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LA CONCEZIONE TEOLOGICA DELLA STORIA.
Cos'è la filosofia o concezione teologica della storia?
Tale concezione è la più primitiva ed è intimamente legata
ai primi sforzi compiuti dal pensiero umano per rendersi conto del mondo esterno.
In effetti la concezione più semplice che l'uomo possa farsi della natura
è quella di vedervi non dei fenomeni dipendenti gli uni dagli altri e
sottoposti a leggi immutabili, ma degli eventi prodotti dall'azione di una o
più volontà simili alla sua. Il filosofo francese Guyau dice,
in uno dei suoi libri, che un fanciullo in sua presenza trattava la luna da
cattiva perché non voleva mostrarsi; quel fanciullo considerava la luna
come un essere animato e l'uomo primitivo, similmente a quel fanciullo, anima
tutta la natura. L'animismo è la prima fase dello sviluppo del pensiero
religioso, e il primo passo della scienza consiste nello scartare la spiegazione
animistica degli eventi della natura e di concepirli come fenomeni sottoposti
a leggi. Mentre un fanciullo crede che la luna non si mostri perché è
cattiva, un astronomo ci spiega l'insieme delle condizioni naturali che, in
un dato momento, ci permettono o ci impediscono dì vedere questo o quell'astro.
Ora, mentre nella spiegazione della natura i progressi della scienza sono stati
relativamente rapidi, la scienza della società umana e della sua storia
avanzava solo con molta più lentezza. Si ammetteva la spiegazione animistica
degli avvenimenti storici in epoche in cui già ci si prendeva gioco della
spiegazione animistica dei fenomeni della natura.
In società spesso assai progredite si trovava del tutto normale spiegare
il movimento storico dell'umanità come la manifestazione della volontà
di una o più divinità. La storia spiegata attraverso l'azione
della divinità costituisce ciò che noi chiamiamo la concezione
teologica della storia.
Per fornirvi due esempi di questa concezione tratteggerò ora la filosofia
della storia di due uomini celebri: sant'Agostino, vescovo di Ippona, e Bossuet,
vescovo di Meaux.
Sant'Agostino prospetta gli avvenimenti storici come sottoposti alla Provvidenza
divina e, quel che è peggio, egli è persuaso che non li si possa
prospettare altrimenti.
« Considerate questo Dio vero e sovrano — egli dice — questo
Dio unico e onnipotente, autore e creatore di tutte le anime e di tutti i corpi
... che ha fatto dell'uomo un animale razionale composto di corpo e anima, questo
Dio principio di ogni norma, di ogni bellezza, di ogni ordine, che a ogni cosa
dà numero peso e misura, da cui deriva ogni produzione naturale, quali
che siano il genere e il prezzo, e domando se si .può credere che questo
Dio abbia sopportato che gli Imperi della terra, il loro dominio e la loro servitù
restassero estranei alle leggi della Provvidenza » (La Città di
Dio, trad. di Emile Saisset, libro V, cap. XI, pp. 292-293).
Sant'Agostino non abbandona questo punto di vista generale in nessuna delle
sue spiegazioni storiche.
Quando si tratta di spiegare la grandezza dei romani, il vescovo di Ippona ci
racconta con innumerevoli dettagli come essa entrasse nei disegni della Divinità:
« Dopo che per un lungo seguito di anni i reami di Oriente ebbero rifulso
sulla terra, Dio volle che l'impero d'Occidente, ultimo in ordine di tempo,
divenisse superiore ad ogni altro per la sua grandezza ed estensione; e poiché
aveva come disegno di servirsi di questo Impero per castigare un gran numero
di nazioni, lo affidò ad uomini appassionati di lode e d'onore, che riponessero
la gloria in quella della patria e fossero sempre pronti a sacrificarsi per
la sua salvezza, trionfando così sulla propria cupidigia e su tutti gli
altri vizi con questo vizio unico: l'amore della gloria. Poiché non bisogna
asconderselo, l'amore della gloria è un vizio ... ecc. » (p. 301).
Quando si tratta di spiegare la prosperità di Costantino, primo imperatore
cristiano, la volontà divina elimina ogni difficoltà:
« Il buon Dio — ci dice sant'Agostino — per impedire la persuasione,
in quelli che l'adorano, che fosse impossibile ottenere i reami e le grandezze
della terra senza l'onnipotente favore dei demoni, ha voluto favorire l'imperatore
Costantino che, lungi dall'aver fatto ricorso alle false divinità, adorava
solo il vero Dio, e colmarlo di beni più grandi di quelli cui altri non
avrebbero osato neanche aspirare » (t. I, pp. 328-329).
Quando infine si tratta di sapere perché una guerra durava più
a lungo di un'altra, sant'Agostino ci dirà che questa era la. volontà
di Dio:
« Come dipende da Dio consolare gli uomini secondo i consigli della giustizia
e della sua misericordia, così è ancora lui che regola i tempi
delle guerre, che le abbrevia o le prolunga a suo piacimento » (t. I,
p. 323).
Come vedete, sant'Agostino resta sempre fedele al suo principio
fondamentale. Disgraziatamente non basta essere fedeli ad un principio dato
per trovare la giusta spiegazione dei fenomeni. Bisogna innanzitutto che il
filosofo della storia studi accuratamente tutti i fatti che hanno preceduto
e accompagnato il fenomeno che cerca di spiegare. Il principio fondamentale
non può e non deve mai servire che da filo conduttore nell'analisi della
realtà storica. Ora la teoria di sant'Agostino è insufficiente
sotto i due rispetti indicati; come metodo di analisi della realtà storica
non sussiste e quanto al suo principio fondamentale vi prego di osservare questo:
sant'Agostino parla di quelle che chiama le leggi della Provvidenza con tanta
convinzione e con tanti dettagli che leggendolo ci si domanda se egli non sia
stato l'intimo confidente del suo Dio. E lo stesso autore, con la stessa convinzione,
con la stessa fedeltà al suo principio fondamentale, e nella medesima
opera, ci dice che le vie del Signore sono imperscrutabili. Ma se è così,
perché assumersi il compito necessariamente ingrato e sterile di sondarle?
E perché indicarci queste imperscrutabili vie come una spiegazione degli
avvenimenti della vita umana? La contraddizione è tangibile, e dato che
è tangibile, si ha un bell'aver la fede fervente e incrollabile, si è
obbligati a rinunciare all'interpretazione teologica della storia se ci si attiene,
per poco che sia, alla logica e se non si vuole pretendere che l'imperscrutabile,
cioè l'inesplicabile, spieghi e faccia comprendere ogni cosa.
Passiamo a Bossuet. Come sant'Agostino, Bossuet, nella sua concezione della
storia, si pone dal punto di vista teologico. Egli è persuaso che i destini
storici dei popoli, o, come si esprime, le rivoluzioni degli imperi, sono regolati
dalla Provvidenza.
« Questi imperi — dice nel suo Discours sur l'histoire universelle
— hanno un legame necessario con la storia del popolo di Dio. Dio si è
servito degli assiri e dei babilonesi per castigare questo popolo; dei persiani
per restaurarlo, di Alessandro e dei suoi primi successori per proteggerlo;
d'Antioco l'Illustre e dei suoi successori per esercitarlo; dei romani per sostenere
la sua libertà contro i re di Siria, che si preoccupavano solo di distruggerlo.
Gli ebrei si sono perpetuati fino a Gesù Cristo sotto la potenza degli
stessi romani. Quando lo hanno rinnegato e crocifisso, questi stessi romani
hanno prestato le loro mani senza pensarvi, alla vendetta divina e hanno sterminato
quel popolo ingrato » l.
