Biblioteca Multimediale Marxista


Capitolo quattordicesimo
A ritmo serrato



Ritorno a Milano, dove ricomincio da capo con Franci a organizzare le nostre forze.
In viale Argonne, all'interno della chiesa di S. Marco e Achille, trovo un luogo ideale di riunione: il laboratorio lo installiamo altrove.
Due giorni dopo la schiera si ingrossa con Minardi e due giovani ragazze, Olga e Grazia. Conto molto sul gruppo di Niguarda, col quale sono rimasto in contatto anche durante l'esilio a Rho.
La mattina del 16 dicembre la radio e i giornali danno all'improvviso la notizia: alle 11, Mussolini parlerà al Teatro Lirico, nel cuore della città.
Alle 8,30 giungo all'appuntamento con Busetto. Chiedo a bruciapelo: "Hai saputo?" "SL" "Ebbene, che cosa facciamo?"
Proseguiamo qualche passo insieme, in silenzio. Attendo una risposta. "È difficile decidere così all'improvviso," dice Busetto. Questa è un'azione che richiederebbe giorni di preparazione. Non possiamo improvvisare.
Non sono convinto. Germogliano dentro di me cento idee. In fondo, penso, sarebbe un'azione come molte altre, l'obiettivo soltanto è più importante. Raggiungo Conti in corso Venezia. Ci incamminiamo verso il Lirico. I nostri occhi corrono sui muri alla ricerca di un pertugio, lungo gli angoli, alle finestre, agli sbirri in borghese...
Man mano che ci avviciniamo al teatro, i gruppi diventano più fitti. Su loro, su noi, sulla città martoriata dai bombardamenti e dal terrore cadono, portate dall'altoparlante, le parole di Mussolini. Qualcuno applaude, altri conversano in ogni dialetto.
Abbiamo la sensazione esatta di non poter agire e rinviamo tutto all'indomani. Dico a Conti: "Vieni domattina, alle 8, in corso Garibaldi, con Antonio e Giuseppe." Mussolini parlerà di nuovo in piazza Castello.


Da corso Garibaldi imbocchiamo via Cusani, traversiamo Foro Bonaparte e raggiungiamo piazza Luca Beltrami. Le difficoltà incontrate il giorno prima sono decuplicate. Dovremmo infiltrarci tra i cordoni di fascisti armati e tra la folla di quelli in borghese. Ma poi? Come agire? Percorriamo via Pozzone, via Rovello, via S. Tommaso, fino all'angolo di via Dante. Possibile, impreco dentro di me, che non vi sia un buco, una finestra, una feritoia qualunque dove appostarsi? Ma i minuti trascorrono mentre il corteo fascista si snoda. Ci allontaniamo in silenzio, inseguiti dai rauchi "evviva" delle camicie nere.
E stata un'esperienza amara. Ma bisogna superare la delusione e dire ancora, clamorosamente, che Milano non e quella di via Dante, del Lirico o del Castello Sforzesco.
D'accordo con Franco e Marcello si fa una riunione nei sotterranei della chiesa di viale Argonne, per discutere il piano d'azione contro i ritrovi dei nazifascisti. Marcello si impegna a far affluire nei GAP alcuni uomini del Fronte della Gioventù. Non potranno mai arrivare alla brigata perché, scoperti ed arrestati, saranno fucilati al campo Giuriati.
La riunione finisce alle 11,30. Stiamo per uscire, ma qualcuno ha sprangato la porta.
Con un punteruolo ed un martello, dopo mezz'ora di lavoro riusciamo a scardinarla.
Piano d'azione. Di giorno e anche di notte, accompagnati da Minardi, Selvetti, Olga localizziamo i ritrovi più frequentati dai nemici.
Un autocarro della "Resega" subisce il primo attacco, nella notte tra il 29 e il 30 dicembre 1944 in via Stephenson, di ritorno da Torino con bombe e mitra: ne uccidiamo sette e altri riportano gravi ferite.

