Biblioteca Multimediale Marxista
Tutto per me era cominciato sette anni prima, 1'11 novembre
1936, quando il treno si era mosso dalla stazione di Nimes, col suo carico di
volontari, uomini di ogni età, partito, condizione e paese. Ognuno di
noi lasciava la famiglia o i genitori, gli studi o il lavoro, i sogni e le ambizioni;
ognuno di noi aveva deciso la partenza per la Spagna d'istinto o meditatamente;
ma per tutti il treno partiva all'improvviso, recidendo di colpo un lembo di
vita che ci apparteneva.
Addossati ai finestrini degli scompartimenti guardavamo le case che fuggivano
sempre più veloci tra la Maison Carrée e l'Anfiteatro romano.
Era l'ora in cui la cantina di mia madre s'andava affollando di minatori. Non
era diversa dalle altre baracche: le stesse pareti scrostate e sbrecciate, le
stesse imposte stinte e sconnesse, lo stesso stato di desolazione e d'abbandono
all'esterno, in ogni tempo e stagione.
Quand'ero ragazzo immaginavo che tutte le case di tutti i villaggi di minatori
fossero simili, con strade fangose sotto la pioggia, polverose sotto il sole,
pulite la notte sotto la neve; egualmente disadorne e sovraffollate. Non . sospettavo
neppure villaggi diversi, strade, negozi, palazzi di città.
All'interno dell'osteria avevo trascorso l'infanzia: ne conoscevo l'animazione
notturna e il vuoto diurno. Nella cantina vigilava mia madre, dal primo mattino
a notte inoltrata, sempre presente, in piedi, al lavoro.
Cento fili mi legavano a quelle quattro pareti disadorne, all'assito odoroso
di segatura umida, al soffitto annerito dal fumo, ai bicchieri tozzi e ingenui,
ai boccali panciuti, ai tavoli, alle sedie, alla luce rossastra delle lampadine,
alle oscillanti penombre dello stanzone.
Cento fili mi legavano ai minatori: i loro sigari e le loro pipe m'erano familiari
non meno del cigolio intermittente della porta d'ingresso: di ognuno conoscevo
il volto, l'umore, anche se non capivo sempre la lingua.
Non era un'osteria come le altre. Là era invecchiata mia madre; là
era rimasta sola a gestire la cantina. L'avevo lasciata e aveva pianto.
Pegolo mi dette una gomitata: "Dormi?"
"Lascialo dormire fin che può."
Mi voltai a guardare l'interlocutore francese dal viso magro, scavato, lo sguardo
aggressivo dietro gli occhiali, la fede all'anulare. Rincantucciato parlava
ai compagni che gli stavano di fronte e a fianco.
Mi frugai in tasca, ne tolsi un pacchetto di Gauloises e le offrii come avrebbero
fatto i minatori alla cantina con i nuovi arrivati.
Merci bien! Danke schön! Grazie tante.
Il treno che correva nella notte ascoltò le nostre confidenze fino a
Perpignano: quattro ore per il passato e la nostalgia, l'ignoto e la paura;
quattro ore per comunicarci frammenti di noi, per concludere un capitolo della
nostra vita. Ognuno aveva detto agli altri: "Questo sono io, diamoci una
mano!" Ci eravamo congedati da un mondo prima di avvicinarne un altro.
La Spagna è popolata di castelli: su ogni sommità,
su ogni collina svettano i manieri medioevali, insegna d'una antica potenza,
d'un minaccioso dominio. Chiese, conventi, residenze patrizie, prima ancora
d'essere luoghi di preghiere, di studio, di convegno, erano fortilizi: torri,
mura, feritoie, fossati ostentavano la supremazia dei conti cristiani e degli
emiri arabi. La nostra prima tappa fu il Castello di Figueras. Dai finestrini
ci apparve la città come un tranquillo agglomerato di consunte architetture,
una sequenza monotona ed eguale di uomini e di traffici.