In una parola, tutti i popoli e tutti i grandi imperi che, uno dopo l'altro,
apparvero sulla scena della storia, hanno concorso in diversi modi allo stesso
scopo: al bene della religione cristiana e alla gloria di Dio. Bossuet svela
al suo discepolo i segreti giudizi di Dio sull'impero romano e su Roma stessa
basandosi sulla rivelazione che lo Spirito Santo ha fatto a san Giovanni e che
quegli ha spiegato nell'Apocalisse. E parla, anche lui, come se le vie del Signore
avessero cessato di essere imperscrutabili e, cosa davvero degna di nota, lo
spettacolo del movimento storico gli ispira solo il sentimento della vanità
delle cose umane.
« Così — egli dice — quando vedete passare come in
un attimo davanti ai vostri occhi, non dico i re e gli imperatori, ma quei grandi
imperi che hanno fatto tremare tutto l'universo; quando vedete gli Assiri antichi
e nuovi, i Medi e i Persiani, i Greci, i Romani, presentarsi successivamente
e cadere, per così dire, gli uni dopo gli altri, questo terribile risonare
vi fa sentire che non vi è nulla di solido fra gli uomini, e che l'incostanza
e l'agitazione è il tratto proprio delle cose umane » 2.
Tale pessimismo è uno degli elementi più notevoli della filosofia
della storia di Bossuet. E bisogna confessare, tutto considerato, che questo
elemento rende fedelmente il carattere essenziale del cristianesimo. Il cristianesimo
promette ai suoi fedeli della consolazione, molta consolazione! Ma come li consola?
Staccandoli dalle cose di quaggiù, persuadendoli che sulla terra tutto
è vanità e che la felicità non è possibile per gli
uomini che dopo la morte. Vi prego di ritenere nella vostra memoria questo elemento;
vi fornirà in seguito un termine di paragone.
Un altro tratto notevole nella filosofia della storia di Bossuet consiste nel
fatto che interpretando gli avvenimenti storici, egli non si accontenta, come
sant'Agostino, di richiamarsi alla volontà di Dio, ma porta già
la sua attenzione verso ciò che chiama le cause particolari delle rivoluzioni
degli imperi.
« Poiché questo stesso Dio — egli dice — a cui è dovuto il concatenamento dell'universo, e che, onnipotente egli stesso, ha voluto anche che il corso delle cose umane avesse la sua connessione e le sue proporzioni; voglio dire che gli uomini e le nazioni hanno avuto delle qualità proporzionali all'altezza cui erano destinati; e che a parte alcuni momenti straordinari in cui Dio voleva che la sua mano apparisse completamente da sola, non si sono mai prodotti grandi cambiamenti che non avessero le proprie cause nei secoli precedenti. E come in tutte le cose vi è ciò che le prepara, ciò che determina ad iniziarle e ciò che le fa riuscire, la vera scienza della storia consiste nel notare in ogni tempo le nascoste tendenze che hanno preparato i grandi cambiamenti e le circostanze importanti che le hanno fatto accadere » 3.
Così, secondo Bossuet, capitano anche nella storia avvenimenti
dove la mano di Dio appare completamente da sola, o, in altri termini, Dio agisce
in modo immediato. Avvenimenti di tal genere sono per così dire, dei
miracoli storici. Ma nella maggior parte dei casi e nell'ordinario corso delle
cose, i mutamenti che hanno luogo in una data epoca hanno le loro cause in un'epoca
precedente. Il compito della vera scienza è di studiare queste cause
che non hanno nulla di soprannaturale poiché derivano solo dalla natura
degli uomini e delle nazioni.
Nella sua concezione teologica della storia, Bossuet concede dunque ampio spazio
alla spiegazione naturale degli avvenimenti storici. E' vero che questa spiegazione
naturale è, presso di lui, intimamente legata all'idea teologica; è
sempre il buon Dio che dà agli uomini e alle nazioni delle qualità
proporzionali al livello a cui le destina. Ma, una volta date, queste qualità
agiscono da sole, e in quanto agiscono, noi abbiamo non solamente il diritto
ma il dovere, Bossuet lo afferma categoricamente, di cercare la spiegazione
naturale della storia.
La filosofia della storia di Bossuet ha, su quella di sant'Agostino, il grande
vantaggio d'insistere sulla necessità di studiare le cause particolari
degli avvenimenti. Ma è un vantaggio che in fondo si riduce ad una confessione,
inconsapevole senza dubbio e involontaria, dell'impotenza e della sterilità
della concezione teologica propriamente detta, cioè del metodo che consiste
nello spiegare i fenomeni con l'azione di uno o più agenti soprannaturali.
Di questa confessione, i nemici della teologia seppero trarne profitto nel secolo
seguente.
Il più irriducibile di questi nemici, il patriarca de Ferney, Voltaire,
dice maliziosamente nel celebre Essai sur les moeurs des nations:
« Nulla è più degno della nostra curiosità che la
maniera in cui Dio volle che la Chiesa si stabilisse facendo concorrere le cause
secondo i suoi eterni decreti. Lasciamo rispettosamente ciò che è
divino a coloro che ne sono i depositari e atteniamoci unicamente a ciò
che è storico » 4.
LA CONCEZIONE IDEALISTICA DELLA STORIA.
La concezione teologica della storia è dunque messa
rispettosamente da parte. Voltaire si attiene al dato storico e si sforza di
spiegare i fenomeni tramite le loro cause seconde, vale a dire naturali. Ma
in che cosa consiste la scienza, se non nella spiegazione naturale dei fenomeni?
La filosofia della storia di Voltaire è un- tentativo d'interpretazione
scientifica della storia.
Consideriamo questo tentativo più da vicino. Esaminiamo per esempio,
quali sono state, secondo Voltaire, le cause della caduta dell'impero romano.
La decadenza romana è stata lunga e lenta, ma tra i flagelli che hanno
causato la caduta del colossale impero, Voltaire fa risaltare soprattutto i
due seguenti: 1) i barbari; 2) le dispute religiose.
I barbari hanno distrutto l'impero romano. Ma perché, domanda Voltaire,
i romani non li sterminarono come Mario aveva sterminato i cimbri? Per il fatto
che non vi era più un Mario. E perché non vi era più un
Mario? Perché i costumi dei romani erano mutati. Il sintomo più
appariscente di tale cambiamento nei costumi era dato dal fatto che l'impero
romano aveva in quel periodo più monaci che soldati.
« Questi monaci correvano a truppe di città in
città per sostenere o distruggere la consustanzialità del Verbo
. . .5.
« Poiché i discendenti di Scipione si dedicavano alle controversie,
poiché la stima per la personalità si era trasferita dagli Ortensio
e dai Cicerone ai Cirillo, ai Gregorio, agli Ambrogio, tutto fu perduto; e se
bisogna meravigliarsi di qualcosa è del fatto che l'impero romano abbia
resistito ancora un po' di tempo » 6.
Vedete qui chiaramente quale era, secondo Voltaire, la causa
principale della caduta di Roma. Questa causa è il trionfo del cristianesimo.
D'altronde Voltaire stesso lo dice con la sua mordente ironia: « Il cristianesimo
schiudeva il cielo ma perdeva l'impero » 7.
Ha avuto ragione, ha avuto torto? Per ora non ci riguarda. Quello che ci importa
è di renderci conto esattamente delle idee di Voltaire sulla storia.
L'esame critico di tali idee verrà solo in seguito.
Noi vediamo dunque che, secondo Voltaire, il cristianesimo ha perduto l'impero
romano. Umanamente parlando, è senza dubbio permesso di domandarsi: perché
il cristianesimo ha trionfato su Roma?