30 dicembre: vigilia dell'anno nuovo. Su tutti i fronti gli eserciti alleati sono all'offensiva, su tutte le montagne i partigiani si rafforzano, di giovani.
Alle 20,30 arrivo sul posto, in piazza Fiume. È già buio quando entro nel ritrovo dove gruppetti di fascisti e di tedeschi bighellonano inerti. Il locale e affollato. Esco, ritiro le bombe da Minardi e Olga, e rimango solo. Ritorno nel locale. Ascolto le note di una canzone in voga. Sulla porta due tedeschi litigano con un fascista a causa di una donna.
La lite chiama gente. Si crea un po' di confusione. Ne approfitto per passare dietro il gruppo. Con la sigaretta accendo la miccia, colloco la cassetta. Mi sento, all'improvviso afferrare per un braccio; qualcuno, si attacca a me e farfuglia nel suo strano italiano: "Io arrivare guerra..." Sulla porta continuano a litigare. Con uno strattone mi libero dell'ubriaco. È tempo: qualche minuto dopo un violento scoppio lacera l'aria. È la nostra prima risposta a tutte quelle tristi fanfaronate del teatro Lirico.
Il giorno di San Silvestro, in tre cinematografi cittadini (il "Pace," lo "Smeraldo" e l'Impero") i gappisti irrompono nel bel mezzo dello spettacolo, ne sospendono lo svolgimento e lanciano manifestini inneggianti alla lotta di Liberazione. Al "Pace" c'e battaglia in platea con i fascisti della compagnia "Bir el Gobi": uno rimane ucciso, altri due feriti. In serata in piazzale Firenze altri gappisti della Terza attaccano due sottufficiali fascisti, abbattendone uno.
L'indomani, la prefettura, in seguito all'intervento del colonnello Rauft, il comandante germanico della polizia di sicurezza dispone la chiusura dei locali pubblici alle 19,30: dalle 19 alle 5 del mattino è vietata la circolazione di biciclette.
Noi intensifichiamo l'attività, non diamo tregua al nemico. Il 7 gennaio attacco da solo un locale in via Vittor Pisani, angolo piazza Duca d'Aosta, sempre molto frequentato dai tedeschi e dai fascisti... I fascisti ammaestrati dalla prima azione, hanno disposto davanti ai loro ritrovi la sorveglianza di sentinelle. D'accordo con il tecnico, ho fatto costruire un involucro a fisarmonica. Sono le 17,30 di un pomeriggio buio, nebbioso. Mi getto il falso strumento sulle spalle, rabbrividendo al contatto. Prima di entrare, accendo la miccia. Mi guardo attorno, siedo, ordino da bere, chiedo dove sia la toilette, depongo il fardello a terra, inosservato esco sotto lo sguardo della sentinella. Faccio pochi metri: lo scoppio! Secondo il calcolo delle autorità sono quattordici fra morti e feriti.
Il giorno dopo, il capo della provincia, Mario Bassi, emana il seguente comunicato "... causando la perdita di militari italiani e germanici e di cittadini. Visto l'art. 19 della legge comunale e provinciale ho decretato: 1°) con decorrenza immediata il coprifuoco e anticipato dalle ore 22 alle ore 20,30. 2°) I servizi pubblici adegueranno il loro servizio a tale orario. 3°) Gli esercizi pubblici e i luoghi di divertimento chiuderanno i locali alle ore 19,30... ecc. ecc."
Sono provato, teso e solo. Chiedo maggiori aiuti ma non ricevo risposta. Scrivo, protesto. Poi mi quieto e invento qualcos'altro.
Mi incontro con Lina.44
"Perché hai voluto vedermi?"
"Dimmi una cosa," le chiedo, "tu porti sempre lo stesso vestito. Potrebbero facilmente riconoscerti. Cerca di cambiarlo, qualche volta."
"Lo farei volentieri, se potessi."
"Andiamo, allora."
Ci incamminiamo verso un negozio di corso Vittorio Emanuele. Lina sceglie un cappotto di colore grigio chiaro. Le sta bene. È contenta. Mi chiede ancora: "Perché hai voluto vedermi?"
"Ebbene," dico, "te la sentiresti di compiere una azione con me?" È facile mettersi d'accordo per la sera del 13 gennaio 1945, collocheremo alcune bombe in un ritrovo in via Ponte Vetero frequentato dai nazifascisti e dai trafficanti di borsa nera.
La sera io e la Selvetti ritiriamo le bombe, portate da Minardi e da Olga. Ci incamminiamo lentamente. È una notte buia, umida, dal cielo coperto. Lina ha indossato il cappotto nuovo e ha al collo una sciarpa che le ha mandato la madre. Le cammino accanto tenendo le mani in tasca, pronto a intervenire. Lina dovrà restare con me fino alla porta del locale, e poi allontanarsi. Ci troveremo all'indomani.
Siamo quasi vicini all'obiettivo. Ci fermiamo. Nella nebbia giungono scricchiolii di passi, mormorii di voci come se un gruppo di persone si dirigesse alla nostra volta. La mano di Lina stringe la mia. Il rumore di passi si spegne, ma non le voci, troppo basse per essere intelligibili. Poi anche le voci tacciono e regna il silenzio. Ascolto solo il battito del cuore di Lina.
"Non hai paura?"
"No."
Che cosa si può dire a una ragazza che porta nella borsa un carico di bombe?
Continua ad osservarmi. Dico ancora: "Perché non hai paura? tutti hanno paura."
"Allora io non sono come gli altri. Mi preferisci forse con la paura?"
"Ci sono momenti in cui si ha paura," insisto.
"Ed allora sono dolente di deluderti. Non mento, ti assicuro."
All'improvviso sento i suoi occhi quasi dentro di me: le mie guance scottano, bruciano come sempre accade quando sento il suo sguardo. Accendo una sigaretta, osservo i movimenti delle sue mani, voglio fissare le lente volute del fumo.
Dice: "Mi pare che stia arrivando gente." Le sue braccia mi circondano. Sono sbalordito. Sento il suo bacio sulle mie labbra. Sollevando la testa incontra il mio sguardo: "Ho dovuto farlo," dice.
Ha gli occhi socchiusi. Distolgo lo sguardo, sopraffatto dall'imbarazzo. Due tedeschi stanno entrando nel ritrovo. Mi prende una mano tra le sue, me la stringe disperatamente, affannosamente, premendola contro di sé. Sento quelle sue mani, la guancia morbida, infuocata contro la mia tempia. Non parlo, ho la forza di non parlare: e poco dopo si stacca da me.
Mormora alcune parole. Io scuoto la testa con forza. Penso all'azione, a quello che dovrò fare di li a poco. Mi guarda con espressione seria, con occhi dolci e teneri.
"Sei veramente coraggiosa."
Le tremano le labbra. "E' facile essere coraggiosi quando si e in buona compagnia. Io sono come tutte le altre."
"No, tu sei differente."
Tutt'intorno è ancora silenzio. Accendo una sigaretta, l'appoggio alla miccia. "A domani." "A domani," rispondo, mentre si allontana.
Entro, mi siedo. La bomba questa volta assomiglia a un pacco di dolci. La passo sotto il tavolo. Vado verso la toiletta e imbocco la porta che dà nel corridoio. Ho fatto soltanto pochi metri che l'ordigno esplode. Una scheggia mi sfiora. Mi trovo di fronte alcuni tedeschi. Ritorno sui miei passi. Arriva una camionetta. Mi guardo attorno.
Cammino in fretta. La prima strada che ho infilato mi riporta sui miei passi. Ne imbocco un'altra e mi trovo in mezzo a un caseggiato distrutto dai bombardamenti. Mi arrampico sulle macerie. Fa freddo, i vestiti aderiscono alle travi, le mani e le ginocchia sono lacerate dalle pietre. Una raffica di mitra e poi una seconda, più violenta mi fanno sussultare. Incespico, mi sento braccato. Vedo avanzare un'ombra nera, rasente il muro; avanza e si ferma, volgendo il capo per guardarsi attorno come spaventata: qualcos'altro si muove circospetto. Le due ombre si scambiano poche parole. Fanno alcuni passi assieme e un portone si apre, inghiottendoli.
Freddo, ansia, inquietudine, emozioni: febbre. È l'ora del coprifuoco. Passano, con le sirene urlanti, alcune macchine. Mi appiattisco sul ventre, premo la fronte contro le macerie per evitare le lame di luce dei fari. Tornano le tenebre e il silenzio. Il freddo mi e penetrato nella ossa. Respiro profondamente, mi rialzo e vedo ancora davanti a me, nel buio, la strada; odo nuove voci, nuovi rumori di macchine. Mi sposto lentamente, reprimendo il desiderio irragionevole di abbandonare quelle case in rovina.
Un pezzo di legno rotola facendomi sussultare. Appoggio la mano al muro, mi guardo attorno. Sento un'altra voce.
Quelle voci! Rimango impietrito con la mano sul cuore che batte. Vedo un uomo. Mi pare ubriaco. Mi mordo le dita, affondo i denti nella pelle per non urlare. L'uomo si sdraia. Ritorna la calma, non dentro di me.
È una delle mie tante notti partigiane, ma ben diversa da ogni altra. Corro alle stelle del cielo di Spagna che tante volte mi erano state amiche nelle attese, nei turni di guardia, nei ricordi della casa e della patria lontana; corro all'infanzia, alla miniera, al volto di tanti amici, di tanti compagni; ritrovo perfino davanti a me il viso... di quel tedesco che in piazza Cadorna chiese pietà mostrandomi l'immagine dei suoi figli; sento ancora bruciare il bacio di Lina; afferro, nel guizzo veloce del ricordo, i momenti teneri della lontana infanzia; ma poi tutto torna crudelmente vero. Mi avvolge il sonno tormentato della grande città, l'odore della guerra, il rantolo di un avvinazzato. Questa e dunque la mia sorte? Sto veramente impazzendo, disteso su un cumulo di macerie, accanto a un ubriaco? Ho qualche secondo di smarrimento e poi ricomincio a pensare. Penso da uomo di senno. Possibile, mi dico, che si debba essere sempre così soli, così pochi? Possibile che non si possano trovare altri gappisti? Cosa sarà di noi, di me, dopo la guerra? Quando avremo vinto?
Forse ritorneranno con noi anche coloro che oggi collaborano col nemico, coloro che sanno sempre adeguarsi, che sanno dire di sì. Che scopo hanno dunque i nostri sacrifici, il sacrificio di quelli che muoiono? E domani? Oh, domani si faranno avanti gli altri. Ricordo i minatori e la loro miseria, i giorni senza pane, il focolare spento, le settimane senza lavoro, la porta chiusa la sera perché non si era pagato l'affitto, l'insolenza dei padroni, la dignità calpestata.
Ricordo i sacrifici di tanti compagni, qui e in Spagna, e le battaglie, gli agguati, le interminabili attese prima dell'assalto. Ricordo Huesca.

