Biblioteca Multimediale Marxista
Dal ritmo con cui Ghini parla, riassumendo episodi ed eventi, mi aspetto che
concluda la sua relazione puntualmente al decimo minuto. È freddo, distaccato,
annoiato, dimentico del giogo di Ventotene. Le sue espressioni sono scarne e
precise, da manuale militare. Serpeggia nel suo racconto un senso di spiacevole
isolamento, quasi a voler ribadire che la guerra è troppo dura per consentire
ai protagonisti di concedere qualcosa all'amicizia. Al decimo minuto ognuno
si dirige verso il proprio destino. Le leggi della clandestinità sono
ferree: ogni distrazione comporta un pericolo spesso mortale. Anche le notizie
che mi dà non sono tali da riscaldare il cuore. I primi gruppi di gappisti
a Milano si sono fatti onore. 21 Hanno giustiziato un graduato della milizia
il 7 novembre 1943, all'inizio della guerra clandestina; hanno attaccato un
posto di ristoro della Wehrmacht e giustiziato tre spie: l'industriale Gerolamo
Crivelli di Monza, l'impiegato Primiero Lamperti, nefasto delatore alla Caproni,
Piero de Angeli, tutti responsabili di arresti e di fucilazioni.
L'attività dei GAP milanesi è culminata poi con l'esecuzione del
federale fascista Resega il 18 dicembre 1943. Poi sono incominciate le feroci
repressioni. Per la morte di Resega sono stati fucilati nove patrioti detenuti
a S. Vittore. Si pagano duramente l'entusiasmo dei primi tempi, la vigilanza
trascurata, le file aperte ai delatori. Rubini 22 è stato arrestato.
Sapevano chi era: combattente in Spagna, comandante di una formazione di "Maquis"
in Francia e, a Milano, un trascinatore di giovani nella lotta dei GAP. Lo hanno
torturato ferocemente: gli hanno strappato le unghie, i capelli, gli hanno ricoperto
ad una ad una con un ferro rovente le ferite riportate in Spagna. Poi, quando
è svenuto, lo hanno abbandonato nella sua cella. Quando sono tornati
era troppo tardi. Rubini, raccogliendo le ultime forze, era riuscito a lacerare
un lenzuolo, a farne una striscia, e a legarla alle sbarre della cella. Poi,
sollevando di colpo i piedi da terra, si era impiccato.
Le conclusioni sono chiare: bisogna riprendere le file di una organizzazione
decapitata. Il decimo minuto sta scadendo, quando Ghini, indicatomi un negozio
di apparecchi radio, conclude: "lí ti aspetta Giorgio."
Si allontana ed io entro nel negozio. Mi sento gelare alla vista di una decina
di ragazzi che mi vengono festosamente incontro dal retrobottega, capeggiati
da un tipo spavaldo che mi apostrofa ad alta voce: "Sei tu il nuovo comandante
dei GAP? Sei tu il nuovo comandante dei GAP? Sei tu che hai guidati i gappisti
a Torino?" Mi volgo istintivamente a guardare l'uscita. Chiunque avrebbe
potuto notare quello strano e pittoresco assembramento. Non sono tempi in cui
la gente affolla un negozio di apparecchi radio, quando anche i bar sono poco
frequentati. Li spingo a viva forza nel retrobottega. La situazione si presenta
pericolosa e taglio corto: "Datemi il numero di telefono. Di chi devo chiedere
per prendere contatto?" Indicano Diego di cui sillabano chiaro e tondo
il nome e il cognome. Riesco ad evitare l'indirizzo. Sono probabilmente tutti
bravi ragazzi e anche coraggiosi, ma altrettanto pericolosi per la loro assoluta
ignoranza di ogni cautela. Forse si attendono da me un discorsetto di circostanza
e non che mi allontani bruscamente. "Aspettate una mia telefonata. Ci rivedremo.
In bocca al lupo." Lascio la zona usando ogni accorgimento per disperdere
eventuali inseguitori. Al ragazzo che mi ha seguito fino all'uscita faccio in
tempo a dire: "Voi siete pazzi, dovete usare un minimo di vigilanza se
non volete finire nelle mani dei repubblichini."