Per Voltaire, lo strumento principale della vittoria dei cristiani fu Costantino,
che ci rappresenta conforme alla realtà storica. Ma un uomo, sia pure
un imperatore, e sia pure perfido e molto superstizioso, sarà mai capace
di assicurare il trionfo di una religione?
Voltaire riteneva di sì. E non era il solo del suo secolo a crederlo.
Tutti i filosofi la pensavano ugualmente. Come esempio vi citerò le considerazioni
di un'altro scrittore sull'origine del popolo ebreo e sul cristianesimo.
Se la concezione teologica della storia consiste nello spiegare l'evoluzione
storica con la volontà e l'azione diretta o indiretta, di uno o più
agenti soprannaturali, la concezione idealistica — di cui Voltaire e i
suoi amici erano sostenitori convinti — consiste nello spiegare la stessa
evoluzione con l'evoluzione dei costumi e delle idee, o dell'opinione, come
si esprimevano nel diciottesimo secolo.
« Per opinione intendo — dice Suard — il risultato della massa di verità e di errori diffusi in un paese; risultato che determina i suoi giudizi di stima o di disprezzo, d'amore o di odio, che forma le sue inclinazioni e le sue abitudini; le sue idee e le sue virtù, in una parola i suoi costumi » 8.
E poiché è l'opinione a governare il mondo, è
evidente che l'opinione è la causa fondamentale, la causa più
profonda del movimento storico, e non vi è ragione di meravigliarsi che
uno storico si richiami all'opinione come ad una forza che produce, in ultima
istanza, gli avvenimenti di questa o quell'epoca.
E se l'opinione in generale spiega gli avvenimenti storici, è del tutto
naturale cercare nell'opinione religiosa (nel cristianesimo, per esempio), la
causa più profonda della prosperità o della decadenza di un impero
(per esempio dell'impero di Roma). Voltaire era dunque fedele alla filosofia
storica del suo tempo quando diceva che il cristianesimo era stato la ragione
della rovina dell'impero romano.
Ma tra i filosofi del XVIII secolo parecchi erano conosciuti come materialisti.
Tali erano per esempio, Holbach, l'autore del celebre Système de la nature,
e Helvétius, autore del non meno celebre libro: l'Esprit. E' del tutto
naturale supporre che almeno quei filosofi non approvassero la concezione idealistica
della storia.
Ebbene! questa supposizione, per naturale che appaia, è sbagliata: Holbach
e Helvetius, materialisti nella loro concezione della natura erano idealisti
per quanto concerne la storia. Come tutti i filosofi del XVIII secolo, come
tutta la « schiera degli enciclopedisti », i materialisti di quell'epoca
ritenevano che l'opinione governi il mondo e che l'evoluzione dell'opinione
spieghi in ultima analisi tutta l'evoluzione storica.
« L'ignoranza, l'errore, il pregiudizio, la mancanza di esperienza, di riflessione e di previsione, ecco le vere fonti del male morale. Gli uomini si danneggiano e feriscono i loro simili solo perché non hanno affatto idea dei loro veri interessi » 9.
In un altro punto della stessa opera, leggiamo:
« La storia ci dimostra che in materia di governo, le nazioni furono in ogni tempo zimbello della loro ignoranza, della loro imprudenza, della loro credulità, del loro terror panico, e soprattutto delle passioni di coloro che seppero acquistare dell'ascendente sulle moltitudini. Simili a dei malati che si agitano senza tregua nei loro letti, senza trovare la posizione confortevole, i popoli hanno spesso mutato la forma dei loro governi: ma non hanno mai avuto né il potere, né la capacità di riformare le basi, di risalire alla vera fonte dei loro mali: si videro senza tregua sballottati da cieche passioni » 10.
Queste citazioni vi mostrano come, secondo il materialista
Holbach, l'ignoranza fu la causa del male morale e politico. Se i popoli sono
cattivi è grazie alla loro ignoranza; se i loro governi sono assurdi,
è perché essi non hanno saputo scoprire i veri principi dell'organizzazione
sociale e politica; se le rivoluzioni compiute dai popoli non hanno sradicato
il male morale e sociale è perché essi non hanno avuto sufficienti
lumi. Ma cos'è l'ignoranza? Cos'è l'errore? Cos'è il pregiudizio?
L'ignoranza, l'errore, il pregiudizio, tutto ciò non è altro che
l'opinione sbagliata. E se l'ignoranza, l'errore e il pregiudizio hanno impedito
agli uomini di scoprire le vere basi dell'organizzazione politica e sociale,
è chiaro che è l'opinione sbagliata che ha governato il mondo.
Holbach è dunque, in questo, della stessa opinione della maggior parte
dei filosofi del XVIII secolo.
Quanto ad Helvetius, citerò solo la sua opinione sul sistema feudale.
In una lettera a Saurin a proposito dell'Esprit des lois di Montesquieu, dice:
« Ma che diavolo ci vuole insegnare con il suo Traité des fiefs?
E’ forse una materia che uno spirito saggio e ragionevole doveva cercare
di sbrogliare? Che legislazione può risultare da questo caos barbaro
di leggi che la forza ha stabilito, che l'ignoranza ha rispettato, e che si
opporranno sempre ad un giusto ordine delle cose? » 11.
In un altro luogo aggiunge:
« Montesquieu è troppo feudale, e il governo feudale è il
capolavoro dell'assurdità » 12.
Così, Helvetius trova che il feudalesimo, cioè tutto un sistema
di istituzioni sociali e politiche, era il capolavoro dell'assurdità
e, di conseguenza, doveva la sua origine all'ignoranza o, in altri termini,
ad una opinione errata. Dunque è sempre l'opinione che, nel bene e nel
male, ha governato il mondo.
Ho detto che a noi importava non criticare questa teoria ma conoscerla bene
e cogliere a fondo la sua natura. Ora che la conosciamo, non ci è solo
permesso, ma diviene necessario, analizzarla.
Ebbene! Questa teoria è vera o è falsa?
E’ vero o no che gli uomini che non comprendono in che cosa consistano
i propri interessi non sono in grado di servirli in modo ragionevole? Questo
è vero senz'altro.
E’ vero o no che l'ignoranza ha causato parecchi danni all'umanità
e che un sistema sociale fondato sulla sottomissione e sullo sfruttamento dell'uomo
sull'uomo, quale fu il feudalesimo, non è possibile che in un periodo
d'ignoranza e di pregiudizi profondamente radicati?
Anche questo è vero, e non vedo come si potrebbe contestare una verità
così evidente.
In una parola, è vero o è falso che l'opinione, nel senso determinato
da Suard, ha una grande influenza sulla condotta degli uomini? Chiunque conosca
gli uomini dirà che anche questo è un fatto indiscutibile e innegabile.
LA FORZA DELLE IDEE ... E LA LORO ORIGINE.
La concezione idealistica della storia è dunque fondata
sulla verità?
Rispondo insieme si e no. E con tale affermazione intendo questo.
La concezione idealistica della storia è vera nel senso che vi è
del vero in essa. Sì, c'è del vero. L'opinione ha una grandissima
influenza sugli uomini. Abbiamo dunque il diritto di dire che governa il mondo.