*

"Attaccare per salvare Bilbao" era la parola d'ordine di quei giorni. Il grosso delle forze repubblicane in marcia verso Huesca era composto da Brigate Internazionali e da reparti dell'esercito regolare. Arrivammo a metà giugno a Huesca, un fronte da mesi inoperoso dove l'inerzia dei reparti anarchici favoriva l'azione dei franchisti sugli altri fronti: nel settore non si era mai sparato un colpo. Il caldo, il sole allucinante, la terra arida, la mancanza d'acqua, la diffidenza degli anarchici erano deprimenti.
Dopo una marcia notturna arrivammo in trincea sul Colle del Cigno, una gobba del terreno protetta da due file di reticolato e da qualche vigneto. Non c'era una pianta a difenderci dal sole. Una conca, un torrente, un campo di grano, una strada, un villaggio e un campanile ci separavano dal nemico.
Al nostro arrivo i fascisti ruppero la tregua.
Dal campanile seguivano tutti i nostri movimenti, aprirono il fuoco su ogni bersaglio mobile, costringendoci a rimanere acquattati nelle buche.
L'aviazione repubblicana bombardava le posizioni nemiche; i nostri carri ne attaccarono lo sperone avanzato di Chimilas seguiti da un battaglione della brigata.
L'artiglieria franchista martellava senza sosta i carri e gli uomini per arrestarne l'assalto e per dare tempo ai propri rinforzi di affluire. Il nostro battaglione restò bloccato a ridosso delle trincee nemiche, i nostri carri ripiegarono.
Un rombo in cielo: aerei repubblicani si scontrarono con una grossa formazione nemica. Un nostro aeroplano, colpito, precipitò nella terra di nessuno, mentre l'aviatore si lanciava col paracadute. La mitragliatrice nemica piazzata sul campanile apri il fuoco contro il puntino dondolante sotto l'ombrello bianco. Facemmo segnali per farci riconoscere dal pilota: l'uomo si schiacciò contro il suolo nudo. Dal campanile la mitragliatrice continuava a tirare. Due garibaldini strisciarono fuori dalla trincea per avvicinarsi all'uomo immobile, ma non poterono avanzare. Rispondemmo allora al fuoco con tutte le nostre armi per evitare che il pilota venisse colpito o fatto prigioniero.
Trascorsero ore ed ore: i nostri sguardi erano costantemente puntati sull'aviatore sdraiato al suolo, incredibilmente immobile. Forse era colpito, forse era morto. I due garibaldini usciti dalla trincea poterono rientrare. Di colpo, nel vigneto, vedemmo una testa apparire e sparire; era il pilota.
"Dandolo," un garibaldino, gli gridò qualcosa in russo. Il pilota strisciò ancora qualche metro verso di noi e si fermò di nuovo. Era disorientato. E Baldassarre a sgolarsi: "Tovarisc, tovarisc! " senza riuscire a mettere insieme due o tre frasi convincenti. Il pilota taceva. "Tovarisc, tovarisc" gridò di nuovo Baldassarre. All'improvviso il pilota riprese a strisciare senza più fermarsi finché scivolò nella nostra trincea. Era quasi un ragazzo, alto, robusto. Sorrideva con aria confusa, come per farsi perdonare di non averci riconosciuti subito. Strinse tutte le mani e abbracciò i garibaldini più vicini prima di allontanarsi verso il comando.
Poi vennero i bombardieri: vedevamo cadere le bombe prima di sentirle esplodere. Quattro caccia volavano verso di noi. Sparammo. Tutti assieme con i fucili, con le mitragliatrici, contro la loro pancia schifosa.
Si allontanarono. Uno lasciò dietro di sé una scia di fumo, si abbassò, andò a schiantarsi sulla terra di nessuno. La trincea urlò dalla gioia, festeggiando il sergente Pietro Borghi, modesto e schivo, nella sua buca, dietro l'infallibile mitragliatrice. Scese la sera e finalmente potemmo muoverci, camminare. Nell'oscurità il nemico continuava a sparare.
Domani saremmo andati all'attacco: eravamo eccitati e inquieti, come ad ogni vigilia. Il nemico ben trincerato disponeva d'una considerevole massa di fuoco. La notte trascorse lentissima, esasperante. Il cielo era pieno di stelle. La luce bianca della luna illuminava la grande pianura che ci stava davanti, senza alcun riparo, i campi di grano, i vigneti, il piccolo fiume. Pochi di noi dormirono. Avevamo gli stessi pensieri; i compagni morti ieri, quelli che moriranno domani. Avevamo gli stessi desideri: che quella notte non finisse mai, che l'oscurità ci proteggesse dalla morte.


Spuntò l'alba. Correvo nella pianura, altri correvano con me, gridando non so cosa.
Gridare mi faceva sentire ancora vivo, mi faceva correre avanti, gridare tanto forte da coprire lo schianto delle bombe.
Altri gridavano, altri correvano: m'accorgevo appena di loro. C'era l'inferno: raffiche zappavano la terra davanti e ai lati; i tonfi delle bombe laceravano l'aria. Grida, gemiti, singhiozzi. Molti cadevano ma io non avevo altro pensiero che quello di correre. Alla sera ci ritirammo. La notte finì. Risuonò di nuovo l'ordine di attacco: di nuovo gli uomini uscirono dalle trincee, dalle buche, allo scoperto, sotto il fuoco delle mitragliatrici inesorabili. Sostai un attimo; il tempo di vedere gli uomini che precipitavano a terra come sacchi vuoti. Due carri armati in fiamme fra il grano. Vicino a me un ferito urlava e imprecava; un altro, illeso, raggomitolato a terra, sussultava, piangeva e invocava la madre.
Mi sorpassò un veterano dai capelli bianchi, lo sguardo fisso, gridando a se stesso: va' avanti, presto, avanti, corri !
Uno dei nostri carri s'impennò presso il fiume e prese fuoco. Avanzavo a testa bassa ma a correre eravamo sempre in meno; le raffiche delle mitragliatrici ci spruzzavano addosso zampilli di terra. Il fiume era vicino. La mitraglia nemica continuava a sparare una pioggia incessante. Correvo fra i colpi; rotolai dall'argine, attraverso il rigagnolo, mi stesi al riparo dell'altro argine.
Rimanemmo in quattro. E in quattro non si poteva continuare l'assalto.
Ci raggiunse un portaordini, un giovane spagnolo, ad annunciare rinforzi. Si sollevò, ricadde di schianto, colpito al viso. Il corpo rotolò giù, in acqua.
Tomat: era li, anche lui, dietro di noi. "Dobbiamo ritirarci," gridò, "ordine di Raimondi che e al comando. Battistelli e gravemente ferito."
Molti i morti, moltissimi i feriti. "Dov'è la mitragliatrice del primo distaccamento?" chiese Tomat. "Più avanti."
"Più avanti? È impossibile."
Insistei. Tomat mi ordinò di andarla a riprendere. Strisciai fuori dal riparo dell'argine. Seguii una traccia lasciata fra le spighe e avanzai per un centinaio di metri, finché urtai contro la schiena di un garibaldino morto. Cerbai e la mitragliatrice erano ancora più avanti. Altri feriti che gridavano, piangevano. Non potevo fermarmi, continuai a strisciare; finalmente a quaranta metri dalle trincee nemiche la mitragliatrice, Cerbai e un altro garibaldino, i soli rimasti della squadra di otto uomini. Cerbai imprecava. Strisciando tra morti e feriti trascinammo la mitragliatrice. Afferrai per un braccio un garibaldino con la gamba fracassata e la spalla rotta, lentamente, dieci centimetri alla volta, lo trascinai fino al fiume dove Cerbai mi aveva preceduto con la mitragliatrice. Aspettammo la sera per andarcene;. il buio per salvare i feriti. Cadde di nuovo la notte; lasciammo il fiume, rientrammo nelle trincee fra i vigneti. All'appello, ogni cento uomini ne mancavano sessanta.