Non che i catalani di Figueras si mostrassero estranei o freddi ma la loro vera
natura esplose solo il giorno della nostra partenza. Allora uomini e donne,
usi a reprimere il tumulto dei loro sentimenti, ad apparire impassibili, uscirono
dalla intimità segreta, come ad un cenno, e si riversarono nelle strade,
ci vennero incontro.
Scendevamo inquadrati dal Castello, compagnie sparute di volontari, senza divisa,
senz'armi, col solo fazzoletto rosso sulle spalle, diretti alla stazione per
la via alberata e tranquilla. D’improvviso le finestre delle case si popolarono
di trecce e di occhi neri, la strada si riempì di voci e di fiori. Dai
patios, dai vicoli, dai portoni, dai negozi, uomini, donne, ragazze ci investirono
a ondate; ognuno di noi, ancora prigioniero dei ricordi, si trovò vicino
uno, due, dieci volti, cento braccia, mille richiami.
E fu cosí per tutto il lungo viaggio, a Barcellona, a Tarragona, a Castelléon,
a Valencia, fino alle falde della Sierra Enguera, fino ad Albacete, la folla
ci seguì sempre: sembrava che ci rincorresse e ci precedesse nelle stazioni.
Ad Albacete, centro di raccolta e istruzione dei volontari di 52 paesi del mondo,
trovammo un inverno artico, venti gelidi, italiani feriti in combattimento della
gloriosa "Gastone Sozzi,"2 francesi, tedeschi, polacchi, russi, venuti
per combattere.
Come in un porto di mare ad Albacete approdavano professionisti, operai, contadini,
minatori; anziani e giovani; politici come Longo, Nenni, i Rosselli, Vidali,
D'Onofrio, Pellegrini, Fedeli, Paolo Clavego, Carlo Farini, Giuliano Paietta,
Roasio, Osvaldo Negarville, Te-resa Noce, Spano, Vincenzo Bianchi, Ettore Quaglierini,
ecc.; i militanti comunisti, anarchici, socialisti, repubblicani; uomini che
avevano abbandonato la casa e l'azienda, miseri braccianti del Mezzogiorno di
Italia, della Croazia, delle pianure d'Ungheria, minatori tedeschi. Il professore
della Sorbona e il minatore della Grand Combe, avevano entrambi una gavetta
per mangiare, un po' di paglia per dormire, un fucile per combattere. Tutti
avevano lasciato dietro a sé affetti, ambizioni, passioni, per combattere
una batta-glia decisiva per la libertà non soltanto del popolo spagnolo.
Accanto ai nuovi arrivati, per le strade della città, nei locali pubblici,
nelle caserme, i miliziani re-duci dal fronte, feriti, mutilati, portavano sul
volto i segni della battaglia. E c'erano donne di tutti i paesi per assistere
i feriti, confezionare indumenti, preparare garze e bende, combattere e morire
se necessario. Un pomeriggio arrivò ad Albacete la salma di Hans Beinkes,3
commissario politico, caduto sul fronte di Madrid il primo dicembre. I morti
spronavano i vivi.
Da Albacete fummo trasferiti alla Roda, un paese distante circa 30 km., per
continuare l'istruzione militare. Il comandante era Picelli, e con lui Ilio
Barontini e Felice Platone. La istruzione militare sollevò proteste:
protestava il reduce della guerra 1915-18, che si credeva esperto e protestava
il ragazzo insofferente di ogni disciplina. Ma come si potevano affrontare i
reparti di Franco bene inquadrati, bene addestrati, bene equipaggiati, col solo
entusiasmo?
I commissari, i comandanti, il responsabile della cellula comunista Malozzi4
faticarono non poco a far capire che dovevamo combattere un forte esercito.
Purtroppo il tempo concesso alla preparazione era insufficiente. Sul fronte
di Madrid occorrevano reparti freschi. L'ordine di trasferimento giunse un freddo
pomeriggio da due veterani, il "Moro," venuto dall'Abissinia e Marchini
della "Gastone Sozzi." Partimmo il giorno seguente, il 14 dicembre
1936; percorremmo sui camion traballanti le strade sconnesse della periferia,
tra povera gente ferma sugli usci e affacciata alle finestre. I camion si arrestarono
in lunga fila, sullo spiazzo davanti ad una caserma, richiamando intorno i miliziani
del Battaglione Garibaldi; il comandante Pacciardi, il commissario Roasio. Sembrava
un ritorno a casa.