Ma abbiamo pure il diritto di domandarci se questa opinione che governa il mondo
non sia poi governata da nient'altro. Detto altrimenti, possiamo e dobbiamo
domandarci se le opinioni e i sentimenti degli uomini sono un fatto sottoposto
al caso. Porre questo problema significa risolverlo immediatamente in senso
negativo. No, le opinioni e i sentimenti degli uomini non sono affatto sottoposti
al caso. Il loro generarsi come la loro evoluzione è sottoposta a delle
leggi che è nostro compito studiare. Una volta che ammettiate questo
— e c'è modo di non ammetterlo? — siete obbligati a riconoscere
che se l'opinione governa il mondo, non lo governa da sovrano assoluto, e che
a sua volta essa è governata e che, di conseguenza, chi si richiama all'opinione
è lungi dall'indicarci la causa fondamentale, la causa più profonda
del movimento storico.
C'è dunque qualcosa di vero nella concezione idealistica della storia,
ma non l'intera verità.
Per conoscere tutta la verità, bisogna riprendere la ricerca proprio
là dove la concezione idealistica l'abbandona. Dobbiamo impegnarci a
renderci conto esattamente delle cause del generarsi e dell'evolversi dell'opinione
degli uomini che vivono in società.
Per facilitare il nostro compito, procediamo con metodo. E, innanzi tutto, vediamo
se l'opinione conformemente alla definizione data da Suard, la massa di verità
e di errori diffusi tra gli uomini, è innata in loro, se nasce con loro
per non sparire che con loro. Siamo così ricondotti a domandarci se ci
sono delle idee innate.
Vi è stato un tempo in cui si era fermamente convinti che le idee, almeno
in parte, fossero innate. Ammettendo l'esistenza di idee innate, si ammetteva
insieme che tali idee costituissero un fondo comune all'umanità intera,
un fondo sempre uguale in ogni tempo e sotto ogni clima.
Tale opinione, assai diffusa in altri tempi, fu combattuta vittoriosamente da
un filosofo inglese di grandi meriti, John Locke. Nel suo celebre libro intitolato
Saggio sull'intelletto umano, John Locke ha dimostrato che non vi sono affatto
idee, principi o nozioni innate nello spirito umano.
Le idee o i principi degli uomini provengono loro dall'esperienza, e ciò
vale ugualmente tanto per i principi speculativi che per quelli pratici o principi
morali. I principi morali variano secondo i tempi e i luoghi. Gli uomini condannano
un'azione perché è loro nociva e la lodano quando è loro
utile. L'interesse (non l'interesse personale, ma l'interesse sociale) determina
dunque i giudizi degli uomini nel campo della vita sociale. Questa era la dottrina
di Locke di cui tutti i filosofi francesi del XVIII secolo erano convinti sostenitori.
Abbiamo dunque il diritto di assumere. questa dottrina come punto di partenza
per la nostra critica della loro concezione della storia.
Non esiste nessuna idea innata nello spirito umano; è l'esperienza che
determina le idee speculative ed è l'interesse sociale che determina
le idee « pratiche ». Ammettiamo questo principio e vediamo quali
conseguenze ne discendono.
LA REAZIONE DOPO LA RIVOLUZIONE FRANCESE.
Un grande avvenimento storico separa il diciottesimo secolo
dal diciannovesimo: la rivoluzione francese, che è passata sulla Francia
come un uragano distruggendo l'ancien régime e spazzando via i suoi frantumi.
Essa ha una profonda influenza sulla vita economica, sociale, politica e intellettuale
non solo della Francia, ma dell'intera Europa, e non è potuta restare
senza influenza sulla filosofia della storia.
Qual è stata questa influenza?
Ebbene! Il suo risultato più immediato è stato un sentimento di
immensa stanchezza.
Il grande sforzo fatto dalla gente di quell'epoca ha provocato un imperioso
bisogno di riposo.
A fianco di questo sentimento di stanchezza, inevitabile dopo ogni grande dispendio
di energie, si è sviluppato anche un certo scetticismo. Il diciottesimo
secolo credeva fermamente nel trionfo della ragione. La ragione finisce sempre
per avere ragione, diceva Voltaire. Gli avvenimenti della Rivoluzione hanno
spezzato questa fiducia. Si sono visti tanti avvenimenti inattesi, si sono viste
trionfare tante cose che sembravano assolutamente impossibili e del tutto irragionevoli;
si è assistito ai calcoli più saggi rovesciati dalla logica brutale
dei fatti, che ci si è detti che la ragione non finirà probabilmente
mai per avere ragione. Abbiamo al proposito la testimonianza di una donna di
ingegno, che sapeva osservare quello che gli succedeva intorno.
La maggior parte degli uomini, dice Madame de Staél, spaventati dalle
terribili vicissitudini di cui gli avvenimenti politici ci hanno offerto un
esempio, hanno attualmente perduto ogni interesse al perfezionamento di se stessi
e sono troppo colpiti dalla potenza del caso per credere all'ascendente delle
facoltà intellettuali 13.
Si era dunque spaventati dalla potenza del caso. Ma cos'è il caso? E
cos'è il caso nella vita delle società? Ecco un argomento di discussione
filosofica. Ma senza entrare in questa discussione possiamo affermare che gli
uomini troppo spesso attribuiscono al caso ciò le cui cause restano loro
celate. Così quando il caso fa sentire troppo e troppo a lungo la sua
potenza, finiscono per tentare di spiegare e di scoprire le cause di fenomeni
che per l'innanzi consideravano fortuiti. Ed è proprio questo che osserviamo
nel campo della scienza storica all'inizio del diciannovesimo secolo.
LA FILOSOFIA DELLA STORIA DI SAINT-SIMON.
Saint-Simon, una delle intelligenze più enciclopediche
e meno metodiche della prima metà di questo secolo, si sforza di porre
le basi di una scienza sociale. La scienza sociale, la scienza della società
umana, la fisica sociale, come la chiama altre volte, può e deve, secondo
lui, divenire una scienza esatta quanto le scienze naturali. Noi dobbiamo studiare
i fatti relativi alla vita passata dell'umanità per scoprire le leggi
del suo progresso. Potremo prevedere l'avvenire solo quando avremo compreso
il passato. E per comprendere, per spiegare il passato, Saint-Simon studia soprattutto
la storia dell'Europa occidentale dopo la caduta dell'impero romano.
Questa storia viene vista come la lotta degli industri (o del Terzo stato, come
si diceva nel secolo precedente) contro l’aristocrazia. Gli industri si
sono legati con la corona e con l'appoggio fornito ai re, si sono procurati
i mezzi per impadronirsi del potere politico, che si trovava precedentemente
nelle mani dei signori feudali. In cambio dei loro servigi la corona ha dato
loro la sua protezione, attraverso la quale hanno potuto riportare parecchie
importanti vittorie sui loro nemici. Poco a poco, con l'aiuto del lavoro e dell'organizzazione,
gli uomini dell'industria sono giunti a possedere una imponente forza sociale,
assai superiore a quella dell'aristocrazia.
La rivoluzione francese, per Saint-Simon, rappresentava solo un episodio della
grande lotta plurisecolare tra gli industri e i nobili. E tutte le sue proposte
pratiche si riducevano a dei progetti di misure che, secondo lui, bisogna prendere
per completare e consolidare la vittoria degli uomini industri e la disfatta
dei nobili. Ora, la lotta degli uomini industri contro la nobiltà era
la lotta tra due interessi opposti. E se questa lotta ha, come ammette Saint-Simon,
riempito tutta la storia dell'Europa occidentale dopo il quindicesimo secolo,
possiamo dire che è stata la lotta tra i grandi interessi sociali ad
essere la causa del movimento storico nel periodo indicato. Eccoci dunque assai
lontani dalla concezione della storia del diciottesimo secolo: non è
l'opinione ma l'interesse sociale, o per meglio dire, l'interesse dei grandi
elementi costitutivi della società, che governa il mondo e che determina
il cammino della storia.