*

Un topo mi striscia fra i piedi rosicchiando qualcosa. Tremo di freddo, non posso far niente. E l'uomo sdraiato a pochi metri mi infastidisce e mi preoccupa.
Una campana suona le due e un quarto. Vorrei addormentarmi e svegliarmi al mattino. Sento lo sferragliamento di un tram. Tento di alzarmi. Le gambe, la schiena, tutto mi fa male. Con uno sforzo sono in piedi, per ripulirmi, muovermi. Mi incammino passando davanti allo sconosciuto che dorme.

Dopo gli eccidi del Campo Giuriati e di Arcore il comandante Piazza non tarda a emanare l'ordine di gettare ogni forza al contrattacco. Il nemico non dovrà avere più tregua; e noi pure. Le SAP assaltano le caserme dei fascisti; in piazzale Firenze un ufficiale e due fascisti cadono sotto i colpi dei GAP, ai quali si e unito il gruppo "Walter." Sono proprio i suoi uomini a fare giustizia di un maresciallo e di un sergente di Mori, spie, aguzzini, il 3 febbraio 1945. Altri giovani accorrono nelle file partigiane per entrare nei GAP. Una delle nuove squadre provoca il deragliamento di un treno; il distaccamento "Walter" dal 5 al 10 distrugge cinque grossi autocarri, abbattendo due soldati tedeschi. Nei corso di questa lotta senza quartiere, matura il piano di attacco alla trattoria "Leon D'Oro," in corso Garibaldi, dove ha sede la mensa della Muti di via Schiapparelli. I fascisti hanno tentato di trasformare la loro tana in un fortilizio, accatastando casse di munizioni, e intensificando la vigilanza. Il piano d'attacco deve essere studiato molto dettagliatamente. Incarico Minardi, Olga e Pellegrini di trovare i mezzi e i modi migliori per penetrare nel "Leon D'Oro" e collocarvi gli ordigni. L'azione e fissata per il 4 febbraio 1945.
La squadra agirà agli ordini di Franci. Con lui devono andare Albino Rossi, Albino Trecchi (già della III divisione "Aliotta" operante nell'Oltrepò pavese) e Lina Selvetti.
Alle ore 17 ho un incontro con Franci; alle 17,30 con Lina Selvetti. Decido di prendere direttamente il comando. Franci mi guarda incredulo: "Cosa significa questo cambiamento?" Taccio. "Non ti fidi, forse?" La semplicità delle sue parole mi toglie ogni volontà di ribattere. "Va bene; hai vinto. Sai che non e una questione di sfiducia. Volevo solo dirti di metterci la massima attenzione." Li vedo incamminarsi tutti e quattro.

Minardi e Olga sono colti all'improvviso dal boato. Guardano l'orologio. "C'e stato un anticipo" esclama Olga terrorizzata. Le sue parole si confondono con le imprecazioni e gli spari.

A sera, in piazzale Susa, attendo invano Franci. Mi allontano molto turbato. Non mi reco al solito indirizzo ma in via Merzario, in casa della signora Amelia Rozza, moglie di un ingegnere deportato in Germania, un rifugio sicuro. Nello stesso stabile abita la signora Baroni, che all'occorrenza mi concede ospitalità. Trascorro una notte insonne.
Al mattino, sono in strada all'alba per incontrarmi con Minardi. Tutto e spaventosamente chiaro. "La bomba," dice, "e esplosa prima del tempo. Poi non e stato piú possibile avvicinarci."
"E i ragazzi?"
"Niente, non ne so niente."
I familiari di Franci sono preoccupati, ma ancora all'oscuro di ogni cosa. Mi implorano. Prometto loro, confusamente, non so che.
Il giorno dopo mando una compagna, Tatiana, che conosce Franci e Lina, all'obitorio. L'attende alle 11 in piazza Guardi; so che non rivedremo più né Franci né la ragazza.
Come può essere successo? Un difetto tecnico della bomba? Una spia che li ha riconosciuti? Qualcuno ha forse sparato facendo esplodere la bomba? O Franci ha acceso la miccia prima del tempo? Domande senza risposta.
Lina Selvetti aveva solo ventiquattro anni. Nelle giornate del settembre 1943 era stata tra le prime ragazze partigiane, in Valtellina. La ricordo, durante una azione condotta assieme, quando mi baciò dicendo: "Non dovevo farlo, vero?"
Albino Rossi: un glorioso combattente dell'Oltrepo. Aveva chiesto di passare alla 3" brigata GAP perché "voleva fare di più."
Nell'azione contro il posto di ristoro è rimasto gravemente ferito! Con stoicismo ha sopportato gli atroci dolori ed e spirato all'ospedale mormorando alla suora che lo assisteva: "Per la libertà, per l'indipendenza."
Albino Trecchi: milanese, 22 anni. Un altro partigiano dell'Oltrepò, anch'egli aveva chiesto di passare tra i gappisti. Gli e costata la vita.
Luigi Franci: subito dopo l'8 settembre aveva aiutato i prigionieri inglesi a fuggire in Svizzera. Generoso, entusiasta, si adoperava per nascondere i patrioti, per raccogliere danaro, medicinali; per distribuire la stampa clandestina. Anche lui, come gli altri, aveva chiesto di "fare di più." Era di grande aiuto per confezionare bombe e procurare urgenti quantità di esplosivo e di armi. Ma non era soddisfatto. Voleva passare all'azione contro i nazifascisti. Ottenuto di dirigere l'azione contro il ritrovo di corso Garibaldi vi cade assieme alla sua squadra, il 4 febbraio 1945.
Negli anni prima della guerra lavorare alla Caproni, in tuta bianca, significava sfuggire all'Etiopia e dal 1937 in poi alla Spagna quando, invece di sbarcare a Massaua gli emigranti scendevano a terra a Tangeri, prima di ripartire per il fronte iberico. Lavorare alla Caproni significava sicurezza di un lavoro: idrovolanti, bimotori, aerei da primato, una produzione moderna, un clima artigianale. La Caproni era simbolo di prestigio, nonostante un declino che nessuno immaginava imminente.
Lavorare alla Caproni, come in altri stabilimenti del tempo definiti "di interesse nazionale" permetteva all'operaio di sfuggire alla incerta sorte dei più. Le maestranze erano il fior fiore della gioventù operaia italiana. Perfino il regime doveva chiudere un occhio su certe insofferenze perché aveva bisogno degli operai della Caproni per la sua produzione. Se molti erano antifascisti, erano tuttavia capaci. Si lasciava perdere.
Con la guerra i tempi si fanno più duri. Cadono le bombe.
La disciplina si inasprisce. Il 25 luglio sembra che il calvario sia bruscamente interrotto. L’8 settembre, mentre i Savoia scappano a Pescara e i ricchi del Nord in Svizzera, gli operai occupano la fabbrica; si impadroniscono di duecento mitragliatrici e si preparano a resistere. Ma Milano capitola e gli operai della Caproni non possono far la guerra da soli. In fabbrica, lentamente riprende l'attività. Le duecento mitragliatrici scompaiono in luogo più sicuro. Prima in Via Manzoni, alla sede del comitato di Liberazione, e poi a Cernobbio dove servono ad armare uno dei primi reparti partigiani.
Alla Caproni ritorna il colonnello Cesarini, una specie di gigante, una bestia inferocita, l'immagine della prepotenza e del terrore. Ostenta la violenza e il cinismo. Assiste agli arresti; firma personalmente ogni atto di repressione. È insolente, ottuso, sanguinario. L'uomo che prima della guerra in fabbrica era incaricato della disciplina aziendale, ora e l'incarnazione della vendetta e della rappresaglia; l'immagine stessa del fascismo repubblichino.
Ordina la schedatura degli antifascisti che si sono distinti nel periodo badogliano. Molti fanno già parte dell'organizzazione clandestina che ha già cominciato ad operare in fabbrica. Ha inizio il confronto senza quartiere tra i repubblichini della brigata nera che presidia gli stabilimenti e sorveglia gli uomini, li spia e li arresta e gli uomini dell'organizzazione clandestina che preparano le azioni di sabotaggio, che reclutano i combattenti per le formazioni di montagna e si sforzano di neutralizzare delatori e aguzzini.