Il mattino successivo sveglia alle sei. Fuori era buio e freddo, molto freddo.
Scendemmo e ci allineammo sul grande spiazzo davanti alle caserme. Un ufficiale
gridò i nostri nomi e la compagnia alla quale eravamo assegnati. Io mi
trovai alla seconda compagnia, sezione mitragliere, con Tomat, Faleschini, Cerbai.
Il 17 dicembre partimmo per il fronte: il battesimo del fuoco.
*
Il nemico ha colpito. Garemi5 è stato catturato e fucilato.
Torino ne viene informata dai tetri manifesti che i fascisti affiggono per annunciare
le loro rappresa-glie. La gente legge senza guardare in volto il vicino per
paura che anche un cenno impercettibile tradisca il pensiero. Le spie pullulano
e c'è da giurare che sono appostate nei piccoli muti capannelli.
Dunque è il terrore. La mia città, vista da bambino, sognata negli
anni dell'esilio, ha paura perfino di me. La gente diffida di tutti. L'incubo
delle rappresaglie è una realtà che tappa le bocche e nasconde
anche quel che di solito l'occhio rivela. Ognuno si sente sicuro soltanto nelle
quattro mura della propria casa e anche allora parla a bassa voce.
Perché non ho più addosso l'uniforme lacera della guerra di Spagna?
Perché non mi rintrona all'orecchio lo scoppio furibondo del cannone?
Andare all'assalto, colpire il nemico, conquistare la posizione, perderla, schivare
il freddo colpo della baionetta, avvolgersi nella notte gelata nel mantello
bagnato e aspettare l'alba sotto un cielo pieno di stelle. Vivere e morire da
uomini, non strisciare in questa Torino su cui sembra incombere, dovunque, l'immagine
del plotone di esecuzione.
Risponderemo al terrore col terrore. Colombi, responsabile della federazione
comunista in Piemonte, è un uomo di poche parole. Grosso, silenzioso,
ostinato, scarta le nostalgie con un gesto della mano. Organizzerò due
brigate di gappisti. Colpirò i fascisti dove e come ordinerà il
comando. Due brigate? Dove trovare gli uomini? I contatti sono quasi impossibili.
Ogni incontro, ogni colloquio può essere l'ultimo. Quando parlo con un
compagno sento la polizia alle spalle. L'uomo, il compagno, non sarà
già sorvegliato? Dietro di lui, ignaro, non saranno pronti ad arrestarci,
gli uomini della squadra politica? Naturalmente le stesse domande se le pongono
sul mio conto la staffetta, l'addetto ai collegamenti, il tecnico degli esplosivi,
il collega che procura le armi, tutti i compagni di lotta con i quali si deve
parlare ogni volta per stabilire un programma di azione. Diventano rapidamente
drammatici anche pochi secondi di ritardo. Si affacciano dubbi: la polizia non
sarà intervenuta? Poi se il ritardo si prolunga la mano corre da sola
all'impugnatura della rivoltella, il proiettile è in canna e lo sguardo
si muove attorno in cerca della scappatoia d'emergenza.
L'ora della paura è arrivata anche per noi. Siamo stati capaci di tenerla
lontana per lungo tempo, in momenti difficilissimi, ma ora, è inutile
nascondercelo, ci è addosso e ci rende più difficili í
nostri compiti.
