Biblioteca Multimediale Marxista
Avevo trascorso un'estate straordinaria. Liberato da Ventotene,
dopo molti mesi di confino, avevo raggiunto Acqui, ospite degli zii. Acqui,
era, ed è ancora oggi, una piccola città del vecchio Piemonte.
Case decorose senza sfarzo, strade per carrozze e cavalli; ovunque un'aria tranquilla,
vecchi signori dall'eleganza ottocentesca attorno ai tavoli dei caffè,
la guerra pareva non riguardasse nessuno; del 25 luglio ne discutevano con esaltazione,
come di un terremoto i cui effetti erano visibili. Dopo Ventotene, mi sembrava
che tutti gli avvenimenti fossero di scarso rilievo. Avevo l'impressione che
ad Acqui tutto si svolgesse in punta di piedi. "È permesso, dottore?
Permette, cavaliere?" Non riuscivo proprio a rendermi conto che in realtà,
il terremoto c'era stato.
Era un'estate bellissima. Le colline erano verdi e gialle di stoppie d'oro,
l'uva prometteva meraviglie dopo la mietitura del grano eccezionalmente abbondante.
Dai miei parenti mi sentivo davvero a casa, le conversazioni familiari richiamavano
alla memoria mia madre, mio padre e i miei fratelli. Mi piaceva la vita in campagna.
Lo squallore roccioso di Ventotene mi aveva lasciato una voglia di campi sconfinati,
un gran desiderio di passeggiare lungo i viottoli di campagna, di riposare all'ombra
degli alberi e di ascoltare, nella calura di mezzogiorno, il frinire delle cicale.
Sentivo il bisogno di vita intorno a me, dopo tanti mesi d'isolamento.
Durante i pomeriggi di quell'estate del '43, dormivo spesso qualche ora all'aperto,
e mi svegliavo ogni volta con gli occhi sorpresi da quel dolce paesaggio di
colline ondulate, dal verde pettinato dei vigneti fitti sui pendii e l'uva che
maturava rapidamente al sole. Il sonno mi riportava agli anni duri del confino,
al paesaggio ostile di Ventotene; aprendo gli occhi ritrovavo la mia terra,
la gente che avevo lasciato da bambino e le passeggiate che erano state di mia
madre e di mio padre giovani, prima dell'esilio.
Si arava già in molti poderi e sui fianchi delle colline ed a valle,
tra il verde e il giallo oro compariva il bruno intenso della buona terra che,
dopo il grano precoce, alimentava un altro raccolto. Il paesaggio era d'una
quiete infinita. La tragedia della guerra tornava ad essere presente all'improvviso
quando, visitando qualche cascinale e salutando i vecchi che avevano conosciuto
i miei genitori, dovevo reprimere la mia felicità, la gioia di vivere,
di essere nuovamente libero. "Dove sono i ragazzi?" "Gianni è
in Africa, Pietro in Russia." Si avvertiva un vuoto in quelle case attorno
ai vecchi e il vuoto era anche tra le colline, sulle piazze, da dove tanti bravi
ragazzi erano partiti per chissà dove.
Tornavo verso sera a casa di mia zia, nella piazzetta di fronte alla chiesa.
Un piatto caldo, e tante attenzioni che mi aiutavano a scrollarmi di dosso la
muffa del confino.
"Non fare troppi strapazzi, non ti sei riposato oggi." Cominciavo
a frequentare, contrariamente alle mie abitudini, qualche bar. Collaudavo il
mio italiano in chiacchierate inizialmente innocue che non potevano non concludersi
con la guerra e le speranze di pace. Avevo frequentato le scuole francesi e
avevo studiato la lingua della mia gente al confino. Naturalmente non riuscivo
a liberarmi dell'accento straniero. Tuttavia potevo discutere a cuore aperto
con la mia gente. Specie con i pochi giovani che non erano ancora stati chiamati
alle armi e con qualche anziano.
"Che cosa fa Badoglio? Come andrà a finire?" Gli interrogativi
si ripetevano, ma cominciavo a capire che cosa pensava la gente tra cui vivevo.