Per le sue idee sulla storia, Saint-Simon, ha avuto un'influenza decisiva su
uno dei più grandi storici francesi: Augustin Thierry. E poiché
Augustin Thierry ha compiuto un'autentica rivoluzione nella scienza storica
del suo paese, ci sarà di grande utilità analizzare le sue idee.
LA CONCEZIONE DI AUGUSTIN THIERRY E DI MAGNET
Voi ricordate, suppongo, quanto ho detto a proposito di Holbach e che riguardava la storia del popolo ebreo. Tale storia era, per Holbach, l'opera di un sol uomo, Mosè, che ha plasmato il carattere degli ebrei e che li ha forniti della loro costituzione politica e sociale come della loro religione. E ogni popolo, aggiungeva Holbach, ha avuto il suo Mosè. La filosofia della storia del diciottesimo secolo non conosceva che l'individuo, i grandi uomini. La massa, il popolo come tale, per essa non esisteva quasi affatto. La filosofia della storia di Augustin Thierry è, sotto questo rapporto, proprio il contrario di quella del diciottesimo secolo.
« C'è davvero molta semplicità — scrive nelle sue Lettres sur l'histoire de France — nell'ostinazione degli storici a non attribuire mai alcuna spontaneità, alcuna concezione alle masse degli uomini. Se un intero popolo emigra e si sceglie una nuova sede, per gli annalisti e i poeti significa che qualche eroe, per rendere illustre il suo nome, decide di fondare un impero; se si stabiliscono nuovi costumi, significa che qualche legislatore li immagina e li impone; sé una città si organizza, è qualche principe a darle vita: il popolo e i cittadini sono sempre solo la materia per il pensiero di un solo uomo » 14.
La rivoluzione è stata opera delle masse popolari e
questa rivoluzione il cui ricordo era ancora fresco al tempo della Restaurazione,
non permetteva più di prospettare il movimento storico come opera di
individui più o meno saggi e più o meno virtuosi. Invece di occuparsi
dei fatti e delle gesta dei grandi uomini, gli storici volevano d'ora innanzi
occuparsi della storia dei popoli. È già un fatto molto importante
e che vale la pena di tenere a mente.
Spingiamoci oltre. Sono le grandi masse che fanno la storia. Vada pure. Ma perché
lo fanno? In altri termini, quando le masse agiscono, per quale fine lo fanno?
Allo scopo di garantire i loro interessi, risponde Augustin Thierry.
« Volete davvero sapere — egli dice — chi ha creato la tale istituzione, chi ha concepito una iniziativa sociale? Cercate coloro che ne hanno veramente bisogno: è ad essi che deve appartenere la prima idea, la volontà di agire e per lo meno la maggior parte dell'esecuzione: is fecit cui prodest: l'assioma vale per la storia come per il diritto » 15.
La massa agisce dunque per il suo interesse: l'interesse è
la fonte, il motore di ogni creazione sociale. E' dunque facile comprendere
che quando un'istituzione entra in conflitto con gli interessi della massa,
la massa dà inizio ad una lotta contro questa istituzione. E dato che
un'istituzione che nuoce alla massa del popolo è spesso utile alla classe
privilegiata, la lotta contro questa istituzione diventa una lotta contro la
classe privilegiata.
La lotta di classe fra uomini e interessi opposti gioca un grande ruolo nella
filosofia della storia di Augustin Thíerry. Tale lotta ha riempito, per
esempio, la storia d'Inghilterra dalla conquista normanna fino alla rivoluzione
che rovesciò gli Stuards. Nella rivoluzione inglese del XVII secolo lottavano
due classi di uomini: i vincitori (la nobiltà) e i vinti (la massa del
popolo, borghesia compresa).
« Ogni personaggio — dice il nostro storico —
i cui antenati si erano trovati arruolati nella grande armata d'invasione, abbandonava
il suo castello per andare nel campo del re a prendere il comando che il suo
titolo gli assegnava. Gli abitanti delle città e dei porti si dirigevano
in massa nel campo opposto. Si poteva dire che la parola di richiamo dei due
eserciti era, da una parte, ozio e potere, dall'altra, lavoro e libertà:
poiché i fannulloni, coloro che nella vita non volevano altra occupazione
che i godimenti senza fatica, qualsiasi fosse la loro casta, si arruolavano
fra le truppe realiste, dove andavano a difendere interessi conformi ai loro:
mentre le famiglie della casta degli ex-vincitori, che l'industria aveva guadagnato,
si univano al partito dei Comuni » 16.
E notate bene che lo storico di cui ho appena parlato non è il solo a
pensare così. La sua filosofia della storia è quella di tutti
gli storici degni di nota del periodo della Restaurazione. Un contemporaneo
di Augustin Thierry, Mignet si attiene allo stesso punto di vista. Nella sua
notevole opera De la féodalité, egli prospetta l'evoluzione sociale
nel modo seguente:
« Gli interessi dominanti decidono del movimento sociale. Tale movimento perviene al suo scopo attraverso delle apposizioni, cessa quando lo ha raggiunto, è sostituito da un altro, che non viene scorto quando comincia e che non si fa conoscere che quando è il più forte. Questo è stato il cammino della feudalità. In una prima fase, non ancora nella realtà, essa nasceva dai bisogni; in una seconda si è realizzata senza più corrispondere ai bisogni; e ciò ha finito per farla uscire dalla realtà »
Qui ci troviamo di nuovo assai lontani dalla filosofia del XVIII secolo. Helvetius rimproverava a Montesquieu di studiare con troppa attenzione le leggi feudali. Il sistema feudale era per lui il capolavoro dell'assurdità e, come tale, non valeva la pena di essere studiato. Mignet ammetteva al contrario che vi fu un periodo, il Medioevo, in cui il sistema feudale nasceva dalla necessità e in cui era utile alla società, e dice appunto che è questa necessità ad averlo fatto nascere. Mignet ripete spesso che non sono gli uomini che guidano le cose ma le cose che guidano gli uomini. Ed è da questo punto di vista che considera gli avvenimenti nella sua Histoire de la révolution francaise. Parlando dell'Assemblea costituente dice:
« Le classi aristocratiche avevano interessi opposti
a quelli del partito nazionale. Così la nobiltà e l'alto clero,
che formarono la destra dell'Assemblea, furono con lui in opposizione costante,
fatta eccezione per alcuni giorni di addestramento. Questi scontenti della rivoluzione
che non seppero né impedirla con i loro sacrifici, ne arrestarla con
la loro adesione, combatterono in maniera sistematica ogni sua riforma »
18.
I raggruppamenti politici sono dunque determinati dagli interessi di classe.
E sono gli stessi interessi a dare vita alle considerazioni politiche. Mignet
ci dice che la Costituzione del 1971 « era opera della classe media, che
in quel momento era la più forte: Poiché, come è noto,
la forza dominante si impadronisce sempre delle istituzioni ... La giornata
del dieci agosto rappresentò l'insurrezione della moltitudine contro
la classe media e contro il trono costituzionale, come il 14 luglio aveva rappresentato
l'insurrezione della
classe media contro le classi privilegiate e il potere assoluto della corona » 19.
Come Thierry, Mignet è il rappresentante convinto della
classe media. Finché si tratta di giudicare l'azione politica di questa
classe, Mignet arriva fino a preconizzare i mezzi violenti: « Il diritto
non si ottiene che con la forza ».
In Guizot ritroviamo le stesse tendenze, le stesse simpatie e lo stesso punto
di vista. Ma, in lui, queste tendenze e simpatie sono più pronunciate
e questo punto di vista meglio precisato. Già nei suoi Essais sur l'histoire
de France, che uscirono nel 1821, egli dice con molta chiarezza quale è
a suo parere la base dell'edificio sociale.