Il primo contatto con i milanesi è stato piuttosto sconcertante. Penso
con raccapriccio alla facilità con cui il nemico potrebbe, se non lo
ha già fatto, introdurre suoi elementi fra le file di quei ragazzi, chiaramente
inesperti. Lascio trascorrere un paio di giorni. Prendo possesso di una "base,"
un appartamento di cui conosco solo io l'indirizzo.
Faccio una visita alla città paragonandola a Torino. È evidente
la differenza dell'atteggiamento dei tedeschi e dei fascisti. Qui si sentono
ancora sicuri e circolano baldanzosi.
Telefono a Diego, gli fisso per alcuni giorni dopo un appuntamento da confermarsi
all'ultimo momento. Solo mezz'ora prima avrei indicato la località dell'incontro.
Mi sarei appostato per tempo in un luogo sicuro per controllare se Diego fosse
stato seguito o preceduto da persone sospette. Nel frattempo sollecito un incontro
con Secchia in via Nino Bixio. Mi viene incontro fissandomi attraverso gli occhiali,
con la borsa di cuoio sotto il braccio e la disinvoltura propria di un professionista
bene avviato. Non perdo tempo in preliminari. Mi sfogo raccontandogli la disastrosa
esperienza del negozio di radio. Mi ascolta con attenzione.
"Sono d'accordo," risponde. "La situazione è preoccupante."
Mi sento un po' sollevato. Se un dirigente capace e sperimentato come Secchia
è d'accordo, ho ragione io. "Ma vedi, caro Visone (questo era il
mio nuovo nome) è proprio perché siamo in queste condizioni che
ti abbiamo fatto venire a Milano. Trovare uomini da mobilitare è pericoloso
come maneggiare la dinamite. Dovrai usare tutta la tua esperienza e tutta la
vigilanza necessarie." In parole povere bisogna ricominciare tutto da capo,
ma d'altra parte, non si può lasciare un centro come Milano nelle mani
dei tedeschi e dei fascisti.
Vado all'appuntamento con Diego. Gli chiedo se posso contare su di lui e i suoi
uomini per qualche azione. "Lo posso garantire," risponde, "sono
tutti ragazzi in gamba." "Li conosci bene?" "Perbacco,"
afferma ridendo di gusto, "siamo tutti amici. Abitiamo nello stesso caseggiato
o nello stesso rione e ci conosciamo da ragazzini."
Me l'aspettavo, ma è stata egualmente una sassata. Tutti amici, tutti
vicini di casa. La cattura di uno porterebbe i fascisti diritti diritti all'interno
del gruppo. Devo dunque metterli alla prova. Stabilisco con Diego compiti non
eccessivamente impegnativi. Ci ritroveremo tra qualche giorno.
La scelta della località è preceduta da un controllo accurato
della possibilità di fuggire ad un eventuale agguato. Verifico che Diego
non sia seguito da poliziotti o estranei. Mi stringe la mano, ci sediamo al
tavolino di un bar. "I ragazzi sono contenti che tu faccia affidamento
su di loro. Anzi, ne abbiamo mobilitati degli altri." "Ma avete fatto
qualcosa?" Lo interrompo.
È evidente dal rossore che gli imporpora il volto che "i suoi ragazzi"
non hanno combinato nulla. Lo so fin da quando l'ho visto giungere sorridente
e cordiale. Nessuno sorride così dopo le prime azioni. Devo prendere
una decisione radicale. A mio parere questa gente rappresenta un pericolo per
sé e per gli altri. Occorrerebbero mesi e tragiche esperienze prima di
addestrarli alla guerra clandestina.
Affronto francamente il discorso: "Diego, non è necessario che mi
risponda. So benissimo che non avete combinato nulla. Voi siete indubbiamente
antifascisti ma non avete ancora capito la differenza che passa tra una formazione
partigiana ed una banda di ragazzini. Voi credete che i tedeschi siano come
la squadra dell'altro quartiere con cui siete abituati a fare a cazzotti. Ma
la guerra non è uno scherzo e questa è la più seria di
tutte."
L'ho giudicato bene. È inesperto, un po' spaccone, ma non uno sciocco.