L'ingegnere Giovanni Cervi, dirigente di Giustizia e Libertà portato a San Vittore, viene fucilato all'Arena, in una mattina nebbiosa dell'ottobre del '43. È la prima vittima del colonnello Cesarini.
L'assassinio alimenta un'atmosfera di odio; la presenza del gerarca e una provocazione continua sia quando, in ufficio, interroga gli operai, sia quando passeggia di reparto in reparto, seguito dai pretoriani. Gli operai proclamano lo sciopero: ben quattromila si assentano dal lavoro.
Le rappresaglie creano vuoti in ogni reparto. Se il compagno di lavoro non si fa vedere per un giorno o due non vi e dubbio che sia in prigione. Dalla prigione molti partiranno per la Germania; altri moriranno su qualche piazza o a qualche angolo di via, impiccati. Lo si saprà scorrendo i giornali o leggendo i nomi dei "banditi" fucilati. Nel frattempo bisogna stare in guardia: attorno al posto dell'assente si aggira uno sgherro della Muti o una faccia sospetta di spia; bisogna evitare di chiedere notizie del compagno per non subire la stessa sorte.
Contro i 30 della Muti agli ordini di Cesarini gli operai resistono ma non cedono. Dopo lo sciopero dell'ottobre, altri si succedono in novembre e in dicembre: le rivendicazioni aziendali mascherano i motivi politici. L'organizzazione clandestina comincia anch'essa a vibrare i suoi colpi. A novembre uno dei trenta repubblichini della Caproni, uno dei più feroci, mentre passa in via Aselli, viene abbattuto da alcuni colpi di pistola. E' stato uno dei gappisti della Caproni. Ha vendicato l'ingegnere Cervi e gli operai deportati e imprigionati.
Furore alla Caproni: centinaia di operai vengono deportati. Molti lasciano la fabbrica, se ne vanno in montagna, coi partigiani. La 196ª brigata Garibaldi costituita all'interno della Caproni fa saltare la cabina elettrica, sabota gli aeroplani e costruisce sotto lo sguardo dei repubblichini, i micidiali chiodi a tre punte che bloccheranno le auto nazifasciste.
Arresti, deportazioni e l'allontanamento dalla fabbrica di molti dirigenti della lotta clandestina, non impediscono la massiccia partecipazione agli scioperi del marzo 1944. La situazione si aggrava. Non si tratta piú di arresti isolati ma di decimazioni in massa. Il problema numero uno del movimento clandestino della città e quello di eliminare Cesarini. L'uomo è riuscito ad imporre il terrore ed è quasi impossibile mobilitare le energie ancora vive perché la sorveglianza e incessante e la rappresaglia durissima. La lotta continua, ma in condizioni estremamente ardue.
Cesarini e all'apice della sua potenza. È voce autorevole della federazione repubblichina, e il "padrone" della Caproni, dispone come vuole dei suoi uomini, una pattuglia dei quali lo segue sempre, in fabbrica come a casa, ovunque si sposti. Gli ultimi mesi del 1944 e i primi del '45 sono penosi per tutti. Il freddo entra nelle case prive di riscaldamento; la fame incombe; i lugubri manifesti delle condanne capitali tappezzano i muri; i plotoni di esecuzione della Muti, delle SS, dell'Aeronautica repubblichina si alternano al Campo Giuriati. Basta un sospetto per cadere nelle mani degli oppressori. Il nemico avverte che l'ora del tramonto si avvicina. Da ogni finestra può partire un colpo di fucile, dalla mano di un "gappista" che attende ad un angolo di via può giungere la morte. La paura aumenta la ferocia. Dai lampioni pendono i corpi dei patrioti impiccati; i rastrellamenti diventano più spietati; alla Caproni Cesarini infuria.


