Biblioteca Multimediale Marxista
Ma nella guerra partigiana gli obiettivi non cadono per manovra,
si distruggono; le forze nemiche non si accerchiano, si annientano. Nella "terra
di nessuno," tra uno schieramento e l'altro, le forze si muovono in ordine
sparso, per non esporsi a raffiche d'infilata.
All'inizio del 1944 i tedeschi non consideravano Torino terra di nessuno; per
noi, invece, era zona di combattimento, dove occorreva mascherare le nostre
truppe e colpire i punti di concentramento delle forze nemiche. Avevamo a nostro
vantaggio la sorpresa. Il nemico non sospettava che lo avremmo attaccato proprio
dove il suo schieramento era più potente e più numeroso. Nella
tattica militare, l'attacco tende a individuare e a colpire l'avversario nel
punto più debole; nella guerra partigiana, all'opposto, si tende a colpire
il nemico dove è forte, dove può ricevere i colpi più duri.
I tedeschi non l'avevano ancora imparato, nonostante la guerriglia in Jugoslavia,
nell'Unione Sovietica, in Francia. Esercito di uomini addestrati ad obbedire
come automi e incapace di combattere a livello individuale, il nemico non sapeva
nulla di noi: né come ci muovessimo, né da quali basi, né
con quali mezzi: torturati, i nostri non parlavano. Eravamo ben pochi: potevamo
raccoglierci tutti in una stanza, superstiti scampati agli arresti e sfuggiti
agli agguati. Eppure noi, così pochi, facevamo sentire dappertutto la
nostra presenza.
*
Traffico intensissimo alla stazione di Torino: movimento ininterrotto
di truppe tedesche e di automezzi militari. Progettiamo un attentato: Spada,
io (Ivaldi), e Riccardo dobbiamo confezionare una carica esplosiva a tempo e
collocarla in una carrozza ferroviaria in modo da provocare il deragliamento
del convoglio militare. Le linee del piano sono semplici. Riccardo che parla
correttamente il tedesco, indosserà la divisa della Wehrmacht; io lo
accompagnerò alla stazione per proteggergli le spalle quando salirà
sulla carrozza e abbandonerà lo zaino.
Il progetto è semplice quanto sono complessi i problemi pratici da risolvere.
Non abbiamo alcun dispositivo ad orologeria che possa garantire la deflagrazione
delle bombe al momento più opportuno e un certo margine di tempo e di
sicurezza agli attentatori. Abbiamo esplosivo e detonatori. Ma l'azione alla
stazione di Porta Nuova, programmata per la prima quindicina di febbraio, dovrà
essere eseguita in pieno giorno, in uno scompartimento occupato dai soldati
tedeschi, senza che sia pensabile usare la solita miccia. Dobbiamo perciò
trovare un dispositivo che ci dia il tempo necessario per compiere l'azione.
Spada, che pure ha una certa capacità nel confezionare ordigni esplosivi,
manca di esperienza in questo campo.
Ilio Barontini,9 animatore dei "Francs Tireurs et Partisanes" ci ha
però dato, tempo indietro, alcuni preziosi suggerimenti. Bisogna munirsi
di acido corrosivo, di una provetta di vetro e di una gomma speciale. L'acido
corrode lentamente la gomma fino a che una goccia cade su una miscela così
composta: clorato di potassa 75%, zolfo 15%, zucchero 10%. Questa miscela esplode
allo sfregamento, alla fiamma, all'urto, ecc. Brucia pure al contatto di una
sola goccia di acido solforico a 58 Be. "L'acido," aveva detto Barontini,
"deve essere trattenuto nella provetta da un lembo di gomma speciale, teso
come un tamburo. Più la gomma è tesa, più tempo l'acido
impiega a corroderla." Naturalmente fino a che la provetta di vetro stava
diritta l'acido non esercitava alcuna azione corrosiva; quando fosse stata capovolta,
il liquido si sarebbe riversato sull'involucro di gomma. da quel momento sarebbero
cominciati i minuti terribili.
Dobbiamo procurarci l'acido solforico e la gomma; faremo poi le prove prima
di passare all'azione. Decidiamo di esentare Riccardo da questi esperimenti.
Avrà i suoi problemi da risolvere al momento di salire su un convoglio
tedesco per depositare il suo carico micidiale.
Il compito di procurare la gomma tocca invece a Spada, soprattutto perché
è l'unico ad avere una compagna. L'acquisto della gomma adatta richiede
infatti una certa delicatezza. Una gomma abbastanza sottile e nello stesso tempo
robusta da potersi tendere al massimo e, per lo più, di uno spessore
uniforme, in modo da poter resistere ogni volta per il medesimo numero di minuti
all'azione dell'acido non è facile da trovare in commercio. Ma l'esperienza
di Barontini ci aiuta ancora una volta. Dobbiamo procurarci dei preservativi
di buona qualità in farmacia.
In tempo di guerra, naturalmente, anche questi prodotti sono divenuti rari e
l'acquistarne una scorta può destare sospetti. Per questo Spada si fa
accompagnare dalla moglie Nuccia, anche se non ritiene opportuno spiegarle il
tipo di acquisto che va a fare. Spada è un uomo dalla magrezza proverbiale.
Il viso affilato, il corpo ossuto, cammina quasi senza far rumore. Anche questo
accentua la sua magrezza. A vederlo sembra che non pesi nemmeno. Col suo aspetto
discreto e la voce sommessa chiede al farmacista dei preservativi d'anteguerra.
Niente prodotti autarchici poco sicuri. Il prezzo è naturalmente elevato,
ma ne è rimasta in magazzino una scatola intera. Quanti? Una bustina?