« È, con lo studio delle istituzioni politiche che la maggior parte degli scrittori, storici eruditi e pubblicisti, hanno cercato di conoscere la realtà della società, il grado o il genere della sua civiltà. Sarebbe stato più saggio studiare innanzi tutto la società stessa per conoscere e comprendere le sue istituzioni politiche. Prima di diventare causa le istituzioni sono effetto; la società le produce prima di esserne modificata; e invece di cercare nel sistema o nelle forme di governo qual è stata la condizione di un popolo, è la condizione del popolo che bisogna prima di tutto esaminare per sapere quale ha dovuto, quale ha potuto essere il governo » 20.
Si potrebbero trovare testi che si esprimono nella stessa direzione
nelle opere di Guizot, Armand Carrel e Tocqueville. Perciò credo proprio
di avere il diritto di dire che all'inizio del XIX secolo, i sociologi, gli
storici e i critici ci rimandano tutti alla condizione sociale come alla base
più profonda dei fenomeni della società umana. Sappiamo che cos'è
questa condizione; si tratta della condizione delle persone come dice Guizot,
della condizione della proprietà. Ma da dove nasce tale condizione da
cui tutto dipende nella società? Appena avremo una risposta precisa e
netta a questo problema potremo spiegarci il movimento della storia e il progresso
del genere umano. Ma gli storici lasciano senza risposta questo grande problema,
questo problema dei .problemi.
Ci troviamo così di fronte a questa contraddizione: le idee, i sentimenti,
l'opinione, sono determinati dalle condizioni sociali, e le condizioni sociali
sono determinate dall'opinione. A è la causa di B, e B è la causa
di A.
III
Fino a questo momento, parlando dell'evoluzione della filosofia della storia ho considerato soprattutto la Francia. Ad eccezione di sant'Agostino e d'Holbach, tutti gli autori di cui vi ho esposto le idee sulla storia, erano francesi. Attraverseremo ora la frontiera per porre piede sul suolo tedesco.
LA FILOSOFIA DELLA STORIA DI SCHELLING.
La Germania della prima metà del diciannovesimo secolo
era il paese classico della filosofia. Fichte, Schelling, Hegel e tanti altri,
meno celebri, ma non meno attaccati alla ricerca della verità, si lanciarono
all'approfondimento dei problemi filosofici, questi temibili problemi che sono
già tanto invecchiati e restano tuttavia sempre nuovi.
Tra questi grandi problemi, la filosofia della storia occupa uno dei posti più
importanti. Non sarà dunque inutile vedere come i filosofi tedeschi rispondevano
al problema di sapere quali sono le cause del movimento della storia e del progresso
del genere umano. Ma dato che non abbiamo abbastanza tempo per analizzare nei
dettagli la filosofia della storia peculiare di ciascuno di essi, siamo costretti
ad accontentarci di interrogare i due principali fra loro: Schelling e Hegel,
e inoltre non potremo che sfiorare le loro idee sulla storia. Perciò,
per quanto concerne Schelling, parleremo solo del suo concetto di libertà.
L'evoluzione storica è un susseguirsi di fenomeni sottoposti a leggi.
I fenomeni sottoposti a leggi sono dei fenomeni necessari. Esempio: la pioggia.
La pioggia è un fenomeno sottoposto a leggi. Ciò significa che
in circostanze date delle gocce d'acqua cadranno necessariamente sulla terra.
Questo si comprende molto facilmente quando si tratta di gocce d'acqua, che
non hanno né coscienza né volontà.
Ma, nei fenomeni storici, ad agire non sono delle cose inanimate, ma degli uomini,
e gli uomini sono dotati di coscienza e di volontà. Ci si può
dunque domandare con piena legittimità se il concetto di necessità
— senza di cui non esiste concezione scientifica — dei fenomeni,
nella storia come nella scienza della natura, non escluda quello della libertà
umana. Formulato in altri termini il problema si pone così: Vi è
modo di conciliare la libera azione degli uomini con la necessità della
storia?
Di primo acchito sembra di no, sembra che la necessità escluda la libertà
e viceversa. Ma risulta così solo a colui il cui sguardo si arresta alla
superficie delle cose, alla scorza dei fenomeni. In realtà, questa famosa
contraddizione, questa pretesa antinomia, non esiste. Lungi dall'escludere la
libertà, la necessità ne è la condizione e il fondamento.
Appunto questo Schelling si provava a dimostrare in uno dei capitoli del suo
Sistema dell'idealismo trascendentale.
Secondo Schelling, la libertà è impossibile senza la necessità.
Se agendo, non posso contare che sulla libertà degli altri uomini, mi
è impossibile prevedere le conseguenze delle mie azioni, poiché
ad ogni istante il mio calcolo anche più perfetto potrebbe essere completamente
vanificato dalla libertà altrui e di conseguenza dalle nostre azioni
potrebbe risultare tutt'altra cosa rispetto alla mia previsione.
La mia libertà sarebbe dunque nulla e la mia vita sarebbe sottoposta
al caso. Io non potrei essere sicuro delle conseguenze delle mie azioni che
nel caso in cui potessi prevedere le azioni del mio prossimo, e perché
io le possa prevedere bisogna che siano soggette a leggi, cioè bisogna
che siano determinate, che siano necessarie. La necessità delle azioni
degli altri è dunque la prima condizione della libertà delle mie
azioni. Ma, dall'altro lato, agendo in modo necessario, gli uomini possono al
tempo stesso conservare la piena libertà delle proprie azioni.
Cos'è un'azione necessaria? È un'azione che è impossibile
che un individuo dato non compia in circostanze date. E di dove viene l'impossibilità
a non compiere tale azione? Deriva dalla natura di questo uomo plasmata dalla
sua eredità e dalla sua anteriore evoluzione. La natura di quest'uomo
è tale che non può agire in un modo dato in circostanze date.
Chiaro, non è vero? Ebbene! aggiungeteci che la natura di quest'uomo
è tale che non può non formulare determinate volontà, e
avrete conciliato il concetto di libertà con quello di necessità.
Io sono libero quando posso agire come voglio. E la mia libera azione è
al tempo stesso necessaria perché il mio atto di volontà è
determinato dalla mia struttura e dalle circostanze date. La necessità
non esclude dunque la libertà. La necessità è la libertà
stessa, ma considerata solamente da un altro lato o da un altro punto di vista.
Dopo aver attirato la vostra attenzione sulla risposta che Schelling dava alla
grande questione della necessità e della libertà, passiamo al
suo contemporaneo, amico e rivale, Hegel.
LA FILOSOFIA DELLA STORIA DI HEGEL.
La filosofia di Hegel, come quella di Schelling, era una filosofia
idealistica. Per lui è lo Spirito o l'Idea che costituisce la base e
quasi l'anima di tutto ciò che esiste. La materia stessa è solo
un modo di essere dello Spirito, o dell'Idea. E’ una cosa possibile? Può
veramente la materia essere solo un modo di manifestarsi dello spirito?
Si tratta qui di un problema che ha un'importanza capitale dal punto di vista
della filosofia ma di cui non dobbiamo occuparci ora. Ciò di cui abbiamo
bisogno è studiare le idee sulla storia che si innalzano su questa base
idealistica nel sistema di Hegel.