Per il solito canale nascosto, mi avvertono che un compagno del Comando regionale lombardo mi attenderà nel pomeriggio di domenica in un bar. Il proprietario è un militante insospettato. Ci troveremo nel suo locale per fumare una sigaretta e giocare una partita a carte. Tutto normale, ma proprio mentre attendo la domenica apprendo dalle cronache dei giornali che sono stati arrestati alcuni garibaldini. Non si fanno nomi. La polizia repubblichina e vigile e prudente. Quale anello della nostra catena e stato rotto? Tuttavia ho l'impressione che la notizia nasconda qualcosa di strano. Si accenna ad un attentato criminale sventato dalle forze di sicurezza della repubblica di Salò; l'operazione si sarebbe conclusa con alcuni arresti. Non si fa neppure cenno della località e si Parla solo genericamente di Milano città.
Abitualmente, quando notizie di questo genere vengono pubblicate, si concludono immediatamente con l'annuncio di una o più esecuzioni capitali. Stavolta non se ne accenna neppure. Sembra una notizia trabocchetto. La prudenza mi impone di controllare per prima cosa l'invito a incontrare un compagno del Comando: tutto e regolare. Non e possibile che vi siano state infiltrazioni spionistiche. Il mio controllo e minuzioso. Risalgo a ritroso lungo il collegamento che ha permesso ad Alberganti di avvertirmi. Tutto e regolare; ma alla domenica, prima di entrare nel bar, controllo anche più accuratamente del solito i dintorni. Almeno in apparenza non c'e ombra di poliziotti o di repubblichini in borghese.
Dentro, nei due locali, l'atmosfera e tranquilla. Gente che gioca una partita a biliardo con l'impegno e l'abbandono dei giorni di pace, chi beve il surrogato di caffè o un bicchiere di vino. L'odore delle sigarette e pestilenziale. Un tipo anziano, in un angolo, le confeziona per tutti gli avventori del locale con foglie di platano conservate chissà come, forse dall'inverno precedente. L'atmosfera e irrespirabile. Vicino al telefono, davanti a un bicchiere di birra, sta Alberganti, una vecchia conoscenza del confino di Ventotene. Siamo due vecchi del mestiere e non ci perdiamo in convenevoli. Siamo tutti e due abbastanza preoccupati. Alberganti perché sa quel che e accaduto e io perché lo ignoro. Gli arresti annunciati dal giornale non ci sono stati, ma un'azione importante e fallita e, quel che e peggio, gli esecutori hanno rinunciato al compito dopo aver messo a repentaglio le loro vite. I repubblichini li avevano individuati con le armi in pugno. Non ci sono stati arresti perché nessuno si e salvato conclude Alberganti. "E' la terza volta che il tentativo fallisce."
In parole povere, il quarto tentativo di togliere dalla circolazione il boia della Caproni tocca a me. Naturalmente il Comando mi lascia libero di decidere e di accettare é una settimana per rifletterci. Tanto vale decidere subito ed eliminare il rischio di un altro incontro. Accetto. Alberganti mi batte la mano sulla spalla e se ne va. Indugio un po' e sto per andarmene anche io quando una voce mi richiama perentoriamente quando sto per varcare la soglia. La mano mi corre alla tasca dove tengo la pistola; e il cameriere che reclama il conto di Alberganti che non e stato pagato. Mi vien da ridere. Rivedendolo dopo tanti anni mi ero ricordato solo del suo straordinario coraggio, non di queste sue piccole avarizie. Lascio una buona mancia.
Tra le tante azioni fatte questa e una delle peggiori. Meglio operare da solo. Mando a dire ai miei gappisti che ci sarà una breve pausa e che ne approfittino per leggere e studiare, come insegnava Gramsci. Chissà se lo faranno! D'altra parte non hanno molte altre distrazioni, visto che la regola della clandestinità esige che rimangano tappati in casa, in prigionia volontaria.
Anch'io sono chiuso in casa, davanti allo schizzo della zona in cui si dovrà concludere l'operazione Cesarini: Viale Mugello, angolo Corso XXII Marzo, di qua una salumeria, proprio di fronte alla fermata del tram e, dall'altra parte, un vecchio magazzino. In astratto lo schema dell'azione e facile; quando decido di verificarne la rispondenza coi luoghi mi rendo conto che la cosa non sta in piedi; la zona e completamente allo scoperto, sia Viale Mugello, sia piazza Grandi, formicolante di poliziotti; sia viale Campania larghissimo e diritto, ideale campo di tiro dei guardiani di Cesarini.
Trascorro una notte tutt'altro che tranquilla. La mattina dopo ritorno sul posto. Compro un etto di mortadella e un po' di formaggio, poi sorseggio un caffè in un bar all'angolo con viale Campania. Mi sorprende d'essere più tranquillo. La zona e scopertissima ma il vecchio magazzeno abbandonato non potrebbe non favorire la fuga. Un'altra soluzione ancora mi viene suggerita da un operaio dell'acquedotto che sta scendendo in un tombino. Potrei tentare anch'io di sollevare il chiusino per cercare nel sottosuolo un'altra via di uscita. Accendo una sigaretta proprio accanto all'operaio. Mi chiede del fuoco. Getto il fiammifero spento, ne prendo un altro e con calma, gli accendo la sigaretta. Barattiamo quattro chiacchiere sul tempo e sul loro lavoro sotterraneo. Alle fine ne so abbastanza per potermi servire in caso di necessità della buca e orientarmi nel sottosuolo per alcune centinaia di metri prima di riemergere dal chiusino più discosto.
Il vecchio magazzeno abbandonato resta tuttavia quello che offre le migliori possibilità di salvezza: ha una porta secondaria su un'altra strada, grandi finestre facili da scavalcare, un cancello scorrevole sui cardini. Il magazzeno non ha custodi. Occorrono le chiavi per entrare, ma a questo provvederà un compagno fabbro.
Mi sveglio di notte. In strada c'e brusio di voci forse di militari. Scosto le imposte, sono soldati. Il risveglio riaccende in me preoccupazioni e tensione. Quante ore trascorrono? Dalle imposte filtra la luce dell'alba. Scatta qualcosa in me. Il volto di Cesarini, l'immagine della potenza e della viltà che entra in fabbrica e colpisce gli inermi. O forse il ricordo di una lontana alba in terra spagnola?


Ero poco piú di un ragazzo e la luce del sole, la prima, giungeva da dietro una collina. Eravamo abituati a vederla tinta di sangue, la collina dell'Ebro... Coperta di ulivi. Noi garibaldini, con i fucili di tutti i modelli, senza elmetti, scavavamo con le unghie la terra, un riparo dalle bombe, dagli aerei fascisti, dall'artiglieria franchista. Giorni e ore disperate. Volti visti l'ultima volta al bagliore di un razzo illuminato. Assalti all'arma bianca! Sete di libertà! Volontà di liberazione! Avremmo mai immaginato di essere presi ad uno ad uno? Quando eravamo là, sui costoni di quelle colline desolate, là ad urlare, a gridare la nostra rabbia per il massacro di Guernica. 45

Alle sette del mattino, con le chiavi che tintinnano in tasca, e l'occhio attento sul quadrante dell'orologio, mi faccio accompagnare da un compagno in bicicletta in viale Mugello. Scendo, passeggio un po' davanti alla salumeria, proprio a due passi dalla fermata del tram. Sono le 7,20 e mi scopro impaziente e tranquillo.
In strada c'e gente. Tra poco gli operai dovranno entrare al lavoro e i tram transitano sempre più affollati. Alla fermata attigua si affollano uomini e donne. Da piazza Grandi spunta Cesarini. L'ho visto poche volte ma so che e lui, il personaggio di sempre, il nemico da combattere ovunque, in Spagna, in Francia, in Italia, a Milano. Ha fatto deportare centinaia di operai e di tecnici, quasi tutti ad Auschwitz, ha fatto imprigionare e fucilare compagni e amici. Ora anche lui sta arrivando all'ultima fermata assieme ai due militi armati di mitra che lo scortano. Non ho bisogno di muovermi. È lui stesso che mi viene incontro col passo tracotante, di chi non vuole nessuno sul suo cammino. Ma sulla sua via ci sono io, il figlio dell'operaio piemontese fuggito in Francia per non subire la prepotenza dei Cesarini di ieri e di oggi. Gli sbarro la strada.
Gli spiano in faccia le due rivoltelle e la sua faccia rivela soltanto stupore. Non avrebbe mai creduto possibile che qualcuno osasse fermarlo. Gli grido forte, perché gli operai che sono attorno sentano: "Cesarini, hai finito di deportare i lavoratori della Caproni." Sparo. Tenta di mettere mano alla fondina ma e già a terra assieme a uno dei suoi accompagnatori. L'altro cerca di togliersi di spalla il mitra, ma non fa in tempo. Le mie armi sono scariche. Grido: "Giustizia è fatta, insorgete contro il fascismo." La gente che, al rumore degli spari, si e gettata a terra, si alza e applaude. Alcuni gridano: "Hanno ucciso Cesarini, evviva."
È il momento di fuggire. La strada e libera. Non val la pena di addentrarsi nel vecchio magazzino. Balzo sulla bicicletta e pedalo rabbiosamente. Un capitano d'aviazione mi si para davanti brandendo una rivoltella; punto la mia scarica e l'eroe di Salò lascia cadere l'arma e fugge. Me ne vado senza altri incidenti.
Giustizia e fatta. Gli operai che prendono il tram diranno in fabbrica, di lì a poco, la grande notizia: il boia della Caproni, l'assassino di centinaia di operai, è stato giustiziato.