Spada ha sei bombe in fabbricazione. Altre in prospettiva. Gli esperimenti comporteranno
uno spreco di materiale. Mentre esita, la sua compagna svolge tranquillamente
il suo problema. Nella sua beata ingenuità, sentendo che si tratta di
roba difficile da trovare nei tempi di autarchia, chiede se non è il
caso di acquistare la scatola intera da cento. La situazione appare vagamente
boccaccesca, ma si risolve nel modo migliore. Cento gomme di prima qualità
non valevano forse la "brutta figura"?
Dalla bottiglia, con estrema cura, versiamo l'acido in una provetta di vetro;
la provetta viene inguainata e chiusa da un involucro di gomma tanto teso da
produrre, al tocco, una nota acuta. In posizione verticale, la provetta raccoglie
nel fondo di vetro l'acido solforico; capovolta, il liquido corrosivo scende
sulla gomma che si gonfia leggermente. Durante il primo esperimento, io controllo
l'orologio e Spada cerca di tenere immobile la mano. Dobbiamo stabilire nel
modo piú esatto in quanto tempo l'acido solforico corroderà la
gomma e provocherà l'esplosione. La prima prova ci fornisce i tempi di
corrosione ma solleva anche una selva di dubbi: che cosa sarebbe accaduto se
l'involucro di gomma fosse stato difettoso? Se un urto anche minimo avesse infranto
il contenitore del nostro acido solforico facendo uscire l'acido dal vetro prima
del tempo? Quest'ultimo problema viene risolto da Spada. Tende la gomma al massimo
e inguaina tutta la provetta, nel peggiore dei casi, avrebbe potuto verificarsi
un'esplosione ritardata, non anticipata. I nostri esperimenti, minuziosi e scrupolosi,
accerteranno poi che la resistenza della gomma all'acido solforico è
uniforme, se la qualità è buona. Alla vigilia molti interrogativi
ci turbano ancora. Ci siamo resi conto che il margine di sicurezza del nostro
ordigno esplosivo è limitato a dieci minuti nel più fortunato
dei casi. Gli incerti sono innumerevoli.
Tocca a me accompagnare Riccardo nella parte conclusiva della missione. Egli
è ignaro dei nostri esperimenti e delle nostre preoccupazioni. A ragion
veduta, perché deve percorrere da solo il tragitto dal marciapiede al
treno. L'aspetterò davanti allo scompartimento. Io posso ben essere turbato
dalla preparazione casalinga del nostro ordigno, lui no. Deve apparire un disinvolto
soldato tedesco che si accinge a partire.
Riccardo è abituato al rischio. Riesce persino a divertirsi nel pieno
pericolo. Questa mattina mi sembra difficile evitargli il contagio della mia
ansia. Può accorgersi che tendo a camminare parecchi passi indietro,
ma un metro di distanza non mi salverà certo dall'esplosione di quel
carico infernale.
È elegante nella sua uniforme di soldato tedesco. Procede leggermente
curvo: nello zaino porta tre pesanti ordigni esplosivi: tre grossi tubi di ghisa,
con tre provette di acido solforico inguainate in altrettanti involucri di gomma.
Cammina con sicurezza, tranquillo, fiducioso nelle capacità tecniche
degli artificieri dell'esercito clandestino. Se avessi la medesima fiducia non
impallidirei quando, a un angolo di strada, Riccardo volta bruscamente e si
arresta di colpo di fronte a due soldati tedeschi che procedono in senso contrario.
Riccardo ne schiva l'urto all'ultimo momento e lo zaino sbanda sfiorando lo
spigolo di una casa.
"Che diavolo hai stamattina?" Mi rivolge la domanda quasi con insolenza,
come se volesse vendicarsi di qualcosa. Evito di rispondergli.
"Sei taciturno, mi sembri preoccupato," dice Riccardo sorridendo.
"Hai avuto fifa dei due tedeschi." Alzo le spalle. "Ero pronto
a sparare." "Anch'io," dice Riccardo.
"Sei preoccupato?" ripete. "Ti ricordi dell'azione del due gennaio
contro un ritrovo frequentato dai tedeschi, in via Sacchi? Non sei in forma
come lo eri il 23 gennaio, quando abbiamo fatto saltare il comando delle SS
all'albergo Genova. Allora valevi un milione di taglia."
"Non mi sento bene," mento. Riccardo non ride più. Glielo impone
il suo ruolo di soldato e soprattutto c'è poco da ridere. Siamo giunti
davanti al convoglio. Come dio vuole, arriviamo al treno. I soldati tedeschi
seduti negli scompartimenti mangiano allegramente grandi "sandwich"
di pane nero e prosciutto. Alle nostre spalle esplodono grida acute. Afferro
il calcio della rivoltella mentre Riccardo si arresta bruscamente. Troppo bruscamente.
Due donne si sgolano urlando. Ci sono sempre donne del genere negli assembramenti.
Urlano per non perdere il treno. Riccardo mi dà la mano. Io sono l'amico
che viene a salutarlo alla stazione. "Ricordati," dico, "che
lo zaino devi capovolgerlo, altrimenti non scoppiano."
Accanto a noi passa un tedesco, l'elmo in testa, portato lontano dalla sua terra,
dalla sua casa, dai suoi cari, in una città straniera e ostile. Anch'egli
salirà su quel treno per morire?
"D'accordo." Sale. Depone lo zaino in uno scompartimento dove alcuni
tedeschi si preparano a dormire tranquillamente.
Io rimango per l'ultimo saluto. Prima di allontanarmi vedo Riccardo cedere il
passo a un tedesco che vuoi recuperare il suo bravo posto a sedere. Mi allontano
verso gli uffici della stazione. Sono trascorsi cinque minuti da quando Riccardo
ha deposto e capovolto il "suo" zaino ed è sceso con aria noncurante
dalla carrozza diretto a un sottopassaggio.