Secondo questo grande pensatore, la storia non è che lo svolgersi dello
Spirito universale nel tempo. La filosofia della storia è la storia considerata
razionalmente. Essa prende i fatti così come sono e la sola idea che
vi apporta è l'idea che la ragione governa il mondo. Senza dubbio questo
vi ricorda la filosofia francese del diciottesimo secolo, secondo cui è
l'opinione o la ragione che governa il mondo. Ma quest'idea assumeva in Hegel
un carattere particolare. E’ Anassagora — egli scrive nelle sue
Lezioni sulla filosofia della storia — che riconobbe per primo filosoficamente
che la ragione governa il mondo, intendendo con ciò non una intelligenza
autocosciente, non uno spirito in quanto tale, ma delle leggi generali. Il movimento
del sistema planetario si effettua secondo leggi immutabili e queste leggi ne
sono la ragione, ma né il sole né i pianeti che si muovono secondo
queste leggi, ne hanno coscienza. La ragione che governa il mondo è dunque,
secondo Hegel, una ragione inconsapevole, null'altro che l'insieme delle leggi
che determinano il movimento storico.
Quanto all'opinione degli uomini, l'opinione che i filosofi francesi del diciottesimo
secolo consideravano come la molla principale del movimento storico, Hegel la
prospettava, nella maggior parte dei casi, come determinata dal modo di vivere,
o in altri termini, dalle condizioni sociali. Per esempio egli dice, nella sua
Filosofia della storia, che la causa della decadenza di Sparta fu l'estrema
differenza dei beni. Dice anche che lo Stato, come organizzazione politica,
deve la sua origine all'ineguaglianza dei beni e alla lotta dei poveri contro
i ricchi.
E non è tutto. Le origini della famiglia sono intimamente legate, a suo
parere, all'evoluzione economica dei popoli primitivi. In conclusione, per idealista
che fosse, Hegel, come gli storici di cui abbiamo prima fatto cenno, si richiama
alle condizioni sociali come alla base più profonda della vita dei popoli.
In questo, non è stato in ritardo sul suo tempo, ma non l'ha nemmeno
anticipato. Egli resta impotente a spiegare le origini delle condizioni sociali
poiché non significa spiegare nulla dire, come dice, che in una epoca
data, le condizioni sociali di un popolo dipendono, come le sue condizioni politiche,
religiose, estetiche, morali, intellettuali, dallo spirito del tempo.
In quanto idealista, Hegel si richiama allo spirito come ultima molla del movimento
storico. Quando un popolo passa da un grado della sua evoluzione ad un altro,
significa che lo Spirito Assoluto (o universale) di cui questo popolo è
solo l'agente, si innalza ad una fase superiore del suo sviluppo. Poiché
spiegazioni di tal fatta non spiegano nulla, Hegel si è trovato nello
stesso circolo vizioso degli storici e dei sociologi francesi: essi spiegavano
le condizioni sociali con le idee e le idee dell'epoca con le condizioni sociali.
Vediamo dunque che da ogni lato, dal lato della filosofia come dal lato della
storia propriamente detta e della letteratura, l'evoluzione della scienza sociale
nelle sue diverse branche conduceva al medesimo problema: spiegare le origini
delle condizioni sociali. Fino a che questo problema non fosse stato risolto,
la scienza avrebbe continuato a girare in un circolo vizioso, dichiarando che
B è la causa di A e designando A come causa di B. Di contro tutto prometteva
di chiarirsi una volta risolto il problema delle origini delle condizioni sociali.
LA CONCEZIONE MARXISTA DELLA STORIA.
Marx, elaborando la sua concezione materialistica, ha perseguito
proprio la soluzione di questo problema. Nella prefazione ad una delle sue opere:
Per la critica dell'economia politica, Marx stesso racconta come i suoi studi
lo condussero a questa concezione:
« La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici
quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per se stessi,
né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno
le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell'esistenza il cui complesso
viene abbracciato da Hegel, seguendo l'esempio degli inglesi e dei francesi
del secolo XVIII, sotto il termine di " società civile " »
21.
Come vedete si tratta dello stesso risultato cui abbiamo visto
pervenire gli storici, i sociologi e i critici francesi, così come i
filosofi idealisti tedeschi. Ma Marx procede oltre. Si domanda quali sono le
cause che determinano la società civile e risponde che è nell'economia
politica che va ricercata l'anatomia della società civile. È dunque
la condizione economica di un popolo che determina la sua condizione sociale
e la condizione sociale di un popolo determina a sua volta i suoi caratteri
politici, religiosi e così via. Ma, domanderete, la condizione economica
non ha alcuna causa? Senza dubbio, come tutte le cose di questa terra, ha la
sua causa e questa causa, causa fondamentale di tutta l'evoluzione sociale e
che sostiene l'insieme del movimento storico, è la lotta che l'uomo conduce
con la natura per la propria esistenza.
Vi leggerò quello che dice Marx al proposito:
« Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in
rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in
rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo
delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione
costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale
sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono
forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita
materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale
della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere,
ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza.
A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società
entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè
con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica)
dentro i quali tali forze per l'innanzi si erano mosse. Questi rapporti, da
forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora
subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica,
si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura.
Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere
sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione,
che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e
le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche ossia le
forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e
di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall'idea che egli
ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca dalla
coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza
con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le
forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una formazione
sociale non sparisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive
a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano
mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni
materiali della loro esistenza. Ecco perché l'umanità non si propone
se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare
le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni
materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione
» 22.
Capisco bene che questo linguaggio, per netto e preciso che
sia, possa apparire abbastanza oscuro. Perciò mi affretto a commentare
l'idea fondamentale della concezione materialistica della storia.
L'idea fondamentale di Marx si riduce a questo: I rapporti di produzione determinano
ogni altro rapporto che esiste fra gli uomini nella loro vita sociale. I rapporti
di produzione sono a loro volta determinati dallo stato delle forze produttive.
Ma, innanzi tutto, cosa sono le forze produttive?
Come ogni animale, l'uomo è costretto ad una lotta per la sua sopravvivenza.
Ogni lotta suppone un certo dispendio di forze. Il rapporto delle forze determina
il risultato della lotta. Presso gli animali, tali forze dipendono dalla stessa
struttura dell'organismo: le forze dì un cavallo selvaggio sono assai
differenti da quelle di un leone, e la causa di tale differenza consiste nella
differenza di struttura. La struttura fisica dell'uomo ha naturalmente anch'essa
una influenza decisiva sul modo di lottare per l'esistenza e sui risultati di
questa lotta. Per esempio, l'uomo è provvisto della mano. È vero
che i suoi prossimi, i quadrumani (le scimmie) possiedono anch'esse le mani;
ma le mani dei quadrumani sono meno perfettamente adattate ai diversi lavori.
La mano è il primo strumento di cui l'uomo si è servito nella
sua lotta per l'esistenza, come ci mostra Darwin.
La mano, con il braccio, è il primo strumento, il primo utensile di cui
si serve l'uomo. I muscoli del braccio servono da molla che colpisce o che lancia.
Ma poco a poco la macchina diviene esterna. La pietra dapprima era stata utilizzata
per il suo peso, la sua massa. In seguito, questa massa è fissata ad
un manico, e noi abbiamo l'ascia, il martello. La mano, primo strumento dell'uomo,
gli serve così a produrne altri, a dar forma alla materia per lottare
contro la natura, cioè contro il resto della materia indipendente.
E più si perfeziona questa materia padroneggiata, più si sviluppa
l'uso di utensili e di strumenti e più aumenta di conseguenza la forza
dell'uomo di fronte alla natura, più aumenta il suo potere sulla natura.