Ero da quattro anni in Italia, ma li avevo trascorsi quasi tutti in carcere
e al confino con gente che non aveva certo bisogno di essere confortata nelle
proprie convinzioni. Avevo parlato poco, avevo soprattutto ascoltato e imparato
alcune regole della clandestinità, che dovevano risultarmi ben presto
preziose, le avevo apprese a Ventotene o nel carcere di Alessandria. Ma per
ora passeggiavo, chiacchieravo e dormivo a lungo, come non mi accadeva da tanti
anni.
Studiavo quella piccola città che sembrava vivere in punta di piedi.
Era un'impressione che doveva rivelarsi presto inesatta ma che non mi dispiaceva.
Una vecchia città che riusciva ad essere tranquilla nella tragedia, che
non perdeva la sua calma antica e non dimenticava l'atmosfera d'altri tempi.
Una città contegnosa, timida, che nascondeva volontà, carattere
e dignità.
Un pomeriggio mi attardai più del solito nella mia passeggiata. Avevo
ritrovato la mia salute, il mio appetito e camminavo sempre di buon passo. Mi
ero allontanato forse un po' troppo e quando calò la sera dovevo ancora
superare una collina prima di entrare in città. Era piovuto la notte
precedente e la temperatura era bruscamente scesa. Mi colse un brivido improvviso
senza riuscire a spiegarmene il motivo; pareva ormai, dopo i giorni di sole,
le notti limpide, i cieli stellati, che la stagione sarebbe durata a lungo.
I giorni si erano ripetuti bellissimi, colmi di luci e di profumi. Fragranza
di glicini delle vecchie cascine, il buon odore della trebbiatura, del fieno.
Certo, mancavano ancora settimane, dalle cantine che i contadini preparavano
e lavando le botti e pulendo i torchi, si levava un odore forte e pungente come
quello dell'uva appena pigiata.
I campi esalavano il sapore di un'estate splendida e ormai matura, nelle stallette
grugnivano i maiali che ingrassavano affogando il muso nella crusca bagnata.
Ero così profondamente preso da quelle impressioni che l'improvviso freddo
di quella sera mi fece male. Eppure avevo conosciuto ben altri freddi sulle
montagne di Spagna, nei tremendi inverni della guerra.
"L'estate è finita," mi dissi. Mi sembrava che si concludesse
non soltanto una stagione ma un capitolo della mia vita.
*
La mia camera si affaccia sulla piazza del Duomo, una piazza
ripida; sullo sfondo si levano le linee severe ma addolcite da successivi restauri
della Cattedrale. Alla piazza del Duomo conducono strade piuttosto strette,
affollate soltanto la domenica e i giorni di mercato. Quello che mi ha svegliato
è un rumore insolito. Sta accadendo qualcosa di straordinario. Me ne
rendo conto pensando che, abitualmente, neppure il rumore delle campane che
suonano a qualche decina di metri riesce a scuotermi dal sonno.
È come un'onda improvvisa di voci, uno scalpiccio di centinaia o di migliaia
di passi, un crescendo di grida. Ormai è proprio sotto la mia finestra.
Mi affaccio e mi colpisce uno spettacolo come non ho mai visto prima: sono soldati
che scappano. O meglio erano soldati. Ora è solo gente che fugge, un
fiume di giovani che riempie i vicoli e le stradicciole di Acqui, getta le giacche
grigioverdi, raccoglie abiti borghesi. C'è chi si ferma, entra in un
androne, chi, nella fretta, entra in una casa dalla finestra. Erano un esercito.
Ora son ap-pena persone che cercano scampo abbandonando in fretta e furia la
divisa. Le donne vuotano gli armadi, danno a questi ragazzi gli abiti dei loro
uomini. Scendo a precipizio in strada. I tedeschi hanno bloccato la città.