Tutto è andato bene. Ora bisogna solo attendere l'esplosione. Rimango
per un'ora nella zona. Vedo partire il convoglio, ma non succede niente. Riccardo
ha depositato il suo zaino nella reticella. Un tedesco rientrato nello scompartimento
e notato il sacco rovesciato, con teutonico senso dell'ordine lo ha rimesso
in piedi. Tuttavia l'acido solforico che per qualche secondo è rimasto
appoggiato al diaframma di gomma, ha cominciato il suo lavoro. Lo completerà
circa cinque ore dopo facendo esplodere l'ordigno qualche minuto dopo l'arrivo
a Milano. Comunque è scoppiato.
Il mese di febbraio è stato caratterizzato da numerose azioni; 5 febbraio:
'uccisione di un sergente fascista spia dei tedeschi. Azione contro una autocolonna
della Todt a Borgo Crimea: diversi automezzi distrutti.
20 febbraio: sulla vettura tranviaria della linea 18 tre fascisti uccisi. Rocco
di Nisio, Carlo Moga ed Ernesto De Tulliè.
Fine febbraio: azione contro il comando tedesco ad Acqui, tre tedeschi uccisi,
coprifuoco alle ore 18.
Alfredo, Arturo Colombi, mi conferma che è stato deciso
lo sciopero generale a Torino. I gappisti dovranno colpire il nemico, proteggere
gli scioperanti, dare un esempio di audacia che incoraggi la classe operaia.
Per questo compito mi assegneranno una squadra di rinforzo. Saremo sempre pochi.
Da tempo sento lo sciopero maturare nei commenti della gente, in tram, al bar,
nella tensione crescente. Anche i più timorosi si lamentano apertamente.
La protesta si respira nell'aria. Volantini, giornali clandestini, appelli alla
lotta circolano sempre più diffusamente, vengono affissi sui muri. L'antica
angoscia della solitudine ormai si disperde. Anch'essi, gli operai, quando ritornano
a casa ogni sera sullo stesso tram sembrano soli nella città in mano
nemica. Ma quando rientrano in fabbrica e lavorano alle stesse macchine diventano
un esercito. La fabbrica è la grande forza. Noi dobbiamo aiutare gli
operai ad acquistare la coscienza della loro forza.
Espongo il piano ai gappisti, separatamente ad ognuna delle tre squadre. I "rinforzi"
hanno il compito di bloccare il traffico tranviario a Torino Rivoli. Non hanno
mai usato esplosivo. Spiego loro il maneggio delle saponette di tritolo, semplici
come prodotti confezionati, come usare i detonatori, come accendere una miccia.
Basta poco ad imparare. Raggiungo poi la squadra di Bravin, gli "effettivi";
assegno loro l'obiettivo: gli scambi tranviari davanti alla rimessa di via Biella;
consegno il materiale.
Agiremo tutti alle quattro e trenta. Colpire e sparire. A Riccardo e alla sua
squadra, in prossimità dei grandi stabilimenti il compito di contrastare
le brigate nere se tentassero di intervenire contro gli scioperanti. Prima però,
Riccardo ed io faremo saltare gli scambi tranviari di fronte alla rimessa di
via Tirana.
1 ° marzo 1944: mi sveglio prima del sorgere del sole. In questa stessa
ora tutti i gappisti compiono gli stessi gesti, gli stessi preparativi in una
stanza fredda e silenziosa. Svegliarsi prima dell'alba richiama alla memoria
echi di vita tranquilla. Indosso una tuta da operaio, naturalmente usata. Ci
confonderemo alle migliaia di lavoratori di cui, del resto, facciamo parte,
quale avanguardia in armi. Ognuno ha il suo settore di lotta. Gli operai sabotano,
scioperano, manifestano; noi colpiamo tedeschi e fascisti ripagando il nemico
con la sua stessa moneta, come ha fatto ieri Di Nanni eliminando un ufficiale
repubblichino e ricuperandone le armi.
Alle quattro e venti mi trovo nei pressi della rimessa di via Tirana, non lontana
da un panificio che diffonde un odore intenso e fragrante.
I fornai hanno cominciato il lavoro prima di me, penso, assestando sotto il
braccio la borsa piena di bombe. La strada è deserta, un uomo scende
dalla bicicletta, sale sul marciapiede, apre una porticina di metallo e la richiude
alle sue spalle.
Sono trascorsi dieci minuti dall'ora stabilita e Riccardo non c'è ancora.
Cinque tranvieri si dirigono all'ingresso del deposito. Fra poco i tram dovranno
uscire dalla rimessa. Se non agisco immediatamente l'azione fallirà.
D'altra parte non mi è possibile sostare ancora a lungo davanti alla
rimessa con la borsa piena di esplosivo.
Preparo due saponette di tritolo; lo scambio d'acciaio levigato brilla alla
luce rossa della mia sigaretta quando appoggio il mozzicone al filo della miccia.
Il puntino luminoso comincia a muoversi lentamente verso il detonatore. Ho due
minuti per collocare la seconda carica su un altro scambio a una decina di metri;
tre per allontanarmi prima dell'esplosione. Sento avvicinarsi il passo cadenzato,
pesante di una pattuglia tedesca ma già il boato della dinamite e una
vampata rossastra risvegliano tutto il quartiere.
Alle otto incontro Bravin in corso Francia. Anche in via Biella tutti gli scambi
sono stati minati, tutto l'esplosivo è stato utilizzato.
Poco dopo arriva Franco da Rivoli. La tranvia per Torino è interrotta;
i binari sono saltati per un lungo tratto, proprio dove le riparazioni saranno
più complesse.
Tutto si è svolto troppo facilmente. Mentre assaporiamo la nostra soddisfazione,
proprio davanti a noi, sferragliando, passano i primi tram, seguiti alcuni minuti
dopo, da altri in senso opposto.