Accetta la mia proposta di andare a "far pratica" coi partigiani;
si porta i suoi amici nell'Oltrepò pavese dove saranno inquadrati in
una formazione e si distingueranno in parecchi combattimenti. In uno di questi,
proteggendo la ritirata dei suoi in uno scontro coi tedeschi, Diego cadrà
da prode. Dopo quel colloquio, io mi sforzo di prendere contatti con gruppi
di patrioti in grado di operare immediatamente nella città di Milano.
È un lavoro difficile e pesante ma che dà i suoi frutti 23
A poca distanza da Milano, a Mazzo, un piccolo centro nei pressi di Rho, avrò
una delle piú gradite sorprese che possa sperare un organizzatore clandestino.
Scopro un gruppo di giovani che ha già fatto il servizio militare e ha
una discreta conoscenza delle armi e degli esplosivi. Sono comandati da un sottufficiale,
Balzarotti, coraggioso e deciso. La loro attività non ha avuto seguito.
Quando li raggiungo e li trovo riuniti in un cascinale mi rendo conto che hanno
predisposto un servizio di guardia. Non riesco a vedere dove sono appostate
le sentinelle, ma presumo si trovino sugli alberi. Questo è già
confortante.
Questi giovani mi ispirano fiducia sin dal primo momento. Parlo loro della necessità
di passare all'azione rapidamente e poi ascolto le loro parole. Balzarotti parla
da uomo responsabile: ha già combattuto, ha visto la morte da vicino
e non pronuncia parole a vanvera. È però perplesso sulla possibilità
di svolgere un'azione gappista. È un tipo di combattimento del tutto
nuovo per tutti. Parlano anche altri del gruppo, costituito da una dozzina di
persone. Sono tutti tipi svegli, intelligenti, ma hanno pensato ad un ben diverso
tipo di guerra. Hanno costituito il loro reparto e si sono preparati. Hanno
armi ed esplosivi e li sanno usare. Quando passeranno all'azione? Aspettano
il momento opportuno per sfruttare il loro tipo di organizzazione, aspettano
l'insurrezione generale. Conosco l'atmosfera politica della Valle Olona, so
la provenienza di quell'orientamento e come bisogna combatterlo senza esitazioni.
In questi ragazzi l'atteggiamento di attesa non è affatto opportunistico.
Hanno la volontà di agire ma non ne vedono l'utilità. "Ma
chi preparerà l'insurrezione?" chiedo. "Chi darà l'esempio?
A che cosa serve un esercito che mentre il nemico opprime, impicca e distrugge
se ne sta in attesa?"
Non pretendo una risposta. L'interrogativo se lo sono già posto. Il clima
politico della zona, il peso degli attendisti che godono largo prestigio in
Valle Olona, ha paralizzato l'azione. Bisogna sottrarli a questa influenza.
I risultati verranno poi. Lancio l'idea di impiegarli a Milano. Penso che potrebbero
preferire una soluzione del genere. Opererebbero lontani dal proprio paese e
dagli inevitabili controlli che il nemico esercita sulla vita di un piccolo
centro abitato; avrebbero migliori possibilità di movimento e, probabilmente,
minori preoccupazioni. Alcuni acconsentono a seguirmi. Ci troviamo in città
qualche giorno dopo. L'esito è disastroso. Sono impacciati, non sanno
raccapezzarsi all'interno della grande città. Me ne persuado per il primo,
solo a vederli. Quando torno con loro a Mazzo, mi rendo conto che la conoscenza
del terreno è una forza che essi possono far pesare nei confronti del
nemico. Conoscono a memoria viottoli, stradicciole, piccoli ripari; percorrono
indifferentemente fossati in secca e strade campestri. Sembrano guidati da una
bussola, tanto immediato e preciso è il loro senso di orientamento.
Il problema è di dar loro l'esempio. Passati che siano all'azione, questi
ragazzi avrebbero bisogno soltanto di qualche consiglio. Comincio la mia seconda
relazione al gruppo di Mazzo, sottolineando la necessità di una scrupolosa
vigilanza e di una accurata organizzazione. Per prima cosa bisogna dividere
la formazione in squadre per agire meglio. Dopo ogni incontro ritorno a Milano
rianimato. Il loro numero va aumentando, ma gli arruolamenti sono frutto di
un lavoro di selezione. I ragazzi di Mazzo hanno costituito tre squadre e suddivise
le zone di operazione. Questo lavoro preparatorio ha richiesto discussioni,
colloqui e dibattiti politici, a cui tutti i giovani hanno preso parte con passione.
Ora bisogna dimostrare loro che l'attendismo non ha alcun significato dal punto
di vista militare, ma soprattutto che l'azione armata è sempre possibile
e positiva. È una dimostrazione difficile. Addestrati al combattimento,
questi giovani non lo sono alla guerriglia, di cui sfugge loro la ricchezza
del campo di azione. Nella mia opera di persuasione trovo un alleato, un giovane
guastatore. La sua specializzazione militare corrisponde alle esigenze della
guerriglia, soprattutto dal punto di vista psicologico, oltre che da quello
tecnico. Quasi tutti i ragazzi sono contadini o lo sono stati o lo sono in parte.
La loro origine li rende particolarmente adatti alla lotta partigiana.
Nei rapporti con il padrone della terra e con l'ordine costituito, il contadino
è in condizioni d'inferiorità come lo è nei confronti della
città. Indifeso di fronte alle esigenze del padrone, abbandonato ad un'attività
che non richiede l'istruzione tecnica, isolato, il contadino contrae l'abitudine
alla clandestinità. Qualcosa in lui lo spinge da secoli al di fuori dell'ordine
convenzionale, della legalità imposta dai gruppi di potere. La riflessione
puntigliosa che deve ritrovare rispondenza nella realtà; la rapidità
con cui quei ragazzi si mettono al passo con le esigenze della lotta clandestina,
sono frutto della loro origine contadina. "I risultati non si faranno attendere"
dico tra me.
Giunge così il momento di tirare le somme, di stabilire se la loro sicurezza
di movimenti, la conoscenza del terreno, siano, come penso, al servizio di una
reale volontà di lotta. E' il momento cioè di superare il confine
tra il desiderio di combattere e la realtà dei combattimenti e, per me,
di passare all'azione in una situazione ambientale diversa da quella che conosco.
Il compito di far saltare due tralicci dell'energia elettrica riposa sulla conoscenza
della zona, la pratica de esplosivi e naturalmente il controllo dei propri nervi.
Un capanno deposito di attrezzi agricoli è il luogo del ritrovo. Vi giungo
provenendo da una delle mie basi, note a me solo: nessuno anche costrettovi
dalla tortura può svelare l'indirizzo, il recapito, il ricovero dei compagni.
Le previsioni nella guerra clandestina debbono sempre scontare le ipotesi peggiori.
Del resto i ragazzi di Mazzo sembrano condividere il mio atteggiamento e, a
differenza dei ragazzi di città, non fanno domande se non di natura politica
e tattica. Non mi chiedono dove abbia dormito, mangiato. Evitano le domande
che comporterebbero una risposta elusiva. Se in città è facile
sentirsi proporre addirittura dei "buoni posti," in campagna non mi
è accaduto nulla di simile.
Domani avrà luogo la nostra prima azione congiunta. Consapevole che una
guerra segreta non sta soltanto nell'azione militare, comincio a chiacchierare
con i ragazzi, ad uno ad uno, per approfondirne la conoscenza. C'è chi
proviene dalle cascine e ha in sé una carica di forza compatta, massiccia,
come se l'addestramento alla guerra sia solo lo scheletro d'una costruzione
destinata a durare per sempre. Ci sono studenti, figli di impiegati e contadini
benestanti, animati da un'ansia febbrile, da una volontà di approfondimento.
I ragazzi delle cascine si inseriscono naturalmente nella lotta clandestina,
per una sorta di gravitazione politica che opera in loro. Forse questo nasce
dal fatto che il contadino non ha altro che la famiglia ed il lavoro; si sente
libero di fronte alla terra, l'unica cosa al mondo che non lo inganni. I ragazzi
che hanno frequentato più a lungo le scuole, hanno una consapevolezza
diversa della lotta contro il fascismo. Hanno superato il "mal" d'Africa
e le suggestioni imperiali. Il contatto con studenti e contadini, mi appare
straordinariamente promettente ma non mi fa perdere di vista gli obiettivi militari.
Alcuni giovani si aggirano senza troppe cautele intorno al capanno; squillano
le loro voci, luccicano i loro "sten." C'è una preoccupante
aria di gita notturna. Mi affretto a far intendere ai ragazzi che la guerra
clandestina ha la sua disciplina, un suo stile; che sin dal primo momento bisogna
adottare ogni precauzione possibile ed evitare ogni possibile sorpresa.
Tocca a Balzarotti guidarci verso l'obiettivo. I ragazzi sono silenziosi. Balzarotti
si muove con disinvoltura; emette un fischio moderato e i giovani si allineano;
un cenno ad uno del gruppo e questi corre a chiamare altri due ragazzi, tutti
e tre marciano in avanguardia, pattuglia esplorante. Seguiamo il tracciato di
un fossato asciutto per la siccità. Camminiamo veloci, spediti, in silenzio.
Quando inciampo trovo sempre una mano robusta a sorreggermi. I ragazzi si muovono
come gatti in un fossato pieno di ciottoli e di buche. Il gruppo si arresta;
Balzarotti dà disposizioni a cenni. Usciamo dal fossato in terreno scoperto.
Due ragazzi strisciano al suolo e si avvicinano ai cespugli, fanno cenno d'avanzare.
L'intero gruppo balza in avanti allo scoperto, seguendo un sentiero quasi invisibile.
Questi giovani mi impressionano. Si avviano a compiere una missione estremamente
pericolosa a passo di bersagliere. È notte fonda, il sentiero è
scomparso; attraverso una siepe ci Inoltriamo in mezzo a una boscaglia bassa.
Siamo arrivati. Balzarotti dispone le sentinelle, precisa i compiti del gruppo
che dovrà proteggere la ritirata e dei due che dovranno eseguire l'azione.
I tralicci dell'energia elettrica campeggiano nella notte. Ora un po' di nervosismo
circola nella pattuglia; è la prima azione. I due ragazzi sembrano esitare,
gli altri li scrutano ansiosi. Interviene Balzarotti, con la voce tranquilla,
normale, ripetendo le disposizioni che conoscono da tempo e che, proprio per
ciò, infondono tranquillità negli animi esitanti. Vanno. Poco
dopo vediamo due braci rossastre accendersi. I piloni sono minati. Balzarotti
ordina la ritirata. Il gruppo si muove con calma nella notte. Gli stringo la
mano. Ora tocca a me. Devo raggiungere Grassi per l'azione contro i binari.
L'ordine è di sconvolgere i collegamenti del nemico. Balzarotti mi affida
a un giovane che mi farà da guida. Sta per risalire il fossato e portarsi
allo scoperto quando lo afferro bruscamente, trattenendolo al riparo. Trascorrono
alcuni secondi, poi due esplosioni violentissime infiammano la notte e scuotono
l'aria. Acceleriamo il passo lungo scorciatoie impensabili.
Mentre il nemico sta correndoci incontro, corro in direzione opposta per fare
con Grassi il mio colpo contro la ferrovia. Eccomi al ritrovo: un abbeveratoio
ai piedi di un albero gigantesco. Grassi, mole imponente e massiccia, mi fa
strada. Il cielo è limpidissimo; ogni rumore varca le distanze nel silenzio
profondo. Presso i binari un'ombra si avvicina a Grassi che trattiene la mia
mano armata. È un militare, un cecoslovacco che abbandona la Wehrmacht.
Il colosso nazista non riesce a tenere più prigioniere tutte le sue vittime.
Il cecoslovacco doveva essere già lontano, ma non avendo compreso tutte
le indicazioni di Grassi non è riuscito a trovare la cascina dove era
atteso. Ci seguirà.
Grassi porta due cassette di esplosivo. Vicino alla massicciata le collochiamo
di traverso sui binari fissando i detonatori di fulminato di mercurio sulle
rotaie. L'urto delle ruote del treno scatenerà l'esplosione. Guardo l'orologio;
mancano dieci minuti. Un'ultima verifica, un ultimo controllo e ci allontaniamo
seguiti dal fischio sempre più distinto di un convoglio proveniente da
Milano. Gli scoppi arrivano puntuali; un fragore inimmaginabile accompagna i
bagliori delle esplosioni. Affrettiamo il passo.
Il nemico, come avevamo pensato, era in allarme dal precedente attentato. Grida,
spari, latrati di cani. Grassi guida il rientro. Alla nostra destra una luce
intermittente ci indica il cammino. È il segnale di via libera disposto
da Balzarotti. Quest'uomo è nato per la guerra clandestina. Lui e la
sua gente si sono incontrati con una vocazione antica. L'astuzia del contadino,
risorsa naturale contro i soprusi dei potenti, è in azione. Balzarotti,
nato e cresciuto nell'ambiente rurale, conosce e applica d'istinto le astuzie
cospirative: ha predisposto la ritirata al momento opportuno, quando da una
finestra lontana è giunto il segnale di via libera. Ci dividiamo. La
nostra prima azione ha avuto successo, dobbiamo continuare.
Qualche giorno dopo, superando le leggi della vita clandestina
per le esigenze della realtà, acconsento a partecipare alla riunione
dei ragazzi di Balzarotti. Ci sono tutti. Sono riuniti nella stalla di una grande
cascina.
Balzarotti dopo un breve rapporto, mi passa la parola. Lodo il coraggio e la
decisione di cui hanno dato prova. "Se volete che vi spiattelli la verità,"
aggiungo, "il coraggio, l'astuzia, la decisione, il rischio, me l'aspettavo
da parte di giovani come voi, ma non d'imparare da voi la disciplina di combattimento.
Mi congratulo con tutti per il modo come vi siete comportati." Sono felici.
Sono grati di essere stati seguiti passo passo, minuto per minuto, nell'attesa,
nella marcia, nell'azione, nella ritirata. È proprio ora che rendendosi
conto di quanto si sia vicini, mi aprono l'animo loro tempestandomi di domande.
Vogliono sapere, e lo vogliono con tenacia disperata, quali saranno le prospettive
future, dopo la sconfitta dei tedeschi e dei fascisti. Cosa potrà accadere
domani? Vogliono rendersi conto con chiarezza non solo contro chi stanno combattendo,
ma perché combattono.
Dapprima cautamente, timidamente, per una sorta di pudore, poi esplicitamente,
vengono le domande. Qual è l'obiettivo finale della lotta?
Quali ideali hanno mosso i primi combattenti della lotta per la Liberazione?
Qual è stata la loro intima convinzione? Prima di rispondere mi chiedo
chi essi sono. Li guardo ad uno ad uno: ogni volto rappresenta una situazione,
un ambiente familiare, una determinata esperienza. Gli studenti hanno accettato
una volta l'esperienza fascista credendo sinceramente agli ideali della grandezza
imperiale. Caduti gli orpelli, hanno ritrovato l'antica saggezza dei padri per
combattere un nemico che ha fatto dell'oppressione il proprio credo, ma non
vogliono rischiare la vita per un'altra diversa aggressione. Ancora una volta
è vero come già in Spagna che non si combatte senza essere sorretti
da una fede, da un ideale che ne alimenti le forze. Devo rispondere.
E la risposta è difficile perché ognuno di noi pensa all'avvenire
del nostro paese in maniera diversa. Devo fare uno sforzo per semplificare un
concetto che li unisca nella lotta attuale, incombente, minacciosa. "Bisogna
che ci comportiamo come una famiglia di fronte al fuoco che sta per distruggere
la casa," dico, "prima di pensare a come coltivare l'orto, occorre
spegnere l'incendio." L'apologo non può bastare. Devo trovare un
linguaggio che sia testimonianza di lealtà. Cosa vogliono, cosa temono?
Non lo so, non lo posso sapere. I loro occhi mi guardano; occhi limpidi, di
gente onesta, coraggiosa, di italiani che combattono con semplicità,
come con semplicità lavorano sui campi e nelle industrie. Parlerò
come ai miei lontani compagni di Spagna, ai muchachitos, o ai miei fratelli
minatori della Grand Combe. È la stessa gente, quella di sempre, che
trovi in prima linea negli scioperi e nella lotta per la libertà. Di
colpo è come se dentro mi esploda all'improvviso la verità. "Questa
guerra," dico, "è cominciata forse per molti motivi. È
una guerra che non ha dichiarato il governo per primo, perché il governo
era dissolto. L'ha dichiarata ogni italiano che si è allineato con noi,
che con noi è d'accordo. C'è chi ha dichiarato guerra ai tedeschi
perché ha visto i nostri fratelli nei carri diretti in Germania; e chi
l'ha dichiarata ai fascisti, perché servi dei tedeschi; chi odiava i
tedeschi dell'altra guerra; chi li odia adesso. C'è chi combatte questa
guerra perché è stufo delle angherie del segretario del fascio
e vuole pensare con la propria testa; chi non sopporta più d'essere schiacciato
dai potenti, di vedersi privato della dignità e della libertà.
Ma combattere contro tutto questo vuol dire anche combattere per creare qualcosa
di diverso: un'Italia senza tedeschi e senza fascisti, un'Italia dove la gente
possa pensarla a modo proprio e non sia costretta al saluto romano, davanti
alle sentinelle repubblichine. Allora noi vogliamo un'altra Italia, senza camicie
nere, senza manganelli, senza orbace, un'Italia di cittadini la cui opinione
sia libera, qualunque essa sia. Combattiamo il fascismo e tutte le menzogne
che rappresenta perché spariscano per sempre."
Il discorso diviene coro: le domande fioccano da tutte le parti. Dovremmo riunirci
un'altra volta, ma nel frattempo concludo: la meta è di essere uniti
nel combattimento per poter creare un'Italia nuova. Dopo avremo tempo e modo
di discutere a lungo.
Un ragazzo magro, pallido, la voce estremamente ferma, parla: "Sono cattolico
ed espongo il mio caso." "Quale?" gli domando. "Il caso
che sono cattolico." Intuisco la domanda che è sottintesa. "Ti
sembra," dico, "che il cattolicesimo, la tua religione possa venire
rispettata oggi con le forche delle brigate nere sulle piazze o venire attuata
meglio domani, nella libertà e nella pace?" "Ma voi, voi comunisti
cosa farete?" È la domanda che serpeggia tra tutti; che corre nelle
famiglie; l'interrogativo sul quale specula il nemico. "Noi oggi combattiamo
gli assassini, combattiamo per quel comandamento nel quale tutti i cattolici
credono e che impone di non ammazzare il prossimo. Noi combattiamo la guerra
e combattiamo quindi perché la strage degli innocenti finisca. Noi combattiamo
perché l'uomo abbia la sua dignità e la dignità di un uomo
non sia dissimile da quella dell'altro. Noi combattiamo contro la prepotenza,
contro la prevaricazione, contro la sopraffazione attuata dai gerarchi fascisti,
incarnazione attuale dei prepotenti di ieri. Io non sono cattolico ma rispetto
te e quelli che la pensano come te, perché tu combatti per la gente umile,
per la libertà dei poveri, per la dignità di quelli che sono calpestati.
Che parole potrei dire che siano più eloquenti e convincenti di quello
che faccio oggi, di quello che fa ognuno dei miei compagni di partito?"
Dove ho trovato l'ispirazione di questi concetti? Nella scoperta forse che il
mondo di quei ragazzi è — pur nella sua dissomiglianza —
lo stesso delle miniere di Francia, delle trincee di Spagna?
*
L'autostrada Milano-Torino è percorsa da lunghe colonne
di autocarri militari tedeschi e fascisti. Quando l'afflusso dei camion aumenta
si preparano grandi rastrellamenti nelle vallate piemontesi. La strada serve
al nemico per far affluire al posto di combattimento gli uomini delle SS, della
X Mas, quelli che alzeranno le forche nei paesi rastrellati. Interrompere, ostacolare
il traffico vuoi dire alleggerire la pressione del nemico sulle strade di montagna
e rendere più difficile il compito dei nazifascisti.
Qualche colpo è già stato portato a segno. Il nemico mostra i
segni della preoccupazione. Dopo le nostre azioni è stato applicato il
coprifuoco, alle ore 20, i negozi chiusi alle ore 18, un provvedimento grave
in città. Sul nemico abbiamo anche un altro vantaggio: la scelta dei
tempi e dei luoghi.
La squadra comandata da Balzarotti e dal commissario politico Cremascoli è
in agguato presso l'autostrada. AI passaggio di una macchina nemica, due dei
suoi ragazzi in divisa della "Muti" agiteranno una torcia elettrica
come ai posti di blocco. Altri due partigiani sono stesi al suolo, allo scoperto,
colle armi puntate.
L'attesa non è lunga. Il ronzio del motore e poi la scarsa luce dei fari
schermati annunciano il veicolo: un'automobile tedesca. Cremascoli agita la
torcia elettrica intimando l'alt. La macchina si avvicina, rallenta, si arresta
col motore acceso. L'autista si sporge dal finestrino per chiedere in tono seccato
cosa stia succedendo. Quando capisce è troppo tardi. L'inesorabile scarica
dei mitra lo abbatte e la macchina, abbandonata a se stessa, scivola su un prato
e si rovescia con il suo carico inerte di ufficiali tedeschi. Il bottino è
costituito da 4 "sten," 5 rivoltelle, diverse bombe.
Ora i ragazzi di Mazzo, rotto l'incantesimo, sono pervasi dalla febbre dell'azione.
Il secondo colpo viene effettuato sull'autostrada Milano-Varese il 2 agosto.
Anche se meno frequentata di quella per Torino, è questa un'arteria che
serve ai tedeschi per fronteggiare le nostre forze nel Varesotto. I partigiani
bloccano una macchina tedesca con un'azione perfetta: prima una raffica isolata;
il nemico continua a sparare a vuoto finché uno sbarramento di fuoco
ai lati della strada non lo blocca definitivamente. Consuntivo dell'operazione:
un ufficiale tedesco e alcuni ufficiali fascisti uccisi, tre mitra, quattro
rivoltelle, e preziosi documenti per il comando.
La stessa sera, un'altra pattuglia di Balzarotti colloca una potente mina sui
binari della stazione di Certosa bloccando la ferrovia Milano-Varese. Alcuni
giorni dopo, sulla stessa linea, viene fatto saltare un treno merci carico di
rifornimenti per la Wehrmacht. Il 13 agosto un gruppo di partigiani sulla strada
Garbagnate-Bollate affronta una pattuglia della "Muti" di scorta a
un convoglio di "giovani renitenti" destinati a finire in Germania.
I partigiani si appostano e attendono che il gruppo si faccia avanti. Poi l'assalto
fulmineo. Due militari cadono, altri fuggono gettando le armi. I "renitenti"
ritornano renitenti.
Note
21 La prima brigata GAP comandata da Rubini, commissario Bardini,
capo di Stato Maggiore Roda; ne facevano parte Di Lella, Oreste Ghirotti, Arturo
Capettini, Eugenio de Rosa, Antonio Gentili, Vito Antonio, Lafrata, Alino Zanta,
Giuseppe Spada, Vincenzo Zantu, Passariello, Amos, Sergio Bassi, Cesare Bescapè,
Alfonso Calasi, Carlo e Delio Milanesi, Licinio Piccardi, Giovanni Valtolini,
Zerbini, Ruggero Brambilla, Mendel, Bruno Clapiz, Gianni, Dino Manfredi, Pozzo,
Angelo Giacometti, Alfonso Cuffaro, Paolo Cappelletti, Aldo Mirotti, Angelo
Valagussa, Giuseppe Clerici, Pompeo Secchia, Barbisoni, Luigi Seresini, Remo
Terzi, Antonio Zacchetti, Luigi Zontini, Giulio Abbiati, Arnaldo Zanca.
22 Rubini Egidio: era nato a Molinella i1 10 novembre 1906.
23 Le partigiane Rita e Susy ci rifornivano di armi, provenienti dall'Oltrepò
pavese.