Dopo l'arresto del gruppo di Campegni, fucilato al campo Giuriati altri quattro gappisti erano morti in una azione di guerra.
È quindi necessario ottenere rinforzi dalla brigata. Non e facile. Non si improvvisa un gappista da un giorno all'altro, lo si deve "costruire."
In quelle settimane si e messo in luce un distaccamento milanese della SAP, composto da un gruppo di operai degli stabilimenti Mabo e Cabi-Cattaneo che già ha disarmato militi repubblichini e soldati tedeschi, e compiuto azioni di disturbo. Da Brusò, Novelli, Roncaglione, Romano, Giuseppe Colombo, Cesare Colombo, Sinistro Alfredo ai quali si aggiungono poi Orsi che comandava una brigata in Valle Olona, Giancarlo e Mantovani, ci aspettiamo molto. A Novelli è affidato il comando del distaccamento. Brusò e il commissario. Che siano ragazzi seri e coraggiosi, lo hanno dimostrato in più di un'azione.
Rafforzati dal gruppo di Novelli i gappisti sono all'azione ovunque: da Allori dove ingaggiano una vera e propria battaglia al centro di Milano dove viene ucciso un nazista.
Il 22 febbraio 1945 e il 27° anniversario dell'Esercito Sovietico. Sulle ciminiere delle fabbriche milanesi sventolano vessilli rossi, sui muri appaiono scritte, un po' dovunque si radunano comizi volanti.
Il 28 febbraio tre gappisti, eludendo la vigilanza della sentinella, collocano all'altezza di Affori, sulla linea ferroviaria Milano-Torino una bomba interrompendo il traffico per parecchie ore. Marzo si avvicina e la liberazione e nell'aria, annunciata da fatti, dai discorsi della gente sui tram o davanti ai negozi in attesa della distribuzione dei generi tesserati.
Si impreca al fascismo quando appaiono le squadre delle brigate nere. Le donne, davanti agli spacci, maledicono la guerra, il fascismo, Hitler. Sempre più spesso si ode la frase: "sta per finire," oppure "la va a pochi." Le spie e i delatori si danno ancora da fare, molti cittadini vengono ancora incarcerati o deportati in Germania. Ma la gente ha meno paura. Soprattutto gli operai delle fabbriche rispondono ad ogni provocazione fascista, manifestando apertamente l'opposizione al regime organizzando veri e propri comizi all'interno delle officine. Scioperi e manifestazioni per la difesa del diritto alla vita, per il pane si succedono ovunque. La parola d'ordine e: "farla finita con i nazifascisti." I gerarchi fascisti che in alcune fabbriche cercano di intimorire le maestranze, sono interrotti al grido dì "A morte il fascismo! Via i tedeschi! Basta con la guerra!"
Il primo marzo mi incontro con Clocchiatti (Ugo) che mi informa dell'uccisione di Curiel, vicino a piazzale Baracca. La notizia si diffonde rapidamente in città: hanno ucciso Curiel, il fondatore del Fronte della Gioventú, il direttore dell'Unità.
Avevo conosciuto Curiel a Ventotene nel 1940: ne ricordavo la figura slanciata, l'affabilità, la viva intelligenza, l'abitudine di tenere sempre un libro in mano. Lo incontravo spesso con Frausin46, l'operaio di Trieste che fu poi bruciato vivo dai tedeschi nel 1944. Avevo rivisto Curiel nel luglio del '44 in via Marcona, con Dozza. Li scortai da lontano senza avvicinarmi. Curiel aveva saputo forse piú di ogni altro capire i giovani, spronarli alla lotta aperta; solo così, diceva, i giovani potranno formarsi la coscienza per continuare poi, su un piano diverso, la battaglia per la libertà e la democrazia.
Per la 3a GAP l'uccisione di Curiel e un nuovo motivo per intensificare gli attacchi. I gappisti sono mobilitati 24 ore su 24. I fascisti e i tedeschi sentono ormai prossima la fine, sospettano di tutto e di tutti, rimangono chiusi nelle loro caserme. E quando ne escono, camminano in gruppo, guardinghi, armati fino ai denti. Ma ormai l'iniziativa e nostra. Sono del marzo 1945 l'esecuzione del colonnello Cesarini, il boia della Caproni, del sottufficiale rastrellatore della GNR Angelo Contini, del maresciallo della Wehrmacht che si distinse nelle repressioni nel quartiere Lambrate, del noto squadrista Romualdo Papa; l'esecuzione di alcuni ufficiali della " Resega," comandanti di reparti che si distinsero negli ultimi feroci rastrellamenti contro le brigate partigiane di montagna. E ancora: l'attacco e la quasi eliminazione di una nota spia la cui attività era costata la vita a numerosi patrioti; l'azione contro un ritrovo fascista, in via Delfico; il recupero di armi in casa di un noto fascista, sulla strada di Novate Milanese; il disarmo di diversi fascisti della X Mas.
Le azioni incessanti dei gappisti agevolano le agitazioni degli operai. In questo clima, il 28 marzo, scendono in sciopero i lavoratori di oltre cento fabbriche milanesi. La parola d'ordine e "Basta con la guerra, via i tedeschi, morte ai fascisti."
I comandanti delle brigate nere, della Muti e dei reparti tedeschi schierano davanti alle fabbriche militi, soldati, SS. Gli operai non li temono più. Numerosi comizi e manifestazioni vengono organizzati nonostante le repressioni, le minacce, gli arresti. E mentre gli operai manifestano, i partigiani della 3ª GAP e le squadre SAP attaccano: industriali collaborazionisti, spie, militi, repubblichini, soldati e ufficiali tedeschi, seviziatori delle SS vengono abbattuti in pieno giorno per le strade, nelle loro case, davanti alle caserme. E le caserme stesse vengono attaccate con rapide azioni di squadre di due o tre uomini. Gli spari delle pistole e lo schianto delle bombe preannunciano la fine della tirannia.
In una delle ultime azioni cade Giancarlo, un gappista giovanissimo.
Giancarlo, minuto, magro, dall'aspetto insignificante, lento nell'esprimersi era molto astuto, pieno di sensibilità e di coraggio. Giancarlo e Mantovani avevano attaccato in pieno giorno la caserma di via Cadamosto tirando bombe e sparando raffiche di sten contro i briganti neri che stavano davanti alla porta, dietro sacchetti di sabbia. Continuano a sparare anche quando i fascisti reagiscono; bloccano col fuoco chi tenta di uscire, o si affaccia alla finestra. Poi i due ragazzi tentano la fuga in bicicletta. Mantovani si allontana. A Giancarlo si rompe la catena. Circondato continua a sparare fino a quando è colpito. Cade a terra e con lo sten costringe ancora gli inseguitori a rifugiarsi nei portoni; si rialza, riprende a correre; si lascia di nuovo cadere a terra, fingendosi morto. Nelle mani stringe una sipe, a cui ha già tolto la sicura. Quando il gruppo dei fascisti gli e vicino lancia la bomba. Catturato, pochi minuti dopo, portato in caserma, gli promettono di salvarlo se rivela dei nomi. "Se non parli, non rivedrai più la tua famiglia."