Alle nove e trenta sono di ritorno alla mia base in via San Bernardino: due
stanzette, un armadio, un paio di brande, qualche sedia. Siedo scoraggiato sul
letto. Dalla stanza accanto entra Spada. Il tecnico degli esplosivi. Sa già
tutto. Sua moglie gli ha portato le cattive notizie. "Siamo troppo pochi,"
dico.
"No, non diventerai mai un esperto del traffico tranviario, se dimentichi
le cassette di alimentazione."
Occorreva minare le cassette di alimentazione in piazza Sabotino perché
l'intera rete si paralizzasse. Ci andiamo, per quanto sembri pazzesco.
Alle 10,15 la piazza è piena di gente. Sei piloni sostengono le cassette
a circa un metro e mezzo da terra. Nessuno fa caso a noi. Accendiamo le sigarette.
Io comincio da sinistra, Spada da destra. Tre saponette ciascuno; sistemo la
prima sulla prima cassetta e do fuoco alla miccia. Spada, fa altrettanto dalla
sua parte. I gesti naturali, i movimenti sicuri ci fanno scambiare per tecnici
del lavoro. La seconda e la terza sono sistemate. Rimangono pochi minuti per
eclissarci e far allontanare la gente in sosta. "Fuggite," urliamo,
"scappate!" Nessuno se lo fa ripetere due volte. Il fuggi-fuggi è
generale. Gli scoppi scuotono l'aria; vedo il primo tram fermarsi bruscamente
e i passeggeri abbandonare la vettura. Per l'intera giornata tutta la rete resterà
paralizzata. A casa riceviamo notizie di Riccardo. È al sicuro. La polizia
ha individuato la sua base, in via Luca della Robbia, una casa danneggiata dai
bombardamenti. Durante la notte un gruppo di nazifascisti ha circondato l'edificio
cominciando a sparare prima ancora di superare la porta. Riccardo ha avuto la
più brusca sveglia della sua vita. Avessero fatto irruzione alla chetichella,
avrebbero sorpreso il nostro compagno nel sonno. Gli altri particolari li abbiamo
saputi più tardi. Riccardo non ha perso tempo. Ha scaraventato dalla
finestra bombe su bombe. Poi, approfittando della confusione e della sorpresa,
ha raggiunto la strada. Pur ferito a un piede, si trascina sino a una porta.
Batte. Una sconosciuta lo accoglie e lo nasconde a rischio della propria vita.
Nel pomeriggio giro per la città per rendermi conto della situazione.
Lo sciopero si estende al di là di ogni speranza. Davanti alle fabbriche,
persino nei cortili delle case popolari si tengono comizi volanti. Circola l'appello
del Comitato di Liberazione Piemontese: "gli operai scendendo risolutamente
in lotta contro gli oppressori e contro gli affamatori del nostro paese, additano
nello sciopero generale la via da seguire verso la conquista del pane e della
libertà."
L'atmosfera è rovente. Si parla liberamente per le strade, si discute.
Sui giornali appare il comunicato del prefetto Zerbino: "questa mattina
si è verificata una parziale astensione dal lavoro in alcuni stabilimenti
della città..." Si minacciano deportazioni e arresti per gli scioperanti,
licenziamenti in tronco e la chiusura delle fabbriche. Il nemico ha accusato
il colpo.
Il successo ci dà ragione. Avevamo voluto questo sciopero generale costringendo
anche gli esitanti in seno al C.L.N. ad accettare il rischio. Avevamo avuto
fiducia nelle masse ed esse hanno pienamente risposto alla nostra fiducia. Mi
sento leggero come se mi avessero tolto dalle spalle una cappa di piombo. Non
è il rischio, è l'isolamento a logorare il gappista. In realtà
nulla è più lontano dallo stile, dalla mentalità dei comunisti,
delle imprese nichiliste, isolate dal movimento delle masse.
Abituati a discutere, a combattere, a soffrire assieme alla collettività,
ci è particolarmente difficile muoverci separatamente. Vi si oppongono
tenacemente la nostra mentalità e il nostro carattere. L'esperienza di
Torino, lo sciopero generale, rappresentano per tutti qualcosa di importante:
un fatto decisivo. Ai gappisti dà finalmente la prova che, se essi colpiscono
isolatamente, agendo in piccoli gruppi, esprimono tuttavia le profonde esigenze
di giustizia di grandi masse di uomini.
Gli operai della FIAT Mirafiori hanno condannato i loro aguzzini, i responsabili
delle deportazioni; tocca a noi il duro compito di eseguire la sentenza. Dobbiamo
muoverci nel ristretto spazio che ci lascia il nemico. Ora, dietro la nostra
avanguardia, marcia il grosso dell’" esercito. "
I lavoratori, sfidando le rappresaglie, si oppongono alla tirannia che impera
nelle fabbriche. Sotto le finestre di qualche direttore troppo zelante con i
repubblichini sono apparse scritte eloquenti: "i gappisti ti salutano."
Al terrore barbaro e indiscriminato degli oppressori si contrappone l'inarrestabile
forza della giustizia popolare.
2 marzo 1944: All'alba mi incontro con Giordano Pratolongo, un compagno che
ha portato la sua serenità, la sua fermezza in ogni angolo d'Europa in
cui si combatteva il fascismo. Il discorso è breve. Il comando garibaldino
è contento della nostra azione, ma ora il nemico prepara le rappresaglie.
Bisogna colpirlo duramente. Gli operai devono sentirsi sostenuti dalla propria
avanguardia gappista. Colombi vuoi vedermi per discutere il piano d'azione.