E questa gente scappa per fuggire ai tedeschi. Ieri sera avevano trasmesso l'annuncio
dell'armistizio. Tutto è precipitato all'improvviso. La Wehrmacht, come
era prevedibile, si trasforma in esercito di occupazione. Quella che prima era
una sottomissione mascherata diventa evidente e umiliante. Devo muovermi; raccolgo
in fretta quello che mi può servire ad Alessandria. Devo immediatamente
prendere contatto con il Partito. Sono di nuovo in strada e rimonto a fatica
la corrente di questi giovani in fuga.
Sto dirigendomi alla stazione. Mi imbatto in un capannello. I tedeschi hanno
bloccato la caserma e hanno fatto prigionieri i soldati. Prima di partire per
Alessandria voglio vedere che cosa è accaduto in quella caserma. Mi butto
a correre e dopo qualche minuto mi accorgo che molti altri stanno correndo in
direzione Via Cesare Battisti. Il vecchio edificio color giallo bruciato è
già presidiato dai soldati in uniforme oliva che con le armi imbracciate
bloccano l'ingresso. La via monta: mi volto indietro e vedo che una vera e propria
folla — uomini, donne, molte coi bambini in braccio — sta salendo.
I volti dei tedeschi sotto gli elmetti plumbei sono duri e tesi. Qualche grido
si alza, incomprensibile dalle finestre dell'edificio, poi echeggia una raffica
dal cortile. Siamo a poche decine di metri dal portone. Anche dall'altro lato
della via viene gente. Le prime dieci, venti persone che le sentinelle hanno
lasciato avvicinare incuranti sono ora una folla compatta. I tedeschi appaiono
incerti. Fanno scattare all'indietro gli otturatori dei fucili e delle machine-pistole.
Nel silenzio solo il rumore dei passi della gente che continua a sopraggiungere
correndo. Il nostro sguardo arriva all'interno della caserma. Attraverso le
sbarre delle finestre vediamo le mani ed i volti dei soldati prigionieri. In
mezzo al cortile un gruppo di tedeschi, agli ordini di un ufficiale, si dà
da fare attorno ad un paio di mitragliatrici piazzate su un'auto. I nostri soldati,
dietro le inferriate, ci hanno visto e gridano. L'ufficiale dà un ordine,
estrae la pistola dalla fondina. La raffica di una mitragliatrice diretta verso
l'alto colpisce una grondaia ed alcune tegole. I prigionieri si staccano dalle
inferriate, si mettono al riparo. Ma da un paio di finestre dove nessuno si
è mosso, si levano grida e insulti contro i tedeschi. La gente, davanti
al portone, si agita. Qualcuno mi spinge con una mano sulla spalla. Io spingo
chi mi sta davanti. Siamo un blocco compatto e all'improvviso ci muoviamo. I
tedeschi indietreggiano leggermente, uno grida, il comandante del cortile urla,
le mitragliatrici vengono spostate all'ingresso. Ma, ormai, è troppo
tardi. Una valanga umana precipita contro i cancelli. Il cordone di guardia
viene travolto. Le donne corrono avanti, qualcuna disarma i tedeschi. Siamo
addosso al gruppo che è al centro del cortile. Nella calca anche chi
conserva le armi non può usarle. Le mitragliatrici sono sommerse. Non
c'è tempo da perdere. Ora è il momento di tenere la testa a posto.
Chiamo attorno a me alcuni uomini che mi sembrano più validi, ci seguono
alcune ragazze. Apriamo le porte delle camerate e gridiamo ai soldati di fuggire
dalle porte opposte. Dietro a noi sparano. Regna una confusione incredibile.
Le donne continuano ad entrare, a urlare bloccando i tedeschi nel cortile. Ma
i minuti sono contati. I nostri soldati si gettano dalle finestre a grappoli;
alcuni di noi riescono a penetrare in uno stanzone dove si trovano delle armi.
Ce ne impadroniamo e ci dileguiamo dalle finestre che danno su una strada secondaria.
I nostri ragazzi sono scappati tutti, corrono per le vie di Acqui, chiedono
e ricevono abiti civili in cambio delle uniformi. Ancora una volta dalle porte
e dalle finestre mani di donne porgono vestiti. La solidarietà popolare
ha trasformato questa piccola città in un immenso guardaroba.
Ora mi sento un po' meglio. Ho partecipato alla prima ribellione contro i tedeschi.
È l'inizio. Decido di ritardare la mia partenza per Alessandria. Probabilmente
c'è ancora qualcosa da fare qui. Prima di tutto ritrovare i ragazzi,
giovanissimi, che si sono impadroniti delle armi. Non è facile perché
non conosco nessuno, ma se li trovassi potrei contare subito su un nucleo in
grado di agire. Mi sono sembrati ragazzi in gamba, dotati di prontezza e sangue
freddo. Purtroppo la ricerca appare ben presto impossibile. Cominciano a vedersi
le prime pattuglie tedesche. Le strade si fanno deserte. Gli ultimi sbandati
cercano precipitosamente un rifugio.
Mi trovo così in un gruppo che si nasconde in un magazzino. Tra gli altri
noto un capitano ancora in uniforme. Ha perso la bustina ma è ancora
in uniforme. Sta seduto su una cassa in un angolo, con la testa bassa. È
avvilito, l'immagine stessa dell'umiliazione.
Lo guardo e mi avvicino. "Lei era in caserma fino a poco fa?" Annuisce
con la testa e tiene lo sguardo a terra. Non so se riuscirò a trovare
il tono giusto per parlare a quest'uomo. "Come mai i tedeschi vi hanno
colto di sorpresa?" "Sono venuti in caserma all'alba." "Ma
voi non avete informazioni o ordini dal comando?" L'uomo alza la testa,
indispettito. Non gli garba sentirsi interrogare da uno sconosciuto, ma risponde:
"Non sappiamo più nulla del comando, da almeno ventiquattr'ore."
Impreca tra sé ed è a disagio con gli occhi di tutti puntati addosso.
Per fortuna l'attenzione dei più viene attratta da un soldato con i capelli
rossi che deve aver ricevuto in regalo un abito da sposo e sembra in attesa
di recarsi ad una festa. Ha perfino le scarpe di vernice. Ora discute con gli
altri se gli conviene cercare un passaggio su un camion così abbigliato.
Io e il capitano possiamo conversare indisturbati. Ha una gran voglia di sfogarsi,
di riversare su qualcun altro la sua amarezza.
"Forse la guerra finirà subito ora," dice, "ci basterà
fare la parte che abbiamo già fatto. Quella di chi ha preso le pedate,
gli schiaffi e anche gli insulti. E si fa fregare come un cretino da quattro
tedeschi..."
"Per me la guerra non è finita. La Germania si batterà ancora
e anche per noi c'è ancora da fare."
"Forse," dice, "ma come e con chi? Ero un ufficiale di un esercito,
ma ora l'esercito è sparito come la neve al sole. Se ci sarà di
nuovo qualcosa di simile, sarò anche disposto a fare qualcosa. Ma ora..."
Dall'esterno voci di donne ci avvertono che i tedeschi si sono allontanati.
Il gruppetto si sfalda. Usciamo. Il capitano ed io facciamo un pezzo di strada
assieme. Mi stringe la mano. "Se ci sarà da fare, ci rivedremo."
Se ne va con passo grave e la testa bassa. È l'unico che sia rimasto
in uniforme. Non sa decidersi a chiedere un abito borghese. Lo vedo entrare
in un bar. Quell'uomo non sa che fare e probabilmente finirà per decidere
di andarsene a casa, come gli altri. Ma io so quello che devo fare. Quello che
ho già fatto in Spagna, nel '36.
Torno alla ricerca dei ragazzi della caserma, e in tal modo nella prima settimana
successiva all'8 settembre comincia per me la vita partigiana.
Ritrovo i ragazzi in collina; incontro alcuni vecchi antifascisti.
Assieme organizziamo un primo gruppo dal quale nascerà in seguito la
prima divisione partigiana valorosamente guidata da Minetti, nome di battaglia
di Mancini. Sui colli affluiscono anche alcuni soldati della caserma. Per ora
non si combatte, ma si attende tentando al più qualche interruzione di
linee telefoniche e piccole azioni di sabotaggio: L'obiettivo è di raccogliere
maggiori forze e al tempo stesso di sottrarle all'attacco del nemico. Nella
pianura i tedeschi sono affluiti in forze. Noi provvediamo a sistemare gli accantonamenti
in località sicure. Stiamo cercando di scoprire quelle che diventeranno
le regole strategiche e tattiche della guerra partigiana. C'è una gran
voglia di battersi, ma tutto è ancora confuso, senza un minimo di organizzazione
e di collegamento.
Ad Acqui, a Visone, Strevi, Ricaldone, Cassine, Cartosio, ecc. l'eccitazione
della gente dura qualche giorno, l'andare frettoloso di giovani che portano
abiti civili ma camminano sul selciato con un passo che se non è marziale,
rivela però un'origine di caserma. Portano infatti scarpe militari che
molti preferiscono conservare per il lungo cammino piuttosto che affidarsi all'incognita
di un paio di scarpe borghesi appartenenti magari ad un altro soldato lontano,
che sta cercando altrove la via di casa.
Tra i ragazzi che si sono accantonati sulle colline, alcuni se ne sono andati.
"Se si deve combattere, tanto vale combattere più vicini a casa,"
hanno detto. Altri sono arrivati, altri ancora vengono a discutere, chiedono
se esiste un comando. Qualcuno si ferma e decide di aggregarsi alla formazione
che sta per nascere. Come sarà non lo sa nessuno. Ma quelli che restano
sanno istintivamente che l'esercito, quello che dovrà combattere senza
quartiere i tedeschi, dovranno organizzarselo e costruirselo loro, con il loro
sangue e la loro intelligenza.
*
Parto per Alessandria per prendere contatto con gli organi
dirigenti del Partito. Occorre che la resistenza diventi un moto organizzato
e subito.
Compri il biglietto, all'ingresso te lo forano, sali in carrozza. Poi il capostazione
fa trillare il fischietto, il macchinista risponde con il fischio robusto della
locomotiva e il treno parte. Tutto è come sempre, o quasi. Lo Stato è
sfasciato, l'esercito è dissolto, ma il treno da Acqui ad Alessandria
funziona ancora. Sembra assurdo. Come se dopo un cataclisma che ha sconvolto
la faccia della terra ci si accorge che la vita continua, che í giorni
e le notti si succedono come prima...
Nel carrozzone si respira a fatica. Sono giornate ancora calde e non tutti i
finestrini si possono aprire. Le sigarette confezionate con carta da giornale,
il sudore che i soldati si portano addosso, l'odore di muffa che emana dal legname
umido delle carrozze rendono l'atmosfera irrespirabile. Le donne anziane tengono
pacchi e fagotti stretti in grembo. Alcune sono madri che van-no a cercare i
figli non ancora ritornati a casa dopo l'8 settembre; altre si recano all'ospedale
di Alessandria per riportarsi a casa i loro congiunti prima che i tedeschi perquisiscano
anche gli ospedali e mandino i loro uomini in Germania.
I soldati ascoltano, le donne si scambiano confidenze. Storie cupe di ammazzamenti,
di fughe miracolose che ispirano fiducia, storie di guerre, sempre. Non si parla
d'altro. Ne parla sia chi non vuole più saperne e giura che "per
lui è finita," sia il "furbo" che pensa al mercato nero.
Si temono i posti di blocco. Un ragazzo dal volto abbronzato dice che nella
sua caserma i bersaglieri han dovuto scappare per il condotto di un fossato
che era stato appena interrato. I tedeschi avevano installato posti di blocco
ovunque.
"Ve lo dico io," assicura il maresciallo, "adesso sono occupati
a spedire gente in Germania e noi siamo già pazzi a farci trovare in
treno. Ma appena avranno un po' di respiro si metteranno a frugare a destra
e a sinistra in tutte le case." Nel vagone si è fatto silenzio.
Gli ottimisti si sono zittiti. Si fa strada la sensazione che in questa scatola
di ferro e di legno siamo come in una trappola che un plotone di tedeschi prenderà
in consegna all'arrivo ad Alessandria. Lungo il tragitto, alle stazioni di campagna,
dove il treno sosta anche se l'orario non lo prevede, parecchi scendono. Ad
Alessandria gli scompartimenti sono semivuoti e le donne depositano finalmente
i loro enormi fagotti sui sedili rimasti liberi. Alla stazione i tedeschi ci
sono davvero ma non hanno ancora organizzato posti di blocco e di controllo.
Svelto scendo dal treno con una sensazione di sollievo. Mi reco a prendere contatto
con i dirigenti del Partito. Per le vie di Alessandria c'è qualcosa di
diverso dall'eccitazione e dall'inquietudine che si avvertiva ad Acqui: affollamenti
davanti ai negozi alimentari e viali deserti. Nei caffè e nelle osterie
poche persone. Entro in un locale semivuoto per prendere un caffè. L'ambiente
è piuttosto cupo e trasandato, il barista poco sollecito. Noto che invece
di avvicinarsi alla vetusta macchina che troneggia al centro del bancone afferra
una cuccuma e la porta nel retrobottega. Non mi sembra di notare molta premura
nel giovanotto e lo prego di affrettarsi. Mi risponde con aria seccata, ma un
istante dopo scatta e si fa ossequioso davanti a un tale che porta la camicia
nera e un distintivo fascista. I due confabulano e il fascista appena entrato
esce, dopo aver gettano un'occhiata di riprovazione ai vecchietti che giocano
a carte a un tavolino d'angolo. Bevo finalmente il mio cattivo caffè
e mi allontano in preda ad una profonda irritazione. Possibile — mi chiedo
— che questi buffoni tornino in circolazione così presto?
Mi affretto all'abitazione del dirigente del Partito che conosco. Ma per arrivarci
devo percorrere ancora parecchio cammino. In periferia c'è più
gente per le strade; i soldati in borghese chiedono informazioni senza timore
alle donne che si affacciano ai balconi delle piccole case. In questi angoli
popolosi della città i ragazzi che cercano scampo si sentono tranquilli.
Evitano le zone centrali semideserte dove cominciano a circolare i primi pattuglioni
motorizzati tedeschi.
Entro in una casa ben nota dove abita il compagno Camera. All'ingresso sostano
alcuni giovani che non conosco. Danno vagamente l'impressione di montare di
guardia. L'incontro con il vecchio compagno è affettuoso.
"Mi trovi, sul piede di partenza," dice, "il terreno scotterà
tra poco in questa zona, ed è prudente cambiare recapito."
Il tempo è scarso e ne approfitto per sfogarmi. La situazione politica
di Acqui mi piace poco. Per quanto riguarda il Partito esiste solo un nucleo
di vecchi seguaci di Bordiga.
"Sono rimasti fermi per venti anni sognando soluzioni miracolistiche che
travolgessero il fascismo ma non hanno mosso un dito per abbatterlo."
Camera mi conforta. Conosce bene la situazione; qualcuno ama soltanto parlare,
ma qualcuno si muoverà. In ogni caso quello che si deve fare oggi è
promuovere l'unità di tutte le forze. Abbiamo bisogno di tutti per combattere
i fascisti e i tedeschi. E dobbiamo dimostrare che è possibile. "E
non temere," dice, "oltre a noi, vecchie pellacce della lotta antifascista,
domani all'appuntamento ci verranno molti di quei giovani che oggi scappano
in abiti borghesi."
Mi terrò in contatto con lui, promuoverò altre forze e organizzerò
concretamente la lotta contro i tedeschi. Usciamo insieme dall'abitazione che
sta per abbandonare. Se ne va coi giovani che sostavano all'ingresso. Appena
l'invasore avrà rimesso le mani sugli archivi della polizia ed avrà
mobilitato questurini e camicie nere, la caccia agli antifascisti sarà
aperta e la bufera avrà inizio. Ma Camera trasferisce in tempo il suo
quartier generale là dove difficilmente potranno trovarlo. E dalla nuova
"sede" potrà dirigere l'organizzazione delle forze antifasciste
dell'Alessandrino. Buon lavoro!
Sono rientrato ad Acqui ieri sera. Ho trascorso la notte senza
chiudere occhio. Ad Alessandria il Partito è mobilitato, pronto ad operare
secondo le regole della clandestinità. Qui invece il panorama mi appare
sconfortante. Anche l'ultimo colloquio di ieri sera — appena arrivato
ho trovato in piazza uno dei "bordighiani" — non è stato
incoraggiante. Io voglio agire. Lui mi scodella una bella lezione sull'esercito
rosso. Mi racconta per filo e per segno il succo delle trasmissioni di Radio
Mosca e di Radio Londra e mi saluta invitandomi ad aspettare tempi migliori.
Anche i contatti con i ragazzi che attendono in montagna sembrano molto fluidi.
Non si riesce ad esprimere l'energia che certo esiste ma che sfugge ancora ad
ogni tentativo serio di organizzazione.
C'è, a dominare la situazione, uno stato di attesa che paralizza ogni
movimento. E intanto i tedeschi si impadroniscono del paese, deportano migliaia
di giovani in Germania, si preparano a governare come si governa un territorio
occupato militarmente.
La mia febbre di azione, quella che mi ha tenuto sveglio tutta la notte e che
mi tormenta per tutta la giornata, sembra finalmente aver trovato una possibilità
di successo. Ci comunicano che ci sarà una riunione di esponenti dei
partiti antifascisti e che si desidera sia presente un rappresentante del Partito
Comunista. In attesa che questo incontro abbia luogo, intensifico i contatti.
Ho trovato un vecchio compagno entusiasta di collaborare attivamente alla lotta
antifascista. Penso che potrà essere molto utile per i collegamenti indispensabili
nel futuro. Bisogna tessere una vera e propria rete nella clandestinità
più assoluta. Comincio a predisporre l'organizzazione delle cellule.
I singoli militanti avranno tra di loro solo i rapporti strettamente indispensabili
e nella maggior parte dei casi, si conosceranno soltanto col nome di battaglia.
Ciò ostacolerà l'azione dei fascisti e dei tedeschi nel caso che
qualcuno venga catturato e, inoltre, proteggerà le famiglie dalle rappresaglie.
È giunto finalmente il giorno della riunione. Ci incontriamo tutti nell'ufficio
della direzione del cinema "Garibaldi" nel centro di Acqui.
L'atmosfera è curiosa, quasi di cospirazione ottocentesca. Ci presentiamo
con tanto di nome, cognome e titoli senza alcun rispetto per le regole della
cospirazione. Come fossimo in un salotto ci si informa della salute della signora.
Sembra che nessuno avverta il pericolo che comporta anche una semplice riunione
come questa.
La discussione ha inizio; un signore grassoccio, avvolto da un velo di timidezza,
si rivolge alla persona che appare la più autorevole in questa assemblea.
"Secondo lei, avvocato, come andrà a finire?" L'avvocato risponde
con voce sicura, enumerando varie ipotesi. È incline ad accettare quella
più rosea: dopo la resa dell'Italia, la Germania cederà rapidamente
e gli alleati non tarderanno ad arrivare. La discussione a questo punto si accende.
Ognuno vuole esporre le proprie congetture. Nella saletta non si sta cercando
di organizzare un'azione comune, ma si formulano previsioni e ipotesi. E l'orientamento
quasi generale sembra essere quello di prepararsi per il momento in cui gli
alleati arriveranno.
Mantenere i contatti reciproci, organizzare i rispettivi movimenti politici
per ogni eventualità. Anche le intenzioni più concrete di qualcuno
naufragano in questa atmosfera: tutto sta per approdare a un nulla di fatto.
Tra poco ci congederemo con un "buon appetito" e a presto.
Chiedo la parola. La diplomazia non è mai stata il mio forte. Il mio
italiano zeppo di locuzioni francesi non mi consente troppe sfumature. Senza
circonlocuzioni faccio capire chiaramente che l'ora dei discorsi è passata.
È il momento di passare all'azione. Propongo perciò la costituzione
di un organismo unitario per coordinare le formazioni di combattimento.
*
Più tardi la drammaticità degli avvenimenti doveva
imporsi ed alcuni dei partecipanti a quella riunione avrebbero fatto eroicamente
il proprio dovere. Ma allora le mie parole vennero accolte con evidente fastidio.
Con cortesia mi fecero capire che avrebbero gradito, come rappresentante del
Partito Comunista, un individuo più tranquillo.
Lasciai quella sala convinto che bisognava cominciare ad agire perché
gli altri antifascisti ci seguissero: con questo intendimento tornai a prendere
contatto con Fillak1 e con i giovani antifascisti che ero riuscito ad avvicinare.
Ma qualcosa, che non avevo previsto, doveva mutare bruscamente i miei piani.
*
Una sera torno stanco nel mio "rifugio," l'appartamento
di mia zia. L'unico rumore nelle notti tranquille è il suono leggero
della campanella della canonica. La piazzetta è lastricata in selce ed
ogni passo risuona distintamente nel silenzio. Sono circa le 23 e avverto il
pesante scalpiccio di una decina di persone, seguito da violenti colpi all'uscio.
"Abita qui Giovanni Pesce?" grida una voce. Mia zia esita a rispondere
paralizzata dalla paura. "Dov'è vostro nipote?" "Qui non
c'è." "Aprite, presto!"
Spalancata la porta la torma sale di corsa le scale, rovescia mobili e materassi,
spalanca finestre. Afferro gli indumenti che mi riesce di agguantare. Per fortuna
non ho dormito nella mia solita camera al primo piano. Ho giusto il tempo di
dileguarmi mentre gli energumeni mettono a sacco la casa. Apro con mille cautele
l'imposta di un balcone. La stradina che passa di fronte alla casa porta da
un lato alla piazza dove noto ombre sospette a un incrocio di viuzze. Balzo
dalla finestra completamente scalzo e coi pantaloni in mano. Tutto bene ma le
grida dei fascisti sono ancora vicine. Decido di dirigermi alla stazione passando
per i giardini deserti a quell'ora e di cercare li un ricovero. Un carro merci
vuoto mi offre un ricovero provvisorio in attesa di poter segnalare la mia presenza
ad un ferroviere con cui sono in contatto.
L'attesa per fortuna non è lunga, ma certamente angosciosa. È
chiaro che tedeschi e fascisti sono entrati in possesso dell'archivio della
Questura e se ne stanno servendo. Due ore dopo, grazie al compagno ferroviere,
sono provvisto di un paio di scarpe e di una giacca. Passo il resto della notte
nel carro merci che all'alba viene agganciato al treno per Torino. Così
lascio Acqui. Ora sono veramente alla macchia.
Note
1 Walter Fillak, nato a Torino il 10 luglio 1920, studente di ingegneria all'Università di Genova, nell'inverno 1940-41 fonda una cellula comunista. Nel 1942 viene arrestato una prima volta dal-l'OVRA. Liberato dopo il 25 luglio 1943, nel settembre è a Torino ove organizza in nuclei operativi militari sbandati. Partigiano a Pian di Castagna (Acqui), vice commissario della 3a brigata Garibaldi in Liguria. Protagonista di numerose azioni a Genova Commissario politico nella zona di Cogne (Valle d'Aosta) e comandante della VII divisione Garibaldi operante nella bassa Valle d'Aosta, nel Canavesano e nel Biellese. Catturato la notte fra il 29 e il 30 gennaio 1945 in località Sace (Ivrea) con i membri del suo comando che saranno tutti fucilati in seguito ad imboscata di reparto tedesco guidato da un delatore. Processato il 4-2-45 dal comando militare tedesco di Cuorgné (Canavese); impiccato alle ore 15 del 5 febbraio 1945 lungo la strada di Alpette nei pressi di Cuorgné.