Torno a casa, nel mio piccolo angolo di Via Brunetta n. 3. È un posto
che ispira pace. Nei viali sorgono ancora alberi, gli stessi che, altrove, sono
stati tagliati; i giardini delle villette sono un po' trascurati, ma non troppo;
i proprietari sfollati ritornano a casa almeno una volta la settimana. Qui ho
eletto la mia residenza clandestina: la zona è semidisabitata, nessuno
che possa seguire ogni movimento. Non è necessario simulare abitudini
o uscire soltanto la notte per non suscitare sospetti. Stradicciole e vialetti
interni, recinti di siepi, cancellate metalliche divelte o segate conducono
in giardini deserti, tra i cespugli dove è possibile sempre trovare un
rifugio.
Una donna con una grande borsa al braccio cammina lentamente per una di queste
stradicciole. Suona a tutti i campanelli. In genere nessuno risponde perché
la maggior parte delle case è vuota. A chi apre offre modesti articoli
da toeletta, sapone, una matassa di grossa lana militare. La sua faccia non
mi è nuova, ma non riesco a situarla nel ricordo. Quando suona alla mia
porta scendo ad aprirle. I vicini mi hanno visto entrare poco prima ed è
più prudente agire in modo normale.
"Marco non sta bene," mi dice la donna porgendomi un pezzo di sapone.
È la parola d'ordine. Ora so chi è. Ritiro l'oggetto, verso qualche
moneta nella mano vuota a beneficio dei vicini, nel caso che qualcuno mi guardi.
Rientro in fretta. Sotto l'involucro un biglietto mi fissa un appuntamento per
la sera stessa. L'incontro è rapidissimo all'angolo della strada. Il
tempo di accendere una sigaretta e di ricevere verbalmente un ordine: devo giustiziare
il responsabile della deportazione di oltre settanta patrioti e partigiani,
un maresciallo della milizia, Aldo Mores, molto noto a Torino (amico personale
di Mussolini) che si sta facendo la fama di "duro" distinguendosi
per il numero degli arresti e per la ferocia delle torture. Non c'è tempo
da perdere: l'uomo rappresenta un pericolo permanente per gli antifascisti,
è un simbolo del terrore.
Tornando a casa avverto Antonio che la prima azione è imminente. Antonio
è la prima recluta della costituenda brigata. Per ora siamo in due ma
saremo poi più numerosi.
Ho dormito sotto i bombardamenti a Huesca. Ma stavolta non riesco a chiudere
occhio. Il soffio leggero del vento porta i rumori di una notte di guerra a
Torino. Qualche passo cadenzato, l'eco dei cingoli che chissà dove mordono
l'asfalto, qualche colpo isolato di fucile. Verso l'alba il rombo di aerei.
Tedeschi, direi, dal rumore. L'unico suono familiare è quello di un campanile
poco lontano. I rintocchi echeggiano ogni quarto d'ora: la misura del tempo
è l'unica cosa familiare nella città dominata dall'angoscia.
Finalmente è giorno, mi alzo con rabbia dal letto e in pochi minuti sono
pronto per uscire. Vado in bicicletta a rilevare Antonio che, beato lui, dorme
tranquillo e lo porto in perlustrazione. Sul posto gli ostacoli e le difficoltà
si rivelano più gravi del previsto. La zona dell'operazione è
molto affollata di giorno; non mancano, naturalmente, militari repubblichini
ed anche soldati tedeschi. Per raggiungere il nostro obiettivo bisogna entrare
in un negozio in cui il maresciallo è solito intrattenersi; tentare di
colpirlo altrove, specialmente nelle vicinanze della caserma, sarebbe pazzesco.
Ma anche così l'impresa si presenta quasi disperata. Non si può
contare nemmeno su un minuto per poter effettuare la fuga. Una volta colpito
il criminale fascista, l'allarme sarà dato, anche se involontariamente,
dalla gente presente nel negozio, mentre all'esterno l'eco degli spari richiamerà
il nemico. La sola speranza è di dileguarsi nel fuggi fuggi generale.
E se, per fortuna, nel momento decisivo transitasse nella zona un tram o un
autobus, forse il rumore della sparatoria potrebbe passare inavvertito.
Torniamo indietro. Pedaliamo un bel po' prima di scambiarci una parola.