Come al solito l'incontro con Colombi è in strada. La perfetta puntualità
ci permette di non sostare neppure un minuto di troppo. Ci vediamo da lontano,
ci avviciniamo attenti a ogni ombra che possa seguire il compagno. Ci salutiamo
ed entriamo in argomento. Dobbiamo agire nel settore in cui siamo piú
deboli, tram e trasporti ferroviari. I fascisti hanno picchiato forte. Dobbiamo
intervenire noi, anticipare le mosse del nemico. La nostra combattività
potrà anche avere un effetto politico da non trascurare all'interno del
C.L.N., vincendo le perplessità venute in luce da parecchie parti quando
il nemico metterà in atto le sue minacce.
Dunque nelle fabbriche si continua a scioperare. Il comitato di sciopero piemontese
ha pubblicato il bollettino numero uno: "Se non ci date più pane,
più pasta, più sale, non si lavora." È la risposta
alle minacce di Zerbino. Ma nel settore dei trasporti la situazione è
più difficile. Conduttori e bigliettai sono sottoposti a pressioni fortissime.
Sgherri in divisa circolano sulle vetture: ogni tranviere ha un fucile mitragliatore
puntato alle spalle. Bisogna arrestare il servizio, "coprire" con
azioni di sabotaggio l'astensione al lavoro.
Il nostro obiettivo è una importante sottostazione elettrica dell'ATM
in piazza Bertoia. A differenza dei bersagli dei giorni precedenti, presenta
il vantaggio di essere sotterranea. Potremo agire senza giocare eccessivamente
d'azzardo, come è invece accaduto ieri in piazza Sabotino. Il margine
di rischio è relativo. Dobbiamo però introdurci in pieno giorno
in galleria aprendo un chiusino metallico al centro della piazza molto affollata.
Poi, al coperto, individueremo il punto nevralgico della sottostazione e lo
faremo saltare con le solite saponette. Io e Bravin scenderemo in galleria,
Mario vigilerà all'esterno e, all'occorrenza, interverrà. Lucia,
una compagna di Ventotene che ora Colombi ci ha "prestato" si è
dimostrata preziosa: ci ha presentato un compagno della compagnia tranviaria
che, oltre a segnalarci l'obiettivo, ci ha fornito anche berretti dell'azienda.
Deponiamo le nostre borse a terra prima di accingerci ad aprire il chiusino
metallico. Normalmente il chiusino viene sollevato dagli addetti alla manutenzione
con un bastone metallico. Bravin si è procurato un punteruolo abbastanza
grosso ma piuttosto corto. Sarà adatto? Bravin depone il ferro accanto
al chiusino, si china e, fingendo di sistemarsi i lacci delle scarpe, misura
il diametro del foro con le dita. Il punteruolo passa appena, ma passa. Fingendo
di avvitare il ferro, Bravin alza il pesante coperchio di ghisa, spostandolo
in modo da mascherarne l'apertura. Mario, a qualche decina di passi, segue con
trepidazione le nostre mosse. Avvicino la mia borsa a quella di Bravin, mentre
egli scende con sorprendente sicurezza, quasi fosse a casa sua.
Qualche curioso guarda senza troppo interesse i nostri movimenti.
"Passami le borse," dice Bravin, "poi vieni anche tu." E'
fatta. All'interno la ricerca del segno giallo, tracciato da compagni dell'ATM
per indicarci dove collo-care le cariche, si rivela infruttuosa. La luce della
nostra lampada tascabile illumina inutilmente centimetro per centimetro gli
angoli della galleria lunghissima, simile ad una catacomba. inutile cercare
ancora — decido infine. Anche se il segno c'è, ci sfugge. Dobbiamo
scegliere noi dove l'intreccio dei cavi è più fitto, evitando
di finire folgorati.
Un maledetto topo di fogna ci fa sussultare. È l'unico allarme. Nel giro
di pochi minuti sistemiamo le cariche, accendiamo le micce, risaliamo all'esterno,
serriamo il chiusino di ghisa e ci allontaniamo. In teoria abbiamo cinque minuti
per abbandonare la zona, ma il fragore dell'esplosione ci coglie appena lasciata
la piazza. La galleria deve aver funzionato da camera di scoppio: dalla sottocentrale
di alimentazione sale una densa colonna di fumo nero insieme a fiammate azzurre.
Il cinquanta per cento della rete tranviaria è paralizzata.
2 marzo sera: Anche la S.P.A. è entrata in sciopero. Gli operai delle
fabbriche più combattive, dove l'organizzazione clandestina è
più salda, si sono recati ai cancelli dello stabilimento.
Le maestranze della S.P.A. sono uscite dall'azienda travolgendo la resistenza
dei guardiani e dei militi repubblichini. Altre squadre di operai distribuiscono
volantini per le strade, invitando allo sciopero i lavoratori di altre aziende,
fermano i tram ancora in circolazione.
Le formazioni partigiane si sono avvicinate a Torino; Bricherasio è stata
occupata. La notizia corre in bocca in bocca in tutta la città. Il treno
Torino-Barge è stato fermato dai garibaldini che hanno disarmato i fascisti,
tra gli applausi dei viaggiatori. Giungono altre notizie: Ciriè è
stata occupata, tedeschi e repubblichini sono stati fatti prigionieri; in tutta
la Val di Lanzo si tengono comizi di solidarietà con gli scioperanti.
Il nemico ha reagito furiosamente arrestando soprattutto i giovani e gli operai
che si sono maggiormente esposti nella lotta. Ma il fonogramma n. 3911/B/I del
console generale Spallone, intercettato dai nostri, ci dice il suo disorientamento...
"Situazione grave sia interno città che provincia, essendo Torino
virtualmente circondata bande ribelli bene armate e imbaldanzite per avvenuto
sciopero generale. Non è escluso che gruppi ribelli in nottata e nelle
prime ore di domani compiano azioni disturbo per dare maggiore consistenza e
violenza sciopero generale. Insisto che siano inviati urgentemente adeguati
rinforzi legionari G.N.R."
