovesse ricercarsi la causa
che genera la povertà. Già in una delle sue prime opere, De la
célébration du Dimanche, si propose di: "...trovare uno stato
di eguaglianza che non sia né comunismo, né dispotismo, né
dispersione, né anarchia ma libertà nell'ordine, ed indipendenza
nell'unità."
Pur dichiarandosi socialista, non nascose mai a se stesso l'impotenza nella
pratica di questa concezione politica, a causa soprattutto dell'altalenante
velleitarismo riformista e della sua incoerenza pratica; ossia delle debolezze
eterne del socialismo. Egli forse si definiva socialista perché aveva
una concezione spirituale della società in cui, in contrasto col suo
ateismo, cercava " un' ipotesi d' un Dio" senza la quale gli era "impossibile
andare innanzi ed essere capito." " Se io seguo, attraverso le sue
trasformazioni successive l'idea di Dio, trovo che questa idea è innanzitutto
sociale; intendo dire che essa è piuttosto un atto di fede nel pensiero
collettivo che un concetto individuale."
E' probabile che nel suo pensiero, dalla società emergesse un principio
superiore dotato di forza e di una ragione segreta, quasi un Essere che lui
non riusciva ad identificare nel Dio delle religioni e della storia. Gli uomini,
sosteneva, non possono ingabbiare il destino di quell'Essere in un dogma, poiché
si riassume nell'imprevedibilità del divenire, nell'imperscrutabilità
dei disegni della natura, che si realizzano nella società umana con la
continua ricerca di equilibrio fra le forze che in essa devono operare e che
scontrandosi continuamente, generano conflitti, contrasti, lotte, ribellioni
e rivoluzioni di ogni genere.
Egli considerò fondamentali due princìpi connessi opposti ed irriducibili
su cui riposa ogni ordine politico: Autorità e Libertà. Considerò
la Legge come "statuto arbitrale della volontà umana" (Della
giustizia nella Rivoluzione e nella Chiesa vol.8), ed in essa indicò
la forza in grado di mantenere in equilibrio i due princìpi. Si rese
conto come da questa concezione derivasse la teoria del contratto, del patto,
ossia della federazione, e come solo esso potesse eliminare la finzione della
ragion di Stato e rendere docile il potere. Egli vide la Legge come espressione
di quattro diverse concezioni. Secondo la Chiesa la Legge ed il potere discendono
da Dio; per il comunismo nascono dalla proprietà; gli Stati sovrani postulano
a loro giustificazione il bisogno di un qualsiasi ordine sociale, mentre per
il federalismo, finalmente, il potere dello Stato non può derivare dalle
finzioni, ma dalla somma delle volontà concrete e reali degli individui.
Egli comprese allora come il comunismo, eliminando semplicemente la proprietà
e sostituendola col piano, disegnava una società in cui tutto è
semplice e prevedibile. Il Dio del comunismo è il dogma, guai ad allontanarsene,
guai a tradirlo, guai a contraddirlo. In esso tutto é facile da capire
e da condividere, le soluzioni ai problemi che emergono nella vita della società
risultano incredibilmente semplici e comprensibili: soddisfano l'innato bisogno
di uguaglianza e di giustizia ed aboliscono tutti mali dell'uomo attraverso
la dittatura del piano e la dittatura di una classe. La semplicità del
comunismo, fu certamente la causa dei suoi successi e dei grandi entusiasmi
che seppe suscitare nelle masse; ma i suoi princìpi rispondevano piuttosto
al bisogno violento dell'anima collettiva di emergere dalla barbarie della grande
disuguaglianza e della povertà, piuttosto che da una osservazione esauriente
degli infiniti e complessi fenomeni che nella società continuamente si
generano. Il tentativo di instaurare una società comunista, come tutti
sappiamo, portò nel tempo al fallimento, ma produsse anche un insperato
indebolimento sostanziale della fede nelle ideologie che, come il comunismo,
presuppongono uno Stato ordinato secondo un dogma in grado di garantire un qualsiasi
ordine sociale. Capì come gli Stati ideologici per affermare l'ordine
sociale ipotizzato, abbiano sempre bisogno dell'accentramento del potere, e
come sempre questo genera una smisurata burocrazia tirannica e violentatrice
della libertà dei cittadini. Da ciò deriva per il popolo schiavitù
e regresso, corruzione e degrado dell'ordine sociale, oppure violenza e guerra.
I socialisti italiani, che per primi avrebbero dovuto seguire il pensiero di
Proudhon, non sono mai stati capaci di valutare con chiarezza il suo pensiero
politico e si sono sempre vestiti con abiti comunisteggianti, che egli non avrebbe
mai accettato né condiviso. " Per lui ( per il socialismo, scriveva
Proudhon ) l'economia politica, considerata da molti come la fisiologia della
ricchezza, non è altro che la pratica organizzata del furto e della miseria;
come la giurisprudenza, decorata dai legisti del nome di ragione scritta, non
è altro ai suoi occhi, che la compilazione delle rubriche del brigantinaggio
legale e ufficiale,- e per dirlo in una sola parola , della proprietà.-
Considerate nei loro rapporti queste due pretese scienze, l'economia politica
ed il diritto formano, a detta del socialismo, la teoria completa della iniquità
e della discordia. Passando poi dalla negazione all'affermazione, il socialismo
oppone al principio di proprietà quello di associazione e si vanta di
restaurare da cima a fondo l'economia sociale, ossia di costruire un nuovo diritto,
una novella politica, istituzioni e costituzioni diametralmente opposte alle
forme antiche. Come si vede, la linea di separazione fra il socialismo e l'economia
politica è netta e l'ostilità flagrante. L'economia politica inclina
alla consacrazione dell'egoismo, il socialismo pencola verso l'apoteosi e la
comunanza."
Per lungo tempo i socialisti italiani hanno quasi completamente dimenticato
la lezione di Proudhon. Forse questa è la ragione non meno importante
dell'incoerenza che li ha portati all'insuccesso politico. Se solo lo avessero
preferito a Marx ed alle sue teorie, se avessero diffuso le sue opere ed il
suo pensiero, il socialismo sarebbe sempre apparso in tutta la sua profonda
diversità dal comunismo, non si sarebbe mai trasformato in statalista
e non avrebbe determinato tutti i compromessi e gli accordi con cui attraverso
la loro mediazione i catto-comunisti sono stati in grado di isolare e screditare
questo grande pensatore.
Provate a chiedere nelle librerie qualche opera di Proudhon, la risposta sarà
quasi sempre negativa; andate per le biblioteche a chiedere i suoi libri, forse
troverete qualche sua opera in francese, in edizioni vecchie di decine e decine
di anni, quelle che sono state tradotte in italiano spesso sono introvabili.
Non parliamo poi dell'Università dove fino a poco tempo fa le sue opere
erano all'indice e nessuno poteva permettersi di presentare una tesi sul federalismo,
mentre infinite erano quelle che trattavano anche gli aspetti più marginali
del pensiero di Marx o del comunismo.
Per cambiare bisogna essere disposti ad osare, a rischiare, a volere con tutte
le forze il cambiamento. Non esiste né Repubblica né Democrazia
senza una corretta informazione. Non è possibile escludere Proudhon dal
dibattito sul federalismo. Di fatto il socialismo italiano oltre ad aver emarginato
il suo pensiero, non si è curato affatto del suo federalismo che oggi
avrebbe potuto consentirgli un autentico rinnovamento politico e culturale.
Pochi socialisti zelanti hanno cercato di salvare Proudhon presentandolo talvolta
soprattutto come avversario della libertà di mercato e della proprietà.
Proudhon, seppure non privo di ripensamenti anche profondi, era un uomo libero:
un pensatore che poneva la libertà personale e collettiva, anche quella
di mercato, alla base del progresso e della civiltà. I tentativi di assoldare
Proudhon nel campo dei collettivisti liberticidi non sono altro che ciarlataneria
politico culturale, opportunismo ideologico e convenienza del momento.
Se la risposta che egli stesso diede al suo libro Che cosa è la proprietà
scritto nel 1840, é : "La proprietà é un furto",
bisogna precisare che la sua idea della proprietà si riferiva "alla
somma degli abusi odiosi" che dalla proprietà possono derivare ed
alla violenza che essa è in grado di esercitare sui ceti più deboli,
ignoranti ed indifesi. Egli cercava la via per un sistema sociale di uguaglianza
assoluta. Capì che una simile opera "...richiederebbe gli sforzi
riuniti di venti Montesquieu" e che ".. se non é concesso ad
un sol uomo di portarla a termine, uno solo può cominciare l'impresa."
Prima di lui, mille anni prima di Cristo, un popolo credette di trovare la via
dell'uguaglianza nella libertà, attraverso un sistema di organizzazione
dello Stato passato alla storia come DEMOCRAZIA. Probabilmente per secoli ancora
l'uomo cercherà la soluzione che saprà conciliare il bisogno di
uguaglianza col bisogno della libertà. Le società moderne, ripongono
oggi la fede assoluta nel primato dell'economico sull'umano e restano in genere
indifferenti dinanzi alle sofferenze di milioni di creature. Tuttavia costrette
dalle loro stesse contraddizioni derivanti dall'indefinito confine della libertà
con l'arbitrio, l'abuso, il capriccio, esse saranno costrette a ricercare ordinamenti
diversi, in cui il furto derivante dagli eccessi della proprietà, dalla
soddisfazione dei capricci, dall'arbitraria interpretazione delle leggi della
vita, sia sempre più limitato dall'avvento di una nuova e più
vasta coscienza individuale e collettiva. A questo mirava Proudhon con tutte
le sue forze. Tale tempo è forse lontano da noi, ma le enormi disuguaglianze
fra i popoli, la violenza, la povertà, le guerre, l'ignoranza, la sottile
e sempre più evidente asservimento degli Stati al grande capitale, costringeranno
gli uomini a questa ricerca, oppure per gran parte del genere umano perdurerà
lo stato di miseria e di sofferenza per continuare a permettere quello che Proudhon
definiva come l'ingiusto furto di pochi a danno di molti.
A questo egli cercava una soluzione ancora giovane. La trovò molti anni
più tardi, ormai ammalato, nei principi del Federalismo che egli intendeva
come patto fra uomini basato su un rapporto di cooperazione e di comprensione
reciproca per perseguire la giustizia ed il bene comune attraverso la Legge
intesa come stato arbitrale della volontà umana: principio di equilibrio
fra l'Autorità e la Libertà.
Proprio a causa del suo grande senso dell'uguaglianza e della libertà
Proudhon non poteva appartenere ad una Religione che, come l'ideologia, ha la
pretesa di affermare l'eterna verità con il suo dogma. Ma il tormento
del dubbio, un Dio, un Essere, uno Spirito rimane incessante in lui. I suoi
scritti affermano il rifiuto, ma traspare sempre evidente in lui che il cuore
ha ragioni che la ragione non conosce (Pascal). Nelle Contraddizioni afferma
ad un certo punto: " Si ricorda anche, qualche volta, che se il sentimento
della Divinità affievolisce fra gli uomini; se l'ispirazione dall'alto
si ritira progressivamente per far posto alle deduzioni dell'esperienza, se
vi è scissione sempre più flagrante fra l'uomo e Dio; se questo
progresso, forma e condizione della nostra vita, sfugge alle percezioni di una
intelligenza infinita, e per conseguenza antistorica; se, per dir tutto, il
richiamo alla Provvidenza per parte di un governo è nello stesso una
codarda ipocrisia ed una minaccia alla libertà; nulladimeno il consenso
universale dei popoli, manifestato con lo stabilimento di tanti diversi culti,
e la contraddizione per sempre insolubile che tocca l'umanità nelle sue
idee, le sue manifestazioni e le sue tendenze, indicano un rapporto segreto
della nostra anima, e per essa dell'intera natura, con l'infinito, rapporto
la cui determinazione esprimerebbe nello stesso tempo il senso dell'universo
e la ragione della nostra esistenza."
Nel segreto della sua coscienza egli covava una profonda fede nello Spirito
di Dio che vedeva emergere dalla società degli uomini come " un
Essere fantastico, denso di motivi di stupore e di misteri ". Forse per
nessuno come per lui, la spiritualità non era sinonimo di appartenenza
ad una religione. Egli fu quindi un credente dello Spirito, mai un uomo religioso.
Sempre alla ricerca delle ragioni e delle vie del progresso per favorire l'evoluzione
dello Spirito, che vedeva come proiezione della società, dedicò
la sua vita e la sua opera geniale alla ricerca delle contraddizioni umane,
sociali, politiche ed economiche, la cui ordinata composizione considerava "come
condizioni essenziali dell'equilibrio universale". Nel silenzio del suo
cuore, egli cercava di capire "....se l'umanità tende a Dio secondo
l'antico dogma, oppure se essa stessa diventa Dio".
Come molti, Proudhon aveva cercato il Dio della storia ma non lo aveva trovato,
tuttavia il suo cercare lo libera dall'ateismo, che forse la maschera di un
potente razionalismo gli imponeva.
Il suo spirito libero e la profondità della sua coscienza, lo condussero
a definirsi anarchico. Ma cosa intendeva egli per anarchia? Vale la pena, per
chiarezza, ripetere la sua concezione della società formulata ad appena
trenta anni in Célébration du Dimanche: " Trovare uno stato
di eguaglianza sociale che non sia né comunismo, né dispotismo,
né frazionamento, né anarchia, ma libertà nell'ordine ed
indipendenza nell'unità." Dice ancora molti anni più tardi
nel suo Del principio federativo: " Come variante del regime liberale,
ho indicato l'ANARCHIA o governo di ognuno da parte di sè stesso, in
inglese self-government. L'espressione di governo anarchico implica una sorta
di contraddizione, la cosa sembra impossibile e l'idea assurda. Non c'è
qui che da rivedere il termine; la nozione di anarchia, in politica è
razionale e positiva come nessun'altra. Essa consiste nel fatto che, una volta
ricondotte le funzioni politiche alle funzioni della produzione, l'ordine sociale
risulterebbe solo dal fatto delle transazioni e degli scambi. Ognuno allora
potrebbe dirsi autocrate di se stesso. Il che è l'estremo opposto dell'assolutismo
monarchico. .......... Malgrado il richiamo potente della libertà, né
la democrazia né l'anarchia nella pienezza ed integrità della
loro idea, si sono realizzate in nessun luogo."
Volendo combattere un principio oppure un'idea, non esiste metodo migliore che
denigrare il suo sostenitore, di condannarlo ieri al rogo della carne, oggi
a quello delle opere. Così le grandi Chiese dell'umanità degli
ultimi due secoli, quella cattolica e quella marxista, applicando alle sue opere
una collaudata esperienza di mistificazione e di condanna, hanno confinato Proudhon
nell'oscurità. Ma il loro giudizio non è altro che la condanna
di sé stesse all'intolleranza, alla discriminazione; alla falsità,
all'incomprensione. Accusato di ateismo dalla Chiesa, di liberalismo e di essere
un borghese dai comunisti, di comunista dai liberali, Proudhon è passato
alla storia come uno dei pensatori più contraddittori della sua epoca.
Ma proprio la storia ha poi mostrato che la contraddizione non era nel suo pensiero,
ma nella natura stessa delle cose e degli uomini e niente più del comunismo,
del socialismo, dello stesso liberalismo oggi tanto di moda, lo hanno dimostrato
e lo dimostreranno.
La contraddizione vera è nelle ideologie, nelle religioni, e nelle costruzioni
logiche della mente umana, che partendo da un'analisi sempre incompleta e personale
della realtà, pur contenendo una parte di verità, hanno la pretesa
di possedere la ricetta della felicità universale e della verità
eterna; le prime per ciò che è materiale, le seconde per ciò
che è spirituale. Le contraddizioni sociali derivano, ancora, dalla concezione
indefinita della Libertà, che per certi ha confine nelle leggi della
natura, per altri è senza confine e comprende l'arbitrio e l'abuso, per
altri ancora è solo capriccio e cieca soddisfazione del proprio egoismo.
Per Proudhon non esiste una ricetta per la felicità universale; come
non esisterà per lungo tempo la mente che in un lampo di genio concepirà
la struttura di una società in perfetta armonia con le leggi materiali
della vita e con le attese dello Spirito. Egli era un osservatore, un profondo
analizzatore della società e degli uomini e per di più dotato
di una eccezionale intuizione. Comprese che i rapporti sociali ed individuali
sono soggetti a continue contraddizioni e possono essere composti nel modo migliore
lasciando i cittadini liberi di darsi gli ordinamenti che gli sembrano i più
adatti in relazione al variare dei tempi e degli interessi, per perseguire gli
scopi materiali e morali in cui credono, e che questo comporta per necessità
una forte restrizione dell'azione dello Stato nella società.
Dalla storia prese il termine federazione e lo sviluppò secondo la sua
intelligenza, per rendere più comprensibili i princìpi su cui
riposa l'ordine politico ed aprire così la strada per una concezione
innovativa delle forze che agiscono nella società. Egli vide come infinite
contraddizioni continuamente emergono per effetto dell'azione di queste forze,
e come queste contraddizioni possano essere composte in un equilibrio duraturo
e pacificamente in un regime di libertà e di cooperazione fra gli uomini
attraverso il federalismo.
Io sono sicuro che più che il tempo passerà, più renderà
giustizia a questo grande dell'umanità.
L'avvenire del mondo, sarà un avvenire di federazioni, di libertà
e di cooperazione oppure, parafrasando lui, gli uomini assaporeranno il purgatorio
dei prossimi secoli.
Paolo Bonacchi
DEL PRINCIPIO FEDERATIVO
PREFAZIONE DELL'AUTORE
Quando qualche mese orsono, a proposito di un articolo sull'Italia nel quale
io difendevo la federazione contro il sistema unitario, i giornali belgi mi
accusarono di propagandare l'annessione del loro paese alla Francia, la mia
sorpresa fu grande. Non sapevo cosa credere: se ad una allucinazione del pubblico
oppure ad un tranello della polizia, e la mia prima reazione fu allora di domandare
ai miei accusatori se mi avessero letto: in questo caso se fosse serio che mi
facessero una simile accusa. Si sa come finì per me questa incredibile
disputa. Certo non mi ero affrettato, dopo un esilio di più di quattro
anni, ad approfittare dell'amnistia che mi autorizzava a rientrare in Francia;
traslocai rapidamente.
Ma quando ritornato in patria ho visto con lo tesso pretesto, la stampa democratica
accusarmi di abbandonare la causa della rivoluzione, inveire contro di me, non
più all'annessionista ma all'apostata, confesso che la mia sorpresa è
arrivata al colmo. Mi sono chiesto se fossi un Epinemide uscito dalla sua caverna
dopo un secolo di sonno, o se per caso non fosse la stessa democrazia francese,
prendendo esempio dal liberalismo belga, ad aver subito un processo involutivo.
Mi appariva chiaro che federazione e contro rivoluzione o annessione fossero
termini incompatibili: ma mi ripugnava credere alla defezione in massa del partito
al quale fino allora ero stato vicino, e che, non contento di rinnegare i suoi
principi, arrivava, nella sua febbre di unificazione, perfino a tradire il suo
paese. Ero impazzito, oppure il mondo si era messo a mia insaputa a girare in
senso contrario? Come il topo di la Fontaine, sospettando che sotto ci fosse
qualche macchinazione, pensai che la scelta più saggia fosse di aggiornare
la mia risposta e di osservare per qualche tempo, gli stati d'animo. Sentivo
che avrei dovuto prendere una risoluzione energica ed avevo bisogno, prima di
agire, di orientarmi su un terreno che, da quando ero uscito dalla Francia mi
sembrava esser stato sconvolto, ed in cui gli uomini che avevo conosciuto mi
apparivano come figure estranee.
Dov'è oggi il popolo francese, mi chiedevo? Cosa accade nelle differenti
classi della società? Quale idea è germogliata nell'opinione pubblica
e quali sono le aspirazioni della massa? Dove va la nazione ? Dov'è l'avvenire?
Chi seguiremo ed in che cosa crediamo?
Andavo avanti così interrogando uomini e cose, cercando nell'angoscia
e raccogliendo solo risposte desolate. Il lettore mi permetta di esprimergli
alcune mie considerazioni: serviranno come giustificazione per una pubblicazione
il cui tema confesso essere molto al di sopra delle mie forze.
Per prima cosa ho preso in esame la classe media, un tempo anche chiamata borghesia,
e che ormai non può più portare questo nome. L'ho trovata fedele
alle sue tradizioni alle sue tendenze ai suoi principi benché avanzi
con passo celere verso il proletariato. Se la classe media dovesse ritornare
padrona di se stessa e del Potere; se dovesse essere chiamata a rifarsi una
costituzione secondo le sue idee ed una politica secondo il suo cuore, si potrebbe
senza dubbio prevedere cosa accadrebbe. Astraendo da ogni preferenza dinastica,
la classe media ritornerà al sistema del 1814 e del 1830, forse con una
lieve modifica concernente la prerogativa regia, analoga all'emendamento apportato
all'art.. 14 della Carta dopo la rivoluzione di luglio. La monarchia costituzionale,
in una parola, ecco qual è ancora la fede politica e la segreta speranza
della maggioranza borghese. Ecco la misura della fiducia che essa ha in se stessa;
né il suo pensiero, né la sua determinazione vanno oltre. Ma,
proprio a causa di questa predilezione per la monarchia, la classe media, nonostante
abbia numerose e forti radici nel presente e benché, per l'intelligenza,
la ricchezza, il numero, essa costituisca la parte più considerevole
della nazione, non può essere considerata come l'espressione dell'avvenire;
si rivela come il partito per eccellenza dello statu quo, è lo statu
quo personificato.
Ho portato in seguito la mia attenzione sul governo, sul partito di cui è
più propriamente l'organo, e, devo dire, li ho trovati in fondo sempre
gli stessi, fedeli all'idea napoleonica, malgrado le concessioni che strappano
loro, da un lato lo spirito del secolo, dall'altro l'influenza di quella classe
media senza la quale e contro la quale non è possibile alcun governo.
Che l'Impero sia reso a tutta la sincerità della sua tradizione, che
la sua potenza sia pari alla sua volontà, e domani avremo con gli splendori
del 1804 e del 1809 le frontiere del 1812; rivedremo il terzo Impero d'Occidente
con le sue tendenze all'universalità e la sua autocrazia inflessibile.
Ora, è precisamente a causa di questa fedeltà alla sua idea che
l'impero, pur essendo l'attualità stessa, non può dirsi l'espressione
dell'avvenire, poiché affermandosi come conquistatore ed autocratico,
negherebbe la libertà, poiché lui stesso , promettendo un coronamento
dell'opera, si è posto come governo di transizione. L'impero è
la pace, ha detto Napoleone III . Sia; ma allora l'impero non essendo più
la guerra non potrebbe essere lo statu quo?
Ho osservato la Chiesa e gli rendo volentieri giustizia; è immutabile.
Fedele al sua dogma, alla sua morale, alla sua disciplina, come al suo Dio,
non fa concessioni al secolo se non nella forma; non fa suo lo spirito del tempo
e non cammina con lui. La Chiesa sarà l'eternità, se volete, la
più alta espressione di statu quo: non è il progresso; né
potrebbe essere l'espressione dell'avvenire.
Come la classe media ed i partiti dinastici, come l'Impero e la Chiesa, anche
la Democrazia è frutto del presente; lo sarà finché esisteranno
delle classi superiori ad essa una monarchia e delle aspirazioni di nobiltà,
una Chiesa ed un sacerdozio; fintantoché non sarà compiuto un
livellamento politico, economico e sociale.
Dopo la Rivoluzione francese, la democrazia ha scelto il motto: Libertà,
Uguaglianza. Poiché per sua natura e funzione essa è il movimento,
la vita, la sua parola d'ordine è: Avanti! La democrazia poteva dunque
dirsi, e sola può essere l'espressione dell'avvenire; questo è
in effetti ciò che il mondo ha creduto dopo la caduta del primo impero
e al tempo dell'avvento della classe media. Ma per esprimere l'avvenire, per
mantenere le promesse, sono necessari dei principi, un diritto, una scienza,
una politica, tutte cose di cui la Rivoluzione sembrava aver posto le basi.