"Hai visto il maresciallo?" faccio io. "Ha proprio la faccia
dell'aguzzino," risponde e si richiude nel suo silenzio. Agiremo domani.
È difficile definire quello che ci sta accadendo. Paura, rabbia, tensione
si mescolano ad un odio profondo verso un nemico che ci costringe a metodi di
lotta ben diversi da quelli a cui eravamo abituati. In Spagna ed in montagna
il nemico si affrontava in combattimento: faccia a faccia.
Questa è una battaglia solitaria, penso. Tu, solo con i tuoi sentimenti
e le tue pene. Sai qual è l'obiettivo da colpire ma il nemico può
sorprenderti all'improvviso alle spalle o sbarrarti la strada. Mi ritrovo a
casa steso sul letto, gli occhi puntati al soffitto. Ho deciso: agiremo domani.
Prima che cali la sera vado a fare una lunga passeggiata.
Arrivo sul lungo Po e mi fermo a guardare le acque del fiume. Quella corrente
d'acqua in movimento tra un argine e l'altro avrebbe attraversato tutta la pianura,
fino al mare. Anche questa, penso, è una delle poche cose che siano rimaste
normali, come i rintocchi di quel vecchio orologio da campanile che m'hanno
riportato ai ricordi della mia prima adolescenza. Un fiume è una forza
inarrestabile che si muove secondo leggi fisiche, ma soprattutto perché
deve muoversi e deve raggiungere il suo traguardo. Guardo le acque che verso
le rive appaiono maestose e solenni: una forza potente che scivola, silenziosa
e che nessuno può fermare. Già, e chi avrebbe potuto fermarla?
Il pensiero si arrovella attorno alla mia battaglia interiore, alla mia lotta
contro la paura e la solitudine.
Siamo come tanti rivoli che l'oppressione nemica impedisce si riuniscano in
un solo, grande fiume, inarrestabile.
Torino sotto la sferza del terrore sembra la smentita più cupa ed eloquente
a questa grande speranza. Il terrore — penso — c'è davvero
e nessuno riesce a scrollarselo di dosso. Io ed altri come me, si preparano
a colpire il nemico, a ridare speranza ai cuori sgomenti: è già
un segno di forza in condizioni quasi tremende!
Ritorno a casa evitando i controlli delle pattuglie in circolazione dopo il
coprifuoco. A casa leggo, mangio un boccone, metto in ordine le mie poche cose.
Verifico che non vi siano documenti compromettenti per qualcuno se verrò
catturato o colpito. Brucio qualche foglietto di carta, qualche appunto e imprimo
nella mente qualche indirizzo e numero telefonico. Dopo mezz'ora controllo la
memoria: tutto risulta accuratamente archiviato. Posso andare a letto. L'imminente
azione mi concilia rapidamente il sonno. Dormo come da molto non mi accade.
Mi sveglio quando il sole è già alto.
Ma il mattino tutto è diverso. Man mano che Antonio ed io ci avviamo
verso il centro della città, mi opprime il senso di una solitudine disperata.
Noi soli, impegnati a rompere uno degli ingranaggi della macchina del terrore,
in una città che ci ignora, che sembra assente e indifferente, almeno
così appare. Volti di uomini, di donne, di bambini, di repubblichini,
volti di tedeschi sotto gli elmi, volti di gente frettolosa in cerca di pane
con la tessera; volti di donne ansiose di ritornare a casa prima che un allarme
aereo le divida dalla famiglia; visi di bambini a cui sarà negata la
gioia di ritrovare nel ricordo un'infanzia felice.
Antonio mi sorpassa improvvisamente e si allontana appostandosi all'incrocio
della via. Siamo arrivati. Io mi fermo davanti al negozio dove il maresciallo
ha il consueto appuntamento. Appoggio la bicicletta al muro. Do un'occhiata
attorno: tutto sembra tranquillo, niente repubblichini, né tedeschi.
Entro nel negozio. C'è. Si appoggia al banco e di fronte a lui stanno
tre donne. Un'altra, forse la proprietaria, è al suo fianco. Cerco con
la mano la rivoltella. Appena una di quelle donne si sposterà e si creerà
uno spiraglio lo colpirò. Sono sulla soglia del negozio; sento che mi
guardano Alle spalle sopraggiunge un uomo che mi chiede di passare. Mi scosto,
lo faccio entrare. Che cosa faccio? Non posso starmene lì ancora e d'altra
parte, nessuna delle donne si scosta. Sto per andarmene e proprio in quel momento
il bersaglio si libera, l'assassino di tanti miei compagni è lì.
Faccio un passo, mi appoggio allo stipite della porta, fingo di raccattare qualcosa.
Non ce la faccio — penso — non ce la faccio. È proprio paura.
Mi ritrovo all'aperto, sollevato e furibondo. Adesso dovrò mentire. "Il
maresciallo non c'era," dico ad Antonio, "torneremo domani."
Questo è sicuro, domani torneremo. Ma è altrettanto sicuro che
oggi ho avuto paura.
Mentre pedalo tristemente verso casa, ripercorro mentalmente la serie dei fatti.
La paura mi ha tolto il controllo di me stesso, ma a gradi, non all'improvviso.
È cominciata da quel senso di solitudine e di impotenza. Mi sono sentito
braccato prima di cominciare e, quando ho deposto la bicicletta presso il negozio,
immaginavo già i repubblichini che mi inseguivano.
Devo mentire ancora, la sera. Barca viene a trovarmi e mi chiede: "allora
Ivaldi, a che punto siamo?" Ivaldi è il mio nome di battaglia a
Torino.
Non ho il coraggio di dirgli la verità. Barca è di quelli che
sembrano sempre a loro agio nelle situazioni più difficili. Riesce a
filtrare attraverso i rastrellamenti, ai posti di blocco, è pieno di
risorse di fronte agli imprevisti della lotta clandestina in città.
"Oggi il maresciallo non c'era, sarà per domani."
Barca se ne va. Non ho neppure voglia di mangiare. Mi rifugio a letto. Sono
solo e mi vergogno. Si è fidato di me perché sono un veterano
della battaglia. Eppure sapevo che cosa significava combattere la paura, per
poi combattere il nemico, o combattere tutti e due, nello stesso tempo.
*
La Spagna, Madrid, nei primi giorni dopo il mio arrivo. Fame,
bombardamenti e l'Internazionale cantata in coro, tra i madrileni che ci accoglieranno
come salvatori. All'alba, gelati dal freddo, partimmo in camion per il fronte
di Boadila del Monte6. Passavano le case colpite dalle bombe, smozzicate e bruciate;
donne, vecchi e bambini. Trascinavano qualche suppellettile, un carrettino.
Bende sporche su ferite recenti.
Si arrivò in prima linea passando davanti alle infermerie del campo,
affollate, risonanti di grida, incrociando autoambulanze e barelle. Noi eravamo
destinati al contrattacco. Ci sparpagliammo sul terreno. Ci schiacciammo contro
il suolo sotto la pioggia delle bombe. Quando non se ne può più
è quasi un sollievo l'ordine di attacco. Si corse, fummo di fronte. Ora
so cos'è un combattimento, pensai, e fui già nel pieno della mischia.
Una faccia contorta, odiosa nel sovrapporsi della paura sopra l'originale ferocia.
Mi fu di fronte con le mani alzate. Supplicò per la vita, tremava e piangeva.
Era un ufficiale dei distaccamenti coloniali, di quelli che hanno fama di essere
più crudeli. Orgoglioso e prepotente. Ma perse ogni controllo di sé,
in lui viveva soltanto il terrore.
*
Mi risveglio di colpo nel buio della notte. Quella faccia.
L'ho rivista ieri. È la stessa faccia del maresciallo di Via Fabio Filzi,
gonfio di orgoglio, pronto a inferocire fino a che si sente il più forte
e a strisciare nel momento del pericolo.