Convoco nella notte gli uomini di cui posso più rapidamente disporre.
3 marzo 1944: Obiettivo: la stazione di Porta Nuova. In questa occasione solo
uno scontro a fuoco potrebbe impedirci di realizzare i risultati che ci sono
finora sfuggiti. Ci muoviamo prima dell'alba: portiamo con noi tutto il tritolo
disponibile. Ci avviciniamo alla stazione dall'esterno della città, seguendo
una stradicciola campestre. È rischioso ma i nostri pesanti carichi non
ci permettono altre alternative. Di giorno repubblichini e fascisti perquisiscono
tutti i viaggiatori e, durante il coprifuoco, sparano a vista su chiunque. Penetriamo
nello scalo, nascondendoci lungo i convogli in sosta.
A poche centinaia di metri dall'edificio della stazione troviamo tre locomotori
quasi affiancati: ecco i nostri obiettivi. Ci muoviamo rapidamente, accendiamo
le micce e ci apprestiamo a ripercorrere a ritroso la via quando una potente
esplosione illumina la scena davanti a noi. Il compagno che aveva l'incarico
di minare un locomotore poco fuori dalla stazione, è stato tradito dall'eccitazione;
ha innescato subito la carica e non ci ha lasciato il tempo di abbandonare la
zona. Ma, forse, è proprio questa circostanza ad agevolarci la fuga.
Mentre suona l'allarme e nugoli di tedeschi e fascisti si precipitano dalla
sua parte, le nostre tre esplosioni scuotono il terreno, come un terremoto alle
loro spalle.
I tedeschi e i fascisti perdono la testa. Tornano indietro di corsa credendo
che stia per iniziare un attacco generale alla stazione e così possiamo
allontanarci tranquillamente.
3 marzo sera: All'ingresso di tutti gli stabilimenti FIAT e
in molte altre fabbriche della città è stato affisso il seguente
avviso: "Le autorità italiane e germaniche constatato che in questo
stabilimento il lavoro non è stato regolarmente ripreso stamane, hanno
decretato la chiusura a tempo indeterminato dello stabilimento stesso con le
conseguenze di cui al comunicato l° marzo del Capo della Provincia."
Il nemico accusa nel modo più aperto il colpo. Del resto le notizie che
pervengono da tutto il Piemonte sono entusiasmanti: in Val di Susa sono stati
occupati i paesi di Almese, Rubiana e La Torre. E' stata interrotta la linea
ferroviaria Torino-Modane. Alla Venchi Unica le operaie hanno insultato Giraud,
un sindacalista fascista che le incitava a riprendere il lavoro. I guardiani,
sotto la pressione delle lavoratrici, sono stati costretti ad aprire i cancelli.
Alle dieci in punto le maestranze sono uscite dallo stabilimento.
Accendo la radio e ascolto la "Voce di Londra." Lo sciopero nell'Italia
del nord è un episodio unico, finora, nella storia della guerra, dice
lo speaker.
Il 4 marzo ricevo un messaggio di buon mattino: i gappisti possono concedersi
una pausa, la macchina dello sciopero è bene avviata. Proseguirà
fino all'otto marzo, nonostante le pesantissime rappresaglie.
Una cosa è certa: il freddo mi ha svegliato e, nel buio profondo non
trovo le solite cose. Una mano apre la tenda. "Non hai sonno, compagno?"
chiede la senti-nella. Ora le idee si mettono a posto nella mia testa. Nel sonno
accadono cose strane. Può capitare ad un gappista di credersi addormentato
in una base clandestina a Torino e di svegliarsi nell'incubo della cattura.
In realtà mi trovo in una delle tende del distaccamento di Barge e a
destarmi è stato solo il freddo. Il freddo e la mancanza di coperte.
Chiedo alla sentinella: "Ma tu come sopporti questo clima?" "Vieni
a vedere," risponde, "come dorme un terrone, con una coperta uguale
alla tua!"
Da una tenda, distante una trentina di passi, viene un brontolio fragoroso,
regolare. Qualcuno là dentro, russa sonoramente: un uomo col sonno a
prova di bomba. È "Barbato," cioè Pompeo10 Colajanni,
siciliano puro sangue e comandante militare della zona. Né il freddo,
né la guerra sembrano turbare minimamente quel suo sonno omerico. Non
ho cuore di svegliarlo. Oltretutto, quel russare rotondo mi dà un senso
di pace.
Nella tenda accanto c'è Giolitti, il nipote del vecchio statista, e Comollo.
Due partigiani bruciano pochi sterpi per scaldarsi. Dal pentolino, sospeso sopra
la fiamma, esce un buon odore di caffè. Le sentinelle si danno il cambio.
Non ho sonno. Mi porto dentro l'ansia della lotta in città. Nella tenda,
dove sul mio riposo e su quello di tutti gli altri veglia una sentinella con
gli occhi bene aperti, forse non è stato solo il freddo a svegliarmi.
In un bicchiere di alluminio mi offrono caffè fumante. I ragazzi, lo
rivela l'accento, sono della zona. La loro cascina è distante cinque
chilometri dal distaccamento. Ogni tanto scendono in paese e da li mandano notizie
ai vecchi. Darebbero troppo nell'occhio andando a casa loro stessi. Sembrano,
anzi sono, tranquilli, sereni. La guerra non sembra pesare su di loro nella
stessa misura in cui pesa su tutti noi in città.
In un certo modo questo è il paese di sogno di molti nostri combattenti.