Dopo tre ore di interrogatorio e di torture, Giancarlo viene portato fuori, appoggiato al muro di fronte alla caserma. Mentre i brigarti neri puntano il fucile, Giancarlo47 grida: "Viva i partigiani! Compagni andate avanti."
Sembrano frasi ricostruite dalla leggenda. Invece Giancarlo e proprio morto così. Lo abbiamo saputo dai medesimi briganti neri che lo hanno ucciso quando, poche ore dopo, abbiamo dato l'assalto alla caserma di via Cadamosto e i responsabili della fucilazione di Giancarlo, prima di morire, ci hanno restituito la statura ideale del nostro compagno.
L'insurrezione e nell'aria: le strade sono affollate; fascisti e tedeschi circolano a bordo di mezzi blindati, i loro visi tesi. — Arrendersi o perire — ammonisce l'ultimo manifesto. Non c'e scampo per chi non butta subito le armi.
È il 24, il giorno in cui si spara. Non sono piú piccole squadre di GAP ad attaccare. Gruppi di cittadini armati si scontrano con il nemico in veri e propri combattimenti.
All'Arcivescovado si svolgono trattative, i fascisti chiedono "garanzie," una resa condizionata. La città e un fermento: a Niguarda una squadra di GAP e di SAP danno l'assalto ad una caserma di repubblichini.
Nel pomeriggio del 24, all'ingresso dell'abitato di Niguarda, da un camion tedesco partono raffiche di mitra: alcuni proiettili colpiscono mortalmente la compagna Gina Bianchi, staffetta del comando regionale.48
La sera mi incontro con Busetto, comandante dei SAP. Mi dice che l'ora dell'insurrezione e vicina. Mobilito tutte le staffette e trasmetto a mia volta l'ordine a tutti gli uomini della 3a GAP: "pronti per l'insurrezione. I fascisti e i tedeschi che non si arrendono devono essere colpiti."
Trascorro alcune ore su una sedia a sdraio in un appartamento di via Macedonio Melloni, sede del comando della 38 GAP.
Di tanto in tanto mi alzo e spio dalla finestra la strada. C'e del movimento. Fascisti che fuggono o fascisti che si preparano a difendersi!? Verso il mattino mi addormento. Mi sveglia il trillo del telefono, all'alba. È Vergani. Pronuncia le parole che aspetto ormai da tanto tempo. Il momento e giunto. Tutte le pene, i lutti, le persecuzioni stanno per finire. Mi pare impossibile. Non avrei mai immaginato di ascoltare al telefono quelle parole dalla voce di Vergani: "La città insorge, agisci con la tua. brigata secondo il piano stabilito." Forse mi ero sempre figurato che le parole fossero gridate da un altoparlante alle folle sulle piazze.
Scendo in strada. È il 25 aprile. C'e gente. Ci sono operai armati, squadre di giovani che corrono verso le caserme abbandonate nella notte dai fascisti. Vogliono anch'essi, questi ragazzi, impugnare un'arma. Il nemico non è ovunque battuto: asserragliato nei fortilizi e nei punti strategici, tenta la fuga su mezzi corazzati.
Dalla Casa dello Studente, in viale Romagna, sparano. Alcuni giovani tentano di snidarli. Trecento metri piú avanti, in piazza Piola, squadre di operai armati hanno occupato la Olap, la loro fabbrica e sono pronti a difenderla dalla distruzione. Finalmente mi sento in un mondo pieno, completo, vivo. Io che per mesi senza fine ho lottato con piccoli gruppi di tenaci patrioti; io che per mesi mi sono mosso come un'ombra, isolato, senza contatti se non quelli (tanto rari e fuggevoli da sembrare irreali) con esponenti del comando regionale, con le staffette o con pochi altri compagni della brigata; io, in mezzo a tutta questa gente, a questi operai, a questi giovani, a queste donne mi sento come immerso in un grande mare di affetto. Fino a ieri ho camminato nelle strade di questa grande città considerando i passanti potenziali nemici, dubitando di tutti, sospettando di ognuno. Oggi, confuso in questa folla amica, e come se uscissi da un incubo. Mi accorgo che le case sono belle case, che le strade sono ampie e che sopra di me c'e il cielo. Mi sorprendo a pensare cose come queste e mi fermo davanti al portone della Olap. C'e un gruppo di operai, tutti hanno un fucile. Un uomo dà alcuni ordini. Mi fermo ad osservarlo. Mi vede e mi chiede chi sono. Parlo, finalmente parlo. "Sono Visone, comandante della 3" Gap." L'uomo rimane qualche secondo senza parlare, poi all'improvviso mi abbraccia, mi afferra per le gambe e mi rialza tenendomi in alto, sopra gli altri, e grida. Tutti capiscono che sono un amico, che sono un partigiano. Adesso gridano tutti e quando l'uomo finalmente mi rimette a terra, mi abbracciano in due, in tre alla volta. Torna un poco di calma. Sto per andarmene. Vogliono darmi una scorta. Un quarto d'ora dopo, in via Ampere, mi incontro con gli artefici e i dirigenti della Lotta di Liberazione.
È un grande giorno. È il grande giorno.
C'e tutta la città che corre che grida, che risorge. Per ore e ore le squadre dei GAP e dei SAP, degli operai, dei giovani, in attesa delle formazioni di montagna in marcia verso Milano, corrono da un quartiere all'altro per eliminare un nido di resistenza fascista, per arrestare un gerarca, per costringere alla resa un reparto tedesco.
Quarantotto ore prima eravamo pochi, ora siamo folla. Però, dietro di noi a sorreggerci, ad aiutarci, a nasconderci, a sfamarci, a informarci, c'e sempre stata questa massa di popolo che ora corre per le strade, si abbraccia e ci abbraccia, e grida: "Viva i partigiani."

44 Una Selvetti, già partigiana in Valtellina, fu aggregata al Comando dei GAP come staffetta.
45 Guernica fu bombardata e mitragliata a ondate successive, il pomeriggio del 26 aprile 1937 dagli aeroplani della legione "Condor," che distrussero la città sacra ai baschi, simbolo della loro libertà.
46 Luigi Frausin, nato a Muggia nel 1894, ucciso dai nazifascisti nell'agosto del 1944. Condannato a 12 anni di carcere dal tribunale speciale. Organizzò il movimento di resistenza nella Venezia Giulia.
47 Giancarlo Brugnolotti, nato il 6 agosto 1921, fucilato il 21 aprile 1945.
48 Gina Bianchi e Stella Vecchio erano state incaricate dal comando regionale delle Brigate Garibaldi di portare l'ordine dell'insurrezione alla Pirelli.