Abbiamo definito l'uomo: un animale che costruisce utensili. Questa definizione
è più profonda di quanto non si pensi a prima vista. In effetti
da quando l'uomo ha acquisito la facoltà di assoggettare e plasmare una
parte della materia per lottare contro la restante, la selezione naturale e
le altre cause analoghe hanno dovuto esercitare una influenza davvero secondaria
sulle modificazioni corporee dell'uomo.
Non sono più i suoi organi che cambiano, sono i suoi utensili e le cose
che egli adatta per utilizzarle con l'aiuto dei suoi utensili: non è
la sua pelle a cambiare con il cambiare del clima, ma i suoi vestiti. La trasformazione
corporea dell'uomo cessa (o diviene insignificante) per cedere il posto alla
sua evoluzione tecnica; e evoluzione tecnica significa evoluzione delle forze
produttive; e l'evoluzione delle forze produttive ha un'influenza decisiva sulla
collettività umana, sullo stato della sua cultura. La scienza attuale
distingue parecchi tipi sociali: 1) Cacciatore; 2) Pastore; 3) Agricoltore sedentario;
4) Industriale e commerciale. Ciascuno di questi tipi è caratterizzato
da determinati rapporti tra gli uomini, rapporti che non dipendono dalla loro
volontà e che sono determinati dallo stato delle forze produttive.
Prendiamo, per esempio, i rapporti di proprietà. Il regime di proprietà
dipende dal modo di produzione, poiché la ripartizione e il consumo delle
ricchezze sono strettamente legate al modo di procurarsele. Tra i popoli primitivi
di cacciatori, spesso sì è obbligati a mettersi in molti per prendere
la grossa selvaggina; così gli indigeni australiani cacciano il canguro
in bande di parecchie decine di individui; gli esquimesi riuniscono tutta una
flottiglia di canotti per la pesca della balena. I canguri catturati e le balene
portate a riva sono considerate proprietà comune; ciascuno ne mangia
secondo il suo appetito. Il territorio di ogni tribù, tra gli indigeni
australiani come presso tutti i popoli di cacciatori, è considerato proprietà
collettiva; ognuno vi caccia a suo modo, con il solo obbligo di non invadere
il terreno delle tribù vicine.
Ma all'interno di questa proprietà comune, certi oggetti servono unicamente
all'individuo: i suoi vestiti, le sue armi, sono considerate proprietà
individuale così come la tenda e il mobilio sono di proprietà
della famiglia. Ugualmente, il canotto che serve a gruppi composti di cinque
o sei uomini, appartiene in comune a queste persone. Quello che decide della
proprietà è il modo di lavoro, il modo di produzione.
Ho intagliato un'ascia di selce con le mie mani, essa mi appartiene; con mia
moglie e i miei figli, abbiamo costruito la capanna che dunque appartiene alla
mia famiglia; con la gente della mia tribù sono andato a caccia e gli
animali abbattuti ci appartengono in comune. Gli animali che ho ucciso da solo
sul territorio della tribù, sono miei, e se per caso l'animale ferito
da me viene finito da un altro, appartiene a tutti e due e la pelle va a chi
gli ha dato il colpo di grazia. A questo fine ogni freccia porta il marchio
del suo proprietario.
Fatto davvero notevole: presso i pellirosse dell'America del nord, prima dell'introduzione
delle armi da fuoco, la caccia al bisonte era regolamentata in modo assai rigoroso:
se parecchie frecce erano penetrate nel corpo del bisonte, la loro reciproca
posizione decideva a chi apparteneva questa o quella parte dell'animale abbattuto;
la pelle apparteneva così a colui la cui freccia era penetrata più
vicina al cuore. Ma dopo l'introduzione delle armi da fuoco, dato che le pallottole
non portano segni distintivi, la ripartizione dei bisonti abbattuti si fa secondo
parti uguali; essi sono dunque considerati proprietà comune. Questo esempio
mostra con evidenza lo stretto legame che esiste tra la produzione e il regime
di proprietà.
In questo modo i rapporti tra gli uomini nella produzione decidono dei rapporti
di proprietà, dello stato della proprietà, come diceva Guizot.
Ma, una volta dato lo stato della proprietà, è facile comprendere
la costituzione della società, che si modella su quella della proprietà.
E’ in questo modo che la teoria di Marx risolve il problema che non potevano
risolvere gli storici e i filosofi della prima metà del diciannovesimo
secolo.
NOTE
1 Discours, ed. Garnier frères, p. 334.
2 Ivi, p. 339.
3 Discours, pp. 339-40
4 Essai, ed. de Beuchot, t. I. p. 346
5 Ibid., t. I. p. 377
6 Ibid., t. I. p. 337
7 Ibid., t. I. p. 337
8 SUARD, Mélanges de Littérature, III, p. 400.
9 HOLBACH, Système social, t. II, cap. 1, p. 5.
10 Ivi, II, p. 27.
11 HELVETIUS, Oeuvres, III, p. 266.
12 Ibid., p. 314.
13 M.ME DE STAEL, De la littérature, Préface, p. XVIII.
14 A. THIERRY, Dix aus, p. 348.
15 Ivi.
16 Ivi, p. 54.
17 MIGNET, De la féodalité, pp. 77-8.
18 MIGNET, Histoire de la révolution francaise, vol. I, p. 105.
19 Ivi, pp. 210, 290.
20 GUIZOT, Essais sur l'histoire de France, 12° ed., p. 73.
21 K. MARX, Per la critica dell'economia politica, Roma, 1969, p. 4.
22 Ivi, pp. 5-6.
Plechanov, Giorgio Valentino (Gudalovka, Tambov 1856 - Terioki,
Finlandia 1918), filosofo e rivoluzionario russo, considerato uno dei maggiori
teorici russi del marxismo. Figlio di un nobile proprietario terriero e studente
di mineralogia, si inserì dapprima nel movimento dei narodniki (letteralmente
'popolari'), fondato da un gruppo di intellettuali russi che perseguivano un
comunismo primitivo contadino basato sulle comuni; dopo la scissione di questo
gruppo, nel 1877, assunse la guida di un movimento moderato, chiamato 'Redistribuzione
nera'. Emigrato in Svizzera (1880), organizzò un nuovo gruppo di orientamento
marxista, lo 'Osvoboschdenije truda' ('Liberazione del lavoro') e nel 1889 fu
scelto come delegato russo alla Seconda Internazionale socialista. Fu a stretto
contatto con Lenin, e nel 1900 fondò con lui a Lipsia la rivista 'Iskra'
(La scintilla); in seguito la sua linea politica, di stampo opportunista, venne
duramente criticata e le sue posizioni si trovarono in crescente contrasto con
quelle di Lenin. Dopo la scissione del Partito operaio socialdemocratico russo
(1903), preferì non unirsi ai bolscevichi, ma abbracciò in sostanza
l'ala dei menscevichi. Nel 1904 lasciò il comitato esecutivo dell'Internazionale
e allo scoppio della guerra imperialista egli divenne un 'difensore della madrepatria',
tradendo di fatto il socialismo Tornato in Russia dopo la rivoluzione di febbraio
del 1917, sostenne il governo Kerenskij. e fu ostile alla Rivoluzione d'Ottobre.
Ciò nonostante, nella lotta che contrapponeva il governo rivoluzionario
sovietico, alla controrivoluzione “bianca”, non se la sentì
di appoggiare mai quest’ultima. A lui si deve la traduzione in russo di
molte opere di Marx e di Engels, fra cui quella del Manifesto, del 1882. Tra
i suoi lavori: Saggi sulla storia del materialismo (1896), I problemi fondamentali
del marxismo (1908).
Disse di lui Lenin "è impossibile diventare un conscio e reale comunista
senza studiare tutto ciò che Plechanov ha scritto a proposito di filosofia".