Le sentinelle si danno il cambio; gli uomini dormono sotto le tende. Il pericolo
c'è anche qui ma non è l'insidia alle spalle, all'angolo della
via, nel silenzio della notte. Uno dei due partigiani vuole distrarmi con una
barzelletta. Rido più di quanto non lo meriti. Forse perché a
contatto con la nostra gente, nella pace delle colline di Barge, si scioglie
la mia angoscia di gappista isolato e braccato. La calda presenza degli altri
combattenti dell'esercito al quale appartengo mi rincuora. "Qui sembra
di essere in paradiso," mi dico tornando nella tenda prima di essere colto
da un sonno profondo.
In realtà a Barge qualche mese prima c'era stato l'inferno; truppe scelte
di Salò e forze di assalto tedesche avevano rastrellato tutta la zona
per fare piazza pulita dei "ribelli." Cannoni e carri armati, mitraglie
e lanciafiamme non erano riusciti a fiaccarli. Il posto e i compagni mi ispirano
fiducia. Decido di stabilirvi la più sicura delle nostre basi di rifornimento
e di collegamento. Colajanni mi assicura l'invio di armi ed esplosivi per le
nostre azioni in città. Per il trasporto provvederemo a mezzo di staffette.
Prima di lasciare Barge improvvisiamo un brindisi. Cantiamo. Il volto giovanile
eppur grave di Barbato, l'ex ufficiale Colajanni che ora comanda gli "irregolari,"
il profilo adolescente di Giolitti, quello maturo e forte di Comollo. Cantiamo
tutti assieme una canzone che non avrei più dimenticato.
Raccolgo qualche notizia dopo il rientro alla base di piazza
Campanella, presso i Bessone. L'atmosfera euforica dello sciopero generale è
sfumata. Più di uno che parlava apertamente nei giorni dello sciopero,
ora sussurra circospetto o tace.
Da Pratolongo, con cui m'incontro all'indomani, apprendo che la reazione nazifascista
è pesante soprattutto nelle fabbriche. Arresti, torture, deportazioni,
pattugliamenti nei reparti: gli operai lavorano sotto il controllo degli sgherri
di Zerbino e per un nonnulla si procede al loro arresto, all'interrogatorio,
al pestaggio. Le "punizioni" in qualche caso vengono comunicate direttamente
in foglietti affissi all'ingresso delle fabbriche. Vogliono demoralizzare le
maestranze. Vi sono stati casi di reazioni spontanee alla violenza fascista,
ma le nostre organizzazioni hanno dissuaso gli operai dalle azioni isolate votate
all'insuccesso. Sono proprio queste che il nemico vorrebbe per individuare i
più decisi e colpire meglio. Le direttive sono invece quelle di rafforzare
l'organizzazione clandestina e di intensificare il sabotaggio della produzione
bellica, la propaganda antifascista e la diffusione della stampa. Dalle fabbriche
cominciano a giungere i primi frutti di quest'opera. Le sottoscrizioni per sostenere
la lotta armata sono aumentate notevolmente e le iniziative di solidarietà
vanno diffondendosi ovunque. Dove le condizioni lo permettono anche la protesta
di massa contro gli arresti e le intimidazioni viene effettuata con efficacia.
Le donne sono in prima linea in questa battaglia. Appena si sa che un compagno
è stato arrestato le operaie e gli operai si fermano, restano immobili
accanto ai torni, alle presse. La sospensione del lavoro dura alle volte per
ore. Qualche volta riesce a fermare in tal modo la mano del nemico.
Ma il panorama non è roseo. Accanto alle fabbriche in cui è possibile
reagire, vi sono quelle in cui la repressione ha colpito duramente e gli arresti
hanno creato larghi vuoti nell'organizzazione. Lì, il terrore è
spietato.
La regola, sotto qualsiasi cielo, è sempre la stessa: se ti pieghi al
terrore, il tallone del nemico ti schiaccerà definitivamente. Se dopo
aver inferto un duro colpa al tedesco con le manifestazioni di massa, i lavoratori
fossero soli, se si sentissero abbandonati di fronte alle repressioni, i progressi
svanirebbero. Tocca a noi. Siamo pochi, ma possiamo mobilitarci nel giro di
un'ora. Ancora una volta è il nostro momento.
Il ritrovo tedesco di Via Paleocapa è un ottimo bersaglio. E' qui che
i tedeschi si riuniscono per concedersi un po' di relax dopo le torture e i
rastrellamenti. Gli aguzzini di via Asti si mescolano alle SS, esempio di ferocia
ai fascisti repubblichini. Dopo le atrocità, baldoria. E quasi ogni sera
in via Paleocapa c'è baldoria. A malapena si osservano le regole dell'oscuramento;
dall'interno, specie a tarda ora, scoppiano rauchi cori di ubriachi e risa femminili.
Sentinelle vigilano costantemente. Il ritrovo è circondato da una rete
di uomini che passeggiano ininterrottamente sotto i portici.
Il piano va elaborato attentamente. Effettuo varie visite attorno al ritrovo,
percorro passo passo il nostro futuro itinerario. Più ci penso e più
questa impresa assomiglia a un viaggio senza ritorno. La zona è al centro
di un nucleo di case abitate da molti ufficiali tedeschi e fascisti. La fuga
non sarà facile e neppure l'accostamento. Gruppi di sentinelle (precauzione
recente) pattugliano il ritrovo. Ogni pattuglia segue l'altra a pochi secondi
di distanza, un cerchio continuo.
Nella mia casa in via Pinetti traccio su un foglio di carta la pianta dell'edificio
ricostruendo con precisione la zona del nostro prossimo attacco. Mentre sto
riflettendo bussano alla porta: è una staffetta, Ines. Apro dopo aver
spento la luce e aver controllato la pistola. Ines annuncia che hanno arrestato
altri operai alla FIAT Mirafiori e che li deporteranno in Germania. Si metterà
a nostra disposizione con un'altra partigiana.