Oggi i fascisti si sentono sicuri a Torino, sotto la protezione dei Panzer tedeschi,
delle SS, della polizia che riempie le camere di tortura. Credono di averci
paralizzati, ma non ci conoscono.
Ora so perché sono scappato dal negozio. Mi ha paralizzato l'impressione
di essere solo a combattere una guerra troppo diversa, ho sentito la mancanza
dei compagni che corrono attorno a me all'assalto. Mi ha bloccato il silenzio
al posto del grido che esce insieme da cento petti. Non ci sono bandiere spiegate
in questa guerra, non c'è l'eroismo del bel gesto in faccia alla moltitudine
degli amici e dei nemici. Ma la guerra è la stessa. L'avversario ha il
medesimo volto, quello dell'ufficiale franchista e del maresciallo torturatore,
io sono sempre un soldato di un esercito numeroso, anche se avanzo da solo in
territorio nemico, per colpire il terrore col terrore.
È l'alba. Devo raggiungere Leone al comando regionale
piemontese. Fa maledettamente freddo, anche se è una giornata di sole.
Ripeto a Leone la mia bugia. Ma non fa nulla. So che oggi chiuderò la
partita. Pedalo vigorosamente per arrivare a casa di Antonio. Mi aspetta. Partiamo.
Imbocchiamo Corso Francia. Il solito traffico di tram e di autobus, il solito
passaggio di gente imbacuccata e malvestita, di soldati in divisa grigioverde
ed oliva. Ancora una volta Antonio mi supera e va ad appostarsi all'angolo per
proteggermi le spalle. Depongo la bicicletta a due passi dal negozio. Il maresciallo
è all'interno. Lo vedo. Chissà che cosa viene a fare qui! Probabilmente
ha un'amica tra queste donne e si concede qualche piccola distrazione prima
di tornare al "lavoro."
"Ormai non torturerai e non ammazzerai più nessuno," —
non sto pensando queste parole; le dico ad alta voce senza volerlo. Il maresciallo
si volta. Capisce. La sua grinta si scioglie in una smorfia di smarrimento e
di implorazione. Ha la faccia di tutti i vigliacchi, la faccia di quello che
catturai in Spagna.
Sparo con tutte e due le pistole. Mentre l'uomo si piega, esco rapidamente,
intasco le armi e inforco la bicicletta. Gli spari hanno suscitato una confusione
indescrivibile. Tutti corrono in tutte le direzioni. Il traffico si arresta;
anche dagli autobus la gente scende e scappa senza ragione. Posso allontanarmi
tranquillamente. Antonio lo troverò più tardi, con calma.
In periferia incontro camion carichi di repubblichini che si avviano verso il
luogo dell'azione. Adesso sanno che la giustizia può raggiungerli anche
all'ombra dei "tigre."
Note
2 La centuria "Gastone Sozzi" (dal nome del martire
antifascista ucciso dall'OVRA nel 1921 nelle carceri di Perugia) fu formata
dal primo scaglione di italiani che raggiunse la Spagna fin dal-l'agosto 1936.
Comandante della centuria fu Francesco Leone.
3 Già deputato comunista tedesco.
4 Malozzi: fu fucilato dai nazifascisti a Roma il 10 giugno 1944.
5 Ateo Garemi, nato il 6 marzi 1921. Fu uno dei piú attivi combattenti
del F.T.P. della regione marsigliese. Rientrato in Italia lia il 22 settembre
1943, fu il primo comandante dei GAP a Torino. Con Dario Cagno il 24 ottobre
partecipò alla esecuzione del seniore della milizia. Arrestati, furono
condannati a morte e fucílati. Alla domanda del presidente del tribunale
di inoltrare domanda di grazia al "duce," Garemi rispondeva: "Non
chiederò nessuna grazia. Non sono io che devo avere paura; io ho solo
compiuto il mio dovere di proletario, di italiano, di comunista. Sono sereno
e la morte non mi spaventa. Siete voi che dovete aver paura, voi che morirete
nell'ignominia come tutti i traditori."
6 Boadila del Monte: il primo fronte a cui ho partecipato.