Ora, ecco che, cosa inaudita, la Democrazia si mostra infedele a se stessa;
ha rotto con le sue origini, mostra la schiena ai suoi destini. Da tre anni
la sua condotta è stata una abdicazione, un suicidio. Senza dubbio fa
ancora parte del presente: ma come partito dell'avvenire non esiste più.
La coscienza democratica è vuota: un pallone sgonfiato, che qualche consorteria,
qualche intrigante politico si lancia, ma che nessuno ha il segreto per farla
rigonfiare. Ormai non ci sono più idee: al loro posto fantasie romantiche,
miti, idoli. L'89 è stato accantonato, il 48 messo alla berlina .Quello
che resta non ha più senso politico, né senso morale, né
senso comune; è l'ignoranza completa , l'ispirazione dei grandi giorni
totalmente perduta. Quello che la posterità non potrà credere,
è che fra la moltitudine di lettori che una stampa privilegiata mantiene
ce n'è appena uno su mille che sospetti cosa significhi la parola federazione.
Senza dubbio, gli annali della Rivoluzione non ci hanno fatto capire grandi
cose al riguardo; ma insomma non si può essere il partito dell'avvenire
fossilizzandosi nelle passioni di un'altra epoca; il vero compito della Democrazia
è di produrre le sue idee, di modificare per conseguenza la propria parola
d'ordine. La Federazione è la parola nuova sotto la quale la Libertà,
l'Uguaglianza, la Rivoluzione, con tutte le sue conseguenze, sono apparse nell'anno
1859 alla Democrazia. I liberali ed i democratici, vi hanno visto altro che
un complotto reazionario !
Dopo l'istituzione del suffragio universale, la Democrazia, considerando che
era venuto il suo regno, che il proprio governo aveva superato le prove, che
non c'era altro da discutere che la scelta degli uomini, e che essa si riteneva
la forma suprema dell'ordine, ha voluto infine costituirsi a sua volta come
partito dello statu quo. Lungi dall'essere padrona degli affari, già
si accomoda per l'immobilismo. Che fare dunque quando ci si considera Democrazia,
si rappresenta la Rivoluzione e si è arrivati all'immobilismo? La Democrazia
ha ritenuto che la sua missione fosse quella di riparare le antiche ingiustizie,
di risollevare le nazioni oppresse, in una parola , di rifare la storia! E'
ciò che essa esprime col termine Nazionalità, scritto come intestazione
del suo nuovo programma. Non contenta di farsi partito dello statu quo, si è
fatta partito reazionario. E siccome la Nazionalità, nel senso in cui
la comprende e l'interpreta la Democrazia, ha per corollario l' Unità
, essa ha messo il sigillo alla sua abiura, dichiarandosi definitivamente potere
assoluto, indivisibile ed immutabile.
La Nazionalità e l'Unità , ecco cos'è al giorno d'oggi
la fede, la legge, la ragion di Stato, ecco quali sono gli Dei della Democrazia.
Ma la Nazionalità per essa non è che una parola, perché
nel pensiero dei democratici essa non rappresenta che un'utopia. Quanto all'
Unità, vedremo nel corso di questo scritto, ciò che bisogna pensare
del regime unitario. Ma posso dire nel frattempo, a proposito dell' Italia,
e dei rimaneggiamenti a cui è soggetta la carta politica di questo paese,
che questa unità che ha suscitato un cosi vivo entusiasmo dei cosiddetti
amici del popolo e del progresso, non è altro nel pensiero dei furbi,
che un affare, un grosso affare, mezzo dinastico e mezzo bancocratico, verniciato
di liberalismo, ammantato di cospirazione ed al quale onesti repubblicani male
informati o ingannati, servono da chaperon.
Tale Democrazia, tale giornalismo. Dall'epoca in cui condannavo nel Manuale
dello speculatore di borsa, il ruolo mercenario della stampa, nulla è
cambiato; essa non ha fatto che allargare il giro dei suoi affari. Tutto ciò
che un tempo essa possedeva di ragione, di spirito, di critica, di conoscenza,
di eloquenza, si è ridotto, salvo rare eccezioni, a queste due parole
che ho preso in prestito dal gergo del mestiere: DIFFAMAZIONE e Pubblicità.
Essendo stata affidata ai giornali la questione italiana, né più
né meno si trattasse di una società in accomandita, questi stimati
pezzi di carta, come una claque che obbedisce al segnale del capo, hanno cominciato
a trattarmi da mistificatore, da giullare, da borbonico, da papalino, da Erostrato
da rinnegato, da venduto: abbrevio la litania. Dopo assumendo un tono più
calmo, si sono messi a ricordare che io ero stato l'irriducibile nemico dell'
Impero e di ogni governo, della Chiesa e di ogni religione, come di tutta la
morale: un materialista, un anarchico, un ateo, una sorta di Catilina letterario
che sacrifica tutto, pudore e buonsenso, alla smania di far parlare di se, e
la cui tattica ormai scoperta consisteva nell'associare subdolamente la causa
dell' Imperatore a quella del Papa, spingendoli entrambi contro la democrazia,
al fine di screditare gli uni mediante gli altri, tutti i partiti e tutte le
opinioni, e di elevare un monumento al mio orgoglio sulle rovine dell'ordine
sociale. Tale è stato il senso delle critiche di fondo del Siècle,
dell' Opinion nationale, di La presse, di l'Echo de la Presse, di la Patrie,
del Pays, dei Débats: alcuni li ometto, perchè non li ho letti
tutti. Si è ricordato, in questa occasione, che io ero stato la principale
causa della caduta della repubblica; e si sono trovati dei democratici assai
rammolliti di cervello per dirmi all'orecchio che un simile scandalo non si
sarebbe ripetuto, che la democrazia era reduce dalle follie del 1848, e che
il primo a cui essa destinava le sue balle conservatrici, ero io.
Non vorrei affatto attribuire a delle violenze ridicole, degne dei fogli che
le ispirano, più importanza di quanta ne meritino; le cito come esempio
dell'influenza del giornalismo contemporaneo e come testimonianza dello stato
degli animi. Ma se il mio amor proprio d'individuo se la mia coscienza di cittadino
sono al di sopra di simili attacchi, la stessa cosa non è per la mia
dignità di scrittore interprete della Rivoluzione. Ne ho abbastanza degli
oltraggi di una democrazia decrepita e dei soprusi dei suoi giornali. Dopo il
10 dicembre 1848, vedendo la maggior parte del paese e tutta la potenza dello
Stato rivolti contro ciò che mi sembrava essere la Rivoluzione, tentai
di avvicinarmi ad un partito che, sebbene sprovvisto di idee valeva ancora per
il numero. Questo fu uno sbaglio, che ho amaramente rimpianto, ma da cui sono
ancora in tempo a tornare indietro. Dobbiamo essere noi stessi, se vogliamo
essere qualcosa: formiamo, se è il caso, con i nostri avversari ed i
nostri rivali delle federazioni, mai delle fusioni. Quel che mi sta accadendo
da tre mesi, mi ha fatto decidere, irreversibilmente. Fra un partito caduto
nel romanticismo che in una filosofia del diritto ha saputo scoprire un sistema
di tirannia, e nelle manovre della speculazione una forma di progresso; per
il quale i sistemi dell'assolutismo sono virtù repubblicana e le prerogative
della libertà sinonimo di rivolta; fra quel partito, io dico, e l'uomo
che cerca la verità della Rivoluzione e la sua giustizia, non vi può
essere niente in comune. La separazione è necessaria, e, senza risentimento
né timore, io la compio.
Durante la prima rivoluzione, i giacobini, avvertendo di volta in volta il bisogno
di ritemprare la società, effettuavano su loro stessi quello che allora
si chiamava epurazione. E' ad una prova di questo genere che io invito quello
che resta degli amici sinceri ed illuminati dalle idee dell'89. Sicuro dell'appoggio
di una élite, potendo contare sul buonsenso delle masse, io rompo da
parte mia, con una fazione che non rappresenta più niente. Dovessimo
essere non più di un centinaio, questo è abbastanza per ciò
che oso incominciare. In ogni tempo la verità ha servito i propri persecutori;
ma anche se dovessi cadere vittima di quelli che sono deciso a combattere, avrei
almeno la consolazione di pensare che una volta spenta la mia voce, il mio pensiero
otterrà giustizia e che prima o poi i miei nemici saranno i miei apologeti.
Ma che cosa dico? non ci sarà né processo né esecuzione:
il giudizio del pubblico mi ha già scagionato. Non era forse corsa la
voce, riportata da molti giornali, che la risposta che pubblico in questo momento
avrebbe avuto per titolo: gli Iscarioti? ... Niente è valido quanto la
giustizia della pubblica opinione. Ahimè! A torto darei al mio opuscolo
questo titolo cruento, anche se troppo meritato per qualcuno. Dopo due mesi
che esamino gli stati d'animo, mi sono reso conto che se la democrazia brulica
di Giuda, vi si trovano ancor più S.Pietro ed io scrivo per questi almeno
quanto per quelli. Ho dunque rinunciato alla gioia d'una vendetta; mi riterrò
molto fortunato se come il gallo della Passione, potrò far rientrare
in se tanti deboli di coraggio, e restituir loro con la coscienza l'intelligenza.
Poiché in una pubblicazione la cui forma era piuttosto letteraria che
didattica, si è cercato di non cogliere il pensiero che ne costituiva
lo spirito, sono costretto a ritornare ai procedimenti della scuola e di argomentare
secondo le regole. Divido dunque questo lavoro, molto più lungo di quanto
avessi voluto, in tre parti: la prima, la più importante per i miei ex
correligionari politici, la cui ragione sta soffrendo, avrà per scopo
quello di enunciare i principi della materia; - nella seconda applicherò
questi principi alla questione italiana ed allo stato generale degli affari
, dimostrando la follia e l'immoralità della politica unitaria; - nella
terza, risponderò alle obbiezioni di quei Signori giornalisti, benevoli
o ostili, che hanno creduto doversi occupare del mio ultimo lavoro, e farò
vedere, per mezzo del loro esempio, il rischio che corre la ragione delle masse,
sotto l' influenza di una teoria distruttrice di ogni individualità.
Prego le persone, di qualsiasi opinione esse siano, che, pur non condividendo
la sostanza delle mie idee, hanno accolto le mie prime osservazioni sull'Italia
con qualche attenzione, di accordarmi ancora la loro simpatia. Non spetterà
a me, nel caos intellettuale e morale nel quale siamo sprofondati, in quest'ora
in cui i partiti si distinguono, come i cavalieri che combattono nei tornei,
solo per il colore dei loro nastri, che gli uomini di buona volontà,
giunti da ogni punto dell'orizzonte, trovino finalmente una terra consacrata
sulla quale possano almeno tendersi una mano leale e parlare un linguaggio comune.
Questa terra è quella del diritto, della morale, della libertà
e del rispetto per l'umanità in tutte le sue manifestazioni, individuo
famiglia, associazione, Stato; terra della giustizia pura e franca in cui fraternizzino
senza distinzione di partiti, di scuole, di culti, di rimpianti, di speranze,
tutte le anime generose. Quanto a quella frazione malandata della democrazia,
che ha creduto di diffamarmi con ciò che essa definisce gli applausi
della stampa legittimista, clericale e imperiale, non le dirò per il
momento che una parola; cioè che l'infamia se infamia c'è è
tutta sua. Stava ad essa applaudirmi: il più grande servizio che potrò
renderle sarà di averglielo dimostrato.
CAPITOLO I
DUALISMO POLITICO. - AUTORITA' E LIBERTA':
OPPOSIZIONE E CONNESSIONE DI QUESTE DUE NOZIONI
Prima di dire cosa si intende per federazione conviene ricordare in qualche
pagina, l'origine e la filiazione dell'idea. La teoria del sistema federativo
è del tutto nuova: credo di poter dire che non è ancora stata
formulata da nessuno. Ma essa è intimamente legata alla teoria generale
dei governi, diciamo più precisamente, ne è la conclusione necessaria.
Fra tante costituzioni che la filosofia propone e che la storia mette alla prova,
una sola riunisce le condizioni di giustizia, di ordine, di libertà e
di durata senza le quali la società e l'individuo non possono vivere.
La verità è una come la natura: sarebbe strano che fosse diversamente
per lo spirito e per la sua opera più grandiosa, la società. Tutti
i pubblicisti hanno ammesso questa unità della legislazione umana e,
senza negare la varietà delle applicazione che la differenza dei tempi
e dei luoghi e lo spirito proprio che ogni nazione reclamano; senza disconoscere
il ruolo che spetta alla libertà in tutti i sistemi politici, tutti si
sono sforzati di conformarvi le loro dottrine. Io cerco di dimostrare che questo
tipo di costituzione unica, che alla fine sarà riconosciuta come la più
grande conquista della ragione dei popoli, non è altro che il sistema
federativo. Ogni forma di governo che si allontana da essa, deve essere considerata
come una creazione empirica, un abbozzo provvisorio, più o meno comodo,
sotto la quale la società trova riparo un istante e che, come la tenda
dell'Arabo, si leva la mattina dopo averla montata la sera. E' dunque qui indispensabile
una analisi severa, e la prima verità importante che il lettore deve
conquistare da questa lettura, è la convinzione che la politica, variabile
all' infinito come arte di applicazione, è, quanto ai principi che la
reggono, una scienza dimostrativa esatta né più né meno
che la geometria e l'algebra.
L'ordine politico riposa fondamentalmente su due principi contrari, l'AUTORITA',
e la libertà: il primo iniziatore, il secondo determinatore; avente questo
per corollario la ragione libera, quello la fede che induce all'obbedienza.
Penso che contro questa prima proposta, non possa alzarsi alcuna voce. L'Autorità
e la Libertà sono tanto antiche nel mondo quanto la razza umana: esse
nascono con noi, e si perpetuano in ciascuno di noi. Osserviamo solamente una
cosa, alla quale pochi lettori presterebbero essi stessi attenzione: questi
due principi formano, per così dire una coppia di cui i due termini,
indissolubilmente legati l'uno all'altro, sono nondimeno irriducibili l'uno
contro l'altro e restano, qualunque cosa noi facciamo, in lotta perpetua. L'Autorità
suppone inconfutabilmente una libertà che la riconosca o che la neghi;
la Libertà a sua volta, nel senso politico della parola, suppone un'autorità
che tratti con essa, frenandola o tollerandola. Sopprimetene l'una, l'altra
non avrà più senso: l'autorità senza una libertà
che discuta, resista o si sottometta è una parola vana; la libertà
senza una autorità che gli faccia da contrappeso è un non-senso.
Il principio di autorità, principio familiare, patriarcale, magistrale,
monarchico, teocratico, tendente alla gerarchia, alla centralizzazione, all'assorbimento,
è dato dalla natura, dunque essenzialmente fatale o divino, come si preferisce.
La sua azione, combattuta, impedita dal principio contrario, può estendersi
indefinitamente , ma senza mai poter scomparire.
Il principio di libertà, personale, individualista, critico; fattore
di divisione, di elezione, di transazione, è dato dallo spirito. Principio
essenzialmente arbitrale di conseguenza superiore alla natura di cui si serve,
alla fatalità che domina; illimitato nelle sue aspirazioni; suscettibile
come il suo contrario, di estensione e di riduzione, ma incapace quanto esso
di esaurirsi per il suo sviluppo, come di estinguersi per costrizione.
Ne consegue che in ogni società, anche la più autoritaria, una
parte è necessariamente riservata alla libertà; parimenti in ogni
società, anche la più liberale, una parte è destinata all'autorità.
Questa condizione è assoluta; nessun sistema politico può sottrarsi
ad essa. A dispetto della ragione il cui sforzo tende incessantemente a risolvere
la diversità nell'unità, i due principi rimangono a confronto
e sempre in opposizione. Dalla loro tendenza contraria ed inevitabile e dalle
loro reciproche reazioni, risulta la dinamica della politica.
Tutto questo, lo confesso, non è forse molto nuovo, e più di un
lettore si chiederà se questo è tutto ciò che io ho da
fargli capire. Nessuno nega i concetti di natura e di spirito per quanto oscuri
possano apparire; nessun pubblicista si sogna di smentire, contro l'autorità
o la libertà, benché la loro conciliazione o la loro eliminazione,
sembrino ugualmente impossibili. Dove dunque mi propongo di arrivare ripetendo
questo luogo comune?
Lo dirò subito: che tutte le costituzioni politiche, tutti i sistemi
di governo, compresa la federazione, possono ricondursi a questa formula, l'Equilibrio
dell'Autorità per mezzo della Libertà e vice versa; è in
conseguenza di questo che le categorie adottate dopo Aristotele dalla moltitudine
degli autori e grazie ai quali i tipi di governo si classificano, gli Stati
si differenziano, le nazioni si distinguono, monarchia, aristocrazia, democrazia,
ecc., eccetto la federazione, si riducono a delle costruzioni ipotetiche, empiriche,
dalle quali la ragione e la giustizia non ottengono che una soddisfazione imperfetta;
è che tutti questi sistemi, fondati sugli stessi dati incompleti, diversi
solo per gli interessi, i pregiudizi, le consuetudini, in fondo si assomigliano
e si equivalgono; che quindi, se non fosse per il disagio causato dall'applicazione
di questi falsi sistemi, e per le passioni esasperate, gli interessi disconosciuti,
le aspettative deluse, che spingono ad accusarsi gli uni con gli altri, saremmo,
alla fine molto vicini a comprenderci; perché infine tutte queste divisioni
di partiti fra i quali la nostra immaginazione scava degli abissi, tutte quelle
diversità di opinioni che ci sembrano inconciliabili, tutti questi antagonismi
fortuiti che ci appaiono senza rimedio, troveranno finalmente il loro equilibrio
definitivo nella teoria del governo federale.
Quante cose, direte voi, in una contrapposizione grammaticale: AUTORITA'-Libertà!....-
Ebbene! si. Ho osservato che le intelligenze comuni, che i bambini colgono meglio
la verità ricondotta ad una formula astratta, più che dalla pesantezza
di un volume di dissertazioni e di fatti. Ho voluto comunque abbreviare questo
lavoro per quelli che non possono dedicarsi troppo alla lettura, e renderlo
più incisivo lavorando su delle semplici nozioni. AUTORITA'-Libertà,
due idee opposte una all'altra, condannate a vivere in eterna lotta o a perire
insieme: ecco, ciò certamente non è difficile da comprendere.
Abbiate soltanto la pazienza di leggermi, amici lettori, e se avete compreso
questo capitolo molto corto, mi direte in seguito le vostre impressioni.
CAPITOLO II
CONCETTI A PRIORI SUGLI ORDINAMENTI
POLITICI : REGIME DI AUTORITA' REGIME DI LIBERTA'
Conosciamo i due principi fondamentali ed antitetici di ogni governo: autorità
, libertà.
In virtù della tendenza dello spirito umano a ricondurre tutte le idee
ad un unico principio, e per conseguenza ad eliminare quelle che gli sembrano
inconciliabili con questo principio, si possono dedurre, a priori, due regimi
differenti da queste due nozioni primordiali, a secondo della preferenza o della
priorità accordata all'una o all'altra: il regime di Autorità
ed il regime di Libertà.
Inoltre, essendo la società composta da individui, e potendo concepire
il rapporto dell'individuo col gruppo, dal punto di vista politico, in quattro
modi differenti, ne risultano quattro forme di governo, due per ogni regime:
I. Regime di Autorità.
A) Governo di tutti da parte di uno; MONARCHIA O PATRIARCATO
a) Governo di tutti da parte di tutti; Comunismo o Panarchia.
Carattere essenziale di questo regime nelle sue due specie è L' INDIVISIONE
del potere.
II. Regime di Libertà.
B) Governo di tutti da parte di ognuno; - DEMOCRAZIA;
b) Governo di ognuno da parte di ognuno; - Anarchia o Autogoverno.
Carattere essenziale di questo regime, nelle due specie, è la DIVISIONE
DEL POTERE.
Niente di più, niente di meno. Questa classificazione data a priori dalla
natura delle cose e razionalmente deducibile, è matematica. Finché
la politica sarà considerata come il risultato di una costruzione sillogistica,
come naturalmente la ritengono i vecchi legislatori, non può restare
di qua, né andare di là. Questo semplicismo è degno di
nota: ci mostra fin dalle origini e sotto tutti i regimi, come il potere dello
Stato si sia sforzato di dedurre le sue costituzioni da un solo elemento. La
logica e la buona fede sono primordiali in politica; qui è precisamente
la trappola.
Osservazioni. - I° Noi sappiamo come si configura il governo monarchico,
espressione primitiva del principio di autorità. De Bonald ce l'ha detto:
è a causa dell'autorità paterna. La famiglia è l'embrione
della monarchia. I primi Stati, furono generalmente delle famiglie o tribù
governate dal loro capo naturale, marito, padre, patriarca, ed alla fine re.
Sotto questo regime lo sviluppo dello Stato si realizza in due modi: 1°
con la generazione o la moltiplicazione naturale della famiglia, tribù
o razza; 2° con l'adozione cioè con l'incorporazione volontaria o
forzata delle famiglie e tribù vicine, ma in modo tale che le tribù
riunite facciano con la tribù madre, una sola famiglia, una stessa casata.
Questo sviluppo dello Stato monarchico può raggiungere delle dimensioni
immense, che vanno fino a centinaia di milioni di uomini, sparsi per centinaia
di miglia quadrate.
La panarchia, pantocrazia o comunismo, sorge naturalmente con la morte del monarca
o capo della famiglia, con la dichiarazione dei sudditi, fratelli, figli, o
associati, di voler rimanere indivisi, senza eleggere un nuovo capo. Questa
forma politica è rara, tanto che non ci sono esempi, essendo in essa
l'autorità più pesante e l'individualità più oppressa
che sotto qualsiasi altra. Essa è stata adottata quasi esclusivamente
da associazioni religiose, che in tutti i paesi e sotto tutti i culti, hanno
teso all'annientamento della libertà. Ciò non di meno l'idea è
posta a priori, come l'idea della monarchia; essa potrà trovare la sua
applicazione nei governi di fatto ed è per questo che noi dobbiamo menzionarla
almeno per memoria.
Così la monarchia, sorta dalla natura, giustificata per conseguenza nella
sua idea, ha una sua legittimità ed una sua moralità: e lo stesso
accade per il comunismo. Ma vedremo presto come queste due varietà dello
stesso regime non possano, malgrado si fondino su dati concreti e deduzioni
ragionevoli, mantenersi nel rigore dei loro principi e nella purezza della loro
essenza, e come esse siano condannate a rimanere sempre nello stato di ipotesi.
Infatti malgrado la loro origine patriarcale, il loro temperamento pacifico,
l'attrattiva di assolutismo e di diritto divino, la monarchia ed il comunismo,
conservando nel loro sviluppo la sincerità della loro origine, non si
sono realizzati in nessun luogo.
II. Come si pone a sua volta il governo democratico, espressione spontanea del
principio di libertà? Jean-Jacques Rousseau e la Rivoluzione ce l'hanno
insegnato in base alla convenzione. Qui la fisiologia non centra niente; lo
Stato appare come il prodotto, non più della natura organica, della carne,
ma della natura intelligibile che è lo spirito.
Sotto quest'altro regime, lo sviluppo dello Stato ha luogo per accesso o per
libera adesione. Nello stesso modo in cui si considera che tutti i cittadini
abbiano aderito al contratto, così lo straniero che accede alla cittadinanza,
è considerato aderente a sua volta: è a questa condizione che
ottiene i diritti e le prerogative di cittadino. Se lo Stato deve sostenere
una guerra e diventa conquistatore, il suo principio lo porterà ad accordare
alle popolazioni conquistate, gli stessi diritti di cui godono i propri concittadini:
è ciò che si chiama isonomia. Tale era presso i Romani, la concessione
del diritto di cittadinanza. I giovani stessi, una volta maggiorenni, sono tenuti
a giurare il patto; in realtà, non è perché sono figli
di cittadini che divengono cittadini a loro volta, come avviene nella monarchia
in cui i figli dei sudditi sono sudditi per nascita, o come nelle comunità
di Licurgo e di Platone, in cui appartenevano allo Stato: per essere membro
di una democrazia, bisogna, indipendentemente dalla qualità di ingenuus,
aver scelto il sistema liberale.
La stessa cosa avrà luogo per l'adesione di una famiglia di una città,
di una provincia: è sempre la libertà che ne è il principio
e ne fornisce le ragioni.
Così, allo sviluppo dello stato autoritario, patriarcale monarchico o
comunista, si contrappone lo sviluppo dello stato liberale, contrattuale e democratico.
E siccome non ci sono limiti naturali all'estensione della monarchia, cosa che
in tutti i tempi e presso tutti i popoli ha suggerito l'idea di una monarchia
universale o messianica, non esistono neanche dei limiti naturali all'estensione
dello stato democratico, e questo suggerisce ugualmente l'idea di una democrazia
o repubblica universale.
Come variante del regime liberale, ho indicato l'ANARCHIA o governo di ognuno
da parte di se stesso, in inglese, self-government. Poiché l'espressione
di governo anarchico implica una sorta di contraddizione la cosa sembra impossibile
e l'idea assurda. Non c'è qui che da rivedere il termine; la nozione
di anarchia, in politica, è razionale e positiva come nessun'altra. Essa
consiste nel fatto che una volta ricondotte le funzioni politiche alle funzioni
della produzione, l'ordine sociale risulterebbe solo dal fatto delle transazioni
e degli scambi. Ognuno allora potrebbe dirsi autocrate di se stesso, il che
è l'estremo opposto dell'assolutismo monarchico.
Nello stesso modo, del resto, la monarchia ed il comunismo, giusti secondo la
natura e la ragione, hanno la loro legittimità e la loro etica senza
che mai essi possano realizzarsi nel rigore e nella purezza della loro idea;
nello stesso modo la democrazia e l'anarchia fondate sulla libertà e
sul diritto, perseguendo un ideale coerente col loro principio, hanno la loro
legittimità e la loro moralità. Ma noi vedremo anche che a dispetto
della loro origine giuridica e razionale, esse non possono, a causa della crescita
e dello sviluppo della popolazione e del territorio, mantenersi nella severità
e nella purezza dei loro principi e che sono condannate a rimanere nello stato
dei perpetui desiderata. Malgrado il richiamo potente della libertà,
né la democrazia né l'anarchia, nella pienezza ed integrità
della loro idea, si sono realizzate in alcun luogo.
CAPITOLO III
FORME DI GOVERNO
E' tuttavia con l'aiuto di questi giochetti metafisici che si sono stabiliti
fin dall'inizio del mondo tutti i governi della terra, ed è con questi
che giungeremo a chiarire l'enigma politico, per poco che noi vogliamo darcene
pena. Che mi si perdoni dunque l'insistenza, come si fa con i ragazzi a cui
si insegnino gli elementi della grammatica.
In quel che precede non si troverà una parola che non sia la più
perfetta possibile. Non si procede diversamente nella matematica pura. Il nostro
errore principale non è nell'uso delle nozioni, bensì nelle esclusioni
che, sulla base di pretesti della logica, ci permettiamo di fare nella loro
applicazione.
a) Autorità-Libertà; ecco dunque i due poli della politica. La
loro posizione antitetica diametrale, contraddittoria, è per noi una
garanzia sicura che un terzo termine è impossibile, che non esiste. Fra
il si ed il no, come fra l'essere ed il non essere, la logica non ammette niente
(a).
b) La connessione di queste stesse nozioni, la loro irriducibilità, la
loro dinamica sono ugualmente dimostrate. Esse non procedono l'una senza l'altra;
non si può né sopprimere questa o quella, né risolverle
in una espressione comune. Quanto alla loro dinamica, basta metterle a confronto
affinché, tendendo scambievolmente ad assorbirsi, a svilupparsi l'una
a spese dell'altra, entrino subito in azione.
c) Da queste due nozioni risultano per la società due diversi regimi,
che noi abbiamo chiamato regime di autorità e regime di libertà;
ciascuno dei quali può rivestire in seguito due forme diverse, né
più né meno. L'autorità appare in tutta la sua magnificenza
solo nella collettività sociale; per conseguenza essa non può
esprimersi, agire, che attraverso la collettività stessa, o attraverso
un soggetto che la impersonifichi; similmente la libertà non è
perfetta fino a che non è garantita a tutti, sia che tutti partecipino
al governo, sia che l'incarico non sia stato devoluto a nessuno. Impossibile
sfuggire a queste alternative: Governo di tutti da parte di tutti, oppure governo
di tutti da parte di uno solo, ecco il regime di autorità; governo con
la partecipazione di tutti da parte di ognuno oppure governo di ognuno da parte
di se stesso, ecco il regime di libertà. Tutto questo è inevitabile
come l'unità e la pluralità, il caldo ed il freddo, la luce e
le tenebre. Ma, mi dirà qualcuno, non si è forse visto il governo
essere appannaggio di una parte più o meno considerevole della nazione,
con l'esclusione del resto: aristocrazia governo delle classi elevate; oclocrazia,
governo della plebe, oligarchia governo di una fazione?....L'osservazione è
giusta, questo si è visto: ma questi governi sono governi di fatto, frutto
di usurpazione, di violenza, di reazione, di transizione, d'empirismo, in cui
tutti i principi sono simultaneamente adottati, e poi ugualmente violati, misconosciuti
e confusi; e noi stiamo ora considerando i governi a priori, concepiti secondo
la logica e su un solo principio.
Niente di arbitrario, ancora una volta, nella politica razionale, che prima
o poi non si dovrà distinguere dalla politica pratica. L'arbitrario in
realtà non è né un prodotto della natura né dello
spirito: non è né la necessità delle cose né la
dialettica infallibile delle idee che lo generano. Sapete di chi è figlio
l'arbitrario? Il suo nome ve lo dice: del libero ARBITRIO, della Libertà.
Cosa meravigliosa! Il solo nemico contro il quale la Libertà deve stare
in guardia, non è in fondo l'Autorità, che tutti gli uomini adorano
come se fosse la Giustizia; ma è la Libertà stessa, la libertà
del principe, la libertà dei grandi, la libertà delle moltitudini,
mascherata d'Autorità.
Dalla definizione a priori delle diverse specie di governo, passiamo ora alle
loro forme.
Si chiamano forme di governo i modi in cui si distribuisce e si esercita il
Potere. Naturalmente e logicamente queste forme sono in rapporto col principio,
la formazione e la legge di ogni regime.
Allo stesso modo in cui il padre nella famiglia primitiva, il patriarca nella
tribù, è allo stesso tempo padrone della casa, del carro o della
tenda, herus , dominus, proprietario del suolo, delle greggi e dei loro prodotti,
coltivatore, industriale, amministratore, commerciante, gran sacerdote, guerriero;
così è nella monarchia, in cui il principe è contemporaneamente
legislatore, amministratore, giudice, generale, pontefice. Egli ha il dominio
completo della terra e della rendita; è il capo delle arti e dei mestieri,
del commercio, dell'agricoltura, della marina, della pubblica istruzione , è
investito di tutto il diritto e di tutta l'autorità. In due parole il
re è il rappresentante della società, la sua incarnazione; lo
Stato è lui. La concentrazione o indivisione dei poteri è la caratteristica
della monarchia. Al principio di autorità che caratterizzava il padre
di famiglia ed il monarca, viene a ricongiungersi come corollario il principio
dell'universalità delle attribuzioni. Un condottiero come Giosuè;
un giudice, come Samuele; un sacerdote, come Aronne: un re, come David; un legislatore,
come Mosè, Solone, Licurgo, Numa, tutti questi titoli riuniti nella stessa
persona.; tale è lo spirito della monarchia, tali sono le sue forme.
Quanto prima, a causa dell'estensione dello Stato, l'esercizio dell'autorità,
eccede le forze di un solo uomo. Il principe allora si fa assistere da dei consiglieri,
ufficiali o ministri, scelti da lui e che agiscono per suo conto ed al suo posto,
come suoi inviati e procuratori nei confronti del popolo. Come il principe che
rappresentano, questi delegati, satrapi, proconsoli o prefetti, cumulano nel
loro mandato tutti gli attributi dell'autorità. Ma si intende che devono
rendere conto della loro gestione al monarca che è il loro padrone, nell'interesse
e nel nome del quale essi governano, da cui ricevono le direttive, e che li
fa sorvegliare in modo da assicurarsi sempre l'alto possesso dell'autorità,
l'onore del comando, i benefici dello Stato, ed in modo da preservarsi da ogni
usurpazione, da ogni sedizione. In quanto alla nazione, essa non ha diritto
a chiedere resoconti e gli agenti del principe non sono tenuti a rendergliene.
In questo sistema la sola garanzia dei sudditi è nell'interesse del sovrano,
che del resto non riconosce altra legge che il suo consenso.
Nel regime comunista le forme di governo sono le stesse, cioè il potere
è esercitato in modo indiviso da tutta la collettività sociale,
cosi come lo era prima per il solo re. E' come nei campi di maggio dei Germani
in cui il popolo intero senza distinzione di età e di sesso, deliberava
e giudicava; è così che i Cimbri ed i Teutoni, accompagnati dalle
loro donne combattevano contro Mario: non conoscevano niente della strategia
e della tattica, che cosa se ne facevano dei generali? E' per un residuo di
questo comunismo che in Atene le sentenze per i criminali erano rese dalla massa
intera dei cittadini; è per una suggestione dello stesso genere che la
Repubblica del 1848 si diede novecento legislatori, dolendosi di non poter riunire
nella stessa assemblea i dieci milioni di elettori, che dovette contentarsi
di convocare allo scutinio. I progetti di legislazione diretta per il si o per
il no, proposti ai nostri giorni, sono usciti di lì.
Le forme di Stato liberale o democratico corrispondono ugualmente al suo principio
di formazione ed alla legge che determina lo sviluppo di questo stato; in conseguenza,
si differenziano radicalmente da quelle della monarchia. Esse consistono nel
fatto che il Potere, invece di essere esercitato collettivamente e congiuntamente
come nella comunità primitiva, è ripartito fra cittadini in due
modi. Se si tratta di un compito suscettibile di essere materialmente diviso,
come la costruzione di una strada, il comando di una flotta, la polizia di una
città, l'istruzione della gioventù, si divide il lavoro per sezioni,
la flotta per squadre o perfino per navi, la città per quartieri, l'insegnamento
per classi; su ciascuna delle quali si stabilisce un imprenditore, un commissario,
un ammiraglio, capitano o maestro. Gli Ateniesi avevano l'abitudine, nelle loro
guerre, di nominare dieci o dodici generali, dei quali ognuno comandava per
un giorno a turno; uso che oggi sembrerebbe molto strano, ma la democrazia ateniese
non tollerava niente di più. Se la funzione è indivisibile, si
lascia intera oppure si nominano diversi titolari, malgrado il precetto di Omero
che dice che la pluralità dei comandanti è una pessima cosa: E'
così che là dove noi mandiamo un solo ambasciatore, gli antichi
ne spedivano una compagnia;-oppure ci si contenta per ogni funzione di un solo
funzionario che ci si dedichi e ne faccia a poco a poco la sua professione,
la propria specializzazione : questo tende ad introdurre nel corpo politico
una classe particolare di cittadini, conosciuti come pubblici funzionari. A
partire da questo momento la democrazia è in pericolo: lo Stato si distacca
dalla nazione; il suo personale torna ad essere pressappoco quello che era sotto
la monarchia , più devoto al superiore che alla nazione ed allo Stato.
In compenso da ciò è scaturita una grande idea, una delle più
grandi della scienza, l'idea della divisione o separazione dei Poteri. Grazie
a questa idea, la Società prende una forma decisamente organica; le rivoluzioni
possono succedersi come le stagioni, c'è in essa qualcosa che non morirà
più, è questa bella costituzione del pubblico potere per categorie,
Giustizia, Amministrazione, Guerra, Finanze, Culti, Istruzione pubblica, Commercio,
ecc.
L'organizzazione del governo liberale o democratico è più complicata,
più competente, di una pratica più laboriosa e meno appariscente
che quella del governo monarchico: e per conseguenza è meno popolare.
Quasi sempre le forme di governo libero sono state accusate di aristocrazia
dalle masse, che gli hanno preferito l'assolutismo monarchico. Da questo si
genera quella specie di circolo vizioso nel quale si dibattono e si dibatteranno
ancora per lungo tempo gli uomini di progresso. Naturalmente è in vista
di un miglioramento delle condizioni delle masse, che i repubblicani reclamano
delle libertà e delle garanzie; è dunque sul popolo che devono
cercare di appoggiarsi. Ora è sempre il popolo che, per diffidenza o
indifferenza verso le forme democratiche, ostacola la libertà (b).
Le forme dell'anarchia possono essere indifferentemente, secondo la volontà
di ogni individuo, e nel limite dei suoi diritti, quelle della monarchia o della
democrazia.
Tali sono nei loro principi e nelle loro forme, i quattro governi elementari,
dati a priori dall'intelligenza umana, per servire come materiale per tutte
le costruzioni politiche dell'avvenire. Ma, io lo ripeto, questi quattro tipi,
benché suggeriti dalla natura delle cose cosi come dal sentimento della
libertà e del diritto, per il rigore delle loro leggi, non sono affatto
destinate alla realizzazione. Esse sono delle concezioni ideali, delle formule
astratte secondo le quali si costituiranno empiricamente e intuitivamente tutti
i governi di fatto, ma che esse stesse non saprebbero tradurre in stato di fatto.
La realtà è complessa per sua natura, il semplice non può
uscire dall'ideale, non arriva al concreto. Noi possediamo in queste formule
antitetiche i dati di una costituzione regolare, della costituzione futura dell'umanità;
ma bisogna che passino dei secoli, che una serie di rivoluzioni si succeda prima
che la formula definitiva si liberi dal cervello che la deve concepire, che
è il cervello dell'umanità.
Note:
(a) Il divenire non è, qualunque cosa abbiano detto certi filosofi più
mistici che profondi, una posizione di mezzo fra l'essere ed il non essere;
il divenire è il movimento dell'essere nella sua vita e nelle sue manifestazioni.
(b) Ciò che importa tenere bene a mente, è che i governi si distinguono
per la loro essenza non per il titolo dato al governante. Così l'essenza
della monarchia è nell' indivisione dei poteri governativi ed amministrativi,
nell'assolutismo del principe, uno o collettivo, e nella sua irresponsabilità.
L'essenza della democrazia, al contrario, è nella separazione dei poteri
nella distribuzione dei compiti, il controllo e la responsabilità. La
corona e la sua stessa ereditarietà non sono qui che degli accessori
simbolici. Indubbiamente è per il padre-re, per l'ereditarietà
e per la consacrazione, che la monarchia si rende tangibile: ciò che
ha fatto credere al volgo che mancando i segni, la cosa non esisteva più.
I fondatori della democrazia, nel 93, credettero di aver fatto cosa meravigliosa
a tagliare la testa al re, ed intanto decretavano la centralizzazione. Ma è
un errore che non deve più ingannare nessuno. Il consiglio dei DIECI
a Venezia, era un vero tiranno, e la repubblica un dispotismo atroce. Al contrario,
date un principe col titolo di re ad una repubblica come la Svizzera: se la
costituzione non cambia, sarà come se aveste messo un cappello di feltro
sulla statua di Enrico IV.
CAPITOLO IV
TRANSAZIONE FRA I PRINCIPI: ORIGINE DELLE CONTRADDIZIONI DELLA
POLITICA.
Poiché i due principi sui quali riposa ogni ordine sociale, L'Autorità
e la Libertà da un lato sono
contrari l'uno con l'altro, e sempre in lotta, e dall'altro non possono escludersi
né annullarsi, è inevitabile una transazione fra di loro. Qualunque
sia il sistema preferito, monarchico democratico, comunista o anarchico, l'istituzione
non sopravviverà che il tempo per cui avrà saputo appoggiarsi
in misura più o meno considerevole sulle caratteristiche del suo antagonista.
Per esempio si sbaglierebbe di molto se si immaginasse che il regime di autorità,
col suo carattere paternalistico, le sue usanze familiari, la sua iniziativa
assoluta, possa far fronte con la sua sola forza, ai suoi bisogni. Se niente
meno lo Stato si ingrandisce, questa venerabile paternità, degenererà
rapidamente in impotenza, confusione irragionevolezza e tirannia: Il principe
è incapace di provvedere a tutto; deve affidarsi a degli intermediari
che lo ingannano, lo derubano, lo discreditano, lo svalutano presso l'opinione
pubblica, lo soppiantano ed infine lo detronizzano. Questo disordine, inerente
al potere assoluto, con la corruzione che ne consegue, e le catastrofi che lo
minacciano incessantemente sono la peste della società e degli Stati.
Pertanto si può stabilire come regola la considerazione che il governo
monarchico è tanto più benevolo, morale, giusto e sopportabile
e pertanto durevole, tralascio in questo momento le relazioni esterne, quanto
più le sue dimensioni sono modeste e si avvicinano maggiormente al quelle
di una famiglia; e viceversa, lo stesso governo sarà tanto più
insufficiente, oppressivo. odioso ai suoi sudditi e conseguentemente instabile,
quanto più lo Stato sarà diventato vasto. La storia ha conservato
il ricordo ed i nostri tempi ci forniscono gli esempi di queste spaventose monarchie,
mostri informi, veri mastodonti politici, che una civiltà migliore, dovrà
progressivamente far scomparire. In tutti questi Stati l'assolutismo è
in ragione diretta della massa dei sudditi e si regge in virtù del proprio
prestigio; in un piccolo Stato al contrario, la tirannia non si può sostenere
che per mezzo delle truppe mercenarie; altrimenti, visto da vicino si dissolve.
Per ovviare a questo vizio della loro natura, i governi monarchici sono stati
costretti a concedere, in misura più o meno ampia, le forme della libertà,
in particolare la separazione dei poteri o la divisione della sovranità.
La ragione di questa modifica è facile da capire. Se un solo uomo è
appena sufficiente a coltivare con difficoltà un fondo di cento ettari,
per condurre una manifattura che occupa alcune centinaia di operai, per provvedere
all'amministrazione di un comune di cinque-seimila abitanti, come potrebbe sopportare
il peso di un impero di quaranta milioni di uomini? Ecco dunque che la monarchia
ha dovuto inchinarsi a questo duplice principio, improntato ai concetti dell'economia
politica: 1° la maggior quantità di lavoro è svolto e il maggior
valore è prodotto quando il lavoratore è libero e può agire
per suo conto come imprenditore o proprietario; 2° la qualità del
prodotto o servizio prestato è tanto migliore quanto più il produttore
conosce il suo mestiere e vi si consacra esclusivamente. C'è ancora una
ragione che spiega questo prestito fatto dalla monarchia alla democrazia, ed
è che la ricchezza sociale aumenta proporzionalmente alla divisione delle
attività ed alla organizzazione delle industrie, e questo significa,
in politica, che il governo sarà tanto migliore ed offrirà maggiore
sicurezza per il principe, se le funzioni saranno meglio distinte ed equilibrate:
cosa questa impossibile nel regime assoluto. Ecco come i principi sono stati
indotti a repubblicanizzarsi, per così dire, da se stessi, allo scopo
di sfuggire ad una inevitabile rovina; gli ultimi anni ci hanno offerto esempi
clamorosi, in Piemonte, in Austria ed in Russia. Nella situazione deplorevole
in cui lo zar Nicola aveva lasciato il suo impero, non è di scarso rilievo,
tra le riforme adottate da suo figlio Alessandro (a), l'introduzione della distinzione
dei poteri nel governo russo.
Fatti analoghi ma inversi si osservano nel governo democratico.
Si possono ben stabilire con tutta la sagacità e la precisione possibile,
i diritti ed i doveri dei cittadini, le competenze dei funzionari, prevedere
le situazioni, le eccezioni, le anomalie: la fecondità dell'imprevisto
supera di molto la prudenza dell'uomo di Stato, e più si legifera, più
nascono i contrasti. Tutto questo esige, da parte dei rappresentanti del potere,
una facoltà di iniziativa e di arbitraggio, che, per farsi valere, non
hanno che un modo, quello di costituirsi come autorità. Togliete al principio
democratico, togliete alla libertà questa suprema sanzione, l'autorità,
e lo Stato si disgregherà all'istante. E' chiaro tuttavia che in tal
caso non ci troviamo più nel libero contratto, a meno che non si sostenga
che i cittadini sono d'accordo, in caso di controversia, di accettare la decisione
di uno di loro designato precedentemente, e cioè di un giudice: ciò
che significa esattamente rinunciare al principio democratico e adottare quello
monarchico.
La democrazia può moltiplicare tanto quanto vuole con i funzionari, le
garanzie legali ed i mezzi di controllo, può subissare i suoi agenti
di formalità, chiamare senza posa i cittadini alle elezioni, al voto:
per amore o per forza i suoi funzionari sono uomini d'autorità, la parola
è recepita; e se fra il personale dei pubblici funzionari se ne trova
uno o più di uno incaricato della direzione generale degli affari, questo
capo, individuale o collettivo, del governo è ciò che anche Rousseau
ha chiamato principe, per un nulla sarà re.
Si possono fare osservazioni analoghe sul comunismo e sull'anarchia. Non si
sono mai avuti esempi di una comunità perfetta; ed è poco probabile,
qualunque sia il grado di civiltà, di moralità, di saggezza che
raggiunga il genere umano, che ogni traccia di governo ed autorità scompaiano.
Ma mentre la comunità rimane il sogno della maggioranza dei socialisti,
l'anarchia è l'ideale della scuola liberista, che tende soprattutto a
sopprimere ogni tipo di governo ed a costituire la società sulle sole
basi della proprietà e del lavoro libero.
Non farò altri esempi. Ciò che ho detto è sufficiente a
dimostrare la validità della mia tesi, cioè che la monarchia e
la democrazia, il comunismo e l'anarchia, non potendo realizzarsi nella purezza
del loro ideale, sono costretti a completarsi l'uno con l'altro per mezzo di
concessioni reciproche.
Certamente, c'è di che umiliare l'intolleranza dei fanatici che non possono
sentir parlare di un'opinione contraria alla loro senza provare una sorta di
sdegno. Che apprendano dunque, gli infelici, che proprio essi stessi sono necessariamente
infedeli ai loro principi che la loro fede politica è tessuta di incoerenze
ed auguriamoci che anche il potere possa a sua volta giungere a non attribuire
a chi discute dei differenti sistemi di governo, alcuna intenzione faziosa.
Convincendosi una buona volta che questi termini di monarchia, democrazia, ecc.,
non esprimono che delle concezioni teoriche, molto lontane dalle istituzioni
che sembrano tradurle, il monarchico alle parole del contratto sociale, di sovranità
del popolo, di suffragio universale, ecc., resterà calmo; il democratico,
sentendo parlare di dinastia, di potere assoluto, di diritto divino, conserverà
sorridendo il suo sangue freddo. Non c'è nessuna vera monarchia, non
esiste nessuna vera democrazia. La monarchia è la forma primitiva, fisiologica,
e per così dire patronimica dello Stato; essa vive nel cuore delle masse
e si realizza sotto i nostri occhi con forza, per mezzo della generale tendenza
all'unità. La democrazia a sua volta germoglia da ogni parte; affascina
le anime generose e conquista dovunque le élite della società.
Ma è per la dignità della nostra epoca che si deve rinunciare
alla fine a queste illusioni, che troppo spesso degenerano in menzogne. La contraddizione
è nella sostanza di tutti i programmi. I tribuni popolari senza rendersene
conto si affidano alla monarchia; i re alla democrazia e all'anarchia. Dopo
l'incoronazione di Napoleone I° , la formula Repubblica francese, si lesse
a lungo su una delle due facce delle monete, che portavano dall'altra, con l'effige
di Napoleone, il titolo Imperatore dei Francesi. Nel 1830, la monarchia di Luigi
Filippo, fu designata da La Fayette come la migliore delle repubbliche; ed egli
non è forse stato soprannominato il re dei proprietari? Allo stesso modo
Garibaldi ha reso a Vittorio Emanuele lo stesso servizio di La Fayette a Luigi
Filippo. Più tardi è vero, La Fayette e Garibaldi, sono apparsi
pentiti; ma il loro giudizio iniziale deve essere accettato, tanto più
che come tutte le ritrattazioni sarebbe illusoria. Nessun democratico può
dirsi del tutto immune da ogni atteggiamento monarchico; nessun partigiano della
monarchia può ritenere di essere del tutto esente da ogni atteggiamento
repubblicano. Resta assodato che la democrazia, non avendo mai saputo ripugnare
l'idea dinastica non più che l'idea unitaria, i fautori dei due sistemi
non hanno il diritto di scomunicarsi a vicenda; e la tolleranza reciproca si
impone loro.
Ora, che cos'è la politica, se è impossibile ad una società
costituirsi esclusivamente sul principio che essa preferisce; se qualunque cosa
faccia il legislatore, il governo qui ritenuto monarchico, lì democratico,
resta pur sempre un composto ambiguo, in cui elementi opposti si mescolano in
proporzioni arbitrarie in balia del capriccio e degli interessi; in cui le definizioni
più precise conducono fatalmente alla confusione ed alla promiscuità;
in cui per conseguenza, tutte le conversioni, tutte le defezioni sono possibili
ed il trasformismo passa come virtù? Che campo aperto alla ciarlataneria,
all'intrigo, al tradimento! Quale Stato potrebbe sopravvivere in queste condizioni
tanto degradanti? Lo Stato non è ancora costituito, che già porta
nella contraddizione della sua idea il suo principio di morte. Strana creatura,
in cui la logica rimane impotente, mentre l'incoerenza sembra essere la sola
pratica razionale.
Note:
(a) E' dalla necessità di separare i poteri e di distribuire l'autorità
che nacque, in parte, dopo Carlomagno, la feudalità. Da questo anche
quella falsa aria di federalismo che rivestì, per la sfortuna dei popoli
e dell' Impero. La Germania, costretta nello Statu quo di una costituzione assurda,
risente ancora di quelle lunghe lacerazioni. L'Impero si è frantumato,
e la nazionalità è stata compromessa.
(b) Si potrebbe scrivere un'opera interessante sulle Contraddizioni politiche,
da abbinare alle Contraddizioni economiche. Ci ho pensato più di una
volta; ma scoraggiato dalla cattiva accoglienza della critica, distratto da
altri lavori, ho rinunciato. L'impertinenza dei recensori, si sarebbe ancora
rallegrata sull' antinomia, la tesi e l' antitesi; lo spirito francese, talvolta
così penetrante e così giusto, si sarebbe rivelato nella persona
dei signori giornalisti, molto sciocco, molto ridicolo e stolto; la fatuità
gallica avrebbe contato un nuovo trionfo, e tutto sarebbe stato detto. Avrei
risparmiato ai miei compatrioti una mistificazione, fornendo loro subito la
soluzione che avrei dovuto comunque dare, se avessi esposto davanti a loro tutte
le difficoltà del problema.
CAPITOLO V
GOVERNI DI FATTO : DISSOLUZIONE SOCIALE.
Poiché la monarchia e la democrazia, occupandomi ormai che di esse soltanto,
sono dunque due principi validi nella teoria, ma irrealizzabili nel rigore dei
loro termini, è stato inevitabile, come ho appena detto, rassegnarsi
nella pratica a transazioni di ogni specie: da queste transazioni obbligate,
sono derivati tutti i governi di fatto. Questi governi, costruzioni dell'empirismo,
variabili all'infinito, sono dunque essenzialmente e senza eccezioni dei governi
composti o misti.
Osserverò a questo proposito che i pubblicisti si sono ingannati, e che
hanno introdotto nella politica un dato tanto falso quanto pericoloso, allorché,
non distinguendo la teoria dalla pratica, la realtà dall'ideale, hanno
posto sullo stesso piano, i governi di pura concezione, non realizzabili nella
loro interezza, come la monarchia e la democrazia pura, ed i governi di fatto
o misti. La verità, lo ripeto, è che non esiste né possono
esistere governi della prima specie se non in teoria: ogni governo di fatto
è necessariamente misto, non importa che si chiami monarchia o democrazia.
Questa osservazione è importante. Essa sola permette di ricondurre ad
un errore di dialettica le innumerevoli delusioni, corruzioni, rivoluzioni della
politica.
Tutte le varietà di governo di fatto, in altra parole, tutte le transazioni
costituzionali, attuate o proposte fin dai tempi più antichi fino ai
nostri giorni, si riducono a due specie principali, che chiamerò con
le loro denominazioni attuali: Impero e Monarchia costituzionale. Ma questo
richiede una spiegazione.
Avendo la guerra e l'ineguaglianza delle condizioni fin dalle origini caratterizzato
la condizione dei popoli, la società si è divisa naturalmente
in un certo numero di classi: Guerrieri, Nobili, Preti, Proprietari, Mercanti,
Navigatori, Industriali, Contadini.- Là dove esiste un monarca, si costituisce
una casta a se , la prima di tutte: questa è la dinastia
La lotta delle classi fra di loro, l'antagonismo dei loro interessi, il modo
in cui questi interessi si coalizzano, determinano il regime politico, conseguentemente
la scelta di governo, le sue innumerevoli varietà e le sue varianti ancora
più numerose. Poco a poco tutte queste classi si riducono a due: una
superiore, Aristocrazia, Borghesia o Patriziato; una inferiore, Plebe o Proletariato
entro le quali oscilla la monarchia, organo del potere, espressione dell'autorità.
Se l'Aristocrazia si unisce alla monarchia, il governo che ne risulterà
sarà una monarchia temperata, oggi detta costituzionale; se è
il popolo che si coalizza con l'autorità, il governo sarà un impero,
o democrazia autocratica. La Teocrazia del medioevo, consisteva in un patto
fra il sacerdote e l'imperatore; il Califfato era una monarchia religiosa e
militare. A Tiro, Sidone, Cartagine, la monarchia si appoggiò sulla classe
dei mercanti, fino al momento in cui questa si impadronì del potere.
Sembra che a Roma la monarchia, nei primi tempi, abbia avuto rispetto per i
patrizi ed i plebei; successivamente queste due classi si coalizzarono contro
la corona , e la monarchia fu abolita e lo Stato prese il nome di Repubblica.
Tuttavia il patriziato rimase prevalente. Ma questa costituzione aristocratica
però, fu turbolenta come la democrazia ateniese; il governo visse di
espedienti, ma mentre la democrazia ateniese soccombette al primo urto, con
la guerra del Peloponneso, fu la conquista del mondo il risultato della necessità
in cui si trovò il Senato romano di tenere impegnato il popolo. Data
la pace al mondo, seguì la guerra civile ad oltranza; e per porvi fine
la plebe si dette un capo, distrusse il patriziato e la Repubblica, e creò
l' impero.
Ci si stupisce che il governo fondato sotto gli auspici della borghesia o di
un patriziato, d'accordo con una dinastia, sia in genere più liberale
di quello fondato da una moltitudine sotto la guida di un dittatore o di un
tribuno. La cosa in effetti, deve sembrare altrettanto stupefacente, in quanto
in fondo la plebe è più interessata e realmente più incline
alla libertà che la borghesia. Ma questa contraddizione, punto critico
della politica, si spiega con la situazione dei partiti, situazione che in caso
di vittoria popolare, fa ragionare ed agire la plebe come autocrate ed in caso
di prevalenza della borghesia, la fa ragionare ed agire questa come repubblicana.
Torniamo al dualismo fondamentale: Autorità, Libertà e lo comprenderemo.
Dalla divergenza di questi due principi nascono in primo luogo, sotto l'influenza
delle passioni e degli interessi contrari, due tendenze inverse, due correnti
di opinione opposte: tendendo i sostenitori dell'autorità a riservare
alla libertà, sia individuale che corporativa o locale, lo spazio minore
ed a sfruttare sulla base di ciò, a loro profitto personale ed a detrimento
della moltitudine, il potere da essi appoggiato; i sostenitori del regime liberale,
al contrario tendono a limitare indefinitamente l'autorità ed a vincere
l'aristocrazia per mezzo della determinazione incessante delle funzioni pubbliche,
degli atti del potere e delle sue forme. Per effetto della sua posizione, per
l'umiltà della sua condizione, il popolo cerca nel governo l'uguaglianza
e la libertà; per la ragione contraria, il patriziato proprietario, capitalista
ed imprenditore, è più incline verso una monarchia protettrice
delle grandi fortune, capace di assicurare l'ordine a suo profitto e che, per
conseguenza, assegna la parte maggiore all'autorità, la minore alla libertà..
Tutti i governi di fatto, qualunque siano le loro ragioni o riserve, si riconducono
così all'una o all'altra di queste due formule: subordinazione dell'Autorità
alla Libertà; oppure subordinazione della Libertà all'Autorità.
Ma la stessa causa che spinge l'una contro l'altra la borghesia e la plebe,
fa fare presto ad entrambe un voltafaccia. La democrazia, per assicurare il
suo trionfo, ignara d'altra parte della logica del potere, incapace di esercitarlo,
si da un capo assoluto, davanti al quale scompaia ogni privilegio di casta ;
la borghesia che teme il dispotismo come l'anarchia, preferisce consolidare
la sua posizione, favorendo lo stabilirsi di una monarchia costituzionale. Così
in fin dei conti, è il partito che ha più bisogno della libertà
e dell'ordine legale che crea l'assolutismo; mentre il partito dei privilegiati
da vita al governo liberale, imponendogli per sanzione la restrizione dei diritti
politici.
Da ciò si vede che astrazion fatta dalle considerazioni economiche inerenti
al dibattito, borghesia e democrazia, imperialismo e costituzionalismo o qualsiasi
nome si dia a questi governi ispirati a principi di antagonismo, tutti si equivalgono
e che questioni come le seguenti: Se il regime del 1814 non valesse più
che quello del 1804; se non sarebbe vantaggioso per il paese, tornare dalla
costituzione del 1852 a quella del 1830; se il partito repubblicano si fonderà
nel partito orleanista o se si riavvicinerà all'impero; simili questioni,
dico io, dal punto di vista del diritto e dei principi, sono puerili: un governo
che nasca dalle condizioni considerate, non vale che per i fatti che lo hanno
prodotto e per gli uomini che lo rappresentano, ed ogni disputa teorica a questo
riguardo è vana e non può portare che a delle aberrazioni. Le
contraddizioni della politica, i cambiamenti di rotta dei partiti, l'inversione
perpetua dei ruoli, sono così frequenti nella storia, occupano un così
gran posto negli eventi umani, che non posso fare a meno di insistervi. Il dualismo
dell'Autorità e della Libertà ci fornisce la chiave di tutti questi
enigmi; senza questa precisazione originaria, la storia degli Stati sarebbe
la disperazione delle coscienze e lo scandalo della filosofia.
L'aristocrazia inglese ha fatto la Magna Carta; i puritani hanno prodotto la
dittatura di Cromwell. In Francia, è la borghesia che pone le basi imperiture
di tutte le nostre costituzioni liberali, A Roma, il patriziato aveva organizzato
la repubblica; la plebe inventò i Cesari ed i pretoriani. Nel sedicesimo
secolo, la riforma è inizialmente aristocratica; la massa resta cattolica
o si sceglie dei messia come Giovanni di Leida; esattamente l'inverso di quanto
si era visto quattrocento anni prima, quando i nobili bruciavano gli albigesi.
Quante volte, questa osservazione è di Ferrari, il medio evo ha visto
i Ghibellini farsi Guelfi ed i Guelfi cambiarsi in Ghibellini! Nel 1813, la
Francia combatte per il dispotismo, la coalizione per la libertà, proprio
il contrario di ciò che era avvenuto nel 1792. Oggi i legittimisti ed
i clericali sostengono la federazione, i democratici sono unitari. Non si finirebbe
mai di citare simili esempi; ciò non significa però che le idee,
gli uomini e le cose non debbano essere sempre classificati per le loro tendenze
naturali e per le loro origini, che i blu non siano sempre blu ed i bianchi
sempre bianchi.
Il popolo per il fatto stesso della sua inferiorità e della sua miseria,
formerà sempre l'armata della libertà e del progresso; il lavoro
è repubblicano per natura, ed il contrario sarebbe una contraddizione.
Ma a causa della sua ignoranza, e dei suoi istinti primitivi, della violenza
dei suoi bisogni, dell'impazienza dei suoi desideri, il popolo è incline
alle forme sommarie di autorità. Ciò che cerca non sono le garanzie
legali, di cui non ha alcuna idea, e non ne concepisce la portata; non è
affatto una combinazione di meccanismi o un equilibrio di forze, con cui non
sa che fare, è un capo della cui parola possa fidarsi, le cui intenzioni
gli siano chiare e che si dedichi ai suoi interessi. A questo capo conferisce
autorità senza limiti; il potere massimo. Il popolo, considerando giusto
tutto ciò che giudica essergli utile, considerato che è il popolo,
se ne ride delle formalità, né fa alcun caso delle condizioni
imposte ai depositari del potere. Pronto al sospetto ed alla calunnia, ma incapace
di una discussione metodica, non crede in definitiva che alla volontà
umana, non spera che nell'uomo, non confida che nelle sue creature: in princibus,
in filiis hominum; il popolo non si aspetta niente dai princìpi, che
soli possono salvarlo; non ha la religione delle idee.
E' così che la plebe romana, dopo settecento anni di regime progressivamente
liberale ed una serie di vittorie riportate da esso sul patriziato, credette
di togliere di mezzo tutte le difficoltà annientando il partito dei tribuni,
dette a Cesare la dittatura perpetua, fece tacere il senato, abolire i comizi,
e per uno staio di grano, annona, fondò l'autocrazia imperiale. Ciò
che c'è di curioso, è che questa democrazia era sinceramente convinta
del suo liberalismo, e si vantava di impersonare il diritto, l'uguaglianza ed
il progresso! I soldati di Cesare, idolatri del loro imperatore erano pieni
di odio e di disprezzo per i re: se gli assassini del tiranno, non furono immolati
sul posto, fu perché Cesare era stato visto alla vigilia della sua uccisione
cingersi il capo calvo con l'insegna regale. Così i seguaci di Napoleone
I°, usciti dal club dei Giacobini, nemici dei nobili, dei preti e dei re,
trovarono del tutto normale fregiarsi con i titoli di barone, di duca, di principe,
e di fare la corte all'imperatore; non gli perdonarono però di aver preso
in moglie una principessa Asburgica.
Lasciata a se stessa o condotta dai suoi tribuni, la moltitudine non ha creato
mai niente. Ha la testa girata indietro: presso di lei non si forma alcuna tradizione,
nessun spirito di gruppo, nessuna idea che assuma la forza della legge. Della
politica non comprende che l'intrigo, del governo solo le elargizioni e la forza,
della giustizia solo la vendetta; della libertà non conosce altro che
la possibilità di erigersi degli idoli che essa demolisce all'indomani.
L'avvento della democrazia apre un'era di regresso che condurrebbe la nazione
e lo Stato alla morte, se essi non si sottraessero alla fatalità che
li minaccia con una rivoluzione in senso inverso, che si tratta ora di valutare.
Tanto la plebe che vive giorno per giorno, senza proprietà, senza imprese,
esclusa dai pubblici impieghi, è al riparo dai rischi della tirannia,
di cui non si da pensiero, tanto la borghesia, che ha possedimenti, traffici
e produce, avida di terre e di guadagni, è interessata a prevenire le
catastrofi e ad assicurarsi l'appoggio del potere. Il bisogno di ordine la riconduce
alle idee liberali: da ciò, le costituzioni che essa impone ai suoi re.
Nello stesso momento in cui essa riveste il governo di apparati legali e l'assoggetta
al voto di un parlamento, limita i diritti politici ad una categoria di contribuenti
ed abolisce il suffragio universale: ma si guarda bene dal toccare l'accentramento
amministrativo, contrafforte della feudalità industriale. Se la separazione
dei poteri gli è utile per bilanciare l'influenza della corona ed impedire
la politica personale del principe; se d'altra parte il privilegio elettorale
la serve ugualmente bene contro le aspirazioni popolari, non gli è meno
preziosa la centralizzazione; anzitutto perché ha bisogno degli amministratori
che mettono la borghesia a parte del potere e delle imposte, poi perché
gli agevola lo sfruttamento pacifico delle masse. Sotto un regime di centralizzazione
amministrativa e di suffragio ristretto dove, restando la borghesia, grazie
alla sua maggioranza, padrona del governo, tutta la vita locale è soffocata,
ed ogni reazione facilmente repressa, sotto un tale regime, io dico, la classe
dei lavoratori, chiusa nelle sue officine , è naturalmente votata al
salariato. La libertà esiste, ma nella sfera della società borghese,
cosmopolita come i suoi capitali: quanto alla moltitudine, ha dato le sue dimissioni,
non solo politiche ma economiche.
Devo aggiungere che la soppressione o la conservazione di una dinastia non cambierebbe
niente al sistema? Una repubblica unitaria ed una monarchia costituzionale,
sono una sola ed unica cosa: non c'è che una parola diversa ed un funzionario
di meno.
Ma se l'assolutismo democratico è instabile, il costituzionalismo borghese
non lo è di meno. Il primo è retrogrado senza freni, senza princìpi,
dispregiatore del diritto, ostile alla libertà, distruttivo di ogni sicurezza
e fiducia. Il sistema costituzionale con le sue forme legali , il sua spirito
giuridico, il suo temperamento misurato, le sue solennità parlamentari,
si rivela chiaramente, in fin dei conti, come un vasto sistema di sfruttamento
e d'intrigo, dove la politica si accompagna all'aggiotaggio, in cui l'imposta
non è che un elenco civile di una casta, ed il potere monopolizzato l'ausiliario
del monopolio economico. Il popolo ha il vago sentimento di questa immensa usurpazione
: le garanzie costituzionali lo toccano poco, e lo si è visto, soprattutto
nel 1815, preferire il suo imperatore, malgrado le sue infedeltà, ai
suoi re legittimi, malgrado il loro liberalismo.
L'alternarsi di insuccessi, ripetuti, della democrazia imperiale e della costituzionalità
borghese, hanno come risultato quello di creare un terzo partito che, alzando
la bandiera dello scetticismo, non credendo in alcun principio, profondamente
e sistematicamente immorale, tende a regnare come qualcuno ha detto con la bilancia,
cioè per la rovina completa dell'autorità e della libertà,
in una parola per mezzo della corruzione. E ciò che è stato chiamato
sistema dottrinario. Accolto inizialmente dall'odio e dall'esecrazione dei vecchi
partiti, questo sistema ha fatto rapidamente fortuna, sostenuto dallo scoraggiamento
crescente, e giustificato in qualche modo dallo spettacolo della contraddizione
universale. In poco tempo è diventato la fede segreta del Potere, al
quale il pudore e la decenza impediranno sempre di fare professione pubblica
di scetticismo; ma è anche la fede confessata della borghesia e del popolo
che, non essendo più frenati da alcuna considerazione, lasciano esplodere
la loro indifferenza e se ne vantano. Allora smarrito negli animi il senso dell'autorità
e della libertà, considerate come vane parole la giustizia e la ragione,
la società si disgrega, la nazione decade. Ciò che rimane, non
è più che materia e forza bruta: e una rivoluzione diviene imminente,
pena il suicidio morale. Cosa ne verrà fuori? La storia è qui
per rispondere, gli esempi si contano a migliaia. Al sistema condannato, succederà,
grazie alla spinta delle generazioni immemori, senza posa rinnovate, una transazione
che avrà lo stesso svolgimento, e che, logora a sua volta e disonorata
per la contraddizione delle sue idee, farà la stessa fine. E questo continuerà
finché la ragione umana non abbia scoperto il modo di dominare i due
opposti principi e non avrà trovato l'equilibrio della vita sociale per
mezzo della regolamentazione dei suoi antagonismi.
CAPITOLO VI
POSIZIONE DEL PROBLEMA POLITICO.
PRINCIPIO DI SOLUZIONE
Se il lettore ha seguito con diligenza l'esposizione precedente, la società
umana deve apparirgli una creazione fantastica, piena di cose di cui stupirsi
e di misteri. Ricordiamo brevemente i vari termini:
a) L'ordine politico riposa su due principi connessi opposti ed irriducibili:
l'Autorità e la Libertà.
b) Da questi due principi, derivano parallelamente due regimi contrari: il regime
assolutista o autoritario ed il regime liberale.
c) Le forme di questi due governi sono tanto diverse fra loro, incompatibili
ed inconciliabili, come le loro nature; noi le abbiamo definite in due termini
: Indivisione e Separazione.
d) Ora, la ragione vuole che ogni teoria debba realizzarsi seguendo il suo principio,
tutto l'esistente prodursi secondo la sua legge. la logica è la condizione
della vita come del pensiero.
Ma è proprio il contrario che si manifesta in politica: né l'Autorità
né la Libertà, possono costituirsi separatamente, dando luogo
ad un sistema che sia esclusivamente proprio di ciascuna; lungi da ciò,
esse sono condannate, nelle loro rispettive istituzioni, a farsi continue reciproche
concessioni.
e) La conseguenza è che la fedeltà ai principi, in politica, non
esiste che in teoria , essendo in pratica costretta ad accettare compromessi
di ogni genere, il governo si riduce, in ultima analisi malgrado la migliore
volontà e tutta la virtù immaginabile, ad una creazione ibrida,
equivoca ad una promiscuità di regimi che la logica severa ripudia, e
davanti alla quale arretra la buona fede. Nessun governo sfugge a questa contraddizione.
f) Conclusione: l'arbitrario entra fatalmente nella politica, la corruzione
diventa presto l'anima del potere, e la società è trascinata senza
riposo né misericordia, sulla china senza fine delle rivoluzioni.
Il mondo è a questo punto. E non è né l'effetto di una
diavoleria, né di una mancanza della nostra natura, né di una
condanna della divina provvidenza, né di un capriccio della fortuna o
di un segno del Destino: la realtà è questa, ecco tutto. Sta a
noi trarre quanto di meglio sia possibile da questa singolare situazione.
Consideriamo che da più di ottomila anni- le nostre conoscenze storiche
non vanno oltre- tutte le varietà di governo, tutte le combinazioni politiche
e sociali, sono state successivamente sperimentate, abbandonate, riprese, modificate,
trasformate, sfruttate e che l'insuccesso ha costantemente ricompensato lo zelo
dei riformatori e deluso la speranza dei popoli. Sempre la bandiera della libertà
è servita a mascherare il dispotismo; sempre le classi privilegiate,
per proteggere i loro privilegi, si sono circondate di istituzioni liberali
ed egualitarie; sempre i partiti hanno mentito sui loro programmi; e sempre
l'indifferenza è succeduta alla fiducia, la corruzione allo spirito civico,
gli Stati si sono disgregati per lo sviluppo dei concetti sui quali si erano
fondati. Le razze più vigorose e più intelligenti, si sono logorate
in questo travaglio: la storia è piena del racconto delle loro lotte.
Qualche volta un susseguirsi di trionfi creavano illusioni sulla forza dello
Stato, facendo credere all'eccellenza di una costituzione, ad una saggezza di
governo che non esistevano. Ma con l'avvento della pace i vizi del sistema riapparivano,
ed i popoli si riposavano con la guerra civile, dalle fatiche della guerra esterna.
L'umanità è passata così di rivoluzione in rivoluzione:
le nazioni più celebrate, quelle che sono durate più a lungo,
vi sono riuscite solo in questo modo. Fra tutti i governi conosciuti, e sperimentati,
fino ad oggi, non ce n'è uno che, se fosse stato condannato a sussistere
per sua virtù, avrebbe vissuto la vita di un uomo. E' strano, ma i capi
di Stato ed i loro ministri sono, fra tutti gli uomini, quelli che credono meno
alla durata del sistema che rappresentano; finché non verrà un
sistema scientifico, i governi si reggeranno sulla fede delle masse. I Greci
ed i Romani, che ci hanno tramandato le loro istituzioni, ed i loro esempi,
giunti al momento più interessante della loro evoluzione, precipitano
nella crisi; e la società moderna sembra arrivata a sua volta all'ora
dell'angoscia. Non fidatevi della voce di quegli agitatori che gridano: Libertà,
Uguaglianza Nazionalità, non sanno niente, sono dei morti che hanno la
pretesa di resuscitare dei morti. Il pubblico li segue per un istante, come
fa con i buffoni ed i ciarlatani; ma poi passa oltre, con la mente vuota e la
coscienza desolata.
Segno certo che la nostra dissoluzione è prossima e che una nuova era
si sta aprendo, la confusione del linguaggio e delle idee è arrivata
al punto che il primo venuto può dichiararsi a suo piacimento repubblicano,
monarchico, democratico, borghese, conservatore, partigiano dell'uguaglianza
sociale, liberale e tutto questo contemporaneamente, senza timore che nessuno
gli faccia capire la menzogna e l'errore. I principi ed i baroni del primo Impero,
avevano dato prova di sanculottismo. La borghesia del 1814, rimpinguata dei
beni della nazione, la sola cosa che avesse compreso delle istituzioni dell'89,
era liberale ed anche rivoluzionaria; il 1830 la rifece conservatrice; il 1848
la rese reazionaria, cattolica e più che mai monarchica. Attualmente
sono i repubblicani di febbraio che servono la monarchia di Vittorio Emanuele,
mentre i socialisti di giugno, si dichiarano unitari. Gli antichi seguaci di
Ledru-Rollin aderiscono all'impero come alla vera espressione rivoluzionaria
ed alla forma più paterna di governo; altri, è vero, li trattano
da venduti, ma si scagliano con furore contro il federalismo. E' un imbroglio
eretto a sistema di ordine organizzato, l'apostasia permanente, il tradimento
universale.
Si tratta di sapere se la società può arrivare a qualche cosa
di regolare di giusto e di stabile, che soddisfi la ragione e la coscienza,
oppure se siamo condannati per l'eternità a questa ruota di Issione.
Il problema è insolubile?.... Che il lettore pazienti ancora un Po; e
se più tardi non lo faccio uscire dall'imbroglio, avrà il diritto
di dire che la logica è falsa, il progresso un'illusione, e la libertà
un'utopia. Degnatevi ancora di ragionare con me per qualche minuto, benché
per la verità in una simile questione ragionare significhi esporsi all'autoinganno
ed a perdere il proprio tempo e la ragione.
1. Si noterà anzitutto che i due principi, l'Autorità e la Libertà,
da cui vengono tutte le difficoltà, si mostrano nella storia in successione
logica e cronologica. L'Autorità, come la famiglia, come il padre, genitore,
compare per prima : essa ha l'iniziativa, è l'affermazione. La Libertà
raziocinante viene dopo: è la critica, la protesta, la libera determinazione.
Questo criterio di successione risulta dalla definizione stessa delle idee e
dalla natura delle cose, e tutta la storia ne rende testimonianza. E questo
senza alcuna possibile inversione, senza alcun intervento arbitrario.
2. Un'altra osservazione non meno importante, è che il regime paterno
e monarchico, si allontana tanto più dal suo ideale, quanto più
la famiglia, la tribù, o città diventa più numerosa e che
lo Stato cresce in popolazione ed in territorio: in modo che più l'autorità
si estende, più diventa intollerabile. Da qui le concessioni che essa
è costretta a fare alla libertà. Inversamente il regime di libertà
si avvicina tanto più al suo ideale e moltiplica le sue possibilità
di successo, quanto più lo Stato cresce in popolazione ed in estensione,
quanto più i rapporti si moltiplicano e la scienza progredisce. Dapprima
tutti reclameranno una costituzione; più tardi questo sarà per
la decentralizzazione. Attendete ancora, e vedrete sorgere l'idea di federazione
In modo che si potrà dire della libertà e dell'autorità
ciò che Giovanni Battista diceva di se stesso e di Gesù: Illam
oportet crescere, hanc autem minui.
Questo doppio moto, l'uno di recessione l'altro di progresso, che si risolve
in un unico fenomeno, risulta ugualmente dalla definizione dei princìpi,
dalla loro collocazione relativa e dai loro ruoli; anche qui nessun equivoco
è possibile, né vi è il più piccolo spazio per l'arbitrario.
Il fatto è di una evidenza oggettiva e di una certezza matematica; è
ciò che noi chiameremo una legge.
3. La conseguenza di detta legge, che si potrebbe definire necessaria, è
essa pure necessaria: avviene che, comparendo per primo il principio di autorità
e servendo esso di materia o come dato di elaborazione della Libertà,
della ragione e del diritto, esso venga a poco a poco subordinato dal principio
giuridico, razionalista e liberale; il Capo di Stato, dapprima inviolabile,
irresponsabile assoluto, come il padre nella famiglia, diventa giudicabile dalla
ragione, primo soggetto di legge, e finalmente semplice agente, strumento o
servitore della Libertà stessa.
Questa terza proposizione è certa come le prime due, esente da tutti
gli equivoci e contraddizioni, ed ampiamente dimostrata dalla storia. Nella
lotta eterna dei due principi, la Rivoluzione francese, come la Riforma, appare
come un'era emblematica. Essa segna il momento in cui nell'ordine politico la
Libertà ha preso ufficialmente il sopravvento sull'Autorità, cosi
come la Riforma aveva segnato il momento in cui, nell'ordine religioso, il libero
esame ha prevalso sulla fede. Dopo Lutero, la fede è diventata dovunque
oggetto di ragione; l'ortodossia così come l'eresia, ha preteso di condurre
l'uomo alla fede per mezzo della ragione; il precetto di S.Paolo Rationabile
sit obsequium vestrum, sia ragionevole la vostra obbedienza, è stato
largamente commentato e messo in pratica; Roma s'è messa a discutere
come Ginevra; la religione è protesa a farsi scienza; la sottomissione
alla Chiesa si è complicata di così tanti condizionamenti e riserve
che, fatti salvi gli articoli di fede, non c'è più differenza
fra il cristiano ed il non credente. Non sono più della stessa opinione,
ecco tutto: del resto, pensiero, ragione, coscienza, in entrambi si comportano
allo stesso modo. Similmente dopo la Rivoluzione francese, il rispetto dell'autorità
è diminuito; la deferenza agli ordini del principe s'è fatta limitata;
si sono pretese dal sovrano reciprocità e garanzie; la mentalità
politica è cambiata; i monarchici più ferventi come i baroni di
Giovanni senza Terra, hanno voluto aver delle carte ed i Berrier, i de Falloux,
i de Montalbert, ecc., potevano dirsi liberali quanto i nostri democratici.
Chateaubriand, il cantore della Restaurazione, si vantava di essere filosofo
e repubblicano; ed è stato per un puro atto del suo libero arbitrio che
si era costituito come difensore dell'altare e del trono. Si sa anche ciò
che avvenne al cattolicesimo violento di Lamennais.
Così, mentre l'autorità è in pericolo, e diventa di giorno
in giorno più precaria, il senso del diritto si fa più certo e
la libertà, tenuta sempre in sospetto, diventa sempre più reale
e più forte. L'assolutismo pur resistendo al suo meglio, se ne va; sembra
che la Repubblica, sempre combattuta, esecrata, tradita, bandita, si avvicina
ogni giorno . Quali conseguenze dobbiamo trarre da questo fatto capitale per
la costituzione dei governi?
CAPITOLO VII
SVILUPPO DELL' IDEA DI FEDERAZIONE
Poiché nella teoria e nella pratica, l'Autorità e la Libertà,
si succedono come una sorta di polarizzazione;
Che la prima diminuisce impercettibilmente e si ritira, mentre la seconda cresce
e si afferma;
Che risulta da questo duplice procedere una sorta di subordinazione in virtù
della quale l'Autorità si rimette via via alle regole della Libertà;
Poiché in altri termini il regime liberale o contrattuale, prevale di
giorno in giorno sul regime autoritario, è all'idea di contratto che
noi dobbiamo legarci come all'idea dominante della politica.
Cosa si intende, anzitutto, per contratto?
Il contratto, dice l'art. 1101 del Codice civile, è una convenzione per
cui una o più persone si obbligano verso una o più, a fare o a
non fa re qualcosa.
Art.1102.- Esso è sinallagmatico o bilaterale quando i contraenti si
obbligano reciprocamente gli uni verso gli altri.
Art. 1103.- E' unilaterale quando una o più persone sono obbligate verso
una o molte altre senza che da parte di queste ultime ci sia alcun obbligo.
Art 1104.- E' commutativo quando ognuna delle parti si impegna a dare o a fare
una cosa che è considerata come l'equivalente a lui dovuto o di ciò
che si fa per essa. - Quando l'equivalente consiste nella possibilità
di guadagno o di perdita per ognuna delle parti in conseguenza di un avvenimento
incerto, il contratto è aleatorio.
Art. 1105.- Il contratto di beneficenza è quello in cui una parte procura
all'altra un vantaggio puramente gratuito.
Art. 1106.- Il contratto a titolo oneroso è quello che obbliga ciascuna
delle parti a dare o a fare qualcosa.
Art. 1371.- Si chiamano quasi contratto i fatti volontari dell'uomo da cui risulta
un impegno qualsiasi verso un terzo , e qualche volta un impegno reciproco delle
parti.
A queste distinzioni e definizioni del Codice, relative alle forme ed alle condizioni
dei contratti, ne aggiungerò un'ultima, che riguarda il loro oggetto.
Secondo la natura delle cose di cui si tratta, dello scopo che ci si propone,
i contratti sono domestici, civili, commerciali o politici.
E' di quest'ultima specie di contratto, il contratto politico, di cui ci occuperemo
ora.
La nozione di contratto, non è completamente estranea al regime monarchico,
come non lo è alla paternità ed alla famiglia. Ma, dopo ciò
che abbiamo detto sui princìpi di autorità e di libertà
e sul loro ruolo nella formazione dei governi, si comprende che questi princìpi
non intervengono nello stesso modo nella formazione del contratto politico;
cosi quindi l'obbligazione che unisce il monarca ai suoi sudditi, obbligo spontaneo,
non scritto, risultante dallo spirito familiare e dalla qualità delle
persone, è una obbligazione unilaterale, poiché in virtù
del principio di obbedienza il suddito è più obbligato verso il
principe di quanto questo non lo sia verso il suddito. La teoria del diritto
divino dice espressamente che il monarca non è responsabile che verso
Dio. Può anche accadere che il contratto del principe col suddito degeneri
in un contratto di pura beneficenza, allorché, per l'inettitudine e l'idolatria
dei cittadini, il principe è sollecitato ad impossessarsi dell'autorità
ed a farsi carico dei suoi sudditi, incapaci di governarsi e di difendersi,
come un pastore del suo gregge. Peggio ancora là dove è ammesso
il principio di ereditarietà. Un cospiratore come il duca di Orléans,
più tardi Luigi XII, un parricida come Luigi XI, un'adultera come Maria
Stuarda, conservano, malgrado i loro crimini, il loro eventuale diritto alla
corona. Poiché la nascita li rende inviolabili, si può dire che
esiste fra di loro ed i fedeli sudditi del principe al quale essi dovranno succedere,
un quasi-contratto. In due parole per lo stesso fatto che l'autorità
è preponderante nel sistema monarchico, il contratto non è paritario.
Il contratto politico invece, non acquista la sua dignità ed il suo senso,
che alla condizione 1° di essere sinallagmatico e commutativo; 2° di
essere contenuto quanto al suo oggetto, entro certi limiti: due condizioni che
si suppongono esistere sotto il regime democratico, ma che anche in esso, non
sono spesso nient'altro che pura finzione. Si può allora dire in una
democrazia rappresentativa e centralizzatrice, in una monarchia costituzionale
e censitaria, a maggior ragione in una repubblica comunista., come concepita
da Platone, che il contratto politico che lega il cittadino allo Stato sia uguale
e reciproco? Si può forse dire che questo contratto, che sottrae ai cittadini
la metà o i due terzi della loro sovranità, ed il quarto del loro
prodotto, sia contenuto entro giusti limiti? Sarebbe più esatto dire,
ciò che l'esperienza conferma troppo spesso e cioè che il contratto,
in quasi tutti i sistemi, è esorbitante, oneroso, poiché esso
è per una parte più o meno considerevole di cittadini senza contropartita;
è aleatorio, poiché il vantaggio promesso, già insufficiente,
non è neppure assicurato.
Affinché il contratto politico, rispetti la condizione sinallagmatica
e commutativa che postula l'idea di democrazia; per, esprimendosi entro limiti
accettabili, essere vantaggioso ed utile per tutti, bisogna che il cittadino
entrando nell'associazione, 1° abbia tanto da ricevere dallo Stato, quanto
a lui sacrifica; 2° che conservi tutta la propria libertà, la sua
sovranità e la sua iniziativa, meno ciò che è la parte
relativa all'oggetto speciale per il quale il contratto è formato e per
la quale si chiede la garanzia allo Stato. Così regolato ed inteso, il
contratto politico è ciò che io chiamo una federazione.
FEDERAZIONE, dal latino foedus, genitivo foederis, cioè patto, contratto,
trattato, convenzione, alleanza ecc., è una convenzione per la quale
uno o più capi di famiglia, uno o più comuni, uno o più
gruppi di comuni o Stati, si obbligano reciprocamente e su un piano di eguaglianza
gli uni verso gli altri, per uno o più oggetti particolari, la cui responsabilità
grava da quel momento specialmente ed esclusivamente sui delegati della federazione
(a).
Torniamo su questa definizione.
Ciò che costituisce l'essenza ed il carattere del contratto federale,
su cui desideravo richiamare l'attenzione del lettore, è che in questo
sistema, i contraenti, i capi di famiglia, comuni, cantoni, province o Stati,
non solo si obbligano bilateralmente e commutativamente gli uni verso gli altri,
ma si riservano individualmente, nel dar vita al patto, più diritti,
libertà e proprietà, di quanta ne cedono.
Non è così per esempio nella società universale dei beni
e dei profitti, autorizzata dal Codice civile altrimenti detta comunità,
immagine in miniatura di tutti gli Stati assoluti. Colui che si impegna con
una associazione di questo genere, soprattutto se perpetua, si trova ad essere
oppresso da legami, sottomesso ad oneri maggiori dell'iniziativa che conserva.
Ma è questo ciò che rende raro questo contratto, e che ha reso
in tutti i tempi insopportabile la vita austera. Ogni obbligo, sia reciproco
che commutativo, che, esigendo dagli associati la totalità dei loro sforzi,
non lascia niente alla loro indipendenza e li voti tutti interamente all'associazione,
è un impegno eccessivo, che ripugna ugualmente al cittadino ed all'individuo.
Secondo questi princìpi, avendo il contratto di federazione per oggetto,
in via di massima, di garantire agli Stati confederati la loro sovranità,
il loro territorio, la libertà dei loro cittadini; di regolare le loro
diversità; di provvedere per mezzo di misure a carattere generale a tutto
quanto interessi la sicurezza e la prosperità comune; questo contratto,
dico io, malgrado la vastità degli interessi coinvolti, è essenzialmente
limitato. L'Autorità incaricata delle sue esecuzioni, non può
mai prevalere sulle parti costituenti, voglio dire che le attribuzioni federali
non possono mai essere superiori in numero ed in realtà a quelle delle
autorità comunali o provinciali, nello stesso modo in cui queste non
possono eccedere i diritti e le prerogative dell'uomo e del cittadino. Se così
non fosse, il comune sarebbe una comunità; la federazione tornerebbe
ad essere una centralizzazione monarchica; l'autorità federale, da semplice
mandataria e subordinata quale deve essere, sarebbe considerata come preponderante;
invece di essere limitata ad un servizio speciale, tenderebbe ad abbracciare
ogni attività ed ogni iniziativa; gli Stati confederati sarebbero convertiti
in prefetture, intendenze, succursali o regie. Il corpo politico, così
trasformato, potrebbe chiamarsi repubblica, democrazia o tutto ciò che
vi piacerà : non sarebbe più uno Stato costituito nella pienezza
delle sue autonomie, non sarebbe più una federazione. La stessa cosa
si verificherebbe, a maggior ragione, se, per un falso calcolo di economia o
per deferenza o per tutt'altra causa, i comuni, i cantoni o gli Stati confederati
attribuissero ad uno di loro l'amministrazione ed il governo degli altri. La
repubblica, da federativa diventerebbe unitaria; sarebbe sulla via del dispotismo
(b).
Riassumendo, il sistema federativo è l'opposto della gerarchia o centralizzazione
amministrativa e governativa, per la quale si distinguono ex aequo, le democrazie
imperiali, le monarchie costituzionali, e le repubbliche unitarie. La sua legge
fondamentale, caratteristica è questa: nella federazione le attribuzioni
dell'autorità centrale si precisano e si riconoscono, diminuiscono di
numero, di immediatezza, ed oso anche dire, d'intensità a misura che
la confederazione si sviluppa per l'adesione dei nuovi Stati. Nei governi centralizzati,
al contrario, le attribuzioni del potere supremo si moltiplicano, si ampliano,
si fanno più immediate, assorbono nella sfera di competenza del principe
gli affari delle province, dei comuni, delle corporazioni, dei singoli, in ragione
diretta della superficie territoriale e del numero degli abitanti. Di qui deriva
l'oppressione sotto la quale sparisce ogni libertà, non solamente comunale
e provinciale, ma anche individuale e nazionale.
Una conseguenza di questo fatto, con la quale terminerò il capitolo,
è che, essendo il sistema unitario l'inverso del sistema federativo,
una confederazione fra grandi monarchie, ed ancor più fra democrazie
imperialiste, è impossibile. Stati come la Francia, l'Austria, l'Inghilterra,
la Russia, la Prussia, possono stipulare fra di loro trattati di alleanza o
di commercio; ma ripugna che si federino, anzitutto perché il principio
su cui si basano è contrario a ciò, e quindi li metterebbe in
opposizione con il patto federale; inoltre di conseguenza dovrebbero rinunciare
a qualcosa della loro sovranità e riconoscere sopra di se, almeno per
certi casi, un arbitro. La loro natura è di comandare, non di transigere
o di obbedire. I principi che, nel 1813, sostenuti dall'insurrezione delle masse,
combattevano per la libertà dell'Europa contro Napoleone, e più
tardi formarono la Santa Alleanza non erano dei confederati: l'assolutismo del
loro potere non consentiva loro di assumerne il titolo.
Erano come nel 92, dei coalizzati; e la storia non gli darà altro nome.
La stessa cosa non si può dire della Confederazione germanica, attualmente
impegnata in un programma di riforme ed in cui l'affermarsi della libertà
e della nazionalità minaccia di far sparire un giorno le dinastie che
gli sono d'ostacolo (c).
Note:
(a) Nella teoria di J.J. Rousseau, che è quella di Robespierre e dei
Giacobini, il Contratto sociale è una finzione di legista, immaginata
per rendere conto, senza ricorrere al diritto divino, all'autorità paterna
o alla necessità sociale, della formazione dello Stato e dei rapporti
fra il governo e gli individui. Questa teoria mutuata dai Calvinisti, costituiva
nel 1764 un progresso, poiché aveva per scopo di ricondurre ad una legge
razionale, ciò che fino allora era stato considerato come un appannaggio
della legge di natura e della religione. Nel sistema federativo, il contratto
sociale, è più che una finzione; è un patto positivo, effettivo,
che è stato realmente proposto, discusso, votato, adottato, e che si
modifica regolarmente secondo la volontà dei contraenti. Fra il contratto
federativo e quello di Rousseau e del 93, c'è tutta la distanza che passa
fra la realtà e l'ipotesi.
(b) La Confederazione elvetica, si compone di venticinque Stati sovrani (diciannove
cantoni e sei semi cantoni) per una popolazione di due milioni quattrocentomila
abitanti. Essa è dunque retta da venticinque costituzioni, analoghe alle
nostre carte o costituzioni del 1791, 1793, 1795, 1799, 1814,1830, 1848, 1852,
più una costituzione federale, di cui naturalmente noi non abbiamo, in
Francia, l'equivalente. Lo spirito di questa costituzione, conforme ai principi
sopra esposti, risulta dagli articoli seguenti
"Art.2 - La confederazione ha per scopo: di sostenere l'indipendenza della
Patria contro lo straniero, di mantenere la tranquillità e l'ordine interno,
di proteggere la libertà ed i diritti dei confederati, di promuovere
la loro comune prosperità.
Art. 3 - I cantoni sono sovrani fin dove la loro sovranità non è
limitata dalla costituzione federale, e, come tali, esercitano tutti i diritti
che non sono devoluti all'autorità federale.
Art. 5 - La Confederazione garantisce ai cantoni il loro territorio, la loro
sovranità entro i limiti stabiliti dall'articolo 3, le loro costituzioni,
la libertà ed i diritti del popolo, i diritti costituzionali dei cittadini,
cosi come i diritti e le attribuzioni che il popolo ha conferito alle autorità."
Così una confederazione non è propriamente uno Stato: è
un insieme di Stati sovrani ed indipendenti legati da un patto di mutua garanzia.
Una costituzione federale non è ciò che si intende in Francia
per carta o costituzione, e che è il compendio del diritto pubblico del
paese; è il patto che contiene le condizioni della lega, cioè
i diritti ed i doveri reciproci degli Stati. Ciò che si definisce Autorità
federale, infine, non è un vero governo; è un'agenzia creata dagli
Stati, per esplicare in comune certi servizi, a cui ogni Stato rinuncia e che
diventano così attribuzioni federali.
In Svizzera, l'Autorità federale si compone di un'Assemblea deliberante,
eletta dal popolo dei ventidue cantoni , e di un Consiglio esecutivo composto
da sette membri nominati dall'Assemblea. I membri dell'Assemblea e del Consiglio
federale sono nominati per tre anni: poiché la costituzione federale
può essere revisionata in ogni momento, le loro attribuzioni sono, come
le persone, revocabili.
Cosicché il potere federale è, in tutto il significato del termine,
un mandatario messo nelle mani dei suoi committenti, ed il cui potere varia
secondo la loro volontà.
(c) Il diritto pubblico federativo solleva parecchie questioni difficili. Per
esempio, uno Stato che ammette la schiavitù può fare parte di
una confederazione? Sembra di no, come non lo può uno Stato assolutista:
la schiavitù di una parte della nazione essendo la negazione stessa del
principio federativo. Da questo punto di vista, gli Stati uniti del Sud avrebbero
tanto più ragione a chiedere la separazione in quanto non rientra nell'intenzione
di quelli del Nord di accordare, almeno per qualche tempo, ai Negri emancipati,
il godimento dei diritti politici. Tuttavia noi sappiamo che Washington, Madison
e gli altri fondatori dell' Unione non sono stati di questo parere ed hanno
ammesso al patto federale gli Stati schiavisti. E' anche vero che noi vediamo
attualmente questo patto contro natura in crisi e gli Stati del Sud, per conservare
il loro sfruttamento, tendere ad una costituzione unitaria, mentre quelli del
Nord, per mantenere l'unione, decretano la deportazione degli schiavi.
La costituzione federale Svizzera, riformata nel 1848, ha risolto la questione
nel senso dell'eguaglianza; il suo articolo 4 dice: " Tutti gli svizzeri
sono uguali innanzi alla legge. Nella Svizzera non vi ha sudditanza di sorta,
né privilegio di luogo, di nascita, di famiglia o di persona"; dalla
promulgazione di quest'articolo, che ha purgato la Svizzera di ogni elemento
aristocratico, data la vera costituzione federale elvetica. In caso di contrasto
di interessi, la maggioranza confederata può opporre alla minoranza separatista
l'indissolubilità del patto? Il no è stato sostenuto nel 1846
dal Sunderbund contro la maggioranza elvetica; ed oggi lo sostengono gli Stati
del Sud dell'Unione americana contro i federalisti del Nord. Quanto a me, ritengo
che rientri nel pieno diritto chiedere la separazione, se si tratta di una questione
di sovranità cantonale non prevista nel patto federale. Così non
è dimostrato che la maggioranza abbia ricavato il suo diritto contro
il Sunderbund dal patto: la prova è che nel 1848 la costituzione federale
è stata riformata, proprio in vista dei litigi a cui aveva portato la
formazione del Sunderbund. Ma può verificarsi, per delle considerazioni
di comodo ed incomodo, che le pretese della minoranza siano incompatibili con
i bisogni della maggioranza, che inoltre la scissione comprometta la libertà
degli Stati: in questo caso la questione si risolve col diritto di guerra, ciò
che significa che la parte più considerevole, quella in cui la rovina
comporterebbe il più grande danno, deve prevalere sulla più debole.
E' ciò che ha luogo in Svizzera e che potrebbe ugualmente praticarsi
negli Stati Uniti, se, negli Stati Uniti come in Svizzera, non si trattasse
che di un' interpretazione o di una applicazione migliore dei principi del patto,
come di elevare progressivamente la condizione dei Negri a livello dei Bianchi.
Disgraziatamente il messaggio di M. Lincoln non lascia alcun dubbio a questo
proposito. Il Nord, come il Sud, non intende parlare di una vera emancipazione,
ciò che rende la difficoltà insolubile, anche con la guerra, e
minaccia di annientare la confederazione.
Nella monarchia, tutta la giustizia emana dal re: in una confederazione, essa
emana, per ogni Stato, esclusivamente dai suoi cittadini. L'istituzione di un'alta
corte federale, sarebbe dunque, in via di principio, una deroga al patto. Sarebbe
come una Corte di cassazione, poiché, essendo ogni Stato sovrano e legislatore,
le legislazioni non sono uniformi. Tuttavia, siccome esistono degli interessi
federali e degli affari federali; siccome possono essere commessi dei delitti
e dei crimini contro la confederazione, ci sono, per questi casi particolari,
dei tribunali federali ed una giustizia federale.
CAPITOLO VIII
COSTITUZIONE PROGRESSIVA
La storia e la logica, la teoria e la pratica, ci hanno condotti, attraverso
i travagli della libertà e del potere, all'idea di un contratto politico.
Applicando subito questa idea e cercando di rendercene conto, abbiamo riconosciuto
che il contratto sociale per eccellenza è il contratto di federazione
che abbiamo definito in questi termini: Un contratto sinallagmatico e commutativo
stipulato per uno o più oggetti determinati, ma la cui condizione essenziale
è che i contraenti si riservino sempre una parte di sovranità
e di azione superiore a quella a cui rinunciano.
Proprio il contrario di quello che avviene negli antichi sistemi, monarchici,
democratici e costituzionali; in cui per la forza degli eventi e sotto la spinta
dei princìpi, i singoli ed i gruppi sono obbligati a rimettere nella
mani di un'autorità imposta o eletta, tutta la loro sovranità,
ottenendo meno diritti e conservando meno garanzie e possibilità di iniziativa,
di quanto non incomba loro per oneri e doveri.
Questa definizione del contratto di federazione, è un passo immenso,
che ci darà la soluzione tanto cercata.
Il problema politico, abbiamo detto nel capitolo primo, ricondotto alla sua
espressione più semplice, consiste nel trovare l'equilibrio fra i due
elementi contrari, l'autorità e la libertà. Ogni falso equilibrio
si traduce immediatamente, per lo Stato in disordine e rovina, per i cittadini
in oppressione e miseria. In altri termini, le anomalie e le perturbazioni dell'ordine
sociale, sono generate dall'antagonismo dei suoi princìpi; spariranno
quando i principi saranno coordinati in modo tale da non potersi più
nuocere a vicenda.
Equilibrare queste due forze, vuol dire sottometterle ad una legge che, tenendole
a bada l'una per mezzo dell'altra, le metta d'accordo. Chi ci fornirà
questo nuovo elemento, superiore all'Autorità ed alla Libertà,
e che in virtù del loro mutuo consenso, diventi la dominante del sistema?
- Il contratto, il cui contenuto fa legge, e si impone ugualmente alle due forze
rivali (a).
Ma, in un organismo concreto e vivo, quale è la società, il diritto
non può ridursi ad una nozione puramente astratta, aspirazione indefinita
della coscienza, che significherebbe rigettarci nelle finzioni e nei miti. Per
fondare la società, non è sufficiente formulare semplicemente
un'idea ma un atto giuridico, formare un vero contratto. Gli uomini dell'89
lo avevano intuito, quando si accinsero a dare alla Francia una costituzione,
cosi come tutti i governanti che li hanno seguiti. Purtroppo se le intenzioni
erano buone, le menti non furono illuminate a sufficienza; fino a questo momento
è mancato il notaio per redigere il contratto. Di esso sappiamo quale
deve essere lo spirito: cerchiamo ora di fare la bozza del suo contenuto.
Tutti gli articoli di una costituzione possono essere ricondotti ad un articolo
unico, quello che concerne il ruolo e la competenza di quel gran funzionario
che è lo Stato. Le nostre assemblee si sono occupate a gara della distinzione
e della separazione dei poteri, cioè della possibilità di azione
dello Stato; in quanto alla competenza dello Stato stesso, alla sua estensione,
al suo contenuto, non si vede che alcuno se ne sia dato molto pensiero. Si è
pensato alla spartizione, come diceva ingenuamente un ministro nel 1848; in
quanto alla cosa da dividere, è sembrato generalmente che più
ce ne fosse stata, più la festa sarebbe stata bella. Eppure la definizione
del ruolo dello Stato, è una questione di vita o di morte per la libertà
collettiva ed individuale.
Solo il contratto di federazione, la cui essenza è quella di riservare
sempre di più ai cittadini che allo Stato, alle autorità municipali
e provinciali più che all'autorità centrale, poteva metterci sulla
via della verità.
In una società libera, il ruolo dello Stato o del governo è per
eccellenza un ruolo di legislazione, di istituzione, di creazione, di inaugurazione,
di installazione; - cioè il meno possibile, un ruolo di esecuzione. A
questo riguardo il nome di potere esecutivo, con cui si indica uno degli aspetti
del potere sovrano, ha notevolmente contribuito a confondere le idee. Lo stato
non è un imprenditore di servizi pubblici, che equivarrebbe ad assimilarlo
agli industriali che prendono in appalto a forfait i lavori pubblici. Lo Stato,
sia che legiferi, sia che agisca o sorvegli, è il promotore ed il direttore
supremo dell'azione. Se talvolta interviene nell'esecuzione, lo fa a titolo
di prima manifestazione, per dare l'impulso e fornire l'esempio. Operata la
creazione, fatta l'installazione o l'inaugurazione, lo Stato si ritira, lasciando
alle autorità locali ed ai cittadini l'esecuzione della nuova iniziativa.
E' lo Stato che fissa i pesi e le misure, che da i modelli, il valore e la suddivisione
delle monete. Forniti gli originali, terminata la prima emissione, la fabbricazione
dei pezzi d'oro, d'argento e di rame cessa di essere una funzione pubblica,
un compito dello Stato, una attribuzione ministeriale; è una qualsiasi
attività, che niente, all'occorrenza, impedirebbe di lasciare completamente
libera, come la fabbricazione di bilance, bascule, barili e bottiglie. Il miglior
mercato è qui la sola legge.
Che cosa si esige in Francia, perché la moneta d'oro e d'argento, sia
ritenuta di buona qualità? Un decimo di lega e nove decimi di metallo
fino. Io voglio che ci sia un ispettore per seguire la fabbricazione: ma il
ruolo dello Stato non dovrebbe andare oltre.
Ciò che dico per le monete, io lo ridico per una quantità di servizi,
abusivamente lasciati nelle mani del governo: strade, canali, tabacchi, poste,
telegrafi, ferrovie, ecc. Io comprendo, ammetto, reclamo in caso di bisogno
l'intervento dello Stato in tutte queste grandi creazioni di pubblica utilità;
non vedo affatto la necessità di lasciarle nelle sue mani, una volta
che sono state consegnate alla comunità. Una simile concentrazione, secondo
me, costituisce un vero eccesso di attribuzioni. Ho chiesto, nel 1848, l'intervento
dello Stato per l'impianto di Banche nazionali, istituzioni di credito, di previdenza,
di assicurazione, come per le ferrovie; mai pensavo che lo Stato compiuta la
sua opera di iniziatore, potesse restare per sempre banchiere, assicuratore,
trasportatore, ecc. Certo non credo alla possibilità di provvedere all'istruzione
del popolo senza un grande impegno dell'autorità centrale, ma non per
questo sono meno sostenitore della libertà di insegnamento, come di ogni
altra libertà (b). Voglio che la scuola sia radicalmente separata dallo
Stato, come la Chiesa. Che ci siano una Corte dei conti, come un ufficio di
statistica, istituiti per raccogliere, verificare e diffondere tutte le informazioni,
tutte le transazioni, tutte le operazioni finanziarie, su tutto il territorio
della Repubblica, sarebbe l'ora. Ma perché tutte le spese ed entrate
dovrebbero passare per le mani di un tesoriere, di un esattore o pagatore unico,
ministro di Stato, quando lo Stato, per la natura della sua funzione, dovrebbe
interessarsi di pochi o nessun servizio ed avere poca o nessuna spesa (c)?....
E' veramente necessario che i tribunali dipendano da un'autorità centrale?
Amministrare la giustizia fu in ogni tempo il più alto attributo del
principe, lo so bene; ma questo attributo è un residuo del diritto divino;
non potrebbe essere rivendicato da un re costituzionale né a maggior
ragione dal capo di un impero basato sul suffragio universale. Dal momento dunque
che l'idea del diritto, ridiventando umana, come tale torna ad essere preponderante
nel sistema politico, l'indipendenza della magistratura ne sarà la conseguenza
necessaria. Ripugna che la giustizia sia considerata come un attributo dell'autorità
centrale o federale; essa non può essere altro che una delega fatta dai
cittadini all'autorità municipale, tutt'al più a quella provinciale.
La giustizia è un attributo dell'uomo, che nessuna ragione di Stato può
sottrargli. - Non faccio eccezione neppure al servizio militare per questa regola:
le milizie, i magazzini, le fortificazioni, non devono passare nella mani delle
autorità federali che nel caso di guerra; al di fuori di questo i soldati
e gli armamenti restano alle dipendenze delle autorità locali (d).
In una società regolarmente organizzata, tutto deve essere in crescita
continua, scienza, industria, lavoro, ricchezza, salute pubblica; la libertà
e la moralità devono procedere di pari passo. La vita ed il suo divenire,
non possono arrestarsi un istante. Organo principale di questo processo, lo
Stato è sempre in azione, poiché ha senza sosta nuovi bisogni
da soddisfare, nuove questioni da risolvere. Se la sua funzione di principale
promotore e di supremo direttore è incessante, le sue opere in compenso
non si possono ripetere. Esso è la più alta espressione del progresso.
Ora, che cosa accade quando, come si verifica quasi sempre e dovunque, lo Stato
indugia sui servizi che lui stesso ha creato e cede alla tentazione di accaparrarseli?
Da promotore si fa esecutore. Non è più lo spirito della collettività,
che la feconda, la dirige e l'arricchisce senza imporle alcun onere: è
una grande società anonima, con seicentomila impiegati e con seicentomila
soldati, organizzata per fare di tutto e che invece di venire in aiuto della
nazione, invece di servire i cittadini ed i comuni, li espropria e li opprime.
Presto la corruzione e la malversazione, l'apatia entrano nel sistema, sempre
occupato a sostenersi, ad accrescere le sue prerogative, a moltiplicare i suoi
servizi e ad ingrossare il suo bilancio, il potere perde di vista il suo vero
ruolo, cade nell'autocrazia e nell'immobilismo; il corpo sociale soffre, e la
nazione contrariamente alla sua legge storica, comincia a decadere.
Non abbiamo forse fatto notare, al Cap. VI, che nell'evoluzione degli Stati,
l'Autorità e la Libertà sono in successione logica e cronologica;
che mentre la prima è in continua diminuzione, la seconda in ascesa;
che il governo espressione dell'autorità, mediante un lento processo,
viene posto in posizione subalterna dai suoi rappresentanti e organi della libertà,
vale a dire che il potere centrale cade sotto il controllo dei deputati dei
dipartimenti o province; l'autorità provinciale rispetto a quello dei
delegati dei comuni, e l'autorità municipale rispetto agli abitanti;
la libertà così aspira a rendersi preponderante, l'autorità
a mettersi al servizio della libertà, ed il principio contrattuale a
sostituirsi dovunque negli affari pubblici, al principio autoritario.
Se tutto questo è vero, non vi può essere dubbio sulla conseguenza:
cioè secondo la natura delle cose ed il gioco dei due princìpi,
l'Autorità deve ritirarsi, la Libertà avanzare rispetto ad essa,
ma in modo che le due si susseguano senza mai scontrarsi, la costituzione della
società è essenzialmente progressiva, cioè sempre più
liberale, che ciò non può verificarsi se non in un sistema in
cui la gerarchia di governo, invece di essere posta sul suo vertice, sia stabilita
solidamente, sulla sua base, vale a dire in un sistema federale.
In questo consiste tutta la scienza costituzionale: la riassumo in tre proposte:
1° Formare dei gruppi di media dimensione, rispettivamente sovrani ed unirli
con patto di federazione;
2° Organizzare in ogni Stato federato il governo secondo il principio di
separazione degli organi;- voglio dire: separare nel potere tutto ciò
che può essere separato; definire tutto ciò che potrà essere
definito, distribuire fra gli organi o funzionari diversi tutto ciò che
sarà stato separato e definito; non lasciare nulla di indiviso; dotare
la pubblica amministrazione di tutte le condizioni di pubblicizzazione e di
controllo;
3° Invece di assorbire gli Stati federati o le autorità provinciali
e municipali in un'unica autorità centrale, ridurre le attribuzioni di
questa ad un semplice ruolo di iniziativa generale, di mutua garanzia e sorveglianza,
in cui i decreti non siano eseguiti che con il visto dei governi federati e
per mezzo di funzionari ai loro ordini, così come nella monarchia costituzionale,
dove ogni decreto emanato dal re , per essere eseguito, deve essere controfirmato
da un ministro.
Sicuramente, la separazione dei poteri, come fu praticata sotto la Carta del
1830, è una bella istituzione e di alta portata, ma è puerile
averla limitata ai soli membri di un gabinetto. Il governo di un paese, non
deve essere diviso solo fra sette o otto eletti usciti da una maggioranza parlamentare,
e criticati da una minoranza di opposizione, ma anche fra le province ed i comuni;
senza di ciò la vita politica, trascura la periferia per il centro, ed
il marasma invade la nazione divenuta idrocefala.
Il sistema federale è applicabile a tutte le nazioni ed in tutte le epoche,
poiché l'umanità è progressiva in ogni sua generazione
ed in tutte le sue razze, e la politica di federazione, che è la politica
del progresso per eccellenza, consiste nel governare ogni popolazione, al momento
opportuno , secondo un regime di autorità e di centralizzazione decrescenti,
corrispondente alla sua mentalità ed ai suoi costumi.
Note:
(a) Vi sono tre modi di concepire la legge, a seconda del punto di vista in
cui si pone l'essere morale e la qualità che assume, come credente, come
filosofo, o come cittadino.
La legge è il comandamento intimato all'uomo in nome di Dio da un'autorità
competente: è la definizione della teologia e del diritto divino.
La legge è l'espressione del rapporto delle cose; è la definizione
del filosofo, data da Montesquieu.
La legge è lo statuto arbitrale della volontà umana ( Della giustizia
nella Rivoluzione e nella Chiesa, vol. 8°); è la teoria del contratto
e della federazione.
Essendo una la verità, benché di aspetto variabile, queste tre
definizioni rientrano l'una nell'altra, e devono essere guardate in fondo come
identiche. Ma i sistemi sociali che generano, non sono gli stessi; per la prima
, l'uomo si dichiara suddito della legge e del suo autore o rappresentante;
per la seconda, si riconosce come parte integrante di un vasto organismo; per
la terza, fa sua la legge e si libera da ogni autorità, fatalità
e dominazione. La prima formula è propria dell'uomo religioso; la seconda
del panteista, la terza del repubblicano. Soltanto quest'ultima è compatibile
con la libertà.
(b) Secondo la costituzione federale svizzera del 1848, la Confederazione ha
il diritto di creare un' Università svizzera. Questa idea fu energicamente
combattuta come un attentato alla sovranità dei cantoni e a ragione,
secondo me. Ignoro se si sia dato corso al progetto.
(c) In Svizzera, esiste un bilancio federale, amministrato dal Consiglio federale,
ma che concerne solo le questioni della confederazione e non ha nulla in comune
con il bilancio dei cantoni e delle città.
(d) Costituzione federale svizzera, art. 13, - " La Confederazione non
ha il diritto di mantenere eserciti permanenti". Do a meditare questo articolo
ai nostri repubblicani unitari.
CAPITOLO IX
RITARDO DELLE FEDERAZIONI:
CAUSE DEL LORO RINVIO
L'idea di federazione, sembra così antica nella storia quanto quella
della Monarchia e della Democrazia, antica come l'idea stessa di autorità
e di libertà. Come potrebbe essere altrimenti? Tutto ciò che fa
emergere successivamente nella società la legge del progresso ha le sue
radici nella natura stessa. La civiltà cammina condizionata dai suoi
princìpi, preceduta e seguita dal corteo delle sue idee, che fanno costantemente
la ronda intorno ad essa. Fondata sul contratto, espressione solenne della libertà,
la federazione non poteva mancare all'appello. Più di dodici secoli prima
di Gesù Cristo, essa appare nelle tribù ebraiche, separate le
une dalle altre nelle loro vallate, ma unite, come le ismaelite, da una specie
di patto fondato sulla consanguineità. Quasi contemporaneamente essa
si manifesta nell'Anfizonia greca, incapace, è vero a soffocare le discordie
ed a prevenire la conquista o, il che è la stessa cosa, l'assorbimento
nel principio unitario, ma testimonianza vivente del futuro diritto delle genti
e della libertà universale. Non abbiamo dimenticato le leghe gloriose
dei popoli slavi e germanici, perpetuate fino ai nostri giorni nelle costituzioni
federali della Svizzera, della Germania, e perfino nell'impero d'Austria formate
da tante nazioni eterogenee, ma nonostante tutto inseparabili. E questo contratto
federale che, costituendosi poco a poco come governo regolare, dovrà
mettere fine dovunque alle contraddizioni dell'empirismo, eliminarne l'arbitrario
e fondare su un equilibrio indistruttibile la giustizia e la pace.
Per lunghi secoli, l'idea di federazione sembra offuscata e tenuta di riserva:
la causa di questo ritardo è da spiegarsi con l'incapacità originaria
delle nazioni, e con la necessità di formarle per mezzo di una rigida
disciplina. Dunque, tale è il ruolo che, per mezzo di una sorta di superiore
determinazione, sembra sia stato assegnato al sistema unitario.
Era necessario allora domare, dare stabilità alle moltitudini erranti,
indisciplinate e rozze; raggruppare le città isolate ed ostili: fondare
poco a poco, d'autorità, un diritto comune, imporre sotto forma di decreti
categorici, le leggi generali dell'umanità. Non si potrebbe attribuire
altro significato a queste grandi creazioni politiche, dell'antichità,
alle quali fecero seguito man mano gli imperi dei Greci, dei Romani, e dei Franchi,
la Chiesa cristiana, la rivolta di Lutero, e finalmente la rivoluzione francese.
La federazione non avrebbe potuto adempiere a questa missione educatrice, anzitutto
perché essa, è la Libertà; poi perché esclude l'idea
di costrizione, e riposa sulla nozione di contratto sinallagmatico, commutativo
e limitato; e che il suo scopo è quello di garantire la sovranità
e la autonomia ai popoli che essa unisce: gli stessi che inizialmente si trattava
di tenere sotto il giogo nell'attesa che fossero capaci di governarsi da se
per mezzo della ragione. In una parola, essendo la civiltà per sua natura
progressiva, un governo federale che si fosse instaurato fin dagli inizi, avrebbe
implicato una contraddizione.
Un'altra ragione di esclusione provvisoria per il principio di federativo è
nella debole capacità d'espansione degli Stati raggruppati sotto costituzioni
federali.
Limiti naturali degli Stati federali.- Abbiamo detto, Cap.II, che la monarchia,
per se stessa ed in virtù del suo principio, non conosce limiti al suo
sviluppo, e che la stessa cosa è per la democrazia. Questa facoltà
di espansione è passata dai governi semplici, o a priori, ai governi
misti o di fatto, democrazie e aristocrazie, imperi democratici e monarchie
costituzionali, che tutti sotto questo aspetto, hanno fedelmente obbedito al
loro ideale. Da lì sono sorte tutte le fantasie messianiche e tutti i
tentativi di monarchia o di repubblica universale.
In questi sistemi la tendenza all'inglobamento non ha mai fine: in essi si può
dire che l'idea di frontiera naturale è una finzione, o per meglio dire
un inganno politico; i fiumi, le montagne ed i mari sono considerati, non più
come dei limiti territoriali, ma come degli ostacoli su cui la libertà
del sovrano e della nazione può trionfare. E' la logica del principio
che vuole così: la facoltà di possedere, di accumulare, di comandare
e di sfruttare è infinita, per confini non ha che l'universo. L'esempio
più famoso di questo accaparramento di territori e di popolazioni a dispetto
dei fiumi, delle montagne, delle foreste dei mari e dei deserti, è stata
quella dell'Impero Romano, che aveva il suo centro e la sua capitale, in una
penisola in seno ad un vasto mare, e le sue province dintorno lontane quanto
fossero raggiungibili dagli eserciti e dagli esattori delle imposte.
Ogni Stato è per sua natura annessionista. Niente arresta la sua marcia
di invasione, se non lo scontro con un altro Stato, invasore come lui e capace
di difendersi. I predicatori più accesi del nazionalismo, non si curano
all'occasione, di contraddirsi, se mossi dall'interesse, a maggior ragione,
per la sicurezza del loro paese: chi nella democrazia francese, avrebbe osato
protestare contro l'annessione della Savoia o di Nizza? Non è, allo stesso
modo, raro vedere le annessioni favorite dagli stessi annessi, barattare la
loro indipendenza e la loro autonomia.
Ciò non avviene nel sistema federativo. Molto idonea a difendersi se
è attaccata, gli Svizzeri lo hanno fatto vedere più di una volta,
una confederazione si dimostra molto debole quando si tratta di conquistare.
Eccettuato il caso molto raro, in cui uno Stato vicino chieda di entrare nel
patto, si può dire che, per la sua stessa sopravvivenza essa si preclude
qualsiasi possibilità di ampliamento, in virtù del principio che,
limitando l'oggetto del patto di federazione alla difesa comune ed a qualche
obbiettivo di comune utilità, GARANTISCE ad ogni Stato il suo territorio,
la sua sovranità, la sua costituzione, la libertà dei suoi cittadini,
ed in più gli riserva una quantità di autorità, di iniziativa
e di potenza maggiore di quanta ne abbandoni; la confederazione dunque si limita
da se tanto più rigorosamente quanto le comunità ammesse nell'alleanza
sono distanti l'una dall'altra; di sorta che si arriva presto ad un punto in
cui il patto si trova senza scopo. Supponiamo che uno degli Stati confederati,
formuli il progetto di una conquista particolare, che desideri annettersi una
città vicina, una provincia confinante col suo territorio; che voglia
immischiarsi degli affari di un altro Stato. Non soltanto non potrà contare
sull'appoggio della confederazione, che gli risponderà che il patto è
stato fatto esclusivamente allo scopo di reciproca difesa e non per l'espansione
di un singolo; e si vedrà anche ostacolato nella sua impresa dalla solidarietà
federale che non consente che tutti si espongano alla guerra per l'ambizione
di uno solo. In tal modo una confederazione è allo stesso tempo garanzia
per i propri membri e per i suoi vicini non confederati.
Così, al contrario di quanto accade negli altri governi, l'idea di una
confederazione universale è contraddittoria. In questo si manifesta una
volta di più la superiorità morale del sistema federativo sul
sistema unitario, esposto a tutti gli inconvenienti ed a tutti i vizi dell'indefinito,
dell'illimitato, dell'assoluto, dell'ideale. L'Europa sarebbe ancora troppo
grande per una confederazione unica: non potrebbe che formare una confederazione
di confederazioni. E' stato dopo questo concetto che indicavo, nella mia ultima
pubblicazione, come primo passo da fare nella riforma del diritto pubblico europeo,
il ristabilimento delle confederazioni italiana, greca, batava, scandinava,
e danubiana, come preludio alla decentralizzazione dei grandi Stati, ed in seguito
il disarmo generale. Allora ogni nazionalità tornerebbe alla libertà;
si realizzerebbe l'idea di un equilibrio europeo auspicato da tutti i pubblicisti
ed uomini di Stato, ma impossibile da realizzare con le grandi potenze con costituzioni
unitarie (a).
Così condannata ad una esistenza pacifica e modesta, avendo sulla scena
politica il ruolo più trascurato, non sorprende che l'idea di Federazione
sia rimasta fino ai nostri giorni come offuscata davanti allo splendore dei
grandi Stati. Fino ai nostri giorni pregiudizi ed abusi di ogni genere pullulano
ed infieriscono negli stati federativi con la stessa intensità che nelle
monarchie feudali o unitarie, pregiudizio di nobiltà, privilegio di borghesia,
autorità della Chiesa, con la conseguente oppressione del popolo e servitù
dello spirito, la Libertà resta come imprigionata in una camicia di forza
e la civiltà impantanata in un invincibile statu quo. L'idea federalista
vive inosservata, incompresa, impenetrabile, ora per una sacra tradizione come
in Germania, dove la Confederazione, sinonimo d'Impero, era una coalizione di
prìncipi assoluti, gli uni laici, gli altri ecclesiastici, sotto la sanzione
della Chiesa di Roma; oppure per la forza delle cose come in Svizzera, dove
la confederazione era composta da alcune vallate separate le une dalle altre,
e protette contro lo straniero da catene montuose invalicabili, la cui conquista
non sarebbe stata possibile a meno che non si ripetesse l'impresa di Annibale.
Come vegetazione politica inaridita nella crescita, dove il pensiero del filosofo
non aveva niente da cogliere, né l'uomo di Stato un principio a cui ispirarsi,
dalla quale le masse non avevano niente da sperare, e lontana dall'offrire il
minimo aiuto alla Rivoluzione, attendeva da essa il cambiamento e la vita.
E' del resto un fatto acquisito dalla storia che la Rivoluzione francese ha
influito su tutte le costituzioni federali esistenti, le ha emendate, ispirate
col suo soffio, ha fornito loro ciò che hanno di migliore, in una parola,
le ha messe in condizione di evolversi, senza aver ricevuto niente in cambio
fino ad oggi.
Gli Americani erano ormai stati sconfitti in venti scontri, e la loro causa
sembrava ormai persa, quando l'arrivo dei Francesi fece cambiare la situazione,
ed obbligò il generale inglese Cornwallis, a capitolare, il 19 ottobre
1781. Fu in seguito a questo evento che l'Inghilterra acconsentì a riconoscere
l'indipendenza delle colonie, che poterono allora occuparsi della loro costituzione.
Ebbene! Quali erano allora le idee, in materia politica, degli Americani? Quali
furono i princìpi del loro governo? Un vero guazzabuglio di privilegi;
un monumento di intolleranza, di esclusione e di arbitrio, in cui brillava,
come un astro sinistro, lo spirito di aristocrazia , di regolamentazione, di
setta e di casta; che suscitò la riprovazione dei pubblicisti francesi,
ed attirò da parte loro sugli americani le osservazioni più umilianti.
Quel poco di vero liberalismo che penetrò in America in quel periodo,
fu, si può ben dire, opera della Rivoluzione francese, che sembrava preludere,
in quella terra lontana, al rinnovamento del vecchio mondo. La libertà
in America è stata fino ad oggi piuttosto un effetto dell'individualismo
anglo-sassone, lanciato in immense solitudini, che quello delle sue istituzioni
e dei suoi costumi. La guerra attuale lo dimostra anche troppo (b).
E' ancora la Rivoluzione che ha sradicato la Svizzera dai suoi vecchi pregiudizi
d'aristocrazia e di borghesia e rielaborato la sua confederazione. Nel 1801,
la costituzione della Repubblica elvetica fu rimaneggiata una prima volta; l'anno
seguente la mediazione del Primo Console, mise fine ad ogni discordia. Avrebbe
messo fine alla sua indipendenza, se la riunione della Svizzera all'Impero fosse
stata nelle mire di Napoleone. Ma disse loro: Io non voglio saperne di voi.
Dal 1814 al 1848, la Svizzera non ha cessato di essere travagliata dai suoi
elementi reazionari, tanto l'idea federativa era stata confusa con l'idea di
aristocrazia e di privilegio. Solo nel 1848, nella costituzione del 12 settembre,
furono finalmente e chiaramente posti i veri princìpi del sistema federativo.
Ma ancora questi princìpi furono così poco compresi, che si manifestò
presto una tendenza unitaria, che ebbe i suoi rappresentanti anche in seno all'assemblea
federale.
In quanto alla Confederazione germanica, tutti sanno che la vecchia struttura
fu abolita con la mediazione di Napoleone, che non fu però altrettanto
felice nel piano di restaurazione. In questo momento il sistema della confederazione
germanica è di nuovo allo studio nel pensiero dei suoi popoli ; possa
finalmente la Germania uscire infine libera e forte, da questo fermento, come
da una crisi salutare!
Nel 1789, l'esperimento del federalismo non era dunque ancora stato fatto; l'idea
non era per nulla acquisita. Il legislatore rivoluzionario non aveva alcuna
conclusione da trarre. Bisognava che quelle confederazioni, tali e quali, che
palpitavano in qualche angolo dell'antico e del nuovo mondo, animate dallo spirito
del nuovo, imparassero anzitutto a funzionare ed a definirsi, che il loro principio
fecondato sviluppandosi mostrasse la ricchezza del suo organismo; bisognava
allo stesso tempo che, sotto il nuovo regime d'uguaglianza, si facesse un ultimo
esperimento del sistema unitario. Solo a queste condizioni la Filosofia poteva
avere elementi di giudizio, la Rivoluzione trarre le sue conclusioni, e, generalizzando
l'idea, la Repubblica dei popoli uscire alla fine dal suo misticismo nella forma
concreta di una federazione di federazioni.
I fatti sembrano oggi dare ali alle idee; e noi possiamo forse, senza presunzione
né orgoglio, da un lato sradicare le masse dai loro idoli funesti, dall'altro
svelare agli uomini politici il segreto delle loro delusioni.
Note:
(a) Si è molto parlato, fra i democratici di Francia, di una confederazione
europea, in altri termini degli Stati Uniti d'Europa. Con questa designazione
non sembra si sia mai intesa cosa diversa che un'alleanza di tutti gli Stati,
grandi e piccoli, attualmente esistenti in Europa, sotto la presidenza permanente
di un congresso. E' sottinteso che ogni Stato conserverebbe la forma di governo
che gli converrebbe di più. Ora disponendo ogni Stato nel Congresso di
un numero di voti proporzionali alla sua popolazione ed al suo territorio, i
piccoli Stati si troverebbero presto, in questa pretesa confederazione, infeudati
ai grandi; inoltre, se fosse possibile che questa nuova santa alleanza potesse
essere animata da un principio di evoluzione collettiva, la si vedrebbe prontamente
degenerare, dopo un conflitto interno, in una potenza unica, o grande monarchia
europea. Una simile federazione non sarebbe dunque che un inganno o non avrebbe
alcun senso.
(b) I principi della Costituzione americana, secondo l'opinione degli uomini
perspicaci, annunciano una decadenza prematura. Turgot, amico zelante della
causa degli americani, si lamentava:
" 1.- Di ciò che gli usi degli Inglesi erano imitati senza fine
di utilità;
" 2.- Che il clero, essendo escluso dal diritto di eleggibilità,
era divenuto un corpo estraneo nello Stato, sebbene non possa in questo caso
costituire una dannosa eccezione,
" 3.- Che la Pennsylvania esigeva un giuramento religioso dei membri del
Corpo legislativo;
" 4.- Che il Jersey esigeva la fede nella divinità di Gesù
Cristo;
" 5.- Che il puritanesimo della Nuova Inghilterra era intollerante, e che
i quaccheri della Pennsylvania consideravano la professione delle armi come
illegale.
" 6.- Che nelle colonie meridionali c'era una grande ineguaglianza di fortune,
e che i Negri, sebbene liberi, formavano con i Bianchi due corpi distinti nello
stesso Stato;
" 7.- Che lo stato della società nel Connecticut era uno stato a
metà fra le nazioni selvagge e civilizzate, e che nel Massachusetts ed
il New Jersey, il più piccolo intrigo, escludeva i candidati dal numero
dei rappresentanti;
" 8.- Che parecchi inconvenienti risultavano dall'emancipazione dei negri,
" 9.- Che nessun titolo di nobiltà doveva essere conferito;
" 10.- Che il diritto di primogenitura doveva essere abolito, e la libertà
di commercio stabilita;
" 11.- Che l'estensione della giurisdizione doveva essere calcolata a seconda
della distanza dal luogo di residenza;
" 12.- Che non si era stabilita una distinzione sufficiente fra i proprietari
terrieri e quelli che non lo erano.
" 13.- Che il diritto di regolare il commercio era attribuito alla costituzione
di tutti gli Stati, ed ugualmente il diritto di divieto;
" 14.- Che non c'era alcun principio adottato per l'imposta, e che conseguentemente
ogni Stato aveva il diritto di creare le tasse a fantasia;
" 15.- Che l'America poteva fare a meno del legame con l'Europa, e che
un popolo saggio non doveva farsi sfuggire dalle mani i suoi mezzi di difesa.
"Il celebre Mirabeau trovò nella società di Cincinnato, composta
da ufficiali dell'armata della Rivoluzione, il principio delle distinzioni ereditarie.
Altre obbiezioni furono fatte da Price, Mably ed altri scrittori stranieri.
I legislatori americani hanno saputo approfittarne, modificando qualche accessorio,
ma conservando tutti i materiali dell'edificio repubblicano che, invece di degradarsi
come si era profetizzato, è migliorato col tempo e promette una lunga
durata". ( Descrizione degli Stati Uniti, di Warden, tradotto dall'inglese.
Parigi 1820; vol.5, pag. 255).
Allo stesso modo il passaggio seguente dello stesso scrittore non è meno
rivelatore: "Jefferson e quelli che agirono in concerto con lui erano persuasi
che i tentativi fatti per il benessere del genere umano, senza riguardo alle
opinioni ed ai pregiudizi, ottenevano raramente un risultato felice, e che i
miglioramenti più tangibili non dovevano essere introdotti con la forza
nella società. Non si propose dunque alcuna altra nuova misura, senza
che l'opinione pubblica fosse abbastanza matura per accoglierla".
Questa politica di Jefferson e dei suoi amici, è degna sicuramente di
tutti i nostri elogi. E' la gloria dell'uomo e del cittadino, che deve fare
sua la verità e la giustizia prima di sottomettersi alle loro leggi.
- Noi siamo tutti re, diceva il cittadino di Atene. E la Bibbia non ci ha detto
che noi eravamo degli Dei? Come re e come dei, noi non dobbiamo obbedienza che
a noi stessi. Ma non risulta di meno secondo la pubblica opinione di Jefferson
che, sotto la sua presidenza, 1801 al 1805, il popolo americano era il meno
liberale forse che ci fosse al mondo , e che, senza questa libertà negativa
che dà la rarefazione della popolazione su un territorio di una fecondità
inaudita , meglio sarebbe valso vivere sotto il dispotismo di Luigi XV o di
Napoleone che nella repubblica degli Stati Uniti.
CAPITOLO X
IDEALISMO POLITICO:
EFFICACIA DELLA GARANZIA FEDERALE
Una osservazione da fare in generale sulle scienze morali e politiche, è
che la difficoltà dei loro problemi, deriva soprattutto dal modo figurato
in cui li ha rappresentati la ragione di coloro che per primi ne hanno concepiti
gli elementi. Nell'immaginazione popolare, la politica come la morale, è
una mitologia. In essa tutto diviene finzione, simbolo, mistero, idolo. Ed è
questa idealizzazione che, adottata fiduciosamente dai filosofi come espressione
della realtà, in seguito crea loro tanti imbarazzi.
Il popolo, nel vago del suo pensiero, si contempla come una gigantesca e misteriosa
esistenza, e tutto nel suo linguaggio, sembra fatto per confermargli la convinzione
della sua indivisibile unità. Si indica come il Popolo, la Nazione, cioè
la Moltitudine, la Massa; è il vero Sovrano, il Legislatore, la Potenza,
il Dominio, la Patria, lo Stato; ha le sue Assemblee, i suoi Scrutini, le sue
Assise, le sue Manifestazioni, i suoi Pronunciamenti, i suoi Plebisciti, la
sua Legislazione diretta, talvolta i suoi Giudici e le sue Esecuzioni, i suoi
Oracoli, la sua Voce tuonante, la grande voce di Dio. Tanto più si sente
numeroso, irresistibile, immenso, tanto più ha orrore delle divisioni,
delle scissioni, delle minoranze. Il suo ideale, il suo sogno più affascinante,
è l'unità, l'identità, l'uniformità, la concentrazione;
maledice, come un attentato alla sua Maestà, tutto ciò che può
dividere la sua volontà, smembrare la sua massa, creare in lui diversità,
pluralità, divergenza.
Ogni mitologia, presuppone degli idoli, ed al Popolo non mancano mai. Come Israele
nel deserto, esso si improvvisa degli dei, quando non si ha cura di dargliene;
ha le sue incarnazioni, i suoi messia, i suoi Profeti. E' un capo guerriero
elevato sugli scudi; è il re glorioso, conquistatore e magnifico, somigliante
al sole, o ancora un tribuno rivoluzionario: Clodoveo, Carlomagno, Luigi XIV,
La Fayette, Mirabeau, Danton, Marat, Robespierre, Napoleon, Vittorio Emanuele,
Garibaldi. Quanti, pur di salire su un piedistallo, non aspettano che un cambiamento
d'opinione, o un colpo d'ala della fortuna! Di questi idoli, la maggior parte
vuoti di idee come privi di coscienza quanto lui stesso, il popolo è
entusiasta e geloso; non tollera che siano messi in discussione, e che li si
contraddica, soprattutto non nega loro il potere. Non toccate i suoi unti, o
sarete trattati da lui come sacrilego.
Pieno dei suoi miti, e considerandosi come una collettività essenzialmente
indivisa, come saprebbe il popolo concepire improvvisamente il rapporto fra
il cittadino e la società? In che modo, sotto la sua ispirazione, gli
uomini di Stato che lo rappresentano, gli darebbero la vera formula di governo?
Laddove regna nella sua ingenuità il suffragio universale, si può
tranquillamente affermare che tutto si svolgerà nel senso dell'indivisione.
Essendo il popolo la collettività che racchiude in se tutta l'autorità
e tutto il diritto, il suffragio universale per essere espressione sincera del
suo significato, dovrà per quanto possibile essere lui stesso indiviso,
cioè le elezioni dovranno essere fatte per scrutinio di lista: tant'è
che vi sono stati nel 1848 degli unitari che chiedevano una sola lista per ottantasei
dipartimenti. Da questo scrutinio indiviso nasce dunque un'assemblea indivisa,
che delibererà e legifererà come un solo uomo. In caso di disparità
di pareri, è la maggioranza che rappresenta, senza sentirsi limitata,
l'unità nazionale. Da questa maggioranza uscirà a sua volta un
governo indiviso che, derivando i suoi poteri dalla nazione indivisibile, è
chiamato a governare e ad amministrare collettivamente ed unitariamente, senza
spirito di localismo né forme di campanilismo. E' così che il
sistema di centralizzazione, di imperialismo, di comunismo, di assolutismo,
tutti questi termini sono sinonimi, scaturisce dall'idealismo popolare; è
così che nel patto sociale concepito alla maniera di Rousseau e dei giacobini,
il cittadino si dimette dalla sua sovranità, ed il comune, e sopra al
comune il dipartimento e la provincia, assorbiti nell'autorità centrale,
non sono altro che agenzie sotto la direzione immediata del ministero.
Le conseguenze non tardano a farsi sentire: privati di tutta la loro dignità
il cittadino ed il comune, le interferenze dello Stato si moltiplicano, e gli
oneri del contribuente crescono in proporzione. Non è più il governo
che è fatto per il popolo, è il popolo che è fatto per
il governo. Il Potere invade tutto, si occupa di tutto, si arroga tutto, in
perpetuo, per l'eternità, per sempre: Guerra e Marina, Amministrazione,
Giustizia, Polizia, Istruzione pubblica, opere e restauri pubblici; Banche,
Borse, Credito, Assicurazioni, Ospedali, Risparmio, Beneficenza; Foreste, Canali,
Fiumi; Culti, Finanze, Dogane, Commercio, Agricoltura, Industria, Trasporti.
Su tutto un'imposta formidabile, che toglie alla nazione un quarto del suo prodotto
lordo. Il cittadino non deve più occuparsi che di svolgere nel suo piccolo
angolo, il suo piccolo compito, ricevendo il suo piccolo salario, mantenendo
la sua piccola famiglia, e rimettendosi per tutto il resto alla Provvidenza
del governo.
Davanti a questa disposizione degli animi, nel mezzo a forze ostili alla rivoluzione,
quale poteva essere il pensiero dei fondatori dell'89, amici sinceri della libertà?
Non osando distruggere l'unità dello Stato, dovevano preoccuparsi soprattutto
di due cose: 1° di contenere il Potere, sempre pronto ad usurpare; 2°
di contenere il popolo sempre pronto a farsi trascinare dai suoi tribuni ed
a sostituire le tradizioni della legalità con quelle dell'onnipotenza.
Fino ad oggi infatti, gli autori delle costituzioni, Sieyés Mirabeu,
il Senato del 1814, la Camera del 1830, l'Assemblea del 1848, hanno creduto
non senza ragione, che il punto cruciale del sistema politico, fosse quello
di contenere il potere centrale, lasciandogli tuttavia la più grande
libertà di azione e la più grande forza. Per ottenere questo scopo,
che cosa si fece? Anzitutto si divise, come è stato detto, il Potere
per categorie di ministeri; poi si distribuì l'autorità legislativa
fra la monarchia e le Camere, alla cui maggioranza si subordinava ancora la
scelta che il principe doveva fare dei ministri. Infine si votava l'imposta,
per un anno, da parte delle Camere, che coglievano questa occasione per revisionare
tutti gli atti del governo.
Ma mentre si organizzava il sistema parlamentare delle Camere contro il potere
dei ministri, e si bilanciava la prerogativa reale, concedendo iniziativa ai
suoi rappresentanti, e l'autorità della corona con la sovranità
della nazione; mentre si opponevano parole a parole, finzioni a finzioni, si
attribuiva al governo senza riserva alcuna, senza altro contrappeso che una
vana facoltà di critica, la prerogativa di una immensa amministrazione;
si mettevano nelle sue mani tutte le forze del paese; si sopprimevano, per maggior
sicurezza, le libertà locali; si annientava con uno zelo frenetico lo
spirito campanilistico; si creava infine una potenza formidabile, schiacciante,
alla quale poi ci si compiaceva di fare una guerra di furbizie, come se la realtà
potesse essere sensibile alle personalità. Dove si arrivava con ciò?
L'opposizione finiva per avere ragione delle persone: i ministeri cadevano gli
uni dopo gli altri; si rovesciava una dinastia, poi una seconda; si sostituiva
un impero alla repubblica, ed il dispotismo accentratore, anonimo, non cessava
di ingrandirsi, la libertà di diminuire. Tale è stato il nostro
progresso dopo la vittoria dei Giacobini sui Girondini. Il risultato inevitabile
di un sistema artificioso, dove si metteva da un lato la sovranità metafisica
ed il diritto alla critica, dall'altro tutte le realtà della nazione
e tutte le potenzialità di un grande popolo.
Nel sistema federativo, simili pericoli non esisterebbero. L'autorità
centrale, promotrice piuttosto che esecutrice, non dispone che di una parte
assai limitata dell'amministrazione pubblica, quella che concerne i soli servizi
federali; essa è posta sotto il controllo degli Stati, padroni assoluti
di se stessi, che godono, per tutto ciò che li concerne rispettivamente,
della più completa autorità, legislativa, esecutiva e giudiziaria.
Il Potere centrale è tanto meglio subordinato, in quanto è affidato
ad una Assemblea formata dai delegati degli Stati, membri essi stessi, soventemente,
dei loro rispettivi governi e che, per questa ragione, esercitano sugli Atti
dell'Assemblea federale una sorveglianza tanto più curata e severa.
Per contenere le masse, i pubblicisti incontrano notevole imbarazzo; i metodi
da loro impiegati, del tutto illusori, ed il risultato altrettanto infelice.
Il popolo è uno dei poteri dello Stato, le cui esplosioni sono le più
terribili. Questo potere ha bisogno di un contrappeso: la stessa democrazia
è obbligata a convenirne, poiché è l'assenza di questo
contro potere che, liberando il popolo dalle eccitazioni più pericolose,
esponendo lo Stato alle più formidabili insurrezioni, ha per due volte
fatto cadere la repubblica in Francia.
Si è creduto di trovare il contrappeso all'azione delle masse, in due
istituzioni; l'una fortemente onerosa per il paese e piena di pericoli; l'altra
non meno dannosa soprattutto sgradita alla coscienza pubblica: esse sono, 1°
l'esercito permanente, 2° la restrizione del diritto di suffragio. Dal 1848
il suffragio universale è divenuto legge dello Stato: ma il pericolo
dell'agitazione popolare, che si è ingrandito in proporzione, ha reso
necessario potenziare l'esercito, e dare più vigore all'azione militare.
Così per garantirsi dall'insurrezione popolare si è obbligati,
nel sistema dei fondatori dell'89, ad aumentare la forza del Potere al momento
stesso in cui d'altra parte, si prendono delle precauzioni contro di esso. Sicché
il giorno in cui il Potere ed il popolo si tenderanno la mano, tutta questa
impalcatura crollerà. Strano sistema, in cui il popolo non può
esercitare la sovranità senza correre il pericolo di far cadere il governo,
né il governo usare la sua prerogativa senza marciare verso l'assolutismo!
Il sistema federativo invece taglia corto all'effervescenza della masse, a tutte
le ambizioni ed alle eccitazioni della demagogia: è la fine del regime
della piazza pubblica, dei trionfi dei tribuni, come dell'assorbimento delle
capitali. A che serve che Parigi faccia, nella cinta delle sue mura, le rivoluzioni:
se Lione, Marsiglia, Tolosa, Bordeaux, Nantes, Rouen, Lilla, Strasburgo, Digione
ecc., se i dipartimenti padroni di se stessi non la seguono? Parigi stessa ne
farà le spese..... La federazione diventa così la salvezza del
popolo: poiché dividendolo essa lo salva e lo preserva dalla tirannia
dei suoi capi e dalla sua propria follia.
La costituzione del 1848, togliendo da una parte al Presidente della repubblica
il comando dell'esercito, dall'altra dichiarandosi essa stessa riformabile e
progressiva, aveva tentato di scongiurare questo doppio pericolo dell'usurpazione
del potere e dell'insurrezione popolare. Ma la costituzione del 48 non diceva
in cosa consistesse il progresso, a quali condizioni potesse realizzarsi. Nel
sistema che essa aveva fondato, la distinzione delle classi, borghesia e popolo,
sussisteva sempre: lo si era visto al momento della discussione sul diritto
al lavoro e della legge del 31 maggio, restrittiva del suffragio universale.
Il pregiudizio unitario, era vivo come mai; Parigi dava il tono, l'idea, la
volontà ai dipartimenti, era facile capire che in caso di conflitto fra
il Presidente e l'Assemblea, il popolo avrebbe seguito il suo eletto piuttosto
che i suoi rappresentanti. L'avvenimento ha confermato queste previsioni. La
giornata del due Dicembre, ha dimostrato quanto valgono le garanzie puramente
legali, contro un Potere che ha il favore popolare unito alla potenza dell'amministrazione,
ed ha anche una sua parte di diritto. Ma se, per esempio, contemporaneamente
alla costituzione repubblicana del 1848, fosse stata prevista e messa in vigore
l'organizzazione municipale e dipartimentale; se le province avessero preso
a vivere di vita propria; se esse avessero avuto la loro fetta di potere esecutivo,
se la moltitudine inerte del 2 dicembre avesse avuto nello Stato qualcosa di
più del semplice scrutinio dei voti, certamente il colpo di Stato sarebbe
stato impossibile. Trovandosi il campo di battaglia limitato fra l'Eliseo e
palazzo Borbone, l'alzata di scudi del potere esecutivo, avrebbe trascinato
dietro di se tutt'al più la guarnigione di Parigi, ed il personale dei
ministeri (a).
Non voglio terminare questo paragrafo, senza aver citato le parole di uno scrittore
di cui il pubblico ha potuto apprezzare qualche volta, nel Corriere della domenica,
il senso di moderazione e la profondità, M. Gustavo Chaudey, avvocato
della Corte di Parigi. Esse serviranno a far comprendere che la federazione
non è per niente una vana utopia, ma un sistema attualmente in pratica
e la cui vivida idea, si sviluppa quotidianamente:
L'ideale di una confederazione sarebbe il patto di alleanza di cui si potesse
dire che apporta alle sovranità particolari degli Stati federati, solo
delle restrizioni che diventeranno, nelle mani dell'autorità federale,
delle estensioni di garanzia per la libertà dei cittadini, ed in una
accresciuta protezione della loro attività individuale e collettiva.
Con ciò già si capisce l'enorme differenza che esiste tra un'autorità
federale e un governo unitario, cioè un governo che rappresenta un'unica
sovranità.
La definizione di M. Chaudey è la più perfetta e ciò che
egli chiama ideale, non è altro che la formula imposta dalla logica più
rigorosa. Nella federazione, la centralizzazione è limitata a certi oggetti
speciali sottratti alla sovranità cantonale e che si presume debbano
poi ritornarvici, per cui essa è parziale; nel governo unitario, al contrario,
la centralizzazione si estende a tutto e non restituisce mai niente, è
UNIVERSALE. La conseguenza è facile da prevedere:
La centralizzazione, prosegue M. Chaudey, nel governo unitario, è una
forza immensa a disposizione del potere, il cui impiego, in un senso o nell'altro,
dipende unicamente dalle diverse volontà personali che lo esprimono.
Cambiate le condizioni di questo potere e cambierete le condizioni della centralizzazione.
Liberale oggi con un governo liberale, diverrà domani un formidabile
strumento di usurpazione in mano ad un potere usurpatore; e dopo l'usurpazione,
uno strumento formidabile di dispotismo; senza contare che per questa stessa
ragione, essa è una tentazione perpetua per il potere, una minaccia continua
per la libertà dei cittadini. Sotto l'urto di una simile forza, non vi
è più alcun diritto individuale e collettivo che può essere
sicuro del domani. In queste condizioni, la centralizzazione potrebbe chiamarsi
il disarmo di una nazione a vantaggio del proprio governo, e la libertà
è condannata ad una lotta incessante contro la forza.
E' il contrario di ciò che ha luogo con la centralizzazione federale.
Essa invece di fornire al potere la forza del TUTTO contro la parte, arma la
parte con la forza del tutto, contro gli abusi del suo stesso potere. Un cantone
svizzero la cui libertà fosse minacciata dal suo governo, al posto della
sua sola forza, può opporgli la forza di ventidue cantoni: questo non
compensa forse i cantoni della rinuncia al diritto di ribellarsi, fatta con
la nuova Costituzione del 1848 ?
La legge del progresso, essenziale per le Costituzioni federali, impossibile
da applicare con una Costituzione unitaria, non è meno ben conosciuta
dallo scrittore che io cito:
La Costituzione federale del 1848 riconosce alle Costituzioni cantonali il diritto
di revisionarsi e di modificarsi; ma pone una doppia condizione: vuole che i
cambiamenti siano fatti secondo le regole stabilite dalle Costituzioni dei rispettivi
cantoni, ed in più questi cambiamenti devono esprimere dei progressi
e non dei regressi. Essa vuole che un popolo modifichi la sua Costituzione per
avanzare, non per arretrare....Essa dice ai popoli svizzeri: se non è
per aumentare le vostre libertà che volete cambiare le vostre istituzioni,
significa che siete appena degni di ciò che avete: rispettatele. Ma se
invece è per aumentare le vostre libertà, ciò significa
che siete degni di andare avanti: allora procedete sotto la protezione di tutta
la Svizzera.
L'idea di garantire ed assicurare una Costituzione politica, pressappoco come
si assicura una casa contro l'incendio o un campo contro la grandine, è
in effetti l'idea capitale e certamente la più originale del sistema.
I nostri legislatori del 91, 93, 95, 99, 1814, 1830 e 1848, non hanno saputo
invocare in favore delle loro costituzioni, che il patriottismo dei cittadini
e la devozione delle guardie nazionali; la Costituzione del 93 è arrivata
fino alla chiamata alle armi ed al diritto di insurrezione. L'esperienza ha
dimostrato quanto simili garanzie siano illusorie. La Costituzione del 1852,
simile a quella del Consolato e del primo impero, non è garantita da
niente; e non sarò io che gli farò delle critiche. Quale garanzia
potrebbe invocare al di fuori del contratto federativo? .... Tutto il mistero
consiste tuttavia nel dividere la nazione in province indipendenti, sovrane,
o che per lo meno, amministrandosi da se, dispongano di una forza, di una iniziativa
e di una autorità sufficiente ed a fare si che siano garantite le une
dalle altre (b).
Un'eccellente applicazione di questi principi, si trova nella costituzione dell'esercito
svizzero:
La crescita della capacità difensiva si trova dovunque, dice M Chaudey,
il pericolo d'oppressione da nessuna parte. Passando sotto la bandiera federale
i contingenti cantonali, non dimenticano la terra dei padri: anzi è perché
la patria gli ordina di servire la confederazione che essi obbediscono. Come
potrebbero i cantoni temere che i loro soldati divengano gli strumenti di una
cospirazione unitaria contro di essi ? Non è certamente lo stesso per
gli altri Stati dell'Europa, dove il soldato è preso dal popolo per esserne
allontanato e divenire corpo ed anima strumento di governo (c).
Lo stesso spirito domina nella costituzione americana, alla quale si può
rimproverare tuttavia di aver moltiplicato oltre misura le attribuzioni dell'autorità
federale. I poteri attribuiti al presidente americano sono estesi quasi quanto
quelli accordati a Luigi Napoleone dalla Costituzione del 1848: questo eccesso
di attribuzioni, non è stato estraneo al progetto di assorbimento unitario
che si è manifestato negli Stati del Sud, e che oggi coinvolge a loro
volta anche quelli del Nord.
L'idea di federazione è certamente la più alta a cui si sia elevato
fino ai nostri giorni il pensiero politico. Essa sorpassa di gran lunga le costituzioni
francesi promulgate da settanta anni ispirate dalla Rivoluzione, e la cui breve
durata, fa poco onore al nostro paese. Essa risolve tutte le difficoltà
che solleva l'accordo della Libertà con l'Autorità. Con essa non
abbiamo più da temere di impantanarci nelle antinomie dei governi di
fatto; di vedere la plebe emanciparsi proclamando una dittatura perpetua, la
borghesia manifestare il suo liberalismo potenziando la centralizzazione ad
oltranza, lo spirito pubblico corrompersi in questo abuso di permissività
che si accoppia con il dispotismo, il potere tornare senza tregua nelle mani
degli intriganti, come li chiamava Robespierre, e la Rivoluzione, per usare
l'espressione di Danton, restare sempre in mano ai più scellerati. L'eterna
ragione è infine giustificata, lo scetticismo vinto. Non si accuserà
più delle disgrazie umane la debolezza della natura, l'ironia della Provvidenza
o la contraddizione dello Spirito; l'opposizione dei princìpi sarà
infine considerata come la condizione dell'equilibrio universale.
Note:
(a) Alcuni si sono immaginati che, senza il voto del 24 novembre 1851, che dette
ragione alla Presidenza contro la destra ed assicurò il successo del
colpo di Stato, la repubblica sarebbe stata salvata. Si è molto parlato,
in questa occasione, contro i membri della Montagna che si erano pronunciati
contro la destra. Ma è evidente, in base alla legge delle contraddizioni
politiche ( vedere i cap. VI e VII ) e dopo i fatti, che se la Presidenza fosse
stata sconfitta, essendosi astenuto il popolo, il principio borghese avrebbe
prevalso, la repubblica unitaria si sarebbe trasformata senza la minima difficoltà
in monarchia costituzionale, ed il paese sarebbe tornato, non allo Statu quo
del 1848, ma ad un regime forse più rigoroso di quello del 2 dicembre,
poiché ad una forza almeno uguale nel governo avrebbe unito, per la preponderanza
decisiva della classe media e la restrizione già effettuata a metà
del diritto di suffragio, la decadenza meritata delle masse.
(b) Costituzione federale svizzera del 1848, articolo 6: " la garanzia
della confederazione è accordata alle costituzioni cantonali, a condizione:
a) che esse non contengano disposizioni contrarie a quelle della costituzione
federale; b) che esse assicurino l'esercizio dei diritti politici nelle forme
repubblicane, rappresentative o democratiche; c) che esse siano state accettate
dal popolo e che possano essere revisionate, quando lo richieda la maggioranza
assoluta dei cittadini ".
(c) Le Républicain Neuchatelois, 19 e 31 agosto, 1° settembre 1852.
CAPITOLO XI
SANZIONE ECONOMICA
FEDERAZIONE AGRICOLO- INDUSTRIALE
Tuttavia non è ancora stato detto tutto. Per irreprensibile che sia nella
sua logica, qualunque siano le garanzie che essa offre nell' applicazione, la
costituzione federale sopravviverà solo se non incontrerà nell'economia
pubblica le cause incessanti di dissoluzione. In altri termini, il diritto politico
deve avere il sostegno del diritto economico. Se la produzione e la distribuzione
della ricchezza sono lasciate al caso; se l'ordine federale non serve che a
proteggere l'anarchia capitalista e mercantile; se, per effetto di questa falsa
anarchia, la Società si trova divisa in due classi, l'una di proprietari-
capitalisti- imprenditori, l'altra di proprietari salariati; l'una di ricchi,
l'altra di poveri, l'edificio politico sarà sempre instabile. La classe
operaia più numerosa e più povera, finirà per vedervi solo
un inganno; i lavoratori si coalizzeranno contro i borghesi, che da parte loro
si coalizzeranno contro gli operai; e si vedrà la confederazione degenerare,
se il popolo è più forte, in una democrazia unitaria, se trionfa
la borghesia, in monarchia costituzionale.
E' in previsione di questa eventualità di una guerra civile che si sono
costituiti, come abbiamo detto nel capitolo precedente, i governi forti, oggetto
di ammirazione dei pubblicisti; agli occhi dei quali le confederazioni sembrano
delle bicocche incapaci di sostenere il Potere contro l'aggressione delle masse,
cioè gli abusi del governo contro i diritti della nazione. Poiché
ancora una volta, per non ingannarci, ogni potere è stabilito, ogni piazzaforte
costruita, tutto l'esercito organizzato per combattere contro i pericoli interni
come contro quelli esterni. Se la missione dello Stato è quella di rendersi
padrone assoluto della società, ed il destino del popolo di servire da
strumento per le sue imprese, bisogna riconoscere che il sistema federativo
non può essere messo a confronto col sistema unitario. Nel primo, né
il potere centrale per la sua dipendenza da quelli periferici, né la
moltitudine che è divisa, possono molto contro la libertà pubblica.
Gli Svizzeri dopo le loro vittorie su Carlo il Temerario, furono per lungo tempo
la prima potenza militare in Europa. Ma, poiché essi formavano una confederazione,
capace di difendersi contro lo straniero, essa l'ha provato, ma inadatta alla
conquista ed ai colpi di Stato, sono rimasti una repubblica pacifica, il più
inoffensivo ed il meno intraprendente degli Stati. La Confederazione germanica
ha avuto anch'essa, sotto il nome7 di impero, i suoi secoli di gloria, ma poiché
la potenza imperiale mancava di stabilità e di un centro, la confederazione
è stata smembrata e la nazionalità compromessa. A sua volta la
Confederazione dei Paesi Bassi è svanita a contatto con le potenze centralizzate:
è inutile menzionare la Confederazione italiana. Si, certo, se la civiltà,
se l'economia delle società dovesse mantenere lo statu quo antico, vedrei
meglio per i popoli l'unità imperiale che la federazione.
Ma tutto annuncia che i tempi sono cambiati, e che dopo la rivoluzione delle
idee deve arrivare, come conseguenza legittima, la rivoluzione degli interessi.
Il ventesimo secolo aprirà l'era delle federazioni (a), oppure l'umanità
ricomincerà un purgatorio di mille anni. Il vero problema da risolvere,
in realtà, non è il problema politico, è il problema economico.
E' per trovare una soluzione ad esso che i miei amici ed io proponemmo nel 1848,
di proseguire l'opera rivoluzionaria di febbraio. La democrazia era al potere;
il governo provvisorio non aveva che da agire per ottenere il successo. Una
volta fatta la rivoluzione nella sfera del lavoro e della ricchezza, non ci
doveva essere nessun motivo di preoccupazione per quella da operare in seguito
nel governo. La centralizzazione che ebbe a dissolversi più tardi, sarebbe
stata in quel momento di grande aiuto. Nessuno d'altra parte a quell'epoca,
eccetto chi scrive e che dal 1890 si era dichiarato anarchico, si sognava di
attaccare l'unità ed a chiedere la federazione.
Il pregiudizio democratico, ha deciso diversamente. I politici della vecchia
scuola sostennero e sostengono ancora oggi, che la strada giusta da seguire,
in fatto di rivoluzione sociale, è quella di cominciare dal governo,
salvo in seguito di occuparsi, con comodo, del lavoro e della proprietà.
Il rifiuto della democrazia, dopo aver soppiantato la borghesia e cacciato il
principe, ha determinato quello che è accaduto. L'impero è venuto
ad imporre il silenzio a quelli che parlavano senza idee; la rivoluzione economica
si è fatta in senso inverso alle aspirazioni del 1848, e la libertà
è stata compromessa.
Non è il caso che io presenti, a proposito di federazione, un quadro
della scienza economica ed illustri dettagliatamente tutto ciò che ci
sarebbe da fare secondo questo ordine di idee. Dico semplicemente che il governo
federale, dopo aver riformato l'ordine politico, deve affrontare per complemento
necessario una serie di riforme che agiscano nell'ordine economico: ecco in
due parole in cosa consistono queste riforme.
Come dal punto di vista politico due o più Stati indipendenti possono
confederarsi per garantire la reciproca integrità territoriale o per
la protezione delle loro libertà; così dal punto di vista economico
possono confederarsi per la protezione reciproca del commercio e dell'industria,
con ciò che si chiama unione doganale; ci si può confederare per
la costruzione ed il mantenimento delle vie di comunicazione, strade, canali,
ferrovie, per l'organizzazione del credito e dell'assicurazione, ecc.. Lo scopo
di queste federazioni particolari è quello di sottrarre i cittadini degli
Stati contraenti allo sfruttamento capitalista e bancocratico sia interno che
esterno; esse formano nel loro insieme un'opposizione al feudalesimo finanziario
oggi dominante, ciò che io chiamerò federazione agricolo-industriale.
Non entrerò al riguardo in alcuna trattazione. Il pubblico, che più
o meno da quindici anni ha seguito i miei lavori, sa ciò che voglio dire.
Il feudalesimo finanziario ed industriale ha per scopo di consacrare, attraverso
il monopolio dei servizi pubblici, il privilegio dell'istruzione, la parcellizzazione
del lavoro, l'interesse dei capitali, l'ineguaglianze delle imposte ecc., la
debolezza politica delle masse, la servitù economica o salariato, in
una parola, l'ineguaglianza delle condizioni e delle ricchezze. La federazione
agricolo-industriale, al contrario, tende ad avvicinare sempre più l'uguaglianza
organizzando a costi più bassi ed in altre mani che non siano quelle
dello Stato, tutti i servizi pubblici; con la liberalizzazione del credito e
dell'assicurazione, con la perequazione dell'imposta, con la garanzia del lavoro
e dell'istruzione, per mezzo di una combinazione del lavoro che permetta ad
ogni lavoratore di divenire da semplice operaio, industriale o artigiano, e
da salariato, proprietario.
Una simile rivoluzione non potrebbe evidentemente essere opera né di
una monarchia borghese, né di una democrazia unitaria; essa è
compito di una federazione. Non rientra nel contratto unilaterale o di beneficenza,
né nelle istituzioni di carità; è propria del contratto
sinallagmatico e commutativo (b).
Considerata in se stessa, l'idea di una federazione industriale, che serva di
complemento e di ratifica alla federazione politica, riceve la conferma più
evidente dai principi dell'economia. E' l'applicazione sulla più alta
scala dei principi di mutualità, di divisione del lavoro e di solidarietà
economica, che la volontà del popolo trasformerebbe in legge dello Stato.
Che il lavoro resti libero; che il potere, più mortale per il lavoro
che il comunismo stesso, si astenga dal toccarlo: finalmente. Ma le industrie
sono sorelle, sono legate le une alle altre; l'una non può soffrire senza
che l'altra ne risenta. Che si federino dunque, non per assorbirsi e fondersi,
ma per garantirsi reciproche condizioni di prosperità a loro comuni e
di cui nessuno può arrogarsi il monopolio. Formando un tale patto, esse
non potranno più attentare alla loro libertà; gli daranno solo
più certezza e più forza. Sarà per esse come è per
i poteri dello Stato, e per gli organi di un animale, in cui la potenza e l'armonia
sono il risultato della separazione.
Così, fatto ammirevole, la zoologia, l'economia politica e la politica
si trovano qui d'accordo per dimostrarci: la prima, che l'animale più
perfetto, con gli organi più efficienti e di conseguenza il più
attivo, il più intelligente, il meglio organizzato per dominare, è
quello le cui facoltà ed i cui organi sono meglio specializzati, ben
rapportati e coordinati;- la seconda, che la società più produttiva,
più ricca, la meglio assicurata dall'ipertrofia e dal pauperismo, è
quella in cui il lavoro è meglio diviso, la concorrenza più aperta,
lo scambio più leale, la circolazione più regolare, il salario
il più giusto, la proprietà la più legale, tutte le industrie
garantite reciprocamente;- la terza, infine, che il governo più libero
e morale, è quello in cui i poteri sono meglio divisi, l'amministrazione
la meglio ripartita, l'indipendenza dei gruppi la più rispettata, le
autorità provinciali, cantonali, municipali, le meglio servite dall'autorità
centrale, è questo in una parola il governo federativo.
Riassumendo, come il principio monarchico o di autorità ha per primo
corollario l'assimilazione o l'incorporazione dei gruppi che si annette, in
altri termini la centralizzazione amministrativa, che si potrebbe anche definire
comunanza delle funzioni politiche; per secondo corollario, l'indivisione del
potere, altrimenti detto assolutismo; per terzo corollario, il feudalesimo terriero
ed industriale;- così il principio federativo, liberale per eccellenza,
ha per primo corollario l'indipendenza amministrativa dei gruppi aggregati;
per secondo corollario la separazione dei poteri in ogni Stato sovrano; per
terzo corollario, la federazione agricolo-industriale.
In una repubblica costituita su tali fondamenti, si può dire che la libertà
sia elevata alla terza potenza, l'autorità ridotta alla sua radice cubica.
La prima, in effetti, cresce con lo Stato, in altri termini si moltiplica con
le federazioni; la seconda subordinata di grado in grado si ritrova intera solo
nella famiglia, dove è temperata dal duplice amore matrimoniale e paterno.
Senza dubbio la conoscenza di queste grandi leggi non poteva acquisirsi che
attraverso una lunga e dolorosa esperienza; può anche essere che prima
di pervenire alla libertà, la nostra specie avesse bisogno di passare
per le forche della servitù. Ad ogni età il suo ideale, ad ogni
epoca le sue istituzioni.
Adesso i tempi sono maturi. L'Europa intera chiede la pace ed il disarmo. E
come se fosse riservata a noi la gloria di una così grande realizzazione,
è verso la Francia che si rivolgono le speranze; è dalla nostra
nazione che si attende il segnale della felicità universale.
I principi ed i re, a prenderli in senso tradizionale, sono anticaglie: già
li abbiamo costituzionalizzati; si avvicina il giorno in cui non ci saranno
che presidenti federali.
Allora tutto sarà finito per le aristocrazie, per le democrazie, e per
tutte le crazie, che sono la cancrena della nazione, spauracchi della libertà.
Questa democrazia che si crede liberale e che non sa che gettare l'anatema contro
il federalismo ed il socialismo, come nel 1793 fecero i loro padri , ha almeno
l'idea della libertà?.... Ma a tutto deve esserci un limite. Ecco che
noi cominciamo a parlare di patto federale; suppongo di non sopravvalutare l'ebetismo
della presente generazione, con l'assegnare il restauro della giustizia al cataclisma
che la spazzerà via.
Quanto a me, cui una certa stampa ha cominciato a soffocare la parola, ora con
un silenzio calcolato, ora con un travisamento o l'ingiuria, posso gettare questa
sfida ai miei avversari:
Tutte le mie idee economiche, elaborate per venticinque anni, possono riassumersi
in tre parole: Federazione agricolo- industriale.
Tutti le mie concezioni politiche si riducono ad una formula analoga: Federazione
politica o Decentralizzazione.
E come non faccio delle mie idee uno strumento di partito, né un motivo
di ambizione personale, tutte le mie speranze presenti o e future, sono espresse
con questo terzo termine corollario degli altri due: Federazione progressiva.
Sfido chiunque a fare una professione di fede, più netta, di portata
più vasta, e nello stesso tempo della più grande moderazione.
Vado più lontano, sfido tutti gli amici della libertà e del diritto
a metterla in discussione.
Note:
(a) Ho scritto in qualche luogo ( Della Giustizia nella Rivoluzione e nella
Chiesa 46 4° vol. , ed. belga, nota) che l'anno 1814 aveva aperto l'era
delle costituzioni in Europa. La mania di contraddire ha fatto fischiare questa
proposizione da gente che, mischiando a casaccio, nelle loro quotidiane divagazioni,
storia e politica, affari ed intrighi, ignorano perfino la cronologia del loro
secolo. Ma non è questo che in questo momento mi interessa. L'era delle
costituzioni, molto reale e perfettamente chiamata, ha il suo analogo nell'era
attica, indicata da Augusto, dopo la vittoria da lui riportata su Antonio ad
Actium, e che coincide con l'anno 30 avanti Gesù Cristo. Queste due ere,
l'era attica e l'era delle costituzioni, hanno in comune che indicavano un rinnovamento
generale, in politica, economia politica, diritto pubblico, libertà e
socievolezza generale: Entrambe inauguravano un periodo di pace, tutte e due
testimoniavano della coscienza che avevano i contemporanei della rivoluzione
generale che si operava, e della volontà dei capi delle nazioni di concorrervi.
Tuttavia l'era attica disonorata per l'orgia imperiale, è caduta nell'oblio;
essa è stata completamente cancellata dall'era cristiana, che servì
a segnare, in un modo altrettanto grandioso, morale e popolare, lo stesso rinnovamento.
Non sarà diversamente per l'era detta costituzionale: essa sparirà
a sua volta davanti all'era federativa e sociale, la cui idea profonda e popolare
deve abrogare l'idea borghese e moderatrice del 1814.
(b) Un semplice calcolo lo metterà in evidenza. L'istruzione media da
impartire ai due sessi, in uno Stato libero, non può abbracciare un periodo
inferiore ai dieci, dodici anni, il che comprende pressappoco un quinto della
popolazione totale, sia, in Francia, sette milioni e mezzo di individui, ragazzi
e ragazze, su trentotto milioni di abitanti. Nei paesi in cui i matrimoni producono
più bambini, come in America, questa proporzione è ancora più
considerevole. Sono dunque sette milioni e mezzo di individui dei due sessi
ai quali si tratta di dare, in misura accettabile, ma che non avrebbe comunque
nulla di aristocratico, l'istruzione letteraria, scientifica, morale e professionale.
Ora, qual'è in Francia il numero di individui che frequentano le scuole
secondarie e superiori ? Centoventisettemilaquattrocentosettantaquattro, secondo
la statistica del Guillard. Tutti gli altri sette milioni trecentosettantacinquemilacentoventicinque,
sono condannati a non superare mai la scuola primaria. Ma è necessario
che tutti frequentino: i comitati di reclutamento registrano ogni anno un numero
crescente di analfabeti. Che cosa farebbero, mi chiedo, i nostri governanti
se dovessero risolvere questo problema di dare un'istruzione media a settemilionitrecentosettantacinquemilacentoventicinque
individui, oltre i centoventisettemilaquattro centosettantaquattro che già
occupano le scuole? Che cosa possono fare qui, il patto unilaterale ed il contratto
di beneficenza di un Impero paternalistico e le fondazioni caritatevoli della
Chiesa, ed i consigli di previdenza di Malthus, e le speranze del libero scambio?
Tutti gli stessi comitati di salute pubblica, con il loro vigore rivoluzionario
non riuscirebbero. Simile compito può essere assolto solo per mezzo di
una combinazione fra apprendistato e l'istruzione scolastica che faccia di ogni
allievo un produttore: ciò che presuppone una federazione universale.
Non conosco problema più scottante di questo per la vecchia politica.
FINE