Mentre mi parla continuo macchinalmente a tracciare cerchi. A un tratto mi avvedo
che la linea urta contro un angolo dell'edificio. È un particolare da
nulla ma serve a ricordarmi che quel vecchio fabbricato ha ben sette spigoli.
Non può esserci un cerchio attorno. Il percorso delle pattuglie dovrà
essere per forza spezzato. Anche le vie e le case che circondano il ritrovo
tedesco di via Paleocapa sono infatti spigolose, irregolari. L'idea ossessiva
del cerchio che protegge il bersaglio cade di colpo. La vigilanza è continua,
ma evidentemente non può essere, come sembrava a tutta prima, ininterrotta.
Ad ogni spigolo ognuna delle pattuglie di guardia perderà di vista l'altra,
anche se per pochi secondi. È come se al posto del cerchio ci fossero
dei segmenti allineati. Tra un segmento e l'altro dovrà inserirsi il
nostro attacco.
Convoco Ines e Nuccia assieme a Mario. Non dobbiamo essere in molti in questa
azione. Le ragazze porteranno le bombe alla base; noi le aspetteremo. Sono due
brave ragazze Nuccia ed Ines. Si vede chiaramente che hanno paura, ma una paura
composta, controllata. La base è una casa sinistrata. Tra le macerie
non verremo facilmente notati. Ad ogni modo sarà facile sgombrare il
campo in caso di cattive sorprese. Per precauzione cospirativa non ho detto
a Nuccia e ad Ines e neppure a Mario che verranno con me altri due gappisti.
Li ho già convocati e informati. Arriveranno alla base poco prima dell'azione.11
Alle 19,15 puntualissime e con aria disinvolta, arrivano Nuccia e Ines. Il nostro
potrebbe sembrare un appuntamento amoroso. In realtà se ne vanno subito
lasciando le loro borse cariche di esplosivo. Nessuno ci nota. Raggiungo i due
gappisti in una specie di tana dove sono riusciti a nascondersi. Nessuno ci
può vedere, ma noi da una fessura possiamo scorgere Mario che fa da "palo."
Controlla il movimento delle pattuglie e ci darà il segnale per l'azione
accendendo un fiammifero. Sono di nuovo inquieto. Le pattuglie si spostano troppo
rapidamente. Camminano troppo in fretta. Il pattugliamento mi fa pensare di
nuovo al cerchio. La velocità con cui procedono scompiglia tutti i miei
progetti. Non tracciano più una serie di segmenti attorno ad un edificio,
ma qualcosa che si avvicina a una linea ininterrotta. Mario accende il fiammifero.
Mi sembra impossibile che dia il segnale di via libera in quelle condizioni.
Ma ormai non si può tornare indietro. Dobbiamo muoverci perché
ora Mario si sposterà dall'altro lato per proteggere la nostra fuga.
Perdo in queste riflessioni almeno due preziosi secondi. Ho la testa in fiamme:
temo di non riuscire a controllare i miei atti.
Spero solo che Mario non abbia commesso un colossale errore. I gappisti, al
mio cenno si alzano. Abbiamo tutto il nostro esplosivo a portata di mano. La
pattuglia si avvia a girare l'angolo. Ci sono almeno duecento metri tra noi
e il ritrovo tedesco. È chiaro che le micce sono troppo lunghe se le
accendiamo all'ultimo momento. La pattuglia che sopraggiungerà noterà
il bagliore rosso e darà l'allarme; saremo sorpresi e probabilmente l'attentato
non avrà alcun risultato. Accendiamo perciò le micce prima di
muoverci. Il lieve anticipo di Mario è stato provvidenziale e saggiamente
calcolato.
"Di corsa," dico, "corriamo divisi verso il palazzo." Loro
dove la pattuglia è appena sparita, io dall'altra parte, incontro alla
nuova. Mario mi fa cenno che sta per sopraggiungere. Gli altri hanno già
collocato i loro ordigni, io sono a pochi passi dall'obiettivo. Dall'interno
giungono distintamente voci eccitate, canti gutturali e musichette di moda.
Si divertono. Colloco la mia bomba nel vano di una finestra, in modo che la
miccia resti celata. Ormai deve mancare pochissimo all'esplosione. Mi allontano
di corsa, mentre la pattuglia si affaccia sulla piazza dove è l'ingresso
del ritrovo. Vedo Mario fuggire e noto che gli altri due gappisti sono già
spariti, un attimo ancora e un triplice boato rompe il silenzio. Lo spostamento
d'aria manda in frantumi i vetri delle finestre tutt'attorno, mentre dal palazzo
si leva una immensa fiammata. Il colpo mi ha un po' stordito ma riprendo la
fuga, senza correre troppo. Sarebbe pericoloso. Nel buio risuona il crepitare
di qualche arma automatica. Sparano. Probabilmente pensano ad un attacco massiccio.
Rientro alla mia base; anche gli altri tornano sani e salvi.
Il giorno dopo i giornali fascisti annunciano che l'attentato ha provocato la
perdita di "nove valorosi camerati tedeschi" e che una taglia di un
milione è posta sul capo degli autori.
Valgo già parecchi milioni.
Note
9 Ilio Barontini, nato a Cecina (Livorno) nel 1890. Fu comandante della Brigata
Garibaldi in Spagna, dirigente e organizzatore dei Francs Tircurs et Partisanes
in Francia. Rientrato in Italia fu l'animatore e organizzatore del movimento
gappista. Mori in un incidente automobilistico nel 1955.
10 Pompeo Colajanni nato a Caltanissetta nel 1906. Già membro del P.C.I.
dal 1921. Dopo 1'8 settembre organizzò, con il nome di "Barbato"
il movimento partigiano nel Monferrato.
11 All'azione hanno partecipato Di Nanni e Bravin che erano nascosti nella casa